il problema attuale non è più la lotta della democrazia contro il fascismo ma quello del fascismo nella democrazia (G. Galletta)

Amicus Plato, sed magis amica veritas



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giovedì 25 giugno 2015

La nostra storia – 30 giugno 1960 - L'appello






Venerdì 24 giugno 1960

L’APPELLO
DEL CONSIGLIO FEDERATIVO
DELLA RESISTENZA



Il Consiglio Federativo Ligure della Resistenza si è in questi giorni riunito più volte per considerare gli sviluppi della situazione in rapporto al deprecato progetto del MSI di tenere a Genova il prossimo congresso nazionale.

Il Consiglio federativo della Resistenza ha preso atto delle unanimi reazioni della cittadinanza; essa non può infatti dimenticare tutte le distruzioni ed i lutti che furono conseguenza della nefasta politica fascista di cui il MSI raccoglie, vantandosene, l’eredità.

In particolare si compiace della ferma posizione assunta dal Consiglio provinciale di Genova, dalle organizzazioni sindacali delle diverse tendenze, dai vecchi dirigenti del CLN, dagli ambienti giovanili e dai circoli intellettuali, che sono tutti un fervore di iniziative per riaffermare l’anima antifascista di Genova.

Tale stato d’animo è stato riconfermato al suo più alto grado nelle numerose riunioni di ex partigiani di tutte le fedi politiche e dalla parola fervida di esponenti e associati delle diverse organizzazioni di ex combattenti della libertà, dall’ANPI alla FIVL e alla FIAP.

Messaggi da ogni parte d’Italia, giunti al Consiglio Federatìvo Ligure della Resistenza attestano che il progettato raduno dei neo-fascisti a Genova non è soltanto un motivo di turbamento della opinione pubblica locale, ma di tutti gli ambienti nazionali per i quali i principi della Costituzione repubblicana non sonoparole vane, ma imperativi inderogabili all’azione. Basta in proposito citare il nobile messaggio che, fedele al suo passato di membro del CLNAI, è stato inviato ai dirigenti della Resistenza genovese dal Senatore Giorgio Bo.

Sono parole alte e responsabili che significano come le file della democrazia italiana si stanno oggi rinsaldando come nei giorni più duri della lotta di Liberazione.

E questo ripetono con vari accenti ma con eguale spirito i molti messaggi delle città decorate al valormilitare, del Comitato “Cuneo brucia ancora”, nonché di coloro che come il parroco del montano paesello ligure di
Barbagelata hanno vissuto le giornate tragiche dei rastrellamenti delle SS naziste e dei loro complici italiani in camicia nera.

Stupisce pertanto come, di fronte a questa unanime mobilitazione degli spiriti, le Autorità non ricorrano al solo provvedimento che in simile caso parrebbe logico, quello cioè di contenere le velleità degli squallidi continuatori delle gesta del nazifascismo, e si accaniscono invece contro coloro che, non tradendo i valori della Resistenza, si dimostrano i più fedeli cittadini dello Stato. Sequestri di manifesti, divieti di manifestazioni, protestando la necessità dell’osservanza di norme mai prima di oggi applicate, dicono di una singolare incomprensione da parte di chi è preposto alla tutela dell’ordine pubblico, dello stato d’animo e dei diritti stessi di una popolazione, che non può tradire se stessa e venire meno ad una secolare tradizione di libertà.

Constatando questi fatti, il Consiglio federativo ligure della Resistenza richiama ancora una volta chi di dovere a considerare la situazione nella sua concreta realtà, ricordando che con la forza non si può contenere la cosciente espressione dello spirito di democrazia e di libertà, il solo in grado di assicurare ai popoli il loro pacifico divenire.

fonte “Le giornate di Genova” di Anton Gaetano Parodi

domenica 28 dicembre 2014

“Voi ci uccidete, ma noi non morremo mai” urlò Gelindo di fronte al plotone d’esecuzione…





“Avevo 4 mucche, e adesso sono 54 capi di bestiame, con la produzione del grano che è salita a 5 volte quella del ’35. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da scontare per 30 anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore (…) in più abbiamo dato sette vite alla Patria. Se c’è bisogno di dare ancora la vita, i Cervi sono pronti, e qualcuno pure sopravviverà, e rimetterà tutto in piedi, meglio di prima. Ecco perché non ci fermeranno più” (Alcide Cervi)

Il 28 Dicembre 1943 al poligono di tiro di Reggio Emilia venivano fucilati i sette fratelli Cervi per rappresaglia.
Il significato nella storia del nostro Paese di questo ulteriore crimine fascista, assume un valore particolare per ciò che la famiglia Cervi rappresentava nella realtà contadina Emiliana e di fatto in quella di tutto un paese ancora legato a quel tipo di cultura.
Passarono dalla mezzadria ad essere affittuari e quindi liberi di decidere cosa e come coltivare la terra, rimanendo comunque sempre legati a quel sistema contadino della cooperazione e delle leghe contadine in quanto solo “assieme” era possibile emancipare se stessi emancipando anche gli altri. Cultura del Lavoro che inesorabilmente si accompagnava alla cultura socialista, la dove il Lavoro significava emancipazione.
Paradigmatico è l’episodio Di Aldo Cervi che sul trattore acquistato per modernizzare il lavoro nei campi porta il mappamondo, a significare che serve guardare fuori del proprio campo per poter migliorare le condizioni di lavoro e di vita.
La scelta antifascista è quindi naturale, intrinseca nella storia della famiglia stessa. Alla caduta del fascismo il 25 luglio i Cervi distribuiscono pasta in piazza per festeggiare e, dopo l’8 settembre, la cascina Cervi diventerà rifugio per sbandati, partigiani e prigionieri sfuggiti ai nazifascisti.
Verso la fine di novembre un rastrellamento, probabilmente una delazione, i sette fratelli e Alcide Cervi vengono catturati insieme a dei fuggiaschi russi e ad altri antifascisti.
Torturati e separati dal padre saranno uccisi la mattina del 28 dicembre.

“Abbiamo dato asilo ai perseguitati, da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, abbiamo conservato i figli alle madri, gli uomini alle spose. Abbiamo predicato la giustizia contro i prepotenti fascisti e ladri, contro i ricchi carnivori di fatica e di sangue” (Alcide Cervi)



l'Italia è una Repubblica Democratica fondata sul Lavoro
...e quel concetto di Lavoro, molto chiaro alla famiglia Cervi ancor prima che fosse sancito sulla nostra Costituzione, non può essere disatteso da nessun governo.

Loris

Link utili : i miei sette figli

giovedì 25 dicembre 2014

Auguri Antifascisti



…All’uscita della messa di Natale del 1943 , in frazione Curenna, sui monti a ridosso tra Albenga e Imperia un gruppo di Partigiani guidati dal Comandante Felice Cascione salutarono i contadini e montanari che si erano recati alla funzione, intonando per la prima volta un canto che raccontava la vita dei Partigiani, le loro aspirazioni, le loro emozioni.
Quell’inusuale canto di Natale era stato scritto dal comandante Cascione  (Megu) stesso, sulle note di un celebre canto russo. 
Cascione sarebbe caduto sotto il fuoco fascista poche settimane più tardi, ma quella canzone di fatto rappresentò un testamento politico del movimento Partigiano.

