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martedì 8 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux (2024)

Venerdì sono andata al cinema a vedere Joker: Folie à Deux, diretto e co-sceneggiato dal regista Todd Phillips.


Trama: Arthur Fleck è rinchiuso in carcere, ma l'influenza di Joker è ben lungi dall'essersi estinta nelle strade di Gotham City.  Le cose si complicano ulteriormente quando Arthur si innamora, ricambiato, di Lee, una paziente del Manicomio Arkham...


E' ormai qualche giorno che parlo di Joker: Folie à Deux (da qui in poi Joker 2) con Mirco e altri amici che lo hanno visto. Più che una recensione, quindi, scriverò una raccolta di riflessioni nate a seguito di queste conversazioni. Tralasciando per un istante la bravura dei due attori principali, iniziamo col dire che Joker 2 non è un film brutto nel senso stretto del termine. Non può esserlo in virtù dello sforzo produttivo infuso e dell'enorme budget a disposizione di Todd Phillips, il quale è riuscito a confezionare un film gradevole alla vista e all'orecchio, senza sbavature a livello di regia, con alcune sequenze musical assai notevoli; l'idea di ampliare il concetto di un Arthur Fleck "malato" di cinema e televisione, già introdotto in Joker, dà vita a fantasie a tempo di musica dove immaginazione e realtà si fondono in omaggi ai film musicali della vecchia Hollywood, tra momenti più glamour e altri in cui il mondo reale muta impercettibilmente (deliziosa la scena in cui gli ombrelli cambiano colore senza uno stacco di montaggio percettibile), filtrato dalla malattia mentale del protagonista. In generale, tutto il film segue cliché che inquadrano i vari eventi in generi cinematografici ben definiti, dal dramma carcerario alla commedia d'amore, fino ad arrivare al courtroom drama, al punto che ogni snodo di sceneggiatura, salvo un paio di colpi di scena nel prefinale e sul finale, sono ampiamente prevedibili. Credo e spero fosse una cosa voluta, così come voluto era l'omaggio a Scorsese nel primo Joker, purtroppo il risultato stavolta è stato ben diverso, e Todd Phillips è caduto vittima di quella sofisticata semplicità che ha parlato alla pancia della maggior parte degli spettatori e dei critici nel 2019. Buona parte dell'empatia provata verso un personaggio oggettivamente sgradevole, derivava dalla scelta (condivisibile ma paracula) di affiancargli un parterre di comprimari ancora più sgradevoli, pronti a rendergli la vita un inferno anche e soprattutto per motivi futili, come se Arthur fosse la perfetta valvola di sfogo di stronzi da primato, riccastri con la puzza sotto il naso e madri inadatte al ruolo. Questo "trucco" era talmente tanto efficace che lo spettatore arrivava non solo a plaudere la violenta rivalsa di Arthur verso i suoi aguzzini e la società corrotta, con conseguente rivoluzione proletaria nelle strade di Gotham, ma persino a disprezzare chi, come la vicina di casa Sophie, risultava immune al suo fascino.


In Joker 2, come ho scritto, Phillips inciampa nelle sue stesse premesse facendo il passo più lungo della gamba. Attorno ad Arthur, infatti, si muovono personaggi che lo trattano comunque con rispetto ed attenzione, come l'avvocatessa e il giudice, davanti ai quali ogni rimostranza del protagonista risulta palesemente il frutto della mente di un pazzo; peggio ancora, durante il processo ad Arthur Fleck viene messo in evidenza proprio il suo narcisismo allucinato da parte di due personaggi già presenti nel primo film, due testimonianze che mettono i brividi per il tragico realismo che veicolano. Non è che la guardia carceraria Jackie e i suoi colleghi siano "simpatici", così come non lo sono il giornalista Paddy Meyers o il procuratore Harvey Dent, ma torno a dire che sono costruiti come dei cliché, probabilmente esasperati dalla percezione alterata di un punto di vista inaffidabile. Senza mostri a giustificarne le azioni, Arthur Fleck perde di credibilità, l'empatia viene meno, il disgusto che veniva messo a tacere durante il primo film qui riemerge veemente, e lo stesso Joker risulta una caricatura priva di fascino o carisma. La Folie à Deux che tanto ha fatto palpitare i cuori di chi pensava all'amore folle tra Joker e Harley Queen, con un ragazzo e una ragazza che si incontrano e incendiano il mondo, si riassume facilmente con un "tira più un pelo di Lee che un carro di buoi", e risulta molto più cringe quando tornano alla mente le immagini porno che inframmezzavano il diario di Arthur nel primo film. Non si può nemmeno dire che Lee sia la Bedelia (chi legge Ortolani sa) della situazione, poiché gli intenti della bionda sono chiari e palesi fin dall'inizio, ed è proprio la sua presenza a sgretolare il mito di Arthur Fleck e di Joker, rendendo il film ancora più inutile perché, nonostante l'aggiunta di questo agente del Caos al femminile, Joker 2 non racconta nulla di nuovo. 2 ore e 18 di film servono a ripercorrere più volte le vicende della prima pellicola secondo diversi punti di vista, il personaggio principale non solo non evolve ma ricompie errori già commessi, Todd Phillips ripropone persino le stesse sequenze e gli stessi snodi di Joker con un paio di piccolissime varianti.


A farne le spese per primo, purtroppo, è Joaquin Phoenix. Premesso che quest'ultimo potrebbe interpretare un sasso e sarebbe comunque affascinante e convincente, il problema subentra quando il regista non è all'altezza e questo, purtroppo, salta all'occhio ancor più dopo aver riguardato il primo Joker. Lì il modello era il primo De Niro, un po' Travis Bickle in Taxi Driver un po', soprattutto durante la transizione da Fleck a Joker, Max Cady de Il promontorio della paura (per intenderci: Cady era una creatura repellente e razionalmente nessuna donna lo avrebbe toccato con un dito. Infatti subentrava il senso di colpa nel pensarlo affascinante e in Joker accadeva la stessa cosa). Qui Phoenix è perfetto negli atteggiamenti dimessi di Arthur, che mi hanno ricordato a tratti l'intensità di Daniel Day Lewis, ma quando veste i panni di Joker la mente corre inevitabilmente all'ultimo De Niro, quello con la faccia da "mecojoni" che ormai non crede più nemmeno in quello che recita, che va avanti solo per il nome e il suo passato glorioso. A maggior ragione, in un paio di duetti con Lady Gaga ho pensato a Sandra e Raimondo, forse perché Sbirulino era un clown a sua volta, e per quanto mi riguarda la scena di sesso in carcere può tranquillamente vincere l'Oscar per la sequenza più imbarazzante del 2024, a pari merito con quelle di Napoleon (c'è sempre Phoenix di mezzo. Coincidenze? Noi del Bollalmanacco, e Giuseppina, pensiamo di no). Lady Gaga, bella stella, è una cantante divina. Ogni sua performance musicale in Joker 2 mette i brividi, con quella voce splendida che riesce a modulare come vuole e il carisma naturale che le fa divorare ogni scena. Ma toglile il canto, santa creatura, e mettila accanto a uno come Phoenix, e mi fa la figura di un comodino impagliato, occhio spento e viso di cemento compresi, col risultato che tra Arthur e Lee non c'è la minima alchimia, quindi neppure coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Per tutti questi motivi, posso serenamente dire che Joker: Folie à Deux è un film inutile. Non bello, non brutto, ma sicuramente uno spreco di tempo, denaro e talenti. Ma d'altronde non mi aveva convinta neppure Joker, un'opera migliore sotto tutti i punti di vista, quindi non sono rimasta né sorpresa né delusa. 


