Si udivano allora i passi affrettati
sulla banchina lungo il treno, l'affaccendarsi e il discutere presso
il bagagliaio, le parole di quelli che avevano accompagnato i
partenti, il quieto chiocciare delle galline e il fruscio degli
alberi nei giardinetti delle stazioni.
Allora, come un telegramma spedito in
viaggio o come un saluto arrivato da Meljuzeev, entrava dal
finestrino un profumo ben noto, che sembrava diretto proprio a Jurij
Andreevic, rivelandosi a lui nel suo angolo con con silenziosa
intensità. Quel profumo si manifestava con calma superiorità da
chissà quale angolo appartato, e proveniva da un’altezza insolita
per i fiori dei campi e delle aiuole. Per la ressa, il dottore non
poteva avvicinarsi al finestrino. Ma, anche senza guardare, li vedeva
quegli alberi. Crescevano certo lì vicino e protendevano tranquilli
verso i tetti dei vagoni i loro rami fronzuti col fogliame polveroso
per il passaggio dei treni e denso come la notte, fittamente
ricoperto dalle piccole ceree stelle delle infiorescenze. Per tutto
il tragitto fu sempre la stessa cosa. Dappertutto folla che
rumoreggiava, dappertutto tigli che fiorivano. L'incessante alitare
di quel profumo sembrava precedere il treno in corsa verso il nord,
come una voce di popolo che volava sui caselli, sulle stazioni
perdute, e che i viaggiatori ritrovavano sempre diffusa ovunque e
confermata.