« Fischia il vento e infuria la bufera
scarpe rotte e pur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell'avvenir »



Auguri a tutti gli antifascisti, auguri a tutti coloro che oggi continuano a difendere quei "diritti" che il sacrificio di Cascione e di tanti altri giovani come Lui ci hanno lasciato in custodia affinchè li possiamo a nostra volta trasmettere alle generazioni future. Custodiamo, rispettiamo e salvaguardiamo la Nostra Costituzione

Loris

Se ne parla anche : fischia il vento - felice cascione e il canto dei ribelli 

lunedì 30 giugno 2014

“Signore Presidente vi voglio scrivere questa lettera, che può essere che leggerete se ne avrete il tempo…”


(ANSA) - ROMA, 26 GIU - "Giorgio Almirante è stata espressione di una generazione di leader di partito che, pur da posizioni ideologiche profondamente diverse, hanno saputo confrontarsi mantenendo reciproco rispetto, a dimostrazione di un superiore senso dello Stato che ancora oggi rappresenta un esempio".


Genova 30 giugno


“Signore Presidente vi voglio scrivere questa lettera, che può essere che leggerete se ne avrete il tempo…”**
…Gli uomini col senso dello Stato che non ho potuto conoscere per ragioni anagrafiche sono coloro che al bando firmato da Almirante fecero la scelta, per dignità , di opporsi, guadagnandosi la qualifica di disertori.
Sono i ragazzi della Benedicta, del Turchino… di tutti quei luoghi che hanno bevuto il sangue della meglio gioventù che un Paese poteva sperare: i Cascione, i Pieragostini, gli Alpron i Fillak le Cecilie Doganutti, le Irma Bandiera. I loro nomi sono scolpiti nelle lapidi di tutta Italia sino ad arrivare alla quota orribile di 45 mila.
Un numero talmente elevato da non poter essere citati come meriterebbero uno ad uno per rendergli un doveroso omaggio.
In Loro nome e per non vanificare il Loro sacrificio il 30 giugno del 1960 altri uomini di con il senso dello Stato, anonimi, insorsero per non consentire lo svolgimento a Genova del congresso dell’MSI, il partito di Almirante.
Se oggi, considerati col senso dello Stato vengono definiti coloro che erano “dall’altra parte” evidentemente qualcosa nella scala dei valori non torna. Non torna quando un delinquente diventa interlocutore politico per modificare la Carta Costituzionale nata dalla Resistenza, o quando si danno accelerazioni alla modifica rabberciata di quel patto fondante dello Stato Repubblicano.
Se, avessero vinto gli Almirante, avrebbe vinto la cultura delle leggi razziali, della soppressione degli avversari politici, la soppressione delle libertà individuali. Forse Lei non sarebbe diventato Presidente eletto da un Parlamento Democratico (pur nelle contraddizioni).
Arriva un momento in cui le scelte da che parte stare non possono essere eluse : io sto dalla parte di quei disertori che divennero Partigiani, che fecero la Resistenza e che pagarono per questo un elevato contributo di sangue .
Uno Stato dove Almirante è considerato uomo col senso dello Stato non può essere il mio Stato.
Loris 

**"Monsieur le Président Je vous fais une lettre. Que vous lirez peut-être. Si vous avez le temps" (Boris Vian)

lunedì 14 aprile 2014

25 Aprile, Ricordo, Memoria, Cultura

me…Pochi giorni al 25 aprile, celebrazioni, corone ai sacrari, ricordo di stragi. Il ricordo è una manifestazione puramente personale, individuale. La memoria invece è il frutto di un ricordo collettivo e di una elaborazione condivisa che va a incidere sulla morale, sull’etica in quanto morale condivisa e conseguentemente su quelli che sono i nostri rapporti quotidiani tra persone, comunità e istituzioni.
Soffermarsi quindi sui ricordi collettivi di cosa fu la Resistenza non è un esercizio nostalgico di chi ha avuto parenti amici o conoscenti coinvolti in quella vicenda, ma è la consapevolezza di ciò che siamo oggi, nel nostro ruolo di “singoli” inseriti in tutti quei contesti di comunità che sono la famiglia, la scuola, il lavoro.. …. lo Stato.
Il confine tra civiltà e barbarie è molto più labile di quello che vorremmo pensare e gli esempi non mancano, dalle pulizie etniche dell’ex Jugoslavia ai genocidi in Africa o alle persecuzioni da parte degli integralisti religiosi in varie parti del mondo.
Per queste ragioni non mi stancherò di ricordare e rendere omaggio a chi ha sacrificato parte di se stesso, spesso la vita, per poterci consentire, percorrendo la linea di confine tra civiltà e barbarie, di poter essere per la civiltà, e, come genitore di poter educare mio figlio a quei valori che consentono oggi di poterci esprimere liberamente.
A pochi mesi dalla fine del conflitto, nel 45,  Elio Vittorini proponeva una grande riflessione che ritengo a quasi settant’anni di distanza assolutamente ancora attuale. Un utile strumento per chi oggi pensa che sono cose del passato e che non ci appartengono più.
Loris

Elio_VittoriniUNA NUOVA CULTURA
Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultu­ra che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini
Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che. di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzi­tutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro? Questa «cosa », voglio subito dirlo, non è altro che la cultura; lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo la­tino, cristianesimo medioevale,. umanesimo, riforma, illuminismo, libe­ralismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huitzinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Un Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che pos­siamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini. Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell'intel­letto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro: alle possibilità di fare, anche l'uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. E qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli' uomini? lo lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nel­l'U.R.S.S.) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal -modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, nOn ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi princìpi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l'uomo soffre nella società. L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era «sua» in Italia o in Germania per impe­dire l'avvento al potere del fascismo, né erano «suoi» i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l'avventura d'Etiopia, l'intervento fascista in Spagna, 1'« Anschluss» o il patto di Monaco. Ma di chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura, e i cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano «suoi»? La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è soçietà perché ha in sé l'eterna rinuncia del «dare a Cesare» e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, vi­venti con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che "'Sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scon­giuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura. La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell'impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? lo mi rivolgo a tutti gli intellettuali ita­liani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze? Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell'« anima ». Mentre non volere occuparsi che dell'« anima» lasciando a «Cesare» di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a «Cesare» (o a Done­gani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio «sull'ani­ma» dell'uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell'uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?
ELIO VITTORINI
(Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945)

lunedì 24 marzo 2014

perchè antifascista


Di recente ho creato un gruppo facebook di carattere locale che si chiama "Sei di Sestri Ponente se..... sei antifascista, antirazzista, tollerante .." nato in risposta a quei gruppi locali che vietano la trattazione di tematiche politiche, sociali e a volte anche ambientali appellandosi ai ricordi.
Dopo pochi giorni ricevo su fb un messaggio privato da un certo Sergio (il cognome lo ometto per garantire la privacy) che mi scrive così:

"In merito al gruppo di cui lei è amministratore " sei di Sestri Ponente se sei antifascista ; antirazzista ; anti...bla...bla.." ; le faccio notare che si puo' essere Sestresi doc. ( come lo sono io ) senza essere dotati dei suffissi " anti " . Non sono antifascista orgogliosamente eppure son di Sestri Ponente !"

