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mercoledì 3 giugno 2020

Meleagrina

Meleagrina

Tu, sanguecaldo precipitoso e grosso,
Che cosa sai di queste mie membra molli
Fuori del loro sapore? Eppure
Percepiscono il fresco e il tiepido,
E in seno all'acqua impurezza e purezza;
Si tendono e distendono, obbedienti

immagine reperita in rete
A muti intimi ritmi,Godono il cibo e gemono la loro fame
Come le tue, straniero dalle movenze pronte.
E se, murata fra le mie valve pietrose,
Avessi come te memoria e senso,
E, cementata al mio scoglio, indovinassi il cielo?
Ti rassomiglio più che tu non creda,
Condannata a secernere secernere
Lacrime sperma madreperla e perla.
Come te, se una scheggia mi ferisce il mantello,
Giorno su giorno la rivesto in silenzio.



da Ad ora incerta di Primo Levi

lunedì 27 gennaio 2020

Notizie dal cielo


Emanuele Kant riconosceva due meraviglie nel creato: il cielo stellato sopra il suo capo, e la legge morale dentro di lui. Lasciamo da parte la legge morale: abita in tutti? E' vero, si può ammettere che sia congenita in noi, nasca con noi, e nel corso di ogni singola vita si evolva e maturi, o invece degeneri e si spenga? Ogni anno che passa accresce i nostri dubbi; davanti alla necrosi politica che affligge il nostro Paese, e non solo il nostro; davanti alla corsa insensata verso il riarmo nucleare, non si sfugge al sospetto che sulla legge morale prevalga un principio perverso, per cui acquista potere chi di questa legge, che sentiamo unica in ogni tempo e luogo, cemento di tutte le civiltà, non sa che farsene e non ne percepisce il pungolo, é senza e sta bene senza. Il cielo stellato invece rimane: sta sul capo di tutti, anche se noi cittadini lo possiamo vedere di rado, offuscato dai nostri fumi, stretto fra i tetti, offeso dalle antenne Tv. (...)
 Quando lo scorgiamo nelle notti serene, da un qualche osservatorio lontano dalle nostre luci disturbatrici, è ancora sempre quello: il suo fascino non è mutato. Le «vaghe stelle dell’Orsa» sono quelle che ridavano pace a Leopardi, la W di Cassiopea, la Croce del Cigno, Orione gigantesco, il triangolo di Boote affiancato dalla Corona e dalle Pleiadi care a Saffo, sono ancora sempre quelli, abbiamo imparato a conoscerli da bambini e ci hanno accompagnato per tutta la vita. E' il cielo "delle stelle fisse", immutabile, incorruttibile; l'antagonista del nostro mondo terrestre, il nobile-perfetto-eterno che abbraccia e avvolge l’ignobile-mutevole-effimero.

E invece non ci è più lecito guardare alle stelle così, in questo modo ingenuo e riduttivo. Il cielo dell’uomo d'oggi non è più quello. Abbiamo imparato ad esplorarlo con i radiotelescopi, ed a mandare in orbita strumenti capaci di cogliere le radiazioni che l'atmosfera intercetta: ora siamo obbligati a sapere che le stelle visibili dai nostri occhi, nudi od aiutati, sono una minoranza esigua; il cielo si sta rapidamente popolando di una folla di oggetti nuovi, insospettati.
Cent’anni fa, l’universo era puramente ottico; non era molto misterioso, e si riteneva che lo sarebbe diventato sempre meno. Appariva amico e domestico: ogni stella era un sole come il nostro, più grande o più piccola, più calda o meno, ma non eterogenea; alcune erano in realtà un po’ inquiete, qualche stella nuova era comparsa, ma tutto faceva pensare che il disegno dell'universo fosse dappertutto lo stesso. Gli spettroscopi mandavano messaggi rassicuranti: niente paura, nelle stelle c’era idrogeno, elio, magnesio, sodio, ferro, le materie prime dei chimici nostrani. Si riteneva probabile che ogni stella-sole avesse il suo corteggio di pianeti: alcuni astronomi (primo fra tutti Camille Flammarion, il divulgatore infaticabile ed entusiasta) asserivano anzi che doveva averlo, altrimenti non avrebbe avuto ragione d’esistere. Infatti ogni pianeta, ivi compresi quelli del nostro Sole, doveva essere albergo di vita, o esserlo stato, o essere destinato a diventarlo in futuro: osservatori dagli occhi troppo acuti vedevano sulla Luna fumi e luci fugaci, e su Marte reti di canali troppo regolari e geometrici per essere opera solo della natura. Un universo abitato solo da noi, così imperfetti, sarebbe stato un'immensa macchina inutile.

