
L'avventura di Steve Jobs, il genio sognatore scomparso tempo fa, che a 21 anni, creava dal nulla la Apple e cambiava il modo di comunicare del mondo, solleva una domanda che ci deve interrogare nel profondo: in Italia sarebbe mai potuto avvenire? Può un ragazzo senza una famiglia alle spalle, senza aver frequentato prestigiose università, senza mezzi e appoggi, se non la propria creatività e ingegno, al solo motto «stay hungry, stay foolish» (restate affamati, restate folli), fondare un impero da 350 miliardi di dollari e inventare il domani? La risposta è sicuramente no, e solitamente se ne attribuisce la causa al sistema, al governo, alla gerontocrazia immutabile di un Paese di vecchi, ai fondi negati, alla mancanza di contributi, eccetera eccetera. Tutto vero, peraltro. Ma se ci fosse anche dell'altro? Se fosse perché le nostre famiglie, le nostre scuole, le nostre imprese, la nostra società soffocano la nascita di nuovi Steve Jobs nostrani perché a loro propongono impongono altri modelli e altre prospettive? Se fosse perché gli stessi giovani, coccolati lisciati accuditi da mamma papà e da prototipi di vita comoda, preferiscono non rischiare, non restare affamati, non restare folli, e magari cercare il posto (non il lavoro) grazie alle conoscenze familiari e alle sicurezze dell'ambiente sociale in cui si è nati? Se così fosse, non basta cambiare governi o destinare qualche fondo in più al Ministero dell'Istruzione, per invertire lo stato delle cose. Serve cambiare cultura, spirito di vita, mentalità, sguardo al domani, modo di porsi di fronte allo studio e al lavoro. Insomma, creare le condizioni di chi «ha fame» e coltiva in sè la follia creativa che nei secoli ha visto questa terra generare civiltà che hanno segnato la storia e dato al mondo geni. Dall'Impero romano al Rinascimento fiorentino. Da noi è raro veder nascere uno Steve Jobs, perché il successo professionale non dipende prevalentemente dalle capacità personali, ma dal luogo di nascita e dalla famiglia di origine. Se uno è farmacista è perché il padre è farmacista, se uno è notaio è perché il padre è notaio, se uno è imprenditore è perché si è nati in una famiglia di imprenditori. Poi, magari, si è anche bravi a farlo, ma quello che conta da noi è l'ambiente giusto, le conoscenze giuste, la strada già percorsa e segnata. Non la voglia di innovare, di rischiare, di percorrere strade nuove. Addirittura negli accordi sindacali si acconsente al pensionamento del padre, se viene assunto il figlio, perché nulla cambi. Purché nessuna strada nuova venga percorsa. Quanti sono i giovani disposti a mettersi in proprio, a rifiutare il posto di bancario o nelle ferrovie procurato grazie alle conoscenze del papà, per chiudersi in un garage e dar sfogo alla propria creatività, alla propria manualità, alla sana follia che c'è in ciascuno di noi? Quanti sono disposti ad affrontare le mille difficoltà che in Italia ci sono, per realizzare la propria idea, per fare qualcosa con le proprie mani, per «inventarsi lavoro» invece che cercarsi posti di lavoro? Vorrei cono scere anche il vostro parere.
@enio