C'ho pensato su qualche ora e infine ho risposto così, privatamente e pubblicamente:

....La lista inizia con Alpron Sergio 34 anni fucilato a Savona di famiglia ebrea residente a Sestri.
Barigione Sergio, Benvenuto Alfredo, Bertoglio Antonio, Bianchi , Bigatti,….Oddone Giacomo e Oddone Giuseppe….Stanchi Dario e Stanchi Walter…per chiudersi al 101 elencato con Zucchelli Luigi .
…E’ l’elenco dei caduti sestresi ricordati nel sacrario del cimitero dei Pini Storti. A loro si sommano gli assassinati al Turchino, alla Benedica, a Portofino, a Cravasco…..purtroppo in tante altre parti della Liguria e d’Italia dove la ferocia sanguinaria fascista non ha lasciato dubbio su quale progetto sociale perseguisse.
L’esito finale ha dato ragione a chi quel regime l’ha combattuto in ogni dove e che piaccia o no furono restituiti gli strumenti che consentissero a tutti, nella legalità di esprimere le proprie opinioni senza il pericolo di essere soppressi vigliaccamente dallo Stato stesso senza doverne pagare le conseguenze come accadde durante tutto il regime fascista. Ho sottolineato che il primo della lista era di famiglia ebrea in quanto in quel folle e criminale progetto furono coinvolti 6 milioni di Ebrei, zingari, omosessuali, … era anche un regime razzista. 
Che lei signor “Sergio” rivendichi di non essere contro tutto questo a me personalmente fa solamente nascere la riflessione che se le regole che ci stavano prima avessero valore anche oggi non si potrebbe permettere non solo di esprimerle queste sue idee, ma neanche pensarle in quanto i fascisti erano troppo vigliacchi per ipotizzare di confrontarsi con gli altri.
Quando passa per piazza Baracca sul muro davanti all’edicola(*) legga quei nomi e li ringrazi anche se non la pensa come loro perché anche se la democrazia ha questi inconvenienti , quei ragazzi sono morti per consentire anche a gente come lei di esprimere il suo pensiero.
Il suo orgoglio se lo conservi per qualcosa di più pregevole
Senza alcuna stima 
Loris Viari

gruppo fb Sei di Sestri Ponente se..... sei antifascista, antirazzista, tollerante
la foto fa riferimento all'inaugurazione del sacrario ai caduti Sestresi nella Resistenza (1950)

giovedì 26 dicembre 2013

I sette Fratelli Cervi - Il Film

Alcide Cervi
Arrestati durante un rastrellamento a fine novembre, uccisi il 28 dicembre al poligono di Reggio Emilia rappresenta quanto di più odioso e criminale potesse esprimere il regime fascista.
Mantenere viva la memoria di chi furono i 7 fratelli Cervi credo sia il compito di tutti coloro che hanno creduto e credono in "un mondo migliore"
Il film linkato non è come qualità dell'immagine tra i migliori, ma le interpretazioni di grandi come Volontè o Cucciolla esprimono al meglio quella cultura contadina, socialmente e politicamente impegnata che ha contribuito alla sconfitta nazifascista e ha messo le basi di una "Italia" che affonda le sue radici in quella "Repubblica Democratica fondata sul lavoro" della nostra Costituzione


Documentazione dettagliata sulla storia della famiglia Cervi nelle pagine dell'"Istituto Alcide Cervi"

ricordando i 7 fratelli Cervi


Era la notte tra il 24 e il 25 dicembre 1943 quando i fascisti catturarono i sette fratelli Cervi e tre giorni dopo, il 28, li portarono al poligono di tiro di Reggio Emilia mettendoli al muro. Sono trascorsi settant’anni da quell’eccidio, uno degli episodi che più è rimasto scolpito nella storia dell’antifascismo.
Per ricordare quei fatti il Museo Cervi di Gattatico ha organizzato due appuntamenti attraverso i quali “studiare come si sono formati e consolidati memorie e miti attorno a quei fatti”.
Il 21 dicembre, “un paradigma di democrazia”: un dibattito che ha visto prendere la parola nella sala del consiglio provinciale di Reggio Emilia il presidente Gianluca Chierici, il sindaco vicario Ugo Ferrari, la presidente dell’Istituto Alcide Cervi Rossella Cantoni e un’altra esponente del museo, Paola Varesi, oltre il docente bologneseLuciano Casali. Il secondo appuntamento, invece, è per il 28 dicembre, giorno in cui Cervi furono uccisi. Si chiamavano Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore ed avevano tra i 42 e i 22 anni. La loro famiglia era di estrazione contadina e a iniziare dagli insegnamenti di Alcide e Genoeffa Cocconi, genitori dei fratelli trucidati, in casa si erano sempre respirate aria antifascista e simpatie democratiche.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, casa Cervi non è più solo un luogo di lavoro disperato e incessante contro la povertà, ma un centro nevralgico nel quale si cominciava a organizzare un dissenso concreto contro il regime mussoliniano. E Alcide, insieme a due dei suoi figli, va oltre creando anche la banda partigiana che prenderà parte attiva alla Resistenza

domenica 15 dicembre 2013

15 dicembre, a mio padre

Dai Padri ai Figli e dai Figli ai Padri...

il nonno barbiere, non ha bandiere, ma fece uscire di corsa dalla bottega un gerarchetto con mezza barba fatta e mezza no.....a lui fu impedito di continuare a lavorare a bordo delle navi perchè rifiutò l'iscrizione al fascio
Loris


post sullo stesso argomento: 


2012 - Ognuno è il prodotto della propria cultura, della propria educazione e della propria formazione. Io sono figlio di mio padre

2011 - Storia di mio padre – lotte sindacali e politiche degli anni 60, i valori di una vita

sabato 7 settembre 2013

la Costituzione non puo' essere un pretesto


"Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco per miei manipoli
Era il 16 novembre 1922 quando Mussolini interviene in aula a un mese dalla marcia su Roma e alla sua investitura come Primo Ministro. Il disprezzo e la minaccia per la democrazia è evidente, ciò nonostante, deve passare“formalmente” da quell'aula, che è il terreno di confronto parlamentare,, anche se di li a poco stravolgerà ogni regola, calpesterà i diritti parlamentari, farà assassinare i parlamentari di opposizione, li metterà fuori legge e li imprigionerà o li costringerà, perseguitati, all'esilio.
Occorreranno più di 20 anni, riempiti di atrocità e ignominie e sangue di valorosi, prima di restituire a quell'aula la dignità e l'autorevolezza che gli competeva.
La Costituzione Repubblicana sancirà la sacralità per la democrazia di quei luoghi di confronto politico e le modalità di confronto al loro interno.
Ieri, 6 settembre, a Montecitorio un manipolo pentastellato ha “occupato” il tetto del palazzo esibendo striscioni, in un tentativo becero di “difesa della Costituzione” dalle manipolazioni della scellerata maggioranza delle “larghe intese”.
Come si può pretendere di volere il rispetto delle regole, quando non si è in grado di rispettare le regole e i luoghi dove le regole stesse vengono scritte?
Ci sarebbe stata ben più che indignazione se altri si fossero minimamente permessi comportamenti analoghi, coinvolgendo o utilizzando i luoghi “principi” delle istituzoni. Incapacità e inettitudine non sono scusanti ammissibili per le performance pentastellate.
Non ci si può trincerare dietro la logica “craxiana” che infrangere le regole se lo fanno tutti, diventa accettabile. Quella regola ci ha portato oggi ad avere in Parlamento figure come il pregiudicato Berlusconi e la cavillosa ricerca di una più o meno grossolana possibilità di mantenergli una agibilità politica.
Non si può neanche non considerare che azioni come quella di ieri siano proprio il frutto di quella cultura berlusconiana sulla visibilità quando i contenuti sono risibili. Sicuramente può diventare un cavallo di troia per legittimare una più o meno regola a salvaguardia di Berlusconi stesso.
Infine una considerazione sulla difesa della Costituzione. Il tentativo di modifica dell'art. 138 è senza ombra di dubbio un grave tentativo di intervento proprio sui meccanismi di riforma della Costituzione stessa. Il tentativo di sottrarre al giudizio popolare le eventuali modifiche è altresì evidente e la dice lunga sul tenore delle modifiche che vorrebbero apportare.
Sono, fortunatamente molti i soggetti che si sono attivati a salvaguardia della Carta, alcuni però, e il M5S sono poco credibili. La vocazione presidenzialista non è neanche velatamente nascosta e gli strumenti di legame dei cittadini con lo Stato sono per il M5S quelle cose da aprire con l'apriscatole.

