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martedì 4 marzo 2025

The Brutalist (2024)

E' stata dura, ma sono riuscita a recuperare anche The Brutalist (al momento in cui scrivo candidato a ben 10 Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior attore non protagonista, Miglior attrice non protagonista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior fotografia, Miglior montaggio, Miglior colonna sonora originale, Miglior scenografia), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Brady Corbet.


Trama: l'architetto László Tóth, fuggito per miracolo ai campi di concentramento, trova rifugio in America. Lì, viene preso sotto l'ala protettiva dal ricco Harrison Van Buren, che gli commissiona un'opera monumentale...


Iniziamo il post ripassando un po' cos'è il Brutalismo, a beneficio di chi, come me, non tocca più un libro di storia dell'arte (in questo caso specifico, dell'architettura) dal lontanissimo 2005. Brutalismo deriva dal francese béton brut, che indica il cemento a vista, uno degli elementi tipici di questo movimento architettonico. Il cemento veniva utilizzato non solo per andare contro alla leggerezza degli stili precedenti, ma anche perché, nel primo dopoguerra, la necessità era quella di ricostruire in fretta, con materiali economici, utilizzando uno stile pratico e semplice, che prediligesse la funzionalità all'estetica. In realtà, c'era anche dietro un'idea di equità, fagocitata di lì a poco dal ritorno in piena forma del capitalismo, che avrebbe condannato il Brutalismo definendone gli edifici in gran parte obbrobriosi. Se vogliamo, all'interno di The Brutalist, si parla anche di Bauhaus, al quale Corbet si è ispirato per gli splendidi titoli di testa, somigliantissimi al Bilanz des Bauhauses di Theo van Doesburg, ma non stiamo a spaccare il capello. Tanto, l'epica opera di Corbet non pretende certo una conoscenza enciclopedica dell'architettura del dopoguerra: crea un parallelo tra il protagonista, l'architetto László Tóth, e gli edifici da lui costruiti, un mix di opprimente austerità monocromatica e un desiderio di libertà e respiro, di luce, di pace. Quella che è mancata e manca al povero László, sopravvissuto per miracolo ai campi di concentramento e pronto a ricominciare una nuova vita in America, con la speranza di riunirsi, prima o poi, con la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia, ancora prigioniere. Non ci mette molto, l'architetto, a capire che l'America non è la land of the free, quanto piuttosto un mostro pronto a divorare gli stranieri e i poveracci, per nulla tenero con chi non riesce a conformarsi, magari rinnegando religione e convinzioni. Nel mucchio di immigrati, straccioni e poveri provenienti da tutto il mondo, l'unica speranza è attirare lo sguardo di qualche riccastro, e László riesce a conquistarsi quello di Harrison Van Buren, che decide di commissionargli un mausoleo per la madre, lieto di poter presentarsi ad amici e clienti come mecenate illuminato, protettore e benefattore della scimmietta ebrea dal grande talento. The Brutalist racconta del rapporto contrastato tra l'artista e l'uomo d'affari, per estensione del moderno rapporto tra arte e capitalismo, dipendente dalla moda e dagli umori del momento, con picchi di afflato poetico cancellabili con un colpo di spugna, quando i soldi cominciano a bruciarsi con troppa velocità. The Brutalist è anche il racconto della ricerca disperata di un posto da poter chiamare casa, dove non bisogna essere costretti a nascondersi o vergognarsi, dopo decenni di orrori perpetrati da chi ha scelto di condannare normali esseri umani a sentirsi dei mostri, dei diversi indesiderati. Il film di Corbet è tutto questo e anche di più, ed è il motivo per cui sono rimasta molto delusa nel constatare che, nonostante un potenziale enorme, sia riuscito sì ad interessarmi, ma senza mai commuovermi, se non all'inizio, di fronte a corpi sfiniti e animi confusi, assiepati sotto una Statua della Libertà giustamente capovolta. 