Del regista e co-sceneggiatore Todd Phillips ho già parlato QUIJoaquin Phoenix (Arthur Fleck), Lady Gaga (Lee Quinzel), Brendan Gleeson (Jackie Sullivan), Catherine Keener (Maryanne Stewart), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Steve Coogan (Paddy Meyers) e Ken Leung (Dr. Victor Liu) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Joker: Folie à Deux  vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Joker. ENJOY!

martedì 7 febbraio 2023

Bolle dall'Abisso: Gli spiriti dell'isola (2022)

Oggi tocca a Vidur di Pellicole dall'Abisso parlare di uno dei film più belli dell'anno, ovvero Gli spiriti dell'isola (The Banshees of Inisherin), diretto e sceneggiato da Martin McDonagh, candidato a ben 9 Oscar: Miglior Attrice Non Protagonista Kerry Condon, Miglior Attore Protagonista Colin Farrell, Miglior Colonna Sonora Originale,  Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Non Protagonista Brendan Gleeson e Barry Keoghan, Miglior Sceneggiatura Originale e Miglior Montaggio. ENJOY!



Assoluto outsider, nonché quasi un unicum nella cinematografia mainstream moderna, la nuova opera di Martin McDonagh è un film destinato a mietere premi (candidato a 9 Oscar!), strappare consensi dalla critica e a, quasi fisiologicamente, dividere i gusti del pubblico.



McDonagh aveva già fatto il botto con l’eccellente Tre manifesti a Ebbing, Missouri, dopo un paio di cult passati sottotraccia come In Bruges e 7 Psicopatici, e si conferma essere uno degli autori più coraggiosi e fuori dagli schemi di questi disgraziati decenni.

Gli Spiriti dell’Isola narra una storia apparentemente semplice, se vogliamo banale, di un’amicizia che si interrompe all’improvviso e senza una spiegazione. Il vecchio e introspettivo Colm, un violinista, decide infatti, da un giorno all’altro, di non parlare più al suo migliore amico, Pádraic, un allevatore tanto puro di cuore quanto povero di ingegno. Le conseguenze del gesto di Colm saranno terribili e imprevedibili, accentuate dal fatto che il tutto si svolge in una piccola isola (di fantasia) al largo della costa irlandese, ai tempi della guerra civile.



Dramma con tante punte ironiche, basato quasi esclusivamente sui dialoghi, Gli Spiriti dell’Isola si presenta come un film concettuale, in cui le dinamiche che coinvolgono lo stolido ma gentile Pádraic e il profondo ma spocchioso Colm, fanno da specchio a molteplici interpretazioni. Si può passare da una metafora dei conflitti tra gli uomini che nascono per motivi futili per poi trasformarsi in guerre fratricide, ad una sorta di coming of age del protagonista  - costretto a crescere e a mettersi in discussione per la prima volta nella vita - o ad una contrapposizione di approccio all’esistenza stessa, fino ad arrivare ad una riflessione più terrena sul tema dell'amicizia. Quale che sia il significato che aveva in mente il regista, lo scopo di far nascere nello spettatore più di una riflessione è sicuramente riuscito, così com’è riuscito a rendere interessante una trama teoricamente esile, ma in realtà molto potente.

Certo, non si tratta di un film per tutti: alcuni lo troveranno incredibilmente noioso e senza senso e, d’altronde io stesso, al termine della visione ho provato una certa sensazione di frustrazione per la mancanza del cosiddetto “payoff”, forse retaggio di un cinema che vuole spesso e volentieri un finale netto e definito. 



Dove Gli Spiriti dell’Isola vince a mani basse è in tutto il resto: l’interpretazione dei due protagonisti, Colin Farrell e Brendan Gleeson (padre di Domnhall) è veramente di altissimo livello e se il buon Colin si aggiudicasse davvero l’Oscar non ci sarebbe nulla da dire. Fantastici anche i comprimari, in particolare la sorella di Pádraic, Kerry Condon, e “lo scemo del villaggio”, Dominic, quel Barry Keoghan che aveva già lavorato con Colin Farrell ne Il Sacrificio del Cervo Sacro di Lanthimos.

A livello visivo, il film è un capolavoro senza se senza ma: la maestosa bellezza dei classici paesaggi irlandesi viene immortalata da una fotografia gelida e spietata che fa trasparire tutta la disperazione e la solitudine di una comunità rassegnata ad una vita insignificante, in cui i pettegolezzi risultano l'unica forma di svago. È altresì evidente la grande attenzione ai dettagli, come i vestiti degli abitanti dell'isola (a quanto pare i maglioni di tutti i protagonisti sono stati tessuti a mano dallo stesso sarto) e ad un certo gusto per le inquadrature ad effetto, sempre piazzate per esaltare il momento e non per puro esibizionismo.

Un film d'autore ricercato e intelligente, splendidamente realizzato, magistralmente interpretato, ma anche di difficile lettura e assimilazione. Se vi piace il genere, buttatevi a capofitto, in caso contrario statene alla larga.


Del regista e sceneggiatore Martin McDonagh ho già parlato QUI. Colin Farrell (Pádraic Súilleabháin), Brendan Gleeson (Colm Doherty), Kerry Condon (Siobhán Súilleabháin) e Barry Keoghan (Dominic Kearney) li trovate invece ai rispettivi link.

Se Gli spiriti dell'isola vi fosse piaciuto recuperate In Bruges. ENJOY!

martedì 1 marzo 2022

Macbeth (2021)

Gli Oscar si avvicinano a grandi passi e, per l'occasione, ho recuperato Macbeth (The Tragedy of Macbeth), diretto e sceneggiato dal regista Joel Coen a partire dalla tragedia omonima di William Shakespeare. Il film è candidato a tre premi Oscar: Denzel Washington miglior attore protagonista, miglior scenografia e miglior fotografia. 


Trama: Macbeth, nobile scozzese, viene avvicinato da tre streghe, che gli predicono un futuro come re di Scozia. Per raggiungere tale obiettivo, l'uomo non esita a macchiarsi del sangue di chi gli ostacola la strada...


