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venerdì 11 novembre 2022

A proposito del processo creativo

 

Da "Parole salvate dalle fiamme" ed. Rosellina Archinto


Il poeta è perseguitato non da un tema, ma da una sensazione.  Il suo stato d’animo è determinato proprio dalla sensazione, febbrile, e muta. Essa scaturisce dentro di lui con un certo ritmo, dettato dalla natura stessa della sensazione. E facendo appena in tempo ad attraversare frettolosamente il pensiero, essa tenta già di prendere forma in parole ritmate, in un verso rimato, in intonazione. Cresce l’inquietudine della sensazione, il poeta si affretta a incanalarla nella parola, mentre ancora non ha le idee chiare su quell’argomento, e nel suo cervello scivolano soltanto allusioni, lapsus, intuizioni- ma la sensazione è assolutamente chiara, definita e non può essere verificata e ritrovata attraverso la ripetizione di ciò che è stato scritto. La poesia è una sensazione filtrata in maniera particolare.

Varlam Tichonovič Šalamov


                                                                   


  


La citazione che ho riportato è una considerazione di Varlam Tichonovič Šalamov, rinvenibile in un prezioso volume che raccoglie la corrispondenza epistolare tra  due poeti, Pasternak e Šalamov e che consente di entrare nella sfera letteraria e umana dei due scrittori. Šalamov scrisse per la prima volta a Pasternak nel febbraio del 1952; si trovava già da quindici anni lontano dai suoi affetti, isolato perché confinato nell'estremo Nord della Russia, dopo le accuse mossegli di attività contro rivoluzionaria.  


giovedì 22 ottobre 2020

Cavalli


"... ehi, dormite?!" gridò, come faceva di tanto in tanto, ai cavalli, di cui durante tutto il tempo continuava a sorvegliare con la coda dell'occhio le groppe, come un macchinista i manometri. Ma i cavalli tiravano come tutti i cavalli del mondo, e cioè quello di stanga correva con l'innata onestà di una natura semplice, mentre l'altro, il bilancino, poteva apparire a un profano un lavativo di tre cotte che, inarcando il collo a cigno, sembrava non sapesse far altro che ballare su e giù al tintinnio delle sonagliere scosse dai suoi stessi balzi.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.12 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate

(dipinto di Thomas Blinks)



mercoledì 13 maggio 2020

Tigli


Si udivano allora i passi affrettati sulla banchina lungo il treno, l'affaccendarsi e il discutere presso il bagagliaio, le parole di quelli che avevano accompagnato i partenti, il quieto chiocciare delle galline e il fruscio degli alberi nei giardinetti delle stazioni.
Allora, come un telegramma spedito in viaggio o come un saluto arrivato da Meljuzeev, entrava dal finestrino un profumo ben noto, che sembrava diretto proprio a Jurij Andreevic, rivelandosi a lui nel suo angolo con con silenziosa intensità. Quel profumo si manifestava con calma superiorità da chissà quale angolo appartato, e proveniva da un’altezza insolita per i fiori dei campi e delle aiuole. Per la ressa, il dottore non poteva avvicinarsi al finestrino. Ma, anche senza guardare, li vedeva quegli alberi. Crescevano certo lì vicino e protendevano tranquilli verso i tetti dei vagoni i loro rami fronzuti col fogliame polveroso per il passaggio dei treni e denso come la notte, fittamente ricoperto dalle piccole ceree stelle delle infiorescenze. Per tutto il tragitto fu sempre la stessa cosa. Dappertutto folla che rumoreggiava, dappertutto tigli che fiorivano. L'incessante alitare di quel profumo sembrava precedere il treno in corsa verso il nord, come una voce di popolo che volava sui caselli, sulle stazioni perdute, e che i viaggiatori ritrovavano sempre diffusa ovunque e confermata.

(Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.129 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate)

(da "Che fiore è questo?" , ed. Franco Muzzio)
(n.3 Tilia platyphyllos, n.4 Tilia cordata)
 

domenica 2 febbraio 2020

Neve



(Dublino 1965, Mac Weeney)
Fuori era ancora buio. Nell'aria senza vento la neve cadeva più fitta della vigilia. I grossi fiocchi lanuginosi scendevano pigramente e a poca distanza da terra restavano ancora esitanti se posarsi o no al suolo. Quando dal vicolo uscirono sull'Arbàt, era già più chiaro. La nevicata velava tutta la strada d'una bianca cortina che scivolava giù agitando e impigliando nelle gambe dei passanti i suoi lembi frangiati, così da far perdere la sensazione di procedere, quasi che i piedi anziché avanzare restassero a muoversi sempre nello stesso punto. Per strada non c'era anima viva. I partenti del vicolo Sivcev non incontrarono nessuno. Presto però, tutto coperto di neve, come passato in pasta liquida, li raggiunse un vetturino con una rozza imbiancata allo stesso modo. Per una somma favolosa, ma che in quegli anni non valeva un soldo, li fece salire tutti con la roba in carrozza. Solo Jurij Andreevic preferì raggiungere a piedi la stazione, libero da pesi e bagagli.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.174 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate



venerdì 31 gennaio 2020

Lupi nella notte


(Andrew Wyeth)
Erano le tre di notte, quando alzò gli occhi dalla scrivania e dalla carta. Dalla chiusa concentrazione in cui era completamente sprofondato, ritornava a sé, alla realtà, felice, forte, tranquillo. All'improvviso, nel silenzio degli spazi lontani che si stendevano fuori della finestra, udì una nota triste e accorata. Passò nella stanza vicina, buia, per guardare fuori. Durante le ore che aveva trascorso scrivendo, i vetri si erano coperti di uno spesso strato di brina e non lasciavano distinguere nulla. Scostò il tappeto arrotolato messo davanti alla porta d’entrata per le correnti d’aria, si buttò sulle spalle la pelliccia, e uscì sul terrazzino d'ingresso.
Lo abbagliò il bianco fulgore che ammantava e faceva splendere la neve, senza un'ombra, sotto la luce della luna. Dapprima non riuscì a fissare lo sguardo e a vedere nulla. Ma, dopo un istante, affievolito dalla distanza, gli arrivò un ululio, prolungato, lamentosamente uterino, e notò allora sull'orlo della radura, al di là del burrone, quattro ombre in lungo, non più grandi di un trattino.
I lupi stavano in fila, coi musi rivolti verso la casa e protesi in alto; ululavano contro la luna o contro le finestre della casa dei Mikulicyn, che riflettevano quella luce argentea. Per alcuni istanti rimasero immobili, ma, nell'attimo in cui Jurij Andreevic capì che si trattava di lupi, come se il suo pensiero li avesse raggiunti, trottarono via dalla radura, le groppe abbassate come cani. Non riuscì a capire in quale direzione fossero fuggiti. 'Brutta novità,” pensò. 'Ci mancavano anche loro. Possibile che abbiano la tana qui vicino? Forse proprio nel burrone. E' terribile! E c'è la cavalla di Samdevjatov nella stalla. Forse hanno fiutato proprio la cavalla. "
Decise per il momento di non dir nulla a Lara, per non spaventarla; rientrò, chiuse per bene il portone e tutte le porte tra la parte riscaldata della casa e quella non abitata, tappò le fessure e i buchi e tornò verso la scrivania. La lampada ardeva luminosa e accogliente, come prima. Ma ora non aveva più voglia di scrivere. Non riusciva a rasserenarsi, non poteva più pensare a nulla, all'infuori dei lupi e delle altre complicazioni che li minacciavano. E poi era stanco. In quel momento Lara si svegliò. (...)

Jurij Andreevic sentiva che il suo sogno di stabilirsi a Varykino per un lungo periodo non si sarebbe avverato e che l'ora della sua separazione da Lara era prossima, che l'avrebbe immancabilmente perduta, e con lei avrebbe perduto la sua ragione di vita, forse la vita stessa. L’angoscia lo consumava. Ma ancor più lo struggeva l'attesa della sera e il desiderio di piangere quell'angoscia in una forma che suscitasse anche negli altri il pianto.
I lupi a cui aveva pensato per tutta a giornata non erano più i lupi sulla neve, al lume della luna: erano diventati il tema dei lupi, una figurazione della forza avversa che si era prefissa di perdere lui e Lara, o di scacciarli da Varykino. Sviluppandosi, l'idea di questa forza ostile aveva raggiunto verso sera un'intensità estrema, come se nella Sut'ma fossero apparse le tracce di un mostro antidiluviano e nel burrone si fosse rintanato un drago favoloso, di mostruosa grandezza, avido del suo sangue e bramoso di Lara.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pagine 353-355 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate


martedì 21 gennaio 2020

Gazze


(Bewick, 1826)


Due gazze arrivarono nel cortile e presero a svolazzare cercando dove posarsi. Il vento arruffava e gonfiava le loro piume. Si posarono sul coperchio del cassone delle immondizie, passarono sullo steccato, scesero a terra e cominciarono a camminare nel cortile. «Le gazze annunciano neve», pensò. Nello stesso momento dietro la tenda sentì Sima che diceva: «Le gazze portano notizie. Visita o lettera.» Dopo poco suonarono il campanello (...) Fuori nevicava. Al vento, la neve scendeva obliquamente, sempre più rapida e fitta, come per riguadagnare il tempo perduto. Jurij Andreevic guardava dinanzi a sè fuori dalla finestra, come se non la vedesse cadere ma continuasse a leggere la lettera di Tonja, e non asciutte stelline di neve balenassero e volassero via, ma piccoli spazi bianchi tra i piccoli caratteri neri, bianchi, bianchi, senza fine, senza fine.


Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.335 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate




mercoledì 15 gennaio 2020

Gelo

(Jacob Frank, Yellowstone)







Una chiara notte di gelo. Straordinaria luminosità e compiutezza di tutto quello che si vede. La terra, l'aria, la luna, le stelle sono inchiodate, saldate insieme dal gelo. Nel parco, di traverso sui viali, si stampano le ombre degli alberi come tornite e in rilievo. Pare che nere figure attraversino continuamente la strada in vari punti. Grosse stelle sono sospese fra i rami del bosco come azzurre lanterne di mica. Tutto il cielo è un prato estivo disseminato di piccole margherite.


Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.232 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate




giovedì 11 luglio 2019

Zivago, temporale ( II )











 
Gli ospiti si accinsero a uscire. Avevano tutti il viso segnato dalla stanchezza e, aprendo la bocca negli sbadigli, facevano pensare a dei cavalli. Mentre si salutavano, qualcuno alzò la tenda della finestra. La spalancarono. 
Apparve un'alba giallastra, un cielo umido pieno di nuvole sporche d'un verde terreo. "Mentre si chiacchierava dev'esserci stato un temporale," disse uno. "Per strada, mentre venivo, mi ha sorpreso la pioggia, ho fatto appena in tempo", confermò Shura Schlesinger.
Nel vicolo deserto e ancora buio si udiva il ticchettio delle gocce che cadevano dagli alberi e l'insistente cinguettare dei passeri bagnati. Rotolò un tuono come un aratro che tracciasse un solco attraverso il cielo, e tutto tacque di nuovo. Poi echeggiarono, sonori, tardivi, quattro tonfi, come grosse patate, scagliate via in autunno dalla zolla rimossa dalla vanga. Il tuono rinfrescò la stanza polverosa, impregnata di fumo. 


(immagini da "L'ultima onda" di Peter Weir)
A un tratto, come elementi elettrici, divennero percepibili i principi costitutivi dell'esistenza, l'acqua e l'aria, il desiderio di gioia, la terra e il cielo. Le voci degli invitati che si allontanavano, continuando a discutere, riempirono il vicolo. Si andarono attutendo e affievolendo, fino a spegnersi. "Come è tardi," disse Jurij Andreevic, "andiamo a dormire" (...)




(Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.149 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate)




martedì 9 luglio 2019

Zivago, temporale ( I )


Quella mattina faceva caldo, si preparava un temporale. Le finestre della classe erano aperte. Lontano, la città ronzava, sempre sulla medesima nota, come api nell'alveare.




Dal cortile giungevano grida di bambini che giocavano. L’odore d'erba della terra e dei virgulti novelli appesantiva la testa, come il giovedì grasso l'aroma di vodka e di frittelle. L'insegnante di storia parlava della spedizione di Napoleone in Egitto. Quando arrivò allo sbarco a Fréjus, il cielo si oscurò e, squarciandosi, ruppe in fulmini e tuoni; insieme all'odore fresco di terra, invasero l'aula nugoli di sabbia e di polvere. 




Due alunni zelanti si lanciarono servizievolmente nel corridoio a chiamare il bidello perché chiudesse le finestre, e, quando spalancarono la porta, una corrente d'aria sollevò e fece volar via dai banchi le carte assorbenti dei quaderni. Le finestre furono chiuse. Venne giù uno sporco acquazzone cittadino, mischiato di polvere. Lara strappò un foglio dal taccuino e scrisse alla sua vicina di banco, Nadja Kologrivov (...)


(immagini da "L'ultima onda" di Peter Weir)
(Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.63 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate)








venerdì 7 dicembre 2018

Tempesta di neve


Trascorsero la notte al monastero, in una cella che era stata riservata allo zio, come a persona lì ben nota da tempo. Era la vigilia dell'Intercessione della Vergine. L’indomani sarebbero dovuti partire per un lungo viaggio verso il sud, fino a un capoluogo di provincia del Volga, dove padre Nikolaj era impiegato presso una casa editrice, che pubblicava il giornale progressista della zona. Avevano già acquistato i biglietti per il treno e riunito nella cella il loro bagaglio. Nelle vicinanze, dalla stazione il vento portava i fischi lamentosi delle locomotive che facevano manovra lontano.
Verso sera vi fu un brusco sbalzo di temperatura. Due finestre a livello del suolo davano su uno squallido angolo d'orto, circondato da gialli arbusti d'acacia, sulle pozzanghere gelate della strada e su quel lembo di cimitero dove la mattina avevano seppellito Marija Nikolaevna. Tranne alcune aiuole, marezzate di cavoli illividiti dal freddo, l'orto era spoglio. Quando irrompeva il vento, i rami nudi delle acacie si dimenavano come ossessi, piegandosi fin sulla strada.
Un colpo alla finestra destò Jurij durante la notte. L'oscura cella era magicamente illuminata da una guizzante luce bianca. Jura corse in camicia alla finestra e appoggiò il viso al vetro gelido. Fuori non c'era più la strada, né il cimitero, né l'orto: solo la tormenta che infuriava, l'aria fumigante di neve. Quasi che la tormenta si fosse accorta del ragazzo e, consapevole del proprio terrificante potere, godesse dell’impressione che gl'incuteva. E fischiava e ululava, tutta affannata a richiamare la sua attenzione. Dal cielo, sdipanandosi giro su giro da matasse senza fine, un bianco ordito cadeva sulla terra avvolgendola in un sudario. Non era rimasta che la tormenta al mondo, sola e incontrastata. Il primo impulso di Jura, scendendo dal davanzale, fu di vestirsi e di correre in strada: occorreva fare qualcosa. Ora lo angosciava l'idea che la neve seppellisse i cavoli del monastero prima che non si potessero più raccogliere; ora il pensiero della madre, là, in quel campo, ricoperta dalla neve, senza più forze per resisterle, mentre sprofondava sotto terra, sempre più giù,ancora più lontano da lui. Ruppe nuovamente in lacrime. Lo zio si sveglio, gli parlò di Cristo e lo consolò, poi sbadigliando si accostò alla finestra e rimase a guardar fuori pensieroso. Cominciarono a vestirsi. Era quasi l'alba.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag10 edizione Feltrinelli 1998, traduzione di Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate



(dipinto di Konstantin Yuon)

martedì 13 febbraio 2018

Biacco




Quel giorno si sentiva strano. La notte non aveva dormito. Aveva quattordici anni, ed era stufo di essere un bambino. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte e all'alba era uscito di casa; sorgeva il sole, e nel parco la lunga e frastagliata ombra degli alberi, umida di rugiada, copriva la terra. L'ombra non era nera ma grigio scura, come feltro bagnato. Sembrava che il profumo inebriante del mattino emanasse proprio da quell'ombra umida, distesa sulla terra, con oblunghi intagli di luce simili a dita di giovinetta. Quand'ecco, un rivoletto d'argento vivo, dello stesso colore delle gocce di rugiada nell'erba, fluì a pochi passi da lui e scorreva, scorreva senza che la terra lo assorbisse. Improvvisamente, con un movimento subitaneo, guizzò di lato e scomparve. Era una serpe, un biacco. Nika trasalì.

(Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pagina 20 edizione Feltrinelli 1988, traduzione di Pietro Zveteremich)