Girato interamente in VistaVision, per rispettare lo stile dell'epoca in cui è ambientato The Brutalist, il film di Corbet è una gioia per gli occhi, a cominciare da quelle riprese dove la cinepresa "corre" assieme alla strada, e grazie ad un montaggio dinamico che rende ancora più incredibili le immagini dei panorami, degli elementi naturali toccati dalla mano dell'uomo (le sequenze girate all'interno della cava di marmo sono da slogarsi la mascella) e dell'interno del mausoleo, un labirintico inferno di acqua e colonne. Ha una colonna sonora perfetta, che sottolinea non solo la solennità della narrazione, ma si adegua anche allo scorrere degli anni, cambiando completamente (così come lo stile di regia) nella Venezia anni '80 che chiude il film. Ha un cast d'eccezione, all'interno del quale spicca un Adrien Brody che, quasi sicuramente, vincerà l'Oscar, e regala il ruolo della vita a Felicity Jones, quello di un personaggio non proprio gradevole, distrutto da esperienze traumatiche, spezzato eppure costretto ugualmente a tenere in piedi chi avrebbe tutte le carte in regola per essere un marito esemplare e un buon compagno di vita, ma preferisce lasciarsi distruggere dalla propria vanità e dal disprezzo altrui. Come ho scritto sopra, The Brutalist ha un potenziale enorme e sfida lo spettatore a cogliere indizi, aggiungere tasselli mancanti, interpretare segni. E allora perché, sul finale, mi deve far crollare tutto forzando il pubblico ad ingoiarsi un monologo-spiegone che ne sottovaluta l'intelligenza come se Corbet fosse Van Buren e noi i poveri, ignoranti animaletti da catechizzare con "conversazioni stimolanti"? E' una scelta che non ho apprezzato, inutilmente strappalacrime e anche un po' supponente, soprattutto perché la sceneggiatura di The Brutalist non è complessa, né atta lasciare a bocca aperta quanto tutto il comparto tecnico che la sostiene, anzi. Sceglie sempre le soluzioni più semplici, con i cattivissimi capitalisti (razzisti, gretti, violenti, prevaricatori fino all'estremo) che annientano e sviliscono l'artista, sfruttandone anima e corpo, letteralmente; sceglie di spingere il protagonista a cercare rifugio nella droga senza mai, neppure una volta, mostrarci gli effetti che questa ha sulla sua arte e sui suoi demoni interiori; sceglie di usare il sesso come veicolo di sequenze controverse, disturbanti, rendendolo tossico nelle scene che vedono protagonisti moglie e marito, che mai una volta mostrano di provare un sano piacere l'uno nell'altro se non quando sono fatti come cocchi. Sceglie, infine, l'ennesima fuga verso un presunto paradiso, prima di consegnare i personaggi ad un timeskip blandamente consolatorio, dopo tutta l'oscurità inghiottita in quasi quattro ore. Ah, giusto, mi sembrava brutto non finire il post senza aver nominato la durata del film. A me, in tutta sincerità, non è pesata per nulla, ed è l'ennesimo punto a favore di un film bellissimo ma ben lontano dall'essere il capolavoro incensato da chiunque. Per quanto mi riguarda, The Brutalist va visto, va goduto sul grande schermo, andrà rivisto più di una volta, quello sicuramente; dovessi dire, però, non mi ha catturato il cuore, che ancora batte per altre storie, forse ancora più semplici, ma che non intendono camuffare la semplicità dietro un'architettura zeppa di fronzoli che, di brutalista, non ha proprio nulla.


Del regista e co-sceneggiatore Brady Corbet ho già parlato QUI. Adrien Brody (László Tóth), Felicity Jones (Erzsébet Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren Sr.), Raffey Cassidy (Zsófia), Stacy Martin (Maggie Lee) e Alessandro Nivola (Attila) li trovate invece ai rispettivi link.

Joe Alwyn interpreta Harry Lee. Inglese, ha partecipato a film come La favorita, Boy Erased - Vite cancellate, Maria regina di Scozia, Harriet e Kinds of Kindness. Ha 34 anni e due film in uscita. 


Il film era stato annunciato nel 2020 con un cast diverso, interamente rivisto nel 2023: Adrien Brody ha sostituito Joel Edgerton, Felicity Jones ha sostituito Marion Cotillard, Guy Pearce ha sostituito Mark Rylance e Joe Alwyn ha rimpiazzato Sebastian Stan. Se il film vi fosse piaciuto recuperate The Master e Il pianista. ENJOY!

venerdì 25 gennaio 2019

Maria regina di Scozia (2018)

Attirata dall'idea di guardare un film in costume, martedì sono andata a vedere Maria regina di Scozia (Mary Queen of Scots), diretto nel 2018 dalla regista Josie Rourke e candidato a due premi Oscar (Makeup e pettinature, Costumi).


Trama: dopo la morte del marito, Re di Francia, Maria Stuarda ritorna in Scozia e cerca di riprendersi il regno come regina legittima ma trova opposizione nei protestanti, nel fratello e nella Regina d'Inghilterra, Elisabetta I.