Sostanza è anche forma, e oggi possiamo dire che la forma ci ha ricordato molto quella sostanza con cui gli italiani hanno avuto a che fare dal 1922 al 1945.
Loris

lunedì 12 agosto 2013

e poi venne il silenzio - Sant'Anna di Stazzema 12 agosto 1944




L'eccidio di S.Anna di Stazzema fu un crimine di guerra commesso dai soldati tedeschi della 16esima SS Panzergrenadier Division "Reichsführer SS", comandata dal generale (Gruppenführer) Max Simon, il 12 agosto 1944 e continuato in altre località fino alla fine del mese. Ai primi di agosto 1944 S.Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco "zona bianca", ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione in quell'estate aveva superato le mille unità. Inoltre sempre in quei giorni i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò all'alba del 12 agosto 1944 tre reparti di SS salirono a S.Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a S.Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide, gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi, restarono nelle loro case. In poco più di tre ore vennero massacrati 560 innocenti, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle, o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano, compiendo atti di efferata barbarie. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Sebbene fosse viva era gravemente ferita. A trovare la piccola fu una sorella che, miracolosamente superstite, la rinvenne tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell'ospedale di Valdicastello. Fu quindi il fuoco a distruggere e cancellare tutto. Non si trattò di rappresaglia. Come è emerso dalle indagini della Procura Militare di La Spezia si trattò di un atto terroristico, di una azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra le popolazioni civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

Questo video comprende il documentario trasmesso dalla RAI, prodotto nel 2009, "E poi venne il silenzio" del regista Irish Braschi.


sabato 29 giugno 2013

giugno e luglio 1960 "...eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco,..."

Parlando del 30 giugno 1960


…ho scolpito nella memoria in quei giorni di fine giugno, i cantieri edili deserti e, ragazzotti con le magliette a strisce che approfittavano di quel deserto per intrufolarsi e tagliare metri di tondino di ferro per avere qualcosa da utilizzare come proiettili per le loro fionde.
Genova Antifascista esce vittoriosa da quelle giornate, ribadendo la combattività e la compostezza di quel movimento, esattamente come 15 anni prima, si ripulì del ciarpame e mostrò fiera i suoi figli migliori, pronti a sacrifici pur di garantire libertà e democrazia.
Purtroppo i servi dello Stato dovevano sfogare la frustrazione di quella sconfitta, e pochi giorni dopo, a Reggio Emilia il 7 luglio 1960 e in altre parti d’Italia dove l’opposizione al governo Tambroni si manifestava pubblicamente, non esitarono a colpire in modo vigliacco braccianti e operai che si stavano riunendo pacificamente sotto le insegne della CGIL e delle organizzazioni partigiane uscite dalla Resistenza.
Sotto i colpi di arma da fuoco della polizia di Tambroni restarono 11 manifestanti. 
A Licata il 5 luglio cadde Vincenzo Napoli di 24 anni . A Reggio Emilia , fu un agguato premeditato che causò la morte sotto le pallottole dello Stato di Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli; tutti operai e comunisti.
A Palermo nei giorni successivi caddero uccisi dalla polizia Francesco Vella, Andrea Gangitano, Giuseppe Malleo, Rosa La Barbera. A Catania, massacrato dalle manganellate perì Salvatore Novembre.
Naturalmente se lo Stato non è ancora oggi in grado di giudicare se stesso, come dimostra la sentenza Cucchi, o ha serie difficoltà ad accertare e rispondere adeguatamente a responsabilità personali come si evince dai casi Diaz o Aldrovandi, negli anni 60 e in quelli successivi la magistratura si distinse per non accertare alcuna responsabilità, anche quando ci furono testimonianze precise che indicavano gli sparatori.
Loris

Un protagonista politico delle giornate di Genova fu il sempre più compianto Presidente della Repubblica Sandro Pertini che il 28 giugno del 60 a Genova, in Piazza della Vittoria pronunciò un comizio che chiamava a raccolta il popolo operaio e antifascista genovese .

"Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere "no" al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l'offesa.......leggi tutto>>"



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In occasione del cinquantesimo dei fatti del 30 giugno, la Rai mise in onda il film documentario di Mimmo Calopresti "I Ribelli". Questo blog linkò immediatamente il file che era nell'archivio Rai in quanto è un documento di indubbia qualità sulla storia di quei giorni con autorevoli testimonianze.
Dopo pochissimo tempo però il file veniva rimosso dagli archivi Rai . Che la soppressione di questo documentario , in epoca berlusconiana non abbia implicazioni politiche, è difficile da digerire.
Aiutato da compagni ho reperito questi link che corrispondono al documentario scomparso.






Difendiamo la Costituzione

sabato 15 giugno 2013

16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza [Paolo Arvati]