Macbeth
è probabilmente la mia opera preferita di Shakespeare e credo di averla vista un po' in tutte le salse, quindi ero molto curiosa di capire come un Joel Coen per la prima volta in solitaria si sarebbe approcciato all'argomento. A livello di trama, per quanto sia stata un po' rimaneggiata, mi sarei aspettata un po' più di coraggio nell'adattamento e un po' più di nera ironia, anche perché i personaggi e il contesto si prestano parecchio, invece questo Macbeth non aggiunge praticamente nulla all'opera originale di Shakespeare e, se posso permettermi, i personaggi risultano quasi monodimensionali; chi dovesse avvicinarsi per la prima volta all'opera, me lo immagino come minimo perplesso davanti alla fregola di potere di Lady Macbeth e davanti all'arrendevolezza omicida di un uomo fedele al suo Re fino a pochissimi istanti prima, e anche la discesa nella follia di entrambi i personaggi mi è parsa trattata con freddezza, distacco e, ancor peggio, in modo un po' sbrigativo. A teatro, una cosa simile è comprensibile, d'altronde Macbeth è una tragedia molto breve, ma un'opera con un po' più di respiro cinematografico ha tutto il tempo (visto che ultimamente i film durano almeno due ore e mezza) di sviscerare maggiormente la relazione tra Macbeth e la moglie, la trasformazione del primo in sanguinoso e duro tiranno e della seconda in pulcino spaventato. Giova poco e confonde, a mio avviso, la promozione di un personaggio minore come Ross ad eminenza grigia e veicolo di tradimenti a non finire, impegnato a fare il doppio e triplo gioco per portare a casa non ho capito bene quale risultato, visto che la seconda profezia delle streghe riguarda sempre la progenie di Banquo, quindi a Ross che importa? Mah.


Trama a parte, il Macbeth di Joel Coen è un capolavoro visivo. Da amante dell'horror, sono rimasta semplicemente estasiata dalla resa delle Sorelle Fatali (interpretate da una sola persona, l'inquietantissima Kathryn Hunter), soprattutto nella splendida sequenza introduttiva in cui la figura di una singola strega si specchia in un'enorme pozza d'acqua rivelando il trio, e dall'ultima profezia offerta a Macbeth, dove misteriose illusioni acquatiche tornano ad essere protagoniste. La nitidissima fotografia in bianco e nero rende ancora più belle le scenografie meticolosamente ricostruite in studio, sottolineando ulteriormente la simmetria di alcune inquadrature e la natura sghemba, quasi espressionista, di altre, mentre il formato 4:3 è la perfetta cornice di una regia dal sapore antico e claustrofobico. Per quanto riguarda gli attori, in tutta sincerità non ne sono rimasta granché entusiasta. L'alchimia tra Denzel Washington e la McDormand è praticamente inesistente e, nonostante la loro interpretazione di un testo in inglese "antico" sia molto espressiva, al punto che chiunque potrebbe comprendere il senso delle frasi pur senza conoscere ogni singola parola, la piccola Queen Elizabeth che è in me ha rischiato di morire ogni volta che Denzellone apriva bocca per pronunciare la "parola di Shakespeare" con pesantissimo accento aMMeregano. Insomma, sicuramente bene, sia per gli amanti di Shakespeare che del cinema "artistico", ma non benissimo, e onestamente da uno dei Coen mi sarei aspettata molto di più.


Del regista e co-sceneggiatore Joel Coen ho già parlato QUI. Denzel Washington (Macbeth), Frances McDormand (Lady Macbeth), Brendan Gleeson (Duncan), Harry Melling (Malcom), Stephen Root (Porter), Sean Patrick Thomas (Monteith) e Ralph Ineson (Capitano) li trovate invece ai rispettivi link. 

Corey Hawkins interpreta Macduff. Americano, ha partecipato a film come Iron Man 3, BlacKkKlansman, Georgetown e a serie quali The Walking Dead. Anche produttore, ha 34 anni e un film in uscita.


Se lo stile di Macbeth vi è piaciuto, recuperate La passione di Giovanna d'Arco e il Macbeth di Orson Welles. ENJOY! 

venerdì 14 dicembre 2018

La ballata di Buster Scruggs (2018)

Nel catalogo di originali Netflix spesso ciofecosi ecco spuntare la magia dei Coen e del loro western ad episodi, La ballata di Buster Scruggs (The Ballad of Buster Scruggs), diretto e sceneggiato proprio da Joel ed Ethan Coen.


Il film comincia con l'episodio titolare, The Ballad of Buster Scruggs, appunto. Tra tutti, l'ho trovato il segmento più divertente, un mix tra western, influenze campyssime di musica country, alcuni dei migliori episodi di Lucky Luke e ovviamente Fratello, dove sei? , film dei Coen che dovrei decidermi a riguardare e recensire. The Ballad of Buster Scruggs è un florilegio di musica e personaggi surreali che più caricati non si può, a partire dal protagonista, interpretato da uno spettacolare Tim Blake Nelson. Andando avanti ci sono episodi più elaborati e profondi ma come antipasto questo è perfetto perché mette subito nel mood giusto, introducendo il fil rouge delle storie narrate dai Coen, ovvero la casualità di un destino di morte che non guarda in faccia a nessuno, che si tratti di buoni, cattivi, intelligenti o stupidi.


Near Algodones è un episodio altrettanto esilarante e pregno di umorismo nero. In dieci minuti i Coen sono riusciti a fare quello che non è riuscito a MacFarlane nelle due ore del suo logorroico Un milione di modi per morire nel West, presentandoci una terra pericolosissima, zeppa di contraddizioni, dove nel giro di un momento la vittima diventa carnefice e il bandito diventa vittima e dove non bisogna sottovalutare nessuno, nemmeno i vecchietti ciarlieri. Il finale è decisamente poetico e malinconico e, per una volta, ho adorato la faccetta da ca**o di James Franco dall'inizio alla fine.


A proposito di triste e malinconico, ma anche grottesco, Meal Ticket è indubbiamente uno degli episodi che rischiano di rimanere maggiormente impressi nella mente dello spettatore e di spezzargli il cuore per la casualità con la quale la disperazione arriva a privare le persone di ogni residuo di umanità. In una terra dove la sopravvivenza e la povertà vanno a braccetto, dove il pericolo è sempre dietro l'angolo, essere indifesi è una condanna ed essere acculturati non serve a nulla; soprattutto, la disumanizzazione del protagonista tocca il cuore e fa male. Potrei dire anche che fa pensare, riflettere su un mondo odierno non tanto diverso dal West, dove lo sfoggio di cultura fine a se stesso si risolve in un tweet o in un post su Facebook di rapido consumo e altrettanto rapido disinteresse, ripetuto fino a privarsi del suo significato originale, ma servirebbe solo a  deprimersi ulteriormente.