Ora il cielo che pende sopra il nostro capo non è più domestico. Si fa sempre più intricato, imprevisto, violento e strano; il suo mistero cresce invece di ridursi, ogni scoperta, ogni risposta alle vecchie domande fa nascere miriadi di domande nuove. Copernico e Galileo avevano sbalzato l'umanità dal centro del creato: non era stato che un trasloco, da cui pure molti si erano sentiti destituiti ed umiliati. Oggi ci accorgiamo di ben altro: che la fantasia dell’artefice dell’universo non ha i nostri confini, anzi, non ha confini, e sconfinato diventa anche il nostro stupore. Non solo non siamo il centro del cosmo, ma ne siamo estranei: siamo una singolarità. E' strano l’universo per noi, noi siamo strani per l’universo.
Generazioni di amanti e di poeti avevano guardato alle stelle con confidenza, come a visi famigliari: erano simboli amici, rassicuranti, dispensatori di destini immancabili nella poesia popolare ed in quella sublime; con la parola "stelle" Dante aveva terminato le tre cantiche del suo poema. Le stelle d’oggi, visibili ed invisibili, hanno mutato natura. Sono fornaci atomiche. Non ci trasmettono messaggi di pace né di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi ed inquietanti, decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni.
L'anagrafe dei mostri celesti si allunga a dismisura: a descriverli, il nostro linguaggio di tutti i giorni fallisce, è inetto.(...)

Non è ancora nato, e forse non nascerà mai, il poeta-scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro groviglio, di renderlo compatibile, confrontabile, assimilabile alla nostra cultura tradizionale ed all'esperienza dei nostri poveri cinque sensi fatti per guidarci entro gli orizzonti terrestri. Queste notizie dal cielo sono una sfida alla nostra ragione.
E' una sfida da accettare. La nostra nobiltà di fuscelli pensanti ce lo impone: forse il cielo non farà più parte del nostro patrimonio poetico, ma sarà, anzi è già, nutrimento vitale per il pensiero. E' possibile che il nostro cervello sia un unicum nell'universo: non lo sappiamo, né probabilmente lo sapremo mai, ma sappiamo già fin d’ora che è un oggetto più complesso, più difficile a descriversi, che una stella o un pianeta. Non neghiamogli alimento, non cediamo al panico dell’ignoto. Forse spetterà a loro, agli studiosi degli astri, dirci quanto non ci hanno detto, o ci hanno detto male, i profeti ed i filosofi: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo.
L’avvenire dell'umanità è incerto, anche nei paesi più prosperi, e la qualità della vita peggiora; eppure io credo che quanto si va scoprendo sull’infinitamente grande e sull’infinitamente piccolo sia sufficiente ad assolvere questa fine di secolo e di millennio. Quanto alcuni pochi stanno audacemente acquistando nella conoscenza del mondo fisico farà sì che questo periodo non sarà giudicato un puro ritorno alla barbarie.

Primo Levi, da "L'altrui mestiere" pagine 172-175  

illustrazioni: una mappa stellare del 1600; Preissiger 1851, un libro scolastico francese

domenica 23 dicembre 2018

Solo come un cane


Era stupido e triste passare le serate così, solo come un cane; e perché poi come un cane? i cani non sono mai soli; annusano i cantoni, e il compagno, o la compagna, se la trovano a fiuto, in un momento.