16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza


     Il 16 giugno 1944 non può essere compreso al di fuori della storia delle lotte operaie nella Resistenza genovese. Se una ragione della retata va ricercata nell’esigenza dell’occupante tedesco di disporre di manodopera da inviare in Germania, è ancora più forte la necessità politica dei nazifascisti di chiudere una volta per tutte la lunga e difficile partita aperta con i lavoratori genovesi sin dall’autunno del 1943. La prima grande lotta è infatti datata 27 novembre: sono i tranvieri a scendere in campo con uno sciopero che ha motivazioni politiche, perché è la risposta all’arresto di tre organizzatori antifascisti. Lo sciopero paralizza la città, mostrando clamorosamente la debolezza del controllo nazifascista sull’ordine pubblico. Dieci giorni dopo, lunedì 6 dicembre, scioperano i lavoratori dell’industria. La motivazione delle fermate, che inizialmente interessano tre stabilimenti, è economica, perché la protesta è contro una disposizione che riduce di un terzo la razione mensile dell’olio per persona. Gli “scioperi dell’olio” impegnano a scacchiera le fabbriche del ponente cittadino per una decina di giorni, sino al 17 dicembre, giorno in cui si fermano tutti gli stabilimenti del gruppo Ansaldo. E’ un’onda di piena che coinvolge circa trentamila lavoratori. I GAP, là dove possono, forniscono sostegno armato ai manifestanti che popolano numerosi le strade dei quartieri operai. I gappisti intervengono per bloccare la circolazione dei mezzi pubblici, facendo saltare binari e recidendo le aste dei tram.
     Le autorità nazifasciste, colte di sorpresa dalla forza e dall’estensione del movimento, tentano il sistema del bastone e della carota. A Sestri, durante i tentativi di blocco della circolazione dei tram, è freddato un giovane operaio. A Bolzaneto vengono arrestati due lavoratori, Maffei e Livraghi, che sono fucilati sabato 18. Nello stesso tempo si avviano tentativi di trattativa in cui s’impegna lo stesso amministratore delegato dell’Ansaldo, ingegner Agostino Rocca. I tentativi non portano a nulla, perché la linea dei comitati di agitazione è di non trattare. E’ un manifesto di Zimmermann affisso per tutta la città lunedì 20 dicembre a sancire unilateralmente concessioni salariali e alimentari. I comitati di agitazione dispongono  il ritorno al lavoro a partire da martedì 21, dopo due settimane di scioperi.
     A gennaio è ancora alta la volontà di lotta, tanto che il giorno 13 parte uno sciopero al Fossati che coinvolge il Cantiere, la San Giorgio e poi le fabbriche di Cornigliano, Sampierdarena e Rivarolo, sino all’Alta Valpolcevera. I GAP alzano il tiro, colpendo direttamente i tedeschi la sera del 13 gennaio. Buranello e Scano in Via Venti Settembre sparano ad ufficiali tedeschi, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. Questa volta la reazione è pronta e durissima: nella notte tra il 13 e il 14 otto antifascisti sono prelevati dalle carceri e successivamente giustiziati al Forte di S.Martino. Venerdì 14 gennaio è ancora sciopero. Il giorno dopo gli stabilimenti sono chiusi a tempo indeterminato, per ordine del Prefetto Basile. Il lavoro riprende solo giovedì 20, senza trattative e, soprattutto, senza risultati per i lavoratori.[1]
      La sconfitta di gennaio è molto dura ed è la causa principale del fallimento nelle fabbriche genovesi dello sciopero del 1° marzo 1944. Nel giorno della grande mobilitazione dei lavoratori del Nord, Genova manca l’appuntamento nazionale, salvo isolate fermate, in particolare alla San Giorgio. Il ripiegamento degli operai genovesi durerà quattro mesi. A parte le iniziative in occasione del 1° maggio 1944, quasi tutte esterne alle fabbriche e prodotte da piccoli gruppi, se non addirittura individuali, il movimento entra in un cono d’ombra di apparente tranquillità, anche perché numerosi militanti sono costretti dalla repressione a dileguarsi, senza poter più rimettere piede in fabbrica sino alla Liberazione. Inoltre la Resistenza in questi primi mesi del 1944 subisce altri colpi gravissimi: il 2 marzo cade Buranello, rientrato in città per sostenere militarmente lo sciopero, il 6 aprile avviene il massacro della Benedicta e il 19 maggio l’eccidio del Turchino.
     La mancanza di scioperi non significa però cedimento. Significa solo scelta di modalità differenti di resistenza. Come l’opposizione – straordinaria per forza ed estensione – al tentativo fascista di “normalizzare” la vita sindacale con la costituzione di nuove commissioni interne. Il sindacato fascista effettua il massimo sforzo proprio tra marzo e i primi di maggio del 1944, approfittando del momentaneo ripiegamento delle lotte. I comitati clandestini di agitazione denunciano la natura collaborazionista dell’iniziativa e chiamano i lavoratori a votare scheda bianca oppure ad annullare il voto, segnando i nomi di Buranello e di Livraghi. Buona parte dei lavoratori si rifiuta di votare. Chi va a votare, in grande maggioranza, annulla la scheda. I risultati delle principali fabbriche sono raccolti dagli organismi clandestini e diffusi dal bollettino della Federazione del PCI.[2] Significativamente i risultati peggiori per il sindacalismo collaborazionista vengono da tre delle quattro fabbriche poi investite dalla rappresaglia del 16 giugno: al Cantiere di Sestri su 2339 votanti, tra operai e impiegati, 1519 annullano la scheda; i voti nulli sono poi 200 su 350 alla Piaggio e 2115 su 3969 alla Siac. Si segnalano ancora i risultati del Fossati di Sestri (1845 voti nulli su 2448), della Ceramica Vaccari di Borzoli (342 su 350), dell’Odero T.O. (152 su 258), del Cantiere Ansaldo di Sampierdarena (1840 su 2122). Il fallimento della controffensiva politica fascista è evidente. La risposta dei lavoratori non è la lotta aperta come nei mesi autunnali del 1943 e come a gennaio, ma è altrettanto efficace perché colpisce i fascisti sul terreno della battaglia per il consenso, sconfiggendo l’opzione collaborazionista.
     E’ nella seconda metà di maggio che si creano le condizioni per una nuova fase di lotta.[3] Gli obiettivi sono di carattere economico perché le condizioni di vita sono nettamente peggiorate. In particolare è drammatica la situazione alimentare, per l’esaurimento graduale delle scorte e per la difficoltà gravissima dei rifornimenti. Si vive alla giornata, per di più nel terrore costante dei bombardamenti che tra marzo e giugno si accaniscono sul ponente cittadino con centinaia di morti e feriti. In diversi stabilimenti si torna a rivendicare salario con modalità inedite: nessuna delegazione per le trattative, nessuna elezione di rappresentanze per non esporre i compagni. Spesso a dar voce alle rivendicazioni ci pensano le donne. Talvolta i dirigenti aziendali sono chiamati a discutere nei piazzali e nei reparti: si parla lì e le voci dei compagni provengono dalle seconde e dalle terze file, senza nome e senza faccia. Anche ai dirigenti va bene così: meglio non vedere e non sapere chi parla a nome di tutti. Il fermento è così alto che il prefetto Basile decide di fare un giro nelle fabbriche tra il 19 e il 20 di maggio, proprio nei giorni della strage del Turchino. Basile minaccia e blandisce e sopporta anche fischi e insulti che gli piovono addosso dagli operai, specie al Meccanico di Sampierdarena.