Basato su un racconto di Jack London, All Gold Canyon è lo one man show di un Tom Waits strepitoso, un inno alla testardaggine e alla natura predatoria dell'uomo. In esso, seguiamo un cercatore d'oro che all'inizio viene connotato nel modo più negativo possibile, soprattutto se confrontato con la natura incontaminata che la sua sete d'oro arriva a disturbare: acque limpide sporcate di terra, animali costretti a fuggire, splendidi prati ridotti a un colabrodo, risorse rubate, ecco ciò che porta la febbre, la smania del Cercatore. Eppure, nella sua ricerca febbrile ci sono metodo e rispetto, un qualche codice d'onore che ad un certo punto, quando l'uomo è a un passo dal suo obiettivo, ce lo rendono molto più simpatico, ribaltando in un istante la percezione del protagonista. Un episodio girato benissimo, recitato alla perfezione, costruito come un cerchio perfetto ed incredibilmente profondo nella sua brutale semplicità.


The Girl Who Got Rattled (ispirato a un racconto di Stewart Edward White) è invece uno spaccato di quotidianità colonica con tutto quel che ne consegue. Probabilmente è il segmento più "complesso", dal momento che è reiterato nel tempo, si basa su eventi sottesi e prevede un'evoluzione costante dei personaggi principali, al punto che lo spettatore comincerebbe ad affezionarsi agli occhioni sgranati di Zoe Kazan (sempre bellissima) e al timido cowboy che arriva a farle la corte, sperando di poterli seguire nella loro futura vita da marito e moglie. Invece i Coen non sono minimamente interessati all'aspetto più soapoperistico dello slice of life western portato sullo schermo, anzi, ci tengono a ribadire come la quotidianità del west andava comunque a braccetto con terribili incognite e con la morte sempre a un passo; ignorare il pericolo trincerandosi dietro ingenuità ed ignoranza significa mettere con le spalle al muro se stessi e gli altri, diventare un peso insostenibile che rischia di scatenare tragedie ancora più grandi. E' la tipica natura clueless di buona parte dei personaggi Coeniani a venire celebrata (criticata?) qui, l'atteggiamento di chi non ha ben inquadrato la realtà in cui vive e si limita a stare ai margini combinando solo casini. Il che ci porta dritti all'ultimo segmento.


The Mortal Remains, le spoglie mortali. Il semplice viaggio di cinque persone all'interno di una carrozza? O forse il loro ultimo viaggio, quello definitivo? L'ambiguità è voluta ma come chiosa finale propenderei più per l'ultima opzione, anche per quella fotografia cupissima, virata sul grigio, e quelle scenografie inquietantemente posticce sul finale. Sta di fatto che l'episodio, benché in esso, di fatto, succeda poco o nulla, è uno dei miei preferiti perché è recitato benissimo, ha dei dialoghi che spaziano dall'incredibilmente witty al malinconico e permette a Brendan Gleeson di sfogare le sue doti canore con una tristissima ballata irlandese.


Riassumendo, La ballata di Buster Scruggs è un'antologia western che non perde un colpo che sia uno. Introdotta ed intervallata, come i vecchi film Disney, dalla ripresa di un libro a cui vengono sfogliate le pagine, sulle quali c'è scritto esattamente come iniziano e finiscono gli episodi, consente ai Coen di sfruttare diversi stili di regia e spaziare attraverso svariati registri narrativi che coinvolgono lo spettatore senza mai annoiarlo: si passa dal musical al western, dallo slice of life alla tragedia per arrivare a tinte da ghost story, il tutto interpretato, diretto, scritto e soprattutto musicato alla perfezione. Al momento, oserei dire che La ballata di Buster Scruggs è uno dei più bei film che potete trovare su Netflix e consiglierei il recupero non solo agli amanti dei Coen, che troveranno pane per i loro denti, ma anche a chi di solito non mastica western perché qui c'è da rimanere estasiati a prescindere dal genere.


Dei registi e co-sceneggiatori Joel e Ethan Coen ho già parlato QUI. Tim Blake Nelson (Buster Scruggs), Clancy Brown (Surly Joe), David Krumholtz (il francese), James Franco (Cowboy), Stephen Root (Teller), Ralph Ineson (Leader del branco), Liam Neeson (Impresario), Zoe Kazan (Alice Longabaugh) e Brendan Gleeson (L'irlandese) li trovate invece ai rispettivi link.

Tom Waits interpreta il Cercatore. Cantautore americano, ha partecipato a film come I ragazzi della 56sima strada, Rusty il selvaggio, La leggenda del re pescatore, Dracula di Bram Stoker, America oggi e ha lavorato come doppiatore in un episodio de I Simpson. Anche sceneggiatore, ha 69 anni e un film in uscita.


Harry Melling, che interpreta l'Artista nell'episodio Meat Ticket, era l'odioso Dudley Dursley nei film di Harry Potter. Detto questo, se La ballata di Buster Scruggs vi fosse piaciuta potete recuperare Il Grinta e Fratello, dove sei? ENJOY!

domenica 14 gennaio 2018

In Bruges - La coscienza dell'assassino (2008)

L'uscita e il successo internazionale di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (che dovrei andare a vedere proprio stasera...), mi ha portato la consapevolezza di non avere mai visto un film di Martin McDonagh. Spinta da commenti positivi ho così recuperato In Bruges - La coscienza dell'assassino (In Bruges), diretto e sceneggiato nel 2008 proprio dal regista inglese.


Trama: dopo un lavoro finito malissimo, il killer Ray si rifugia a Bruges assieme al collega Ken su richiesta del loro spietato boss ma il paese non è proprio di suo gradimento...


Conoscevo Bruges solo di nome, per un paio di motivi. Primo, a un certo punto di Austin Powers in Goldmember il Dr. Male saluta tutti i suoi homies di Bruges, città dove il malvagio è cresciuto; secondo, da alcuni anni a Natale, un corriere di cui non farò il nome omaggia me e alcuni altri dipendenti della ditta dove lavoro con uno "scrigno" di cioccolatini Jeff De Bruges, sopraffine specialità del Belgio che solo a nominarle perdo venti litri di bava (agevolo il sito. Non avete idea di cosa sia mangiare uno di questi cioccolatini). Guardando il film di McDonagh ho deciso, assieme al Bolluomo, che prima o poi andremo a Bruges perché, per parafrasare il cattivissimo Harry, lì "sembra di stare in una fiaba": cigni, canali, strade acciottolate, chiese gotiche, opere d'arte, un'adorabile atmosfera medievale che mi ha ricordato molto Praga, benché con meno caos. Insomma, su di me la cittadina ha sortito l'effetto opposto rispetto a Ray, protagonista del film, il quale fin dall'inizio odia Bruges con tutto sé stesso proprio per i motivi che spingerebbero me a visitarla. Ray è un killer che, poveraccio, alla sua prima missione ha scazzato nel peggiore dei modi e, "tutorato" dal collega Ken, viene spedito dal boss a Bruges per far calmare le acque; la strana coppia di assassini, anche troppo buoni e umani per il lavoro che fanno, cercano così di passare il tempo tra una birra e una visita al museo, parlando di passato e futuro, inferno e paradiso, vita e morte, colpa e redenzione. In Bruges è un film molto dialogato, permeato da un umorismo grottesco che ricorda molto quello dei Coen e che culla lo spettatore nella falsa illusione di avere davanti una commedia, almeno finché il sangue non comincia a scorrere riportandolo alla brusca realtà di un mondo popolato da assassini e uomini d'onore ciechi alle suppliche persino degli amici di una vita, desiderosi di fare giustizia pur nel loro modo perverso. Piccolo purgatorio in guisa di bomboniera europea, luogo da favola in cui accadono le cose più assurde, Bruges diventa il posto ideale ove attendere il giudizio per le colpe commesse in vita e spalancare le porte dell'inferno o del paradiso (benché per Ray l'inferno sia proprio l'idea di vivere a Bruges e per Harry l'esatto contrario), una città dalla quale è impossibile fuggire e dove ogni azione, anche la più semplice, causa una reazione capace di manifestarsi anche dopo ore o giorni, formando un perfetto cerchio sul finale.