Sono andata a vedere Maria regina di Scozia con tutte le migliori intenzioni. Adoro i film in costume, mi piacciono le ricostruzioni storiche così come le biografie, l'anno scorso ho fatto una splendida vacanza in Scozia e trovo che Saoirse Ronan e Margot Robbie siano due attrici magnifiche. Sulla carta, quindi, Maria regina di Scozia era il film perfetto per me, invece sono uscita dalla sala un po' delusa. La pellicola di Josie Rourke focalizza l'attenzione dello spettatore sulla regina del titolo, Maria, donna di potere in un mondo di uomini pronti a tutto per ottenerlo, straniera in una terra sua di diritto, cattolica in mezzo a una popolazione prevalentemente protestante; poteva essere l'occasione per offrire il ritratto di una donna forte e determinata, approfondire qualche interessante intrigo di corte, ma la sceneggiatura spesso e volentieri restituisce piuttosto l'immagine di una ragazzina umorale mossa principalmente dall'orgoglio più che dall'amore per il proprio Paese, una figura politica abile ma non troppo, incapace di prevedere gli umori di chi la circonda e prona ad incappare in clamorosi autogol. Il rapporto con Elisabetta I si concretizza giusto nel prefinale, con un confronto sulla carta appassionato ed appassionante ma in realtà freddo e retorico, per il resto si procede per giustapposizione, con una Maria che fiorisce proprio mentre Elisabetta affronta le prove più terribili della sua esistenza, come il vaiolo e la difficoltà di scegliere se essere un Re oppure una donna. Anche in questo caso, il ritratto di Elisabetta lascia un po' perplessi. Se Maria è una ragazzina umorale, Elisabetta è una pazza che prende decisioni per poi pentirsene, che pretende di dettare legge ai suoi lord ma alla fine lascia perdere, lasciando che siano loro a scegliere per lei, alterando le verità come più risulta comodo alla Nazione. Non che gli uomini ci facciano una figura migliore, per carità. Ognuno a modo suo spinto dall'invidia, dalla sete di potere e dalla rabbia, gli esponenti del cosiddetto sesso forte non fanno altro che ingannare e tramare, affiancandosi alle donne giusto quando fa loro comodo. Poi, vuoi non metterci il risvolto omosessuale che va tanto di moda oggi? Peccato, ci avevano già pensato nel 1972, quindi anche lì nulla di nuovo sotto il sole.


Questa trama un po' così, lineare e poco emozionante, quasi didascalica (la figura del secondo marito di Maria, in particolare, è esilarante per il modo in cui viene presentata al pubblico, come a dire "non fidatevi di questo, è un debosciato, vedrete quanti danni causerà alla protagonista!!"), non aiuta le pur brave protagoniste a brillare. Saoirse Ronan è cresciuta, si vede. Carica su di sé il peso della regalità di una donna orgogliosa e fragile, una bambina costretta a diventare adulta troppo presto, e abbraccia con cognizione di causa il dramma umano di Maria, regina, donna e martire, freddando chiunque con i suoi azzurri occhi innocenti. Dall'altro lato, c'è Margot Robbie, che dopo Tonya ci tiene a far vedere di essere attrice prima ancora che una gnocca stratosferica. Per questo, non esita ad imbruttirsi, invecchiarsi, mostrando prima la pelle deturpata dal vaiolo e poi il viso interamente ricoperto di biacca, mentre acconciature e colori impietosi la condannano ad essere un incrocio tra la Regina di Cuori e il Cappellaio Matto dell'orrido Alice in Wonderland di Tim Burton. Tra le due, per il poco che dura, c'è alchimia, un contrasto perfetto, eppure nessuna di loro riesce a rendere umana la sofferenza delle donne che interpretano, tanto che Maria ed Elisabetta sembrano due corretti manichini in balìa delle forze di un destino già scritto, persi tra dialoghi talvolta piatti, altre volte anche troppo retorici. Josie Rourke nasce come direttore artistico della Donmar Warehouse, la sua formazione è teatrale e si vede: per essere una dilettante dietro la macchina da presa cinematografica, le poche scene di battaglia non sono nemmeno malvagie ma la sua regia non riesce a cogliere appieno la bellezza dei paesaggi scozzesi né ad esaltarla, e pare sentirsi a suo agio giusto nelle scene d'interno, obiettivamente riuscite e ben illuminate. Insomma, Maria regina di Scozia non è un brutto film ma rientra nella categoria di pellicole "medie", se preferite delle occasioni sprecate. Per dire, c'è persino David Tennant ma, tra il trucco, il personaggio sottoutilizzato e il doppiaggio che non rende giustizia al suo splendido accento, chi diamine se n'è accorto?