     Il 1° giugno è sciopero alla San Giorgio, al Fossati e al Cantiere. Nel pomeriggio all’Allestimento Navi la polizia spara e rimane ucciso un operaio. Il giorno dopo, venerdì 2, gli scioperi dilagano da Sestri a tutta la Valpolcevera. Nel pomeriggio si fermano le fabbriche di Sampierdarena e di Cornigliano: Meccanico, Carpenteria, Elettrotecnico e Siac. Domenica 4 giugno, giorno della liberazione di Roma, un pesante bombardamento sulla bassa Valpolcevera causa cento morti e centocinquanta feriti. Cresce ancora la rabbia e gli scioperi proseguono per tutta la settimana successiva, incoraggiati dalla notizia dello sbarco alleato in Normandia, dal giorno 7 di dominio pubblico. E’ di nuovo un’onda di piena, come a dicembre e come a gennaio. Fascisti e tedeschi non possono non cogliere il collegamento tra le agitazioni e la nuova fase del conflitto, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma e lo sbarco in Normandia. Venerdì 9 lo sciopero si è ormai diffuso in tutti gli stabilimenti e Basile decide di porvi fine, ordinando la serrata di sette fabbriche. Il testo del comunicato, apparso sui giornali cittadini sabato 10 è chiarissimo. Ho cercato – scrive in sintesi Basile – di spiegarvi come stanno le cose, ma non avete voluto ascoltarmi e ieri, di nuovo, avete scioperato tutti quanti. Perciò ordino la serrata sino a martedì prossimo di Siac, Piaggio, San Giorgio, Cantieri Navali, Carpenteria, Ferriere Bruzzo, Ceramica Vaccari. Vi avverto che questa è la prima e la più blanda delle misure che sto preparando per voi. Ad ulteriore dimostrazione che si sta facendo sul serio, la mattina del 10 poliziotti guidati dal questore in persona, insieme ad un gruppo di SS, irrompono al Meccanico di Sampierdarena, durante uno sciopero di reparto. E’ un’azione molto rapida: il reparto in sciopero viene isolato e sessantaquattro operai sono prelevati, caricati sui camion e portati via. Operazioni di questo tipo sono già state effettuate per lavori di cui i tedeschi hanno urgenza, ma non hanno mai interessato operai prelevati in fabbrica, bensì gente presa a caso per strada.
     Nonostante tutti questi segnali, nessuno all’interno della Resistenza immagina quello che succederà di lì a pochi giorni, nessuno mette in conto la possibilità di una deportazione di massa. Lunedì 12 nelle fabbriche ancora aperte il lavoro riprende regolarmente. Lo stesso succede mercoledì 14 nelle fabbriche sottoposte a serrata. La giornata del 15 trascorre tranquillamente. Venerdì 16, nella tarda mattinata di una giornata caldissima, scatta la rappresaglia guidata dalle forze di occupazione tedesca con la partecipazione di polizia e brigate nere. L’azione è condotta con tecnica militare e ha caratteristiche di un’adeguata preparazione. Innanzi tutto nella scelta degli obiettivi. Per la Siac l’operazione è abbastanza semplice, perché lo stabilimento è relativamente isolato, circondato da colline e i binari della ferrovia hanno diramazioni che arrivano sino alla fabbrica. Più complessa è invece l’operazione per Cantiere, San Giorgio e Piaggio, perché gli stabilimenti sono situati nel contesto urbano di Sestri e hanno parecchie vie di uscita. La contiguità delle tre fabbriche e uno straordinario dispiegamento di forze favoriscono tuttavia il successo, con l’effetto aggiuntivo, probabilmente cercato, di coinvolgere e terrorizzare tutta Sestri. I fatti successivi sono noti e confermati da numerose testimonianze: i lavoratori sono radunati nei piazzali, selezionati, caricati a centinaia su autobus e camion così come sono, in tuta, con gli zoccoli, molti in canottiera. Nella rete cadono in circa millecinquecento, successivamente portati ai punti di concentramento a Campi e a Rivarolo e caricati come bestie su carri ferroviari con destinazione Mauthausen.
      Due giorni dopo, il 18 giugno, escono sulla stampa cittadina due comunicati, uno del comando tedesco, l’altro, truculento e delirante, di Basile che non vuole perdere l’occasione di godersi la festa: “Vi avevo messo sull’avvertita…Non avete voluto ascoltarmi…Oggi più di uno di voi si pente amarissimamente di essersi lasciato sedurre ed illudere…”. Le parole di Basile tradiscono però anche impotenza e paura: “…Intanto quei pendagli da forca che si gabellano per comunisti, si appostano all’angolo dei carruggi o all’uscita di un rifugio al cessato allarme, per colpire alla schiena uno dei nostri, borghese o militare… Meditate bene quanto sto per dire: la pazienza ha un limite…”. I “pendagli da forca” l’indomani colpiranno duro, questa volta molto in alto. Dopo essere sfuggito ad un primo attentato proprio il 16 giugno in Via Garibaldi, vicino a Palazzo Tursi, il 19 a Savignone è liquidato a colpi di mitra il generale della GNR Silvio Parodi. Il 25 giugno esplode una bomba in un bar di Via del Campo frequentato esclusivamente da soldati tedeschi: i morti sono sei e diversi i feriti. Il 30 giugno a Pedemonte sono colpiti a morte quattro ufficiali tedeschi. Il 2 luglio in Piazza Aprosio a Sestri è la volta di un sottufficiale di P.S.
     Tornando alla gigantesca retata del 16 giugno è necessario ricordare che questa si svolge praticamente senza resistenze, salvo qualche isolato episodio di protesta di donne a Sestri. Le testimonianze raccolte da Clara Causa[4] ricordano un gesto disperato del partigiano Piva che nel Cantiere Navale riesce a sparare qualche colpo di pistola contro i tedeschi. Altre testimonianze raccolte da Manlio Callegari[5] citano episodi di azioni individuali di aiuto per la fuga dei deportati. Nel complesso tuttavia l’operazione si svolge nel disarmo completo dell’organizzazione della Resistenza. La domanda obbligata riguarda la possibilità di prevedere, evitare o contrastare la deportazione del 16 giugno. Prevedere forse si, considerando premesse e segni premonitori. Evitare probabilmente no, considerando la sproporzione delle forze in campo in quel momento. Contrastare, attenuando le conseguenze, sicuramente si. Ad avvalorare questa tesi è proprio la testimonianza di Remo Scappini, all’epoca responsabile del Partito Comunista, uno dei capi della Resistenza genovese: “Il rastrellamento rivelò serie deficienze anche del nostro partito, poiché dimostrò che le squadre operaie di difesa avevano trascurato la sorveglianza nelle fabbriche. Certo, di fronte ai mitra puntati non sarebbe stato possibile opporre resistenza, ma se la sorveglianza avesse funzionato e se ci fosse stato un minimo di reazione, si sarebbe creato scompiglio facilitando così la fuga di molti operai, come avvenne in altre circostanze a Genova, a Torino e altrove.” [6]
     Ora è possibile trarre una prima conclusione storiografica. Il 16 giugno chiude drammaticamente a Genova una fase della Resistenza contrassegnata dalla centralità delle grandi lotte operaie.[7] Ci saranno altri scioperi alla fine di ottobre del 1944, contro la minaccia di nuove deportazioni, a novembre contro la diminuzione della razione di pane, e infine nei mesi della mobilitazione pre-insurrezionale.[8] La fabbrica però non è e non potrà più essere il centro dell’iniziativa politica antifascista e antitedesca. Sono i lavoratori per primi a comprenderlo, sino a trarre coerenti conclusioni con il rifiuto (di fatto) dell’indicazione del Partito Comunista e del CLN dello sciopero generale insurrezionale nell’aprile 1945. La mancata effettuazione dello sciopero generale non impedirà, come è noto, il pieno successo dell’insurrezione “modello” di Genova, con il contributo determinante della classe operaia, specie a Sestri e nel ponente industriale della città.[9] A questo proposito Giorgio Bocca ha scritto – efficacemente, anche se impropriamente – che a Genova e in Liguria la lotta di Liberazione ebbe le caratteristiche di una “rivincita operaia”.[10]
     Il secondo problema storiografico collegato al 16 giugno riguarda il peso che nella vicenda ebbe l’esigenza di reclutare lavoro forzato per l’economia di guerra tedesca. Quella della deportazione di manodopera è una storia lunga che inizia dopo l’8 settembre con l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord e della città di Genova. Già nel novembre 1943 l’amministratore delegato dell’Ansaldo Agostino Rocca riesce ad impedire la deportazione di novecento lavoratori destinati alla costruzione di sommergibili a Kiel.[11] Il problema si ripresenta alla fine di gennaio del 1944, quando Rocca viene a sapere dell’esistenza di un piano tedesco di prelievo di circa trentamila lavoratori genovesi, tremila dei quali dovrebbero essere messi a disposizione dall’Ansaldo. Utilizzando i buoni rapporti con Leyers, ingegnere e generale di corpo d’armata plenipotenziario per l’Italia del Nord di Albert Speer, ministro per gli armamenti e la produzione bellica, Rocca riesce nuovamente ad opporsi al trasferimento, offrendo in cambio un aumento di produzione nei propri stabilimenti. Rocca capisce e quindi gioca sul fatto che le pressioni maggiori per il trasferimento di manodopera in Germania vengono dagli industriali tedeschi, più che dalle autorità militari in Italia.
