Han Kang, premio Nobel per la Letteratura 2024, è tornata con “Il libro bianco”, un testo del 2016 che porta avanti la riflessione dell’autrice sul guarire e sui meccanismi del dolore, già presente in testi come “Atti umani”, “La vegetariana” e “Non dico addio”. In questo caso si tratta di una sofferenza ancestrale, nata insieme a lei: la morte di una sorella maggiore, avvenuta poche ore dopo la nascita. E così la scrittrice trascina in una riflessione estremamente personale, che suona come una preghiera…

Una donna è fuori al balcone a stendere, ma ecco che, all’improvviso, alcuni panni le sfuggono di mano. Un fazzoletto cade, lento “sembrava un uccello con le ali ripiegate a metà. O uno spirito esitante in cerca di un luogo dove posarsi”.

Questa è una delle immagini suggestive raccolte in Il libro bianco, l’ultima pubblicazione italiana del Premio Nobel Han Kang, tradotta da Lia Iovenitti; immagini che entrano nella mente di lettrici e lettori e fanno loro compagnia per giorni.

Chi ha già letto altre opere dell’autrice coreana, pubblicata in Italia da Adelphi, conosce bene questa sensazione. La prosa di Han Kang è asciutta, secca, non una parola in più, non un aggettivo. Eppure quello che racconta ti rimane incollato addosso, ti fa compagnia per giorni.

L’opera è stata presentata al teatro Dal Verme di Milano, dove la coreana ha avuto modo di leggere alcuni passi di Il libro bianco, affiancata dall’attrice Daria Deflorian, che ha diretto la versione teatrale di La vegetariana. Durante la presentazione, Han Kang ha raccontato del libro con precisione, non un velo di timidezza, non un’omissione. Sembrava di ritrovare, nelle sue parole, lo stesso ritmo del testo.

Il libro bianco esce in patria nel 2016. Dal punto di vista strutturale, è difficile da definire: diviso tra brevi testi in prosa e frammenti poetici, la scrittrice racconta di aver risposto, quando il suo editore le ha chiesto delucidazioni, “è semplicemente il libro bianco”.

L’idea alla base del testo, come raccontato nella nota dell’autrice, è nata durante un lungo soggiorno a Varsavia, dove era stata invitata dalla sua traduttrice polacca. Durante le passeggiate per la città, nella sua mente metteva a punto l’idea per un nuovo libro.

In coreano, continua l’autrice, esistono due modi per parlare del bianco: “Hayan e huin. A differenza di hayan, che indica semplicemente il bianco puro e intatto dello zucchero filato, huin evoca un desolato intreccio di vita e morte. Quello che volevo scrivere io era un libro huin”.

Ed è proprio una di quelle passeggiate per la città polacca che si è resa conto in che modo quel huin doveva rientrare nel libro: avrebbe parlato di sua sorella maggiore, morta poche ore dopo dalla nascita.

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Nei romanzi del Premio Nobel 2024 sembra esserci sempre un filo conduttore, una ricerca di guarigione da un dolore. In alcuni casi, si tratta di un dolore collettivo, come in Atti umani o Non dico addio, in altri, come in L’ora di greco o La vegetariana è un dolore più intimo, personale, in alcuni casi sopito, ma pronto a venire fuori per essere esplorato.

In Il libro bianco, la guarigione è da un dolore atavico, un dolore che è nato con lei e che porta con sé da sempre: la perdita di una sorella che non ha mai conosciuto, ma a cui, in un certo senso, deve la vita.

Il testo si sviluppa proprio da questo pensiero, distribuendosi su tre parti. Nella prima, “Io”, l’autrice ci parla di sé, dell’esperienza a Varsavia, di questa città completamente bianca, presa dalla nebbia, in cui il confine tra i vivi e i morti sembra assottigliarsi. Il pensiero va alla sorella mai conosciuta in maniera quasi naturale, è la città che le parla di lei. Una città completamente distrutta, ricostruita meticolosamente sulla base di foto e dipinti. Ma ogni tanto, un pilastro, una colonna, un pezzo di muro, superstiti dai bombardamenti, fa capolinea tra il nuovo, le linee di giuntura con il vecchio lasciate in bella vista.

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Questa immagine le porta alla mente la sorella “lei che ha conosciuto lo stesso destino di questa città. Che è morta, o è stata annientata, ma si è ricostruita da sé, con tenacia, sulle rovine carbonizzante”.

Ed è dunque sulla base di questo pensiero che nella seconda parte del testo, “Lei”, viene ceduto il posto alla sorella. Come i punti di giuntura negli edifici nuovi ma dall’apparenza antichi di Varsavia, anche il corpo dell’autrice raccoglie in sé qualcosa di antico, il corpo della sorella. E quindi le cede il passo, le presta il suo corpo per “metterla in vita, prestarle le mie sensazioni”.

Nell’ultima parte, “Tutto il bianco”, il concetto di huin si fa manifesto. E l’autrice riesce finalmente a dire addio alla sorella, a lasciarla andare in quel bianco, al confine tra vita e morte.

Il libro bianco suona come una preghiera, una preghiera lieve, fatta di poche parole. È Han Kang allo stato puro, ma anche qualcosa di completamente diverso.

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Fotografia header: Han Kang nella foto di Yeseul Jeon

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