Di Saoirse Ronan (Maria), Margot Robbie (Elisabetta I), Guy Pearce (William Cecil) e David Tennant (John Knox) ho parlato ai rispettivi link.

Josie Rourke è la regista della pellicola. Inglese, è al suo primo e finora unico film. Ha 43 anni.


Susanne Bier come regista e Scarlett Johansson come protagonista hanno entrambe dovuto dare forfait a causa della lunghissima pre-produzione del film, in ballo dal 2006. Se Maria regina di Scozia vi fosse piaciuto recuperate Maria Stuarda regina di Scozia, che racconta gli stessi eventi... nell'attesa ovviamente di vedere se La favorita è bello come dicono! ENJOY!


venerdì 2 novembre 2018

L'insaziabile (1999)

Finalmente è arrivato il momento di parlare di uno dei miei film preferiti, L'insaziabile (Ravenous), diretto nel 1999 dalla regista Antonia Bird.


Trama: durante la guerra tra Messico e America, il Capitano John Boyd viene mandato in un avamposto in Sierra Nevada. Un giorno arriva lì Colqhoun, più morto che vivo e reduce da una terribile esperienza di cannibalismo...



L'insaziabile è una bestia stranissima, per questo ancora più adorabile. La sua matrice horror è cristallina (ed è ciò che mi aveva attirata all'epoca assieme al cast maschile all-star, di cui parlerò nel paragrafo successivo), radicata nel mito indiano del Wendigo, demone che arriva a possedere chiunque osi macchiarsi di un crimine orrendo come quello di mangiare carne umana e che, in generale, rappresenta la gola, la rapacità, l'incapacità di contenere i propri desideri. L'insaziabile non è però solo un horror. Il film di Antonia Bird tocca diversi generi, in primis quello della commedia nera, grottesca, popolata da personaggi involontariamente esilaranti nelle loro idiosincrasie; il film "di guerra", all'interno del quale viene sviscerato non solo tutto l'orrore di un campo di battaglia ma anche il dramma umano di chi, pur odiandosi, cede all'istinto di sopravvivenza rifugiandosi in un atto di codardia che decorati generali mai costretti a prendere parte all'azione non riuscirebbero a comprendere; il racconto "di frontiera", fatto di paesaggi brulli ed inospitali, credenze indiane e pellegrini in pericolo. Questo mix di generi crea una pellicola vivace, capace di sorprendere continuamente lo spettatore e di coinvolgerlo in un'atmosfera che diventa sempre più inquietante e claustrofobica man mano che il film prosegue, inoltre porta sullo schermo personaggi complessi che non si limitano allo stereotipo "buono vs cattivo" oppure "vittime vs killer". Anzi, nel corso de L'insaziabile vengono posti parecchi dilemmi morali che sviscerano la natura fallace dell'uomo il quale, se messo alle strette, getta alle ortiche ogni remora affidandosi al mero istinto; la differenza tra Colquhoun e Boyd è sottile, in quanto i due personaggi sono fin dall'inizio assai simili nel loro desiderio di sopravvivere anche a costo di essere considerati due mostri, ma se Colquhoun sceglie consapevolmente di abbracciare la sua disumanità, Boyd ne rifugge, disgustato dalla propria paura della morte, additato come codardo da tutti i suoi commilitoni e, per questo, ritenuto inaffidabile. In sostanza, per quanto comprensibilmente, neppure Boyd è in grado di sacrificarsi per gli altri e ciò lo rende, agli occhi di Colquhoun, deprecabile quanto lui.