      La situazione precipita alla fine di marzo, allorché vengono inviate agli operai dell’Ansaldo mille cartoline precetto che equivalgono ad un ordine di partenza. Rocca fa ritirare le cartoline e per questo rischia l’arresto da parte delle SS. Alla fine a partire sono solo un centinaio di operai, anziché i tremila in un primo tempo previsti. Un nuovo tentativo tedesco viene effettuato un mese dopo con la richiesta di duemila operai dell’Ansaldo Fossati: il numero è stabilito sulla base della quantità di disoccupati che in quel momento risultano percepire sussidi totali o parziali. Questa sembra la volta buona, perché vengono fissate sia la data della deportazione, il 10 maggio, sia addirittura le procedure di trasferimento, con l’avvertenza tedesca che “le maestranze partiranno come si trovano sul posto di lavoro”. Alla fine salta anche l’appuntamento del 10 maggio, per ostacoli frapposti dalla stessa amministrazione di Salò. Le autorità germaniche preferiscono rinviare l’operazione ad un momento più favorevole che arriverà presto, il 16 giugno, appunto. Quando non saranno possibili obiezioni in presenza di “…una misura di polizia (reazione ad uno sciopero), contro la quale la considerazione costi – profitti – come nel caso delle richieste di aziende di operai per la produzione bellica nel Reich – non avrebbero potuto prevalere.”[12] Sull’intera vicenda della mancata deportazione del Fossati osserva Manlio Calegari: “L’impreparazione, lo stupore, la disperazione di quel giorno (16 giugno, ndr) deriveranno anche dal fatto che in città nulla era trapelato del progetto del 10 maggio. Il fatto che di nulla il CLN avesse avuto sentore, porterebbe a pensare che localmente l’attenzione a simili soluzioni fosse scarsa, tanto esse apparivano irrealistiche. Non ci si aspettava ancora un anno di guerra, né che la Germania mettesse in opera il massiccio trasferimento di risorse materiali e umane che aveva più volte annunciato e tentato.”[13]
     Dal punto di vista tedesco per altro le complicate vicende genovesi sono emblematiche di un più generale fallimento, se rapportato agli obiettivi iniziali di oltre un milione di lavoratori italiani al servizio dell’industria bellica germanica. Fallisce tanto il reclutamento di volontari attuato con la propaganda, quanto l’arruolamento coatto, sia civile, sia militare. “Se esaminiamo le cifre – osserva ancora Klinkhammer – nel 1944 da gennaio a dicembre gli operai dell’industria arruolati furono complessivamente 65.954. Rispetto ai progetti di Sauckel dell’inizio dell’anno, che prevedevano il rastrellamento di un milione e mezzo di lavoratori, e più ancora rispetto alla dichiarazione di Hitler nel marzo, secondo la quale dall’Italia se ne potevano ricavare anche tre milioni, il numero dei lavoratori effettivamente “arruolati” testimonia con tutta chiarezza il fallimento dell’organizzazione Sauckel. Anche di fronte a circa 450.000 militari internati, che in agosto furono trasformati d’autorità in lavoratori civili, e che per altro lavoravano già in precedenza nell’industria degli armamenti, risulta evidente la scarsa importanza che ebbero per l’industria bellica tedesca i nuovi arruolamenti.”[14] In altri termini il reclutamento di lavoratori italiani da parte dell’occupante tedesco si ridusse a quello che in effetti fu il 16 giugno a Sestri: pura operazione di polizia, di repressione della protesta, di umiliazione e di annichilimento di un’intera comunità.
     In conclusione una riflessione su un ultimo problema storiografico legato al 16 giugno. Colpisce la sproporzione tra il peso che quella tragedia ebbe nella storia della Resistenza genovese e che tuttora ha nella memoria collettiva dei sestresi, tramandata com’è di generazione in generazione, e l’attenzione tutto sommato scarsa che il 16 giugno ha avuto e nella storiografia locale (salvo le eccezioni più volte citate), e ancor più nella storiografia nazionale della Resistenza e, più in generale, del periodo 1943 – 1945. Una maggiore attenzione deve essere sollecitata ed anche pretesa. Il modo giusto per farlo, a livello locale, è però quello di aiutare la ripresa della ricerca mettendo a disposizione una testimonianza come quella di Orlando Bianconi che, senza nulla togliere ad altre testimonianze, [15] ha il pregio di essere stata prodotta (quasi) contemporaneamente allo svolgimento di una difficile vicenda di deportazione.
     I diari possono essere letti da due punti di vista. Il primo riguarda la terribile vicenda di un uomo non più giovane (quarantatre anni al momento della deportazione) che improvvisamente, in una “…giornata d’estate...” in cui “…nulla fa presagire quanto sta per accadere…” deve subire una violenza cieca che lo costringe ad abbandonare tutto, lavoro, casa, famiglia, affetti: “ore 19 partenza, lungo la linea numerose persone, tra cui donne e fanciulli piangenti, salutano noi e maledicono loro…”. Lo stile è asciutto, essenziale, ma nulla è dimenticato: un gesto di generosità (“…a Ronco Scrivia una ragazza mi offre tutto il denaro del suo borsellino, ringrazio il suo buon cuore, ma cosa farne?”), il pensiero della fuga (“A tratti odo come se il predellino del carro urtasse in un mucchio di sabbia, ma comprendo cos’è il rumore: è la caduta dei fuggitivi…Sono avvilito per non poter essere anch’io tra loro, mi consola il pensiero che almeno qualcuno riesca a fuggire.”). Poi l’arrivo, con il terrore di una scoperta: “…riesco a leggere il nome della stazione d’arrivo: Mauthausen. Comprendo come un fulmine…ricordo il terribile campo dove durante la guerra 1914 – 18 perirono migliaia di prigionieri.”
     E ancora il freddo, la fame, i maltrattamenti gratuiti (“…come se si fosse una mandria di bestie...”), il disagio (“…bisogna arrangiarsi, in tre su un pagliericcio…”), soprattutto l’incertezza (“L’argomento principale è come finiremo, ci manderanno al lavoro o ci terranno lì a far la vita del campo?”). Con l’incertezza arriva la paura di ammalarsi (“Per quanto può durare a fare una vita simile un individuo? Poco, perché appena si ammala per lui c’è il forno crematorio…”), di prendere botte (“…schiaffi e pedate, per gusto, basta non togliersi il berretto quando passa sia un soldato che un ufficiale, anche a una certa distanza, lavorando o no…”), soprattutto di non rivedere più i propri cari (“…quando sono a letto penso a mia moglie e al mio bimbo Severino, che chissà quando e se li rivedrò…”).
     La seconda chiave di lettura dei diari riguarda l’operaio specializzato elettricista Orlando Bianconi, entrato alla Piaggio di Sestri perché “…è una delle poche fabbriche che non costringeva i suoi dipendenti all’iscrizione obbligatoria al Partito Nazionale Fascista”. “Era un libero pensatore – osserva il figlio Severino – anche dopo la Liberazione Orlando continuò ad esserlo, senza mai iscriversi ad alcun partito”. La vena libertaria si sposa con il forte attaccamento al lavoro e con l’orgoglio di appartenere ad una realtà culturalmente più avanzata: “…si credono una razza eletta…Vale più un semplice manovale di noi che un capo di loro. Un lavoro che in Italia si impiega un giorno per farlo bene, qui ne occorrono tre per farlo male…Conoscono solo il lavoro, mangiare, dormire e avere figli. Loro vivono per lavorare, mentre noi lavoriamo per vivere”. E’ grazie al proprio mestiere che Orlando riesce a migliorare un poco la propria condizione di deportato. Si dà da fare e nel tempo libero ripara radio, facendosi così apprezzare dagli austriaci. Una volta accettato, Orlando scopre che anche tra i tedeschi ci sono “…molte brave persone…” e che tra i suoi compagni di lavoro c’è chi come lui odia fascismo e nazismo (“…Eric Streif è un antinazista, ci offre sempre da fumare e mai un rimprovero per nessun motivo. Comprende che siamo vittime di un partito e forzati a fare un lavoro non nostro, perciò quello che facciamo è fin troppo…”). Quando finalmente arriva il giorno della libertà, Orlando è lapidario, quasi a trattenere un’emozione inesprimibile, troppo grande per poter essere raccontata con più di dieci parole: “4 maggio 1945. Esco, appena fuori spunta la prima macchina americana. Sono le 8,30.”
     Con la sua sensibile (e ruvida) personalità Orlando Bianconi narra se stesso e, forse senza rendersene conto, anche la sua classe sociale. L’operaio “medio” genovese è infatti adulto, istruito, ad elevata qualificazione professionale. Mestiere, orgoglio professionale, coscienza fiera, indipendenza intellettuale (che si sia “liberi pensatori” o militanti di partito poco importa): questi sono i tratti molto nitidi di un soggetto sociale forte, capace di esprimere autonomamente valori e culture. Da questo punto di vista la Resistenza genovese è stata veramente una straordinaria “rivincita operaia”.