Tra nani attori e scorci da cartolina, McDonagh scrive una sceneggiatura surreale e piena di rimandi ad opere d'arte e cinema, rendendo Bruges protagonista fondamentale, tanto quanto i personaggi umani e forse anche di più; come regista, l'inglesotto dimostra di saper gestire al meglio sia le sequenze più action e sanguinose sia quelle più leggere o "intimiste" e, sul finale, si concede persino una scena surreale che ai cinefili potrebbe ricordare A Venezia un dicembre rosso shocking mentre un cultore dell'arte riconoscerà personaggi usciti dritti dal Giudizio universale di Bosch, con un'atmosfera parimenti angosciante e "spirituale" che fa a pugni col registro più allegro di inizio film. Passando agli attori, In Bruges ha la fortuna di vedere coinvolto un terzetto mica da ridere, oltre a un gruppo di caratteristi a dir poco ottimi. Colin Farrell mostra una sensibilità incredibile e offre l'interpretazione divertente ma non superficiale di un giovane killer alle prese con un senso di colpa soverchiante e col desiderio di non pensare, neppure per un secondo, alle circostanze che lo hanno portato a Bruges; gli fa da spalla un Brendan Gleeson perfetto, capace di combinare un atteggiamento da vecchio zio borbottante a quello di criminale (riluttante) perfettamente consapevole delle regole del gioco ma anche stanco di sottostare a persone fuori di testa, per i quali l'onore viene prima di ogni cosa ma che, in sostanza, rasentano la psicopatia, come il superbo Harry interpretato da Ralph Fiennes (mai così cattivo neppure nei panni di Voldemort ma perlomeno coerente con le sue scelte di vita). Nonostante siano passati dieci anni ringrazio quindi tutti quelli che, con infinita pazienza verso la mia manifesta ignoranza, mi hanno parlato di In Bruges - La coscienza dell'assassino in occasione dell'uscita di Tre manifesti a Ebbing, Missouri; ho trovato un film decisamente nelle mie corde, ironico, assurdo e anche malinconico come piace a me, con un terzetto di attori in formissima. E ora tocca a Sette psicopatici, nonostante tutti lo reputino inferiore... ma al titolo non si comanda!


Di Colin Farrell (Ray), Ralph Fiennes (Harry), Brendan Gleeson (Ken) e Ciarán Hinds (il prete) ho già parlato ai rispettivi link.

Martin McDonagh è il regista e sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto 7 psicopatici e Tre manifesti ad Ebbing, Missouri. Anche produttore, ha 47 anni.


Zeljko Ivanek interpreta il canadese. Sloveno, ha partecipato a film come Donnie Brasco, Hannibal, Argo, 7 psicopatici, X-Men: Apocalisse, Tre manifesti ad Ebbing, Missouri e a serie quali X-Files, La signora in giallo, Millenium, Ally McBeal, E.R. Medici in prima linea, 24, CSI - Scena del crimine, Bones, Cold Case, Lost, Numb3rs, Doctor House e Heroes. Anche produttore, ha 60 anni.


Clémence Poésy, che interpreta Chloe, era Fleur Delacourt nella versione cinematografica di Harry Potter mentre il nano Jordan Prentice ha vestito i panni leggendari di Howard il Papero in Howard e il destino del mondo. In una delle scene eliminate c'era l'undicesimo Dottore Matt Smith ad interpretare un giovane Harry, impegnato a decapitare un poliziotto corrotto reo di aver ucciso una donna (la sequenza è stata eliminata in quanto la CGI della decapitazione era imbarazzante); inoltre, lo script mostra come Ray non muoia alla fine del film. Detto questo, se In Bruges vi fosse piaciuto recuperate Lock & Stock - Pazzi scatenati, Snatch - Lo strappo e Burn After Reading - A prova di spia. ENJOY!

mercoledì 9 agosto 2017

Codice criminale (2016)

Nonostante l'avessi visto a ridosso della sua uscita italiana, più o meno una settimana dopo, riesco a parlare solo oggi di Codice criminale (Trespass Against Us), diretto nel 2016 dal regista Adam Smith.


Trama: Chad vive assieme alla sua famiglia all'interno di un campo zingari inglese e conduce una vita fatta di sregolatezze e furti. Il desiderio di cambiare vita lo porta nel tempo a scontrarsi col padre Colby, rispettato capo del campo...



Che sfiga. Codice criminale è uno di quei film né belli né brutti, semplicemente MEH, genere di pellicola ahimé sempre più diffuso. Sta lì, a far da sottofondo a una serata casalinga durante la quale il cervello non riesce a rimanere concentrato sulla storia e piuttosto spinge il corpo a fare altro: io in quell'ora e quaranta di film sono andata a fare pipì, ho preso dell'ottimo cioccolato fondente Lindt edizione limitata al cocco dal frigo, mi sono depilata le sopracciglia e ho condotto un'interessante conversazione su whatsapp e chi mi conosce sa che io MAI lascerei scorrere il girato senza mettere pausa durante tutte queste empie azioni (non mi metterei neppure a farle, in verità). Invece, con Codice criminale me ne sono allegramente fregata, arrivando persino ad incitare mentalmente Fassbender a sbrigarsi negli ultimi dieci minuti, manco fossi stata in una sala d'aspetto dove il tempo pare non passare mai. E sì che io ADORO le storie familiari ambientate nel sottobosco criminale, soprattutto quello inglese, amo quell'accento mostruoso che ti porta a capire il 40% dei dialoghi e a ringraziare San Subscene per l'esistenza dei sottotitoli, bramo le orde di caratteristi uno più debosciato dell'altro e il conseguente impegno profuso nel riconoscerli. Sulla carta, Codice criminale avrebbe dovuto diventare un cult personale, perlomeno un film da ricordare nei mesi a venire, invece di quell'accozzaglia di zingHIri inglesi non me n'è potuto fregare di meno, non mi sono sentita coinvolta dalle loro diatribe familiari né, tantomeno, da una faida con la polizia che in certi momenti viene descritta come una lotta all'ultimo sangue (con tanto di uso di fucili contro i bambini, ma su...) e in altri come una serie di scaramucce fra amici, a seconda del rapporto familiare che si vuole mostrare in sceneggiatura. Se avete visto il film sapete di cosa sto parlando: più il legame tra padre, figlio e nonno si fa esacerbato più la polizia "s'incazza", quando invece bisogna fare pace gli sbirri diventano dei simpaticoni. Mah. Che poi, in soldoni, il film si basa su Fassbender che vorrebbe abbandonare il campo nomadi gestito da papà Brendan Gleeson per far sì che i figli non vengano su strepponi come loro, incontrando le ovvie resistenze del succido patriarca, storia vecchia come il mondo... ma siamo sicuri che sia quello il VERO motivo di questa ribellione?