Assieme alla bella sceneggiatura (sulla quale non ricamerei oltre per evitare spoiler), ci sono due elementi che saltano all'occhio de L'insaziabile, riuscendo a fissarsi nella mente dello spettatore per anni. La colonna sonora assurda, realizzata da Damon Albarn e Michael Nyman, spicca per la presenza di un banjo che sembra quasi voler scandire il tempo che resta ai protagonisti e si insinua nella testa come il tarlo che divora Colqhoun e Boyd, insistente ed impossibile da ignorare; zeppa di elementi elettronici distorti, la colonna sonora stride con l'ambientazione da vecchio west del film e rende alcune scene ancor più grottesche e concitate, confermandosi come l'ennesima scelta azzardata ma azzeccatissima di un film che di banale non ha davvero nulla. Il secondo motivo per cui L'insaziabile è riuscito a diventare un cult fin dalla prima volta che l'ho visto è la presenza di attori della madonna, gestiti magistralmente da una regista che è scomparsa purtroppo giovanissima e che chissà quali altre chicche avrebbe potuto regalarci. Robert Carlyle è letteralmente mostruoso, tanto che le efferatissime scene splatter di cui è gremito L'insaziabile fanno molta meno impressione di lui, con quegli occhi ferini e i movimenti animaleschi, imprevedibili sia nel bene che nel male, che caratterizzano il suo personaggio anche nel repentino cambiamento di metà film. Anche gli altri attori però non sono da meno. Guy Pearce, il quale pur essendo il protagonista non apre bocca per i primi venti minuti, lascia che sia lo sguardo terrorizzato da bestia braccata a parlare; l'aspetto naturalmente amabile e pacioso di Jeffrey Jones ci fa adorare fin da subito il suo Colonnello Hart, con tutte le conseguenze del caso, mentre tra i soldati "semplici" si distinguono il biondissimo e folle Neal McDonough e il tenerissimo, ridicolo Jeremy Davies, protagonista di una delle scene più raccapriccianti (benché solo suggerita) del film, perfetta combinazione di dialoghi, interpretazioni e montaggio. Se non avete mai visto L'insaziabile consiglio di recuperarlo appena possibile perché è davvero un gioiello che non dimenticherete facilmente, nemmeno se, come me, avete ormai il cervello zeppo di film!


Di Guy Pearce (Capitano John Boyd), Robert Carlyle (Colonnello Ives/F.W. Colqhoun), David Arquette (Soldato Cleaves), Jeffrey Jones (Colonnello Hart) e Neal McDonough (Soldato Reich) ho parlato ai rispettivi link.

Antonia Bird è la regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Il prete e Face. Anche produttrice, è morta nel 2013 all'età di 62 anni.


Jeremy Davies interpreta il Soldato Toffler. Americano, lo ricordo per film come Nell, Twister, Salvate il soldato Ryan, The Million Dollar Hotel e Dogville, inoltre ha partecipato a serie come Melrose Place, Lost, Hannibal, Twin Peaks e American Gods. Ha 49 anni.


Antonia Bird è stata chiamata, su suggerimento di Robert Carlyle, per sostituire il regista Milcho Manchevski, licenziato dopo sole due settimane; la produzione aveva suggerito di affidare il progetto a Raja Gosnell ma giustamente i membri del cast sono insorti. ENJOY!

domenica 28 gennaio 2018

Brimstone (2016)

L'"allegria" che ha pervaso le mie ferie natalizie si è impennata brutalmente durante la visione di Brimstone, film diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Martin Koolhoven.


Trama: l'arrivo di un nuovo reverendo sconvolge la vita di una tranquilla famiglia ai tempi del Far West...



Mi avevano avvertita che Brimstone sarebbe stato un bel calcio nello stomaco ma francamente speravo nelle solite iperboli risolvibili in un "nulla di fatto". E, detto in tutta sincerità, l'ambientazione da western e la durata di quasi tre ore mi hanno causato più di un dubbio all'inizio, uno scompenso durato un minuto scarso perché Brimstone agguanta lo spettatore alla gola fin da subito e lo percuote, senza lasciarlo andare, fino alla fine della pellicola. Pur non essendo un horror vero e proprio, Brimstone mette in scena l'Orrore con la O maiuscola, quel genere di situazione che porta qualsiasi persona dotata di un cervello a bestemmiare ogni divinità pregando che l'antagonista principale crepi nel modo peggiore possibile e a coprirsi gli occhi davanti a cose inenarrabili; è quel genere di film che ti conforta con la bellezza di una regia e una fotografia prive di difetti, pulite e bellissime, intanto che ti racconta le peggio bastardate di un mondo rigurgitante ignoranza. Fulcro della storia è Liz, una bravissima Dakota Fanning, "ostetrica" del villaggio nonché muta. L'aura che avvolge Liz è misteriosa e il suo lavoro in una società particolare ed isolata come quella del far west (il film a occhio e croce è ambientato nel diciannovesimo secolo) è in odore di stregoneria e proprio la caccia alle streghe pare la direzione in cui è rivolto Brimstone, almeno all'inizio. L'arrivo del nuovo reverendo, interpretato dal più cattivo Guy Pearce che abbia mai visto sullo schermo, turba visibilmente Liz, al punto che lo spettatore horror più smaliziato potrebbe immaginare un paio di svolte della trama, ovvero quella in cui il reverendo in realtà è l'Anticristo (e tutto lo farebbe supporre, ma anche un fantasma, come hanno fatto notare alcuni critici) oppure quella in cui Liz verrà tacciata di stregoneria e arsa sul rogo dal pio quanto maledettissimo esponente del clero. In verità, e qui smetto di raccontare la storia, Brimstone si sviluppa in modo ancora differente, facendo ricorso ad un'interessante divisione in capitoli e ad una tecnica di narrazione a ritroso che svela il terrificante arcano in maniera elegante, efficace e a dir poco scioccante.