Sestri, dicembre 2008                                                                  Paolo Arvati  




[1] Sulle lotte dell’autunno inverno 1943 - 1944: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Istituto Storico della Resistenza, Genova 1968, pp. 71-86; M.Calegari, Comunisti e partigiani, Genova 1942 – 1945, Selene Edizioni, Milano 2001, pp. 149 – 171.
[2] L’episodio è analizzato dettagliatamente da Antonio Gibelli in Genova operaia nella Resistenza, cit. pp.101-108.
[3] L’analisi più completa del periodo maggio – giugno 1944, oltre che dello stesso evento del 16 giugno, è di Manlio Calegari in Comunisti e partigiani, cit. pp. 192 – 205.
[4] C.Causa, La Resistenza sestrese, ANPI Sestri Ponente, Genova 2000, pp. 82 – 85.
[5] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag. 201.
[6] R.Scappini, Da Empoli a Genova, La Pietra, Milano 1981, pag. 199.
[7] A questa conclusione giungono i contributi di M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. , S. Antonini, La Liguria di Salò, De Ferrari, Genova 2001, P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, ILSREC, Storia e Memoria, n. 2, 2004.
[8] Su questi episodi di lotta: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, cit.
[9] Sull’insurrezione di Genova: M. Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pp. 483 – 489; P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, cit.; M.E.Tonizzi (a cura di), A wonderful job, Carocci, Roma 2006.
[10] G.Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Arnoldo Mondadori, Milano 1995, pag.331.
[11] Sulla deportazione di lavoro forzato: L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 161 – 165 e 366 - 411.
[12] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, cit. pag.165.
[13] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag.194.
[14] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, cit. pag. 371.
[15] Si ricorda in particolare: P.Villa, Ricordi di un deportato nel Terzo Reich, Nuova Editrice Genovese, Genova 1997.

venerdì 26 aprile 2013

Genova 25 aprile 2013 - Video



Per la sua attività antifascista la città di Genova è insignita, il 1° Agosto 1947, della medaglia d'oro al valor militare con la seguente motivazione:

«Amor di Patria, dolore di popolo oppresso, fiero spirito di ribellione, animarono la sua gente nei venti mesi di dura lotta il cui martirologio è nuova fulgida gemma all’aureo serto di gloria della "Superba" repubblica marinara, i 1863 caduti il cui sangue non è sparso invano, i 2250 deportati il cui martirio brucia ancora nelle carni dei superstiti, costituiscono il vessillo che alita sulla Città martoriata e che infervorò i partigiani del massiccio suo Appennino e delle impervie valli, tenute dalla V zona operativa, a proseguire nell’epica gesta sino al giorno in cui il suo popolo suonò la diana dell’insurrezione generale. Piegata la tracotanza nemica otteneva la resa del forte presidio tedesco, salvando così il porto, le industrie e l’onore. Il valore, il sacrificio e la volontà dei suoi figli ridettero alla madre sanguinante la concussa libertà e dalle sue fumanti rovine è sorta nuova vita santificata dall’eroismo e dall’olocausto dei suoi martiri. 9 settembre 1943 - aprile 1945. »


Atto di resa

atto di resa In Genova, il giorno 25 aprile 1945 alle ore 19,30; tra il Sig. Generale Meinhold, quale Comandante delle Forze Armate Germaniche del Settore Meinhold, assisitito dal Cap. Asmus, Capo di Stato Maggiore, da una parte; il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria, sig. Remo Scappini, assistito dall'avv. Errico Martino e dal dottor Giovanni Savoretti, membri del Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria e dal Magg. Mauro Aloni, Comandante della Piazza di Genova;

è s t a t o c o n v e n u t o :

1) Tutte le Forze Armate Germaniche di terra e di mare alle dipendenze del Sig. Generale Meinhold si arrendono alle Forze Armate del Corpo Volontari della Libertà alle dipendenze del Comando Militare per la Liguria.

2) La resa avviene mediante presentazione ai reparti partigiani più vicini con le consuete modalità ed in primo luogo con la consegna delle armi.

3) Il Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria si impegna ad usare ai rpigionieri il trattamento secondo le leggi internazionali, con particolare riguardo alla loro proprietà personale e alle condizoni di internamento.

4) Il Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria si riserva di consegnare i prigionieri al Comando Alleato Anglo-Americano operante in Italia.

5) La resa avrà decorrenza dalle ore 9 del giorno 26 aprile 1945.

Fatto in quattro esemplari di cui due in italiano e due in tedesco.


Remo Scappini     Meinhold   Errico Martino  Giovanni Savoretti  Mauro Aloni Asmus


martedì 12 marzo 2013

"La cosa più importante della nostra vita è aver scelto la nostra parte"


tristemente profetico è stato il precedente post sull'8 marzo dove tra le altre cose si ricordavano le 21 donne della Costituente.
Ci ha lasciati Teresa Mattei, la più giovane delle donne in quella assemblea e l'ultima che era rimasta in vita.
L'eredità che ci ha lasciato è quel "BENE COMUNE" che si chiama Costituzione.
Partigiana e Comunista fu duramente colpita negli affetti dal regime fascista, che torturò, sino ad indurre al suicidio per non rivelare nomi, il fratello nelle stanze di via Tasso a Roma.

che la terra ti sia lieve Partigiana Chicchi



lascio alle pagine di Altraeconomia il ricordo di questa mia concittadina di nascita.

“Noi salutiamo quindi con speranza e con fiducia la figura di donna che nasce dalla solenne affermazione costituzionale e viene finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nuova repubblica. Ancora poche costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. >>... leggi tutto


link utli
wikipedia - Teresa Mattei

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