Siccome il film, tra un inseguimento in auto, un furto e un cane che muore non approfondisce granché i personaggi, a meno che non si consideri approfondimento il reiterarsi di stereotipi vecchi come il mondo (il personaggio di Gleeson è un ignorante criminale ma è anche molto religioso, quello di Fassbender è "il migliore in quello che fa" ma smetterebbe per amore di moglie e figli), ho deciso che l'unico motivo plausibile per cui Chad vorrebbe andarsene dal campo nomadi di Colby è la consapevolezza di essere bellobello in modo assurdo. No, davvero. Fassbender in questo film ci sta come i cavoli a merenda. Capisco loZZinghiro gnocco, quello ci può stare ma, figlio mio, dove l'hai tirata fuori sta dentatura bianca e perfetta? Sto viso immacolato? Sto capello sempre in ordine? Sto look shabby chic mentre attorno a te c'è gente come Sean Harris che farebbe schifo a una capra e persino tua moglie e i tuoi figli sono un bellissimo esempio di sub-umanità? Come si fa a credere a una cosa simile quando persino Brad Pitt si era imbruttito a livelli ignobili ai tempi di Snatch- Lo strappo? Cioé, non è possibile che, in ogni film in cui recita, Fassbender sia sempre più o meno uguale a sé stesso, io 'sta perfezione e 'sto suo essere come il prezzemolo comincio a non sopportarli più e vorrei ritornare ai tempi di Eden Lake, Hunger e Bastardi senza gloria, quando eravamo in 100 a conoscerlo e 30 a notarlo spiccare sul resto del cast. Forse è anche per questo che non sono riuscita a farmi coinvolgere dal film, distratta dalla mia suspension of disbelief che rideva nemmeno si trovasse davanti all'ennesimo capitolo di Sharknado (a proposito: devo parlare assolutamente di Global Swarming!!), o forse è proprio perché Codice criminale è come il suo protagonista: bello esteticamente ma un po' fasullo, poco profondo. O forse l'hanno sceneggiato di domenica, quindi non avevano voglia di impegnarsi più di tanto.


Di Michael Fassbender (Chad Cutler), Brendan Gleeson (Colby Cutler), Rory Kinnear (P.C. Lovage) e Sean Harris (Gordon Bennett) ho già parlato ai rispettivi link.

Adam Smith è il regista della pellicola. Inglese, episodi di serie quali Doctor Who ed è collaboratore storico dei Chemical Brothers.


Lyndsey Marshal interpreta Kelly Cutler. Inglese, ha partecipato a film come The Hours e Hereafter. Ha 39 anni.


Se Codice criminale vi fosse piaciuto recuperate Legend, Gangster n°1 e magari anche il già citato Snatch - Lo strappo. ENJOY!


domenica 26 giugno 2016

La canzone del mare (2014)

Nonostante sia passato un po' di tempo, sia dalla sua uscita che dalla sua nomination all'Oscar come miglior film d'animazione, arriva questa settimana nelle sale italiane La canzone del mare (Song of the Sea), diretto e co-sceneggiato nel 2014 dal regista Tomm Moore.


Trama: il piccolo Ben vive su una piccola isola irlandese col padre e con la sorellina muta Saoirse, nata lo stesso giorno in cui la loro madre è scomparsa. Ovviamente, Ben odia Saoirse ma tutto cambia quando la piccola finisce in pericolo a causa della suo retaggio fatato...


Quando ho avuto la fortuna di andare a Kilkenny, tra gli altri posti, mi è capitato di vedere in una vetrina il DVD di The Secret of Kells, cartone animato dall'aspetto particolare, palesemente realizzato in Irlanda, e non potete immaginare la sorpresa quando, lo stesso anno, ho saputo che tra i candidati all'Oscar come miglior film d'animazione ci sarebbe stato La canzone del mare, dello stesso regista. Siccome l'Irlanda e le leggende celtiche mi hanno sempre affascinata, nonostante non abbia mai avuto tempo per documentarmi come vorrei in proposito, ho accolto l'arrivo in Italia di La canzone del mare con doppia gioia visto che l'argomento del film è la misteriosa figura della Selkie, creatura del folklore irlandese e scozzese, metà donna e metà foca. La trama del film ha davvero il sapore di una di quelle fiabe che ci raccontavano da bambini, con creature leggendarie che per amore mescolavano il proprio sangue a quello degli esseri umani generando bambini sospesi tra i due mondi (quello reale e quello magico) e per questo spesso infelici o "maledetti", lasciando gli sposi inconsapevoli a dover affrontare situazioni fuori dall'immaginazione e, ovviamente, famiglie rovinate; il piccolo Ben, in questo caso, è stato costretto a crescere senza madre, con un padre incapace di affrontare il dolore della perdita e una sorellina, che non parla nonostante abbia sei anni, alla quale imputa la colpa di tutte le proprie disgrazie. Il dolore ed il senso di perdita, che allontanano le persone e le induriscono, ottenebrandone spesso il giudizio, sono i temi centrali di un cartone animato molto malinconico, all'interno del quale la meraviglia provata davanti al mondo fatato appena celato sotto la superficie della realtà prosaica va a braccetto con l'insostenibilità delle emozioni umane e con l'egoistica imperfezione che spesso le caratterizza. Le creature magiche dipinte in La canzone del mare, lungi dall'essere divinità superiori, hanno le nostre stesse debolezze e a causa di esse (oltre probabilmente al fatto che nessuno ormai crede più in loro) il loro mondo rischia di scomparire, inghiottito da un'oscurità che solo il canto di una Selkie potebbe dissipare.


Se il canto della Selkie può salvare il mondo magico, sicuramente la splendida musica che accompagna le immagini di La canzone del mare può salvare noi, o almeno la nostra sensibilità. Come le melodie di Joe Hisaishi diventano il cuore stesso dei poetici film d'animazione dello Studio Ghibli, così la musica composta da Bruno Coulais, in collaborazione col gruppo irlandese Kíla, diventa la fondamentale chiave di lettura di un film che fa del canto una sorta di passaggio tra i mondi, un retaggio culturale e sentimentale che passa di bocca in bocca, di genitori in figli, per ritrovarsi inaspettatamente sulle labbra di un terzetto di allegri "fati" dall'aspetto vagamente shakespeariano. Tra parole in gaelico che paiono ancora più misteriose e delicati testi inglesi, La canzone del mare sembra prendere letteralmente le onde, il vento e piccoli pollini delicati come la neve per riportarli vivi e potenti sullo schermo, creando un poema in movimento capace di incantare lo spettatore; alla tenerezza del personaggio di Saoirse, tanto piccolina e bianca da fare invidia persino a Sibert, si affiancano la folle fantasia di un vecchietto canuto dai lunghi capelli, una strega dagli occhi da gufo, giganti, barattoli misteriosi e una processione finale che farebbe quasi invidia a quella de La storia della principessa splendente, tanto è ben realizzata, per non parlare della toccante caratterizzazione data a Ben, a Conor e persino alla Nonnina, che a tratti sembra una banshee cicciotta. Per farla breve, mi sono innamorata e mi si dice che The Secret of Kells sia ancora più bello de La canzone del mare quindi non posso fare altro che recuperarlo, mentre a voi consiglio di immergervi nel mondo fatato di questo dolcissimo film d'animazione.


Di Brendan Gleeson, la voce originale di Conor e Mac Lir, ho già parlato QUI.

Tomm Moore è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Irlandese, ha diretto film come The Secrets of Kell. Anche animatore e produttore, ha 39 anni e due film in uscita.


Fionnula Flanagan è la voce originale della nonna e di Macha. Irlandese, ha partecipato a film come Svegliati Ned, The Others, L'ultima alba, Transamerica e a serie come Il tenente Kojak, La donna bionica, Saranno famosi, Hunter, Colombo, La signora in giallo, Nip/Tuck e Lost. Anche produttrice, ha 75 anni e due film in uscita.


Se La canzone del mare vi fosse piaciuto recuperate Wolf Children e Ponyo sulla scogliera. ENJOY!

mercoledì 30 marzo 2016

Suffragette (2015)

Con il solito ritardo arrivo a parlare di un film bellissimo, Suffragette, diretto nel 2015 dalla regista Sarah Gavron.


Trama: nella Londra dei primi del '900 la giovane operaia Maud, sposata e con un bimbo piccolo, si ritrova coinvolta nel movimento delle cosiddette "suffragette", militanti pronte a battersi per ottenere il suffragio universale...



"Avete voluto i nostri stessi diritti? E adesso pedalate!". Quante volte ho sentito queste parole, ovviamente con mille declinazioni diverse, pronunciate dagli uomini davanti ad una lamentela femminile relativa al posto di lavoro, agli stipendi, ad una legge particolarmente idiota, alle proteste di madri costrette ad affidare i figli ai nonni perché con un solo stipendio non si arriva a fine mese. Chissà cosa direbbero questi uomini se sapessero che, prima di ottenere il diritto di voto (diritto che, per inciso, NON è ancora stato ottenuto da tutte le donne del mondo), la condizione delle esponenti del gentil sesso non era quella delle tranquille casalinghe mostrate in un'infinità di commedie o drammi americani dagli anni '50 in poi né le Suffragette erano le gioviali ed energiche donnette canterine, fondamentalmente innocue, tramandate da Mary Poppins. Chissà cosa direbbero se sapessero che una donna, agli inizi del '900, doveva OVVIAMENTE essere madre e moglie devota ma anche portare a casa la pagnotta portandosi il figlio in fabbrica, dove era costretta a lavorare il doppio del consorte per la metà della paga, oltre ad andare incontro problemi di salute e a soprusi fisici e mentali, per non parlare dell'impossibilità di ambire ad incarichi di prestigio, men che meno statali o politici. Nei gloriosi anni '80, quando sono nata io, mamma è stata fortunata: poteva votare e poteva anche stare a casa a crescere me, perché a quei tempi un uomo poteva accollarsi gli oneri economici di una piccola famiglia, con un po' di oculato risparmio e qualche sacrificio. Oggi, a distanza di più di 100 anni, sebbene una donna possa fortunatamente votare ed ambire ad alte cariche all'interno della società e dello Stato, siamo tornate alle condizioni di inizio '900 e chissà invece cosa direbbero le Suffragette e il loro "capo" Emmeline Pankhurst davanti ad aberrazioni come #escile, alla discriminazione che ancora esiste sul posto di lavoro, all'impossibilità di andare in giro con una minigonna perché trattasi di palese invito alla violenza sessuale, alla misoginia più o meno elevata all'interno dei media o dell'opinione pubblica e questo, beninteso, SOLO nella civiltà occidentale, ché c'è chi sta sempre peggio di noi.


Probabilmente le suffragette si armerebbero non già di striscioni e ombrellini, come per l'appunto ci mostrava il signor Disney, ma di sassi ed esplosivi come ci raccontano Sarah Gavron e il gruppo di favolose interpreti che hanno messo in piedi Suffragette, pellicola che può e deve essere un bel calcio nelle palle di chi ancora non ha capito che non è il caso di parlare di "sesso debole" solo perché la donna manca di attributi fisici. E se è vero che la pellicola della Gavron non inneggia al "Girl PowA", preferendo invece mostrare i pro e i tanti contro di un movimento che non ha esitato a sporcarsi le mani di sangue per ottenere un minimo di visibilità all'interno di una società dove i giornali venivano sistematicamente zittiti da polizia e governo, è altrettanto vero che gli uomini non ne escono benissimo. Il marito di Maud, giovane operaio convinto che avere una moglie significhi avere accanto una creatura tranquilla, silenziosa ed obbediente, un ragazzo incapace di fare fronte alle difficoltà di gestire un figlio da solo e timoroso dell'opinione dei vicini di casa, non è più inetto di un consiglio di Lord che promettono senza mantenere o di vili padroni capaci solo di usare violenza sulle loro operaie; schiacciati dal peso di quella che, in definitiva, era una guerra civile inglese, i pochi uomini e le poche donne ancora capaci di usare il cervello potevano solo offrire un silenzioso sostegno alla causa, oppure un'ammirazione da tenere necessariamente nascosta per non incorrere nelle stesse pene inflitte a donne che reclamavano semplicemente dei diritti sacrosanti. E se sto suonando retorica e un po' arrabbiata è perché Suffragette è un film potente, che mi ha portata a riflettere sul poco che questa società offre a donne che, come me, si sono fatte il mazzo per avere un pezzo di carta che attestasse la fine di un rispettabilissimo percorso di studi e che passano invece le giornate accanto a persone che le disprezzano in quanto possibili madri (ergo ladre di stipendi e posti di lavoro oltre che fancazziste), che non le chiamano Dottoresse perché Dottore è un titolo da dare solo agli uomini (o a chi pratica la professione medica. E se ti lamenti sei pure arrogante e fai pesare la laurea a chi non meriterebbe neppure il diploma di scuola media), ecc. ecc. Quindi ben vengano film come questo, per combattere l'anche troppo diffusa ignoranza con sane dosi di realtà storica, per una volta non edulcorata da pizzi, trine e merletti... e, col cuore, dico affanculo Winifred Banks!