Koolhoven racconta una società estremamente maschilista dal punto di vista di una donna, anzi, di più donne che ne hanno viste di cotte e di crude, il cui unico desiderio è una vita serena in cui le proprie figlie possano crescere senza il timore di venire insidiate da orchi che le vedono come un mero accessorio arrivando a stravolgere ogni legge, terrena o divina, per rafforzare la loro presunta supremazia maschile. E' angosciante il modo in cui, nel film, tutto ciò che dovrebbe di regola essere "puro" o comunque "giusto" venga ignobilmente corrotto per i bisogni di una singola persona capace di fare leva sull'ignoranza di una congregazione di fedeli oppure su quella di un branco di bifolchi assetati di sangue, eppure è probabilmente quello che succedeva all'epoca, anche se noi, quando pensiamo a "western", pensiamo ad eroici sceriffi solitari dal grilletto facile per i quali le donne sono un allegro "di più", un premio alla fine di un'avventura. Nonostante l'introduzione e nonostante l'adozione di un punto di vista prettamente femminile, in Brimstone non ci sono però eroine infallibili alla Beatrix Kiddo ma solo donne che cercano disperatamente di sopravvivere in un mondo pronto a masticarle e sputarle, una società che non perdona e offre come via di fuga solamente la morte. Diverse storie scorrono parallele nel film, con rimandi continui all'una o all'altra linea temporale, ma la morte è l'unica costante di ognuna di essere, assieme al terrore; i deboli ricorrono alla morte per fuggire a un destino ingrato, lasciando le persone amate in balia del pericolo, alcuni la sfruttano proprio per proteggere i propri cari, altri le vanno incontro con serenità, consapevoli di amare ed essere amati e, soprattutto, di avere fatto tutto il necessario per coloro che sono riusciti a rimanere in vita. Non si vede tanto gore in Brimstone ma c'è tanta, tantissima violenza. E non è tanto quella fisica a turbare, ché la maggior parte delle scene scioccanti rimane fortunatamente fuori campo, quanto quella psicologica, l'angoscia di quasi tre ore di umiliazioni, ingiustizie, torture e orribili pensieri che vanno a formarsi inevitabilmente nella mente dello spettatore. Strano trovare tanta bellezza nell'orrore e viceversa, eppure Brimstone ci riesce e, anche solo per questo, è un film che merita di essere visto e amato, anche se forse una seconda visione risulterebbe molto difficile, più della prima.


Di Dakota Fanning (Liz), Guy Pearce (il Reverendo) e Carice Van Houten (Alice) ho già parlato ai rispettivi link.

Martin Koolhoven è il regista e sceneggiatore della pellicola. Originario dei Paesi Bassi, ha diretto film come Schnitzel Paradise e Winter in Wartime, entrambi inediti in Italia. Anche attore, ha 49 anni.


Paul Anderson interpreta Frank. Inglese, ha partecipato a film come A Lonely Place to Die, Sherlock Holmes - Gioco di ombre, Legend, Revenant - Redivivo e a serie come Doctor Who. Ha 39 anni e un film in uscita.


Kit Harington interpreta Samuel. Inglese, famosissimo Jon Snow della serie Il trono di spade, ha partecipato a film come Silent Hill: Revelation 3D e da doppiatore ha lavorato nel film Dragon Trainer 2. Anche sceneggiatore e produttore, ha 32 anni e un film in uscita.


Se avete pensato che l'attore che interpreta Wolf vi ricordasse qualcuno, per esempio Tim Roth, siete sulla giusta strada: trattasi infatti del figlio Jack, comparso anche in Rogue One e L'uomo di neve. Carla Juri, che interpreta Elizabeth Brundