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venerdì 16 ottobre 2020

Il mostro che ci attende nel buio


(...) quando Elizabeth Vrba passò ad analizzare le ossa dei bovidi trovò che predominavano animali troppo imponenti, come il bubalo, perché un leopardo potesse affrontarli. Doveva essere in azione qualche altro carnivoro più poderoso. Quale?
I candidati principali sono tre, ora tutti estinti, e tutti hanno lasciato i loro fossili nella valle di Sterkfontein;
a. Le iene cacciatrici a zampe lunghe (Hyenictis e Euryboas)_
b. I macherodonti, o felini dai denti a sciabola.
c. Il genere Dinofelis, il "falso dente a sciabola".
I macherodonti avevano muscoli del collo enormi e facevano balzi poderosi; sulle mascelle superiori avevano canini affilati come falci, con il taglio seghettato, che conficcavano nel collo della preda con un colpo all'ingiù. Erano soprattutto adatti ad abbattere grandi erbivori. I loro denti taglienti erano più efficienti di quelli di ogni altro carnivoro, però avevano le mascelle inferiori deboli: così deboli che non riuscivano a finire uno scheletro. Una volta Griff Ewer ipotizzò che i molari della iena, capaci di spezzare le ossa, si fossero evoluti come risposta alle carogne non mangiate che i macherodonti si lasciavano in abbondanza alle spalle.
Ovviamente le caverne della valle di Sterkfontein furono occupate, in un lunghissimo arco di tempo, da varie specie di carnivori. Brain pensò che a portare la una parte delle ossa, soprattutto quelle delle antilopi più grandi, potessero esser stati i macherodonti e le iene, che lavoravano in coppia. Inoltre, responsabili di aver portato nelle caverne alcuni ominidi potevano essere le iene cacciatrici.
Ma veniamo alla terza alternativa. Il Dinofelis era un felino meno agile di un leopardo o di un ghepardo, ma di corporatura molto più robusta. Aveva denti diritti, micidiali come pugnali, dalla forma a metà tra quelli del macherodonte e quelli, poniamo, della tigre moderna. La mandibola si chiudeva con uno scatto possente. Data la sua mole, doveva probabilmente andare a caccia di
soppiatto, e quindi di notte. Forse era maculato, o a strisce. Oppure era nero, come una pantera.
Le sue ossa sono state rinvenute dal Transvaal all'Etiopia: cioè l'ambiente originario dell'uomo.
Nella Stanza Rossa ho tenuto in mano proprio un cranio fossile di Dinofelis; un esemplare perfetto, ricoperto di una patina color melassa. Mi misi ad articolare la mandibola, e mentre la chiudevo mi proposi di guardare dritto tra le zanne. Il cranio fa parte di uno dei tre scheletri completi di Dinofelis - un maschio, una femmina e un 'cucciolo' - che negli anni 1947-48 furono trovati fossilizzati alla Bolt’s Farm, poco lontano da Swartkrans, insieme a otto babbuini e nessun altro animale.

venerdì 22 novembre 2019

Paura del buio


(Borowski 1897 Berlino)
Se ogni neonato ha il desiderio di muoversi in avanti, il passo successivo è scoprire come mai non gli piace star fermo. Dopo aver ulteriormente approfondito le cause di ansietà e di collera nei bambini piccoli, il dottor Bowlby è arrivato alla conclusione che il complesso legame istintivo fra madre e figlio, gli strilli di allarme del bambino (molto diversi dai piagnucolii di freddo, fame o malessere), la 'misteriosa' capacità della madre di udirli, la paura che il bambino ha del buio e degli estranei, il suo terrore per gli oggetti che si avvicinano rapidamente, le sue invenzioni di mostri da incubo dove non ce ne sono - insomma tutte le sconcertanti "fobie" che Freud cercò senza successo di spiegare - si potevano in realtà motivare con la costante presenza di predatori nella casa primordiale dell'uomo. Bowlby cita i Principi di psicologia di William James: «Nell'infanzia la maggiore fonte di terrore è la solitudine». Un bambino solo, che scalcia e strilla nel suo lettino, non sta necessariamente mostrando i primi segni della Pulsione di Morte o della Volontà di Potenza o dell’«impulso aggressivo» a rompere i denti al fratello; queste sono cose che magari si sviluppano in un secondo tempo. No. Il bambino strilla perché - se trasferiamo il lettino in mezzo ai rovi dell'Africa - o la madre torna entro pochi minuti o una iena lo mangerà.
Sembra che ogni bambino abbia un’immagine mentale innata della "cosa" che potrebbe attaccarlo: al punto che qualunque "cosa" lo minacci, anche se non è la "cosa" reale, innescherà una sequenza prevedibile di comportamenti difensivi. La prima tattica difensiva sono gli strilli e i calci; così la madre deve esser preparata a combattere per il figlio, e il padre a lottare per entrambi. Di notte il pericolo raddoppia, perché di notte l'uomo non ci vede ed è proprio di notte che i grandi felini vanno a caccia. E sicuramente questo grande dramma manicheo - la luce, le tenebre e la Bestia - è il nocciolo della condizione umana.
Chi visita il nido di un ospedale è spesso stupito dal silenzio. Eppure, se la madre ha davvero abbandonato il figlio, l'unica possibilità che lui ha di sopravvivere è di tenere la bocca chiusa.

(Bruce Chatwin, Le vie dei canti, pag.244 traduzione di Silvia Gariglio, ed.Adelphi 1991)




sabato 3 marzo 2018

Il lavoro di Adamo

« A volte » disse « domando al vecchio Alex il nome di una pianta e lui mi risponde "nessun nome", intendendo: "nel mio paese questa pianta non cresce"».
Lei allora cercava un informatore che da bambino avesse vissuto dove la pianta cresceva, e scopriva che dopotutto un nome ce l'aveva. Il «cuore arido» dell'Australia, disse, era un mosaico di microclimi, dove diversi erano i minerali nel terreno e diversi gli animali e le piante. Un uomo cresciuto nel deserto conosceva a menadito la sua flora e la sua fauna, sapeva quale pianta attirava la selvaggina, sapeva che acqua bere. Sapeva dove sottoterra c'erano dei tuberi. In altre parole, dando un nome a tutte le "cose" del suo territorio, un uomo poteva sempre contare di sopravvivere.
«Ma se lo porti in un'altra regione con gli occhi bendati, - disse - magari va a finire che si perde e muore di fame». « Perché ha perso i suoi punti di riferimento?». « Sì.»
« Ossia l'uomo “crea” il suo territorio dando un nome alle “cose" che ci sono?»
« Proprio così.» Il suo volto si illuminò.
«Quindi è possibile che il presupposto di una lingua universale non sia mai esistito?».
«Sì ». Ancora oggi, disse Wendy, quando una madre aborigena nota nel suo bambino i primi risvegli della parola, gli fa toccare le "cose" di quella particolare regione: le foglie, i frutti, gli insetti e così via. Il bambino, attaccato al petto della madre, giocherella con la "cosa", le parla, prova a morderla, impara il suo nome, lo ripete - e infine la mette in un Canto.
« Noi diamo ai nostri figli fucili e giochi elettronici» disse Wendy.« Loro gli hanno dato la terra».

Bruce Chatwin, Le vie dei canti, pag.283 traduzione di Silvia Gariglio, ed.Adelphi 1991



(disegni di Hoefnagel, scrittura di Bocskay; 1525)



venerdì 23 febbraio 2018

Dr. Livingstone, I suppose.


 ( Ligabue, 1956 )
La sensazione di essere nelle grinfie di un grande felino è forse un po' meno terribile di quanto ci immaginiamo, come risulta dall'esperienza che il dottor Livingstone fece con un leone: «Si è indotti in una specie di stato sognante, in cui non si soffre né si ha paura. Assomiglia a quello descritto dai pazienti narcotizzati con il cloroformio, i quali vedono tutta l'operazione ma non sentono il coltello... E' probabile che questa condizione si produca in tutti gli animali uccisi dai carnivori; e in tal caso è un provvedimento misericordioso del nostro benevolo creatore per lenire la sofferenza della morte». 
 (Viaggi missionari)

Bruce Chatwin, Le vie dei canti, pag.256,
traduzione di Silvia Gariglio, ed.Adelphi 1991


( Alfred Kubin )