Di Carey Mulligan (Maud Watts), Ben Whishaw (Sonny Watts), Helena Bonham Carter (Edith Ellyn), Brendan Gleeson (Ispettore Arthur Steed) e Meryl Streep (Emmeline Pankhurst) ho già parlato ai rispettivi link.

Sarah Gavron è la regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Brick Lane. Ha 46 anni.


Anne-Marie Duff interpreta Violet Miller. Inglese, moglie dell'attore James McAvoy, ha partecipato a film come Enigma e Magdalene. Ha 46 anni.


Nel film compaiono, in ruoli minori, sia Helen Pankhurst, pro-pronipote di Emmeline Pankhurst, che sua figlia Laura. Se Suffragette vi fosse piaciuto recuperate North Country e L'ultima eclissi. ENJOY!

martedì 10 settembre 2013

Albert Nobbs (2011)

E' passato un po' di tempo dalla sua uscita nelle sale italiane, ma in questi giorni sono riuscita a guardare Albert Nobbs, diretto nel 2011 dal regista Rodrigo García, tratto dal racconto The Singular Life of Albert Nobbs di George Moore e candidato a tre premi Oscar (migliore attrice protagonista, miglior attrice non protagonista e miglior make up, ne avesse vinto uno!!).


Trama: diciannovesimo secolo. Una donna, per evitare la povertà, passa decenni nei panni del maggiordomo Albert Nobbs ma la sua vita diventa più difficile mano a mano che aumenta la solitudine...


Albert Nobbs è un film particolarissimo. All'inizio mi aspettavo una pellicola che denunciasse la condizione della donna in Inghilterra e Irlanda alla fine del diciannovesimo secolo, ma non è solo questo. La singolare vita di Albert Nobbs racconta innanzitutto la solitudine di una persona costretta a perdere la propria identità, a rinunciare alla propria natura fino a rimuoverla del tutto, a diventare una creatura imperfetta, insicura, triste e piena di desideri irrealizzati. Il film non è una divertente commedia degli equivoci dove una donna si traveste da uomo per sbarcare il lunario e deve cercare di non farsi scoprire; il motivo che spinge, o meglio costringe, la protagonista a vestire panni maschili è un orrendo e sconcertante insieme di ingiustizie sociali e traumi adolescenziali, che da soli tuttavia non bastano a sedare le naturali pulsioni di un essere umano. Basta infatti l'arrivo di una persona nelle sue stesse condizioni ma felicemente sposata per fare sì che Albert Nobbs (il cui vero nome non verrà mai svelato) cominci a fantasticare di avere una vita sua, un piccolo negozio, magari persino l'amore, l'unica "cosa" in grado di illuminare una vita consacrata alla semplice e fredda sopravvivenza. Attorno a lui/lei ruota un intero microcosmo di donne oppresse, costrette a combattere contro uomini violenti ed egoisti, contro una società crudele ed ingiusta, e a reinventarsi per riuscire ad ottenere quelle cose che le persone più agiate o fortunate considerano banali e quasi dovute.


Considerate le delicate e complesse emozioni che animano il cuore del protagonista, il ritmo del film viene impostato quasi in modo da rispettarle, come se fosse un dramma teatrale invece che una pellicola: poche variazioni di set (l'albergo, la strada e la casa di Hubert Page), abbondanza di sequenze "rituali" e a loro modo coreografiche come quelle dove i dipendenti prestano i loro servizi all'hotel e, infine, molti dialoghi tra personaggi. Pregevolissimi, quindi, costumi e scenografie ma, soprattutto, indispensabile la presenza di attori bravissimi. Sembra banale cominciare da Glenn Close, qui quasi irriconoscibile, ma la verità è che Albert Nobbs sarà anche il protagonista del film però è uno dei personaggi meno accattivanti e più passivi della storia del cinema... quindi, a maggior ragione, la bravura dell'attrice sta nel coinvolgere il pubblico davanti al dramma umano di questo piccolo e timido omino/donnina. Fortunatamente, a fargli da contraltare e fungere da sprone, c'è un'incredibile Janet McTeer che parrebbe davvero un uomo nei primi fotogrammi e che, spesso e volentieri, ruba la scena al personaggio principale. Anche i nomi eccellenti che animano il sottobosco della pellicola sono molto validi, soprattutto Mia Wazikowska che ormai è anni luce distante dalla Alice Burtoniana, per fortuna, ma è un piacere anche vedere Pauline Collins in un personaggio falso e melodrammatico e Brendan Gleeson nei panni del dottore ubriacone ma fondamentalmente buono. In sostanza, mi spiace che Albert Nobbs non abbia avuto la risonanza che avrebbe meritato, perché è una visione che consiglio caldamente a chi cerca un film particolare e si trova a suo agio con ritmi lenti e ragionati.


Di Mia Wazikowska (Helen), Pauline Collins (Madge), Brendan Gleeson (Dr. Holloran) e Aaron Taylor-Johnson (Joe) ho già parlato ai rispettivi link. 

Rodrigo García è il regista della pellicola. Colombiano, figlio dello scrittore Gabriel García Márquez, ha diretto Le cose che so di lei ed alcuni episodi delle serie I Soprano e Six Feet Under. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 54 anni.


Glenn Close interpreta Albert Nobbs, ruolo che aveva già interpretato nel 1982 a teatro e per cui ha ricevuto la sesta nomination all’Oscar. Americana, la ricordo per film come Il grande freddo, Attrazione fatale, Le relazioni pericolose, Hook – Capitan Uncino, La casa degli spiriti, Mary Reilly, La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera, Mars Attacks! e Air Force One. Come doppiatrice ha lavorato nei film Tarzan, Pinocchio, Hoodwinked e in alcuni episodi de I Simpson, inoltre ha partecipato alle serie Will & Grace e The Shield. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 66 anni e cinque film in uscita tra cui Guardians of the Galaxy.


Jonathan Rhys Meyers (vero nome Jonathan Michael Francis O'Keefe) interpreta il Visconte Yarrell. Irlandese, lo ricordo per film come Velvet Goldmine, Titus, Sognando Beckham, Alexander, Match Point, Mission: Impossible III, From Paris With love e Shadowhunters – Città di ossa. Anche produttore, ha 36 anni, un film e una serie in uscita, Dracula.


Janet McTeer interpreta Hubert Page, ruolo per cui ha ricevuto la seconda nomination all'Oscar, questa volta come migliore attrice non protagonista. Inglese, ha partecipato a film come In cerca d'amore, Velvet Goldmine e The Woman in Black. Anche sceneggiatrice, ha 52 anni e un film in uscita.


Mark Williams, che interpreta il maggiordomo Sean Casey, ha prestato il volto al buon Arthur Weasley nella saga cinematografica di Harry Potter. Amanda Seyfried e Orlando Bloom, invece, erano stati scritturati per i ruoli di Helen e Joe ma hanno dovuto rinunciare per impegni pregressi. Posso dire che, In My Humble Opinion, è stato meglio così? Direi di sì e aggiungo che, se Albert Nobbs vi fosse piaciuto, potete sempre recuperare Victor/Victoria! ENJOY!!

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