Primo Levi, da "Lilìt e altri racconti", pagina 117 edizione Einaudi 1981 (il racconto "Calore vorticoso", che non parla di cani ma di frasi reversibili, come "Sator Arepo tenet opera rotas")


(dipinto di Jacques Laurent Agasse, 1767-1849)

venerdì 26 ottobre 2018

Forbicina


Quasi tutti abbiamo paura delle forfecchie: intendo dire delle forbicine, di quegli insetti bruni dal corpo appiattito ed allungato il cui addome termina in una pinza dall’aspetto minaccioso. Stanno nascoste sotto la corteccia degli alberi, o si annidano a volte nei panni riscaldati dal sole, nelle pieghe degli ombrelli o delle sedie a sdraio. Non fanno male a nessuno: la pinza non é velenosa, anzi, non pinza affatto (è un organo che facilita l'accoppiamento); e non è vero, ma viene tenacemente insegnato da generazione a generazione, che «se uno non sta attento, gli si infilano nelle orecchie». Questa nozione è talmente radicata nella nostra memoria collettiva che è stata recepita nella denominazione binaria della bestiolina, che infatti si chiama ufficialmente Forficula auricularia; ma inglesi e tedeschi non hanno aspettato il battesimo scientifico, e da secoli la chiamano rispettivamente earwig e Ohrwurm, l’insetto o il verme dell’orecchio. Oltre alla pinza, la forfecchia ha un’altra proprietà che ci incute uno strano timore: come tutti gli animali notturni, se viene esposta alla luce passa bruscamente dall’immobilità alla fuga, ed il suo trasalire si ripercuote in un nostro trasalire.

Primo Levi, da "Bisogno di paura" nel volume "L'altrui mestiere"


(immagine presa da www.wikipedia.it)

lunedì 23 luglio 2018

Una casa in cui abitare


Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato: il mio modo di abitare non é stato quindi oggetto di una scelta. Credo che il mio sia un caso estremo di sedentarietà, paragonabile a quello di certi molluschi, ad esempio le patelle, che dopo un breve stadio larvale in cui nuotano liberamente, si fissano ad uno scoglio, secernono un guscio e non si muovono più per tutta la vita. Questo avviene più spesso a chi è nato in campagna; per i cittadini come me è senza dubbio un destino raro, che conduce a peculiari vantaggi e svantaggi. Forse debbo a questo destino statico l’amore mal soddisfatto che nutro per i viaggi, e la frequenza con cui il viaggio compare come topos in molti dei miei libri. Certo, dopo sessantasei anni di corso Re Umberto, mi riesce difficile immaginarmi che cosa comporti abitare non dico in un altro paese o in un'altra città, ma addirittura in un altro quartiere di Torino.
La mia casa si caratterizza per la sua assenza di caratterizzazione. Assomiglia a molte altre case quasi signorili del primo Novecento, costruite in mattoni poco prima dell’avvento irresistibile del cemento armato; è quasi priva di decorazioni, se si eccettuino alcune timide reminiscenze di Liberty nei fregi che sormontano le finestre e nelle porte in legno che danno sulle scale. E' disadorna e funzionale, inespressiva e solida: lo ha dimostrato durante l’ultimo conflitto, in cui ha sopportato tutti i bombardamenti cavandosela con qualche danno ai serramenti, e qualche screpolatura che porta tuttora con l'orgoglio con cui un veterano porta le cicatrici. Non ha ambizioni, è una macchina per abitare, possiede quasi tutto ciò che è essenziale per vivere, e quasi nulla di quanto è superfluo. (...)

Primo Levi, da "L'altrui mestiere", pagina 3 (il primo racconto, "La mia casa")

martedì 22 maggio 2018

Inventare un animale


(...) I Centauri sono creature affascinanti, portatrici di simboli multipli ed arcaici, ma della loro fisica impossibilita si era già accorto Lucrezio, ed aveva cercato di dimostrarla con un argomento curioso: a tre anni di età il cavallo è nel pieno delle sue forze mentre l’uomo è bambino, e «spesso cercherà in sogno il capezzolo» da cui è appena stato slattato; come potrebbero convivere due nature che non "fluorescente pariter", e che del resto non ardono degli stessi amori? In tempi più recenti, e in un bel romanzo fantascientifico, P. J. Farmer ha messo in rilievo le difficoltà respiratorie dei Centauri classici, e le ha risolte fornendo loro un organo supplementare "simile a un mantice, che inspirava aria attraverso un’apertura simile a una gola"; altri hanno insistito sul problema dell'alimentazione, facendo notare che una piccola bocca umana sarebbe stata insufficiente a permettere il passaggio del molto foraggio necessario per nutrire la parte equina.
Si direbbe insomma che la fantasia umana, anche quando non si trova davanti a problemi di verosimiglianza e di stabilità biologica, esiti ad intraprendere vie nuove e preferisca ricombinare elementi costruttivi già noti. Se si riesamina il bellissimo "Manuale di zoologia fantastica" di Borges, si stenta a trovarvi un solo animale veramente originale come disegno: non ce n'è uno che si avvicini neppure vagamente alle incredibili soluzioni innovative che si trovano ad esempio in certi parassiti, quali la zecca, la pulce, l'echinococco (...)

Primo Levi, da "L'altrui mestiere" pag.90, Inventare un animale



(Antoine Verard, 1494)


giovedì 25 gennaio 2018

Una misteriosa processione



...più tardi, ha smesso di parlare e mi ha arrestato, ponendo il braccio sinistro davanti al mio petto come una barriera: con la mano destra indicava un leggero fremere dell'erba, a pochi passi dal nostro sentiero. Un serpente? no, su un tratto di terreno battuto è emersa una piccola processione: un porcospino avanzava cauto, con brevi arresti e riprese, e dietro di lui, o di lei, venivano cinque cuccioli, come minuscoli vagoni a rimorchio di una locomotiva giocattolo. Il primo stringeva in bocca la coda della guida, ognuno degli altri, allo stesso modo, stringeva il codino dell'antecedente. La guida si è fermata netta davanti a un grosso scarabeo, lo ha rivoltato sul dorso con la zampina e lo ha preso tra i denti: i piccoli hanno rotto l'allineamento e le si sono affollati intorno; poi la guida è arretrata dietro un cespuglio, trascinandosi dietro tutti i personaggi.

(Primo Levi, da "La chiave a stella", il racconto "Batter la lastra" pag.83 edizione Einaudi 1993)




domenica 9 ottobre 2016

Conigli a Milano


Questo racconto in realtà contiene una storia d'amore molto bella e molto delicata, al livello del Joyce dei Dubliners per intenderci; ma io qui mi devo limitare alla fuga dei conigli, e quindi si perde tutta la parte portante. Pazienza, vuol dire che chi legge provvederà a completare la lettura con i propri mezzi: in fin dei conti, è questo lo scopo che ci eravamo prefissi nel momento di aprire il blog. Siamo in tempo di guerra, il ventiduenne chimico neolaureato Primo Levi ha trovato lavoro a Milano. Durerà poco: il futuro di Primo Levi, come sappiamo, sarà molto drammatico.

I conigli non sono animali simpatici. Sono fra i mammiferi più lontani dall’uomo, forse perché le loro qualità sono quelle dell’umanità avvilita e reietta: sono timidi, silenziosi e fuggitivi, e non conoscono che il cibo ed il sesso.
Se si eccettua qualche gatto di campagna nell’infanzia più remota, io non avevo mai toccato un animale, e davanti ai conigli provavo repulsione; cosi anche Giulia. Per fortuna, la Varisco aveva invece grande confidenza sia con le bestiole sia con l’Ambrogio che le amministrava. Ci fece vedere che, in un cassetto, esisteva un piccolo assortimento di strumenti adatti; c’era una cassetta stretta ed alta, senza coperchio: ci spiegò che ai conigli piace intanarsi, e se uno li prende per gli orecchi ("che sono il loro manico naturale") e li infila in una cassetta, si sentono più sicuri e non si muovono più. C’era una sonda di gomma e un piccolo fuso di legno con un foro trasversale: bisogna forzarlo fra i denti dell’animale, e poi, attraverso il foro, infilare la sonda in gola senza tanti complimenti, spingendola giù finché si sente che tocca il fondo dello stomaco; se non si mette il legno, il coniglio taglia la sonda coi denti, la inghiotte e muore. Attraverso la sonda e facile spedire gli estratti nello stomaco con una comune siringa. Poi bisogna misurare la glicemia. Quello che per i topi è la coda, per i conigli sono le orecchie, anche in questo caso: hanno vene grosse e rilevate, che si congestionano subito se l’orecchio viene strofinato. Da queste vene, perforate con un ago, si preleva una goccia di sangue, e senza domandarsi il perché delle varie manipolazioni si procede poi secondo Crecelius-Seifert.
I conigli, o sono stoici, o sono poco sensibili al dolore: nessuno di questi abusi sembrava farli soffrire, appena lasciati liberi e rimessi in gabbia si rimettevano tranquilli a brucare il fieno, e la volta successiva non mostravano alcuna paura. Dopo un mese avrei potuto fare glicemie ad occhi chiusi, ma non sembrava che il nostro fosforo facesse alcun effetto; solo uno dei conigli reagiva all’estratto di chelidonia con un abbassamento della glicemia, ma dopo poche settimane gli venne un grosso tumore al collo. Il Commendatore mi disse di operarlo, io lo operai con acre senso di colpa e veemente ribrezzo, e lui morì.
Quei conigli, per ordine del Commendatore, vivevano ciascuno nella sua gabbia, maschi e femmine, in stretto celibato. Ma venne un bombardamento notturno che, senza fare molti altri danni, sfondò tutte le gabbie, ed al mattino trovammo i conigli intenti ad una meticolosa e generale campagna copulatoria: le bombe non li avevano spaventati per nulla. Appena liberati, avevano subito scavato nelle aiuole i cunicoli da cui traggono il nome, ed al minimo allarme abbandonavano a mezzo le loro nozze e ci si rifugiavano. L’Ambrogio ebbe pena a recuperarli ed a richiuderli in gabbie nuove; il lavoro delle glicemie dovette essere interrotto, perché solo le gabbie erano contrassegnate e non gli animali, e dopo la dispersione non fu più possibile identificarli.

Venne Giulia tra un coniglio e l’altro, e mi disse a bruciapelo che aveva bisogno di me. Ero venuto in fabbrica in bicicletta, non è vero? Ebbene, lei quella stessa sera doveva andare subito fino a Porta Genova, c’erano da cambiare tre tram, lei aveva fretta, era una faccenda importante: che per favore la portassi in canna, d’accordo? Io, che secondo il maniaco orario sfalsato del Commendatore uscivo dodici minuti prima di lei, l’attesi girato l’angolo, la caricai sulla canna della bicicletta e partimmo. Circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario, e portare un passeggero in canna, in tempi di bombe e di sfollamenti, era poco meno che normale: qualche volta, specie se di notte, accadeva che estranei domandassero questo servizio, e che per un trasporto da un capo all’altro della città ti ricompensassero con quattro o cinque lire. Ma Giulia, già di regola piuttosto irrequieta, quella sera comprometteva la stabilità dell'equipaggio: stringeva convulsamente il manubrio contrastando la guida, cambiava di scatto posizione, illustrava il suo discorso con gesti violenti delle mani e del capo che spostavano in modo imprevedibile il nostro comune baricentro. Il suo discorso era in principio un po’ generico, ma Giulia non era il tipo che si tiene i segreti in corpo ad intossicarlo; a metà di via Imbonati usciva già dal vago, e a Porta Volta era in termini espliciti: era furiosa perché i genitori di lui avevano detto di no, e volava al contrattacco. Perché lo avevano detto?
- Per loro non sono abbastanza bella, capisci? - ringhiò, scuotendo il manubrio con ira.
- Che stupidi. A me sembri abbastanza bella, - dissi io con serietà.
- Fatti furbo. Non ti rendi conto.  (...)
(Primo Levi, il racconto intitolato "Fosforo" da "Il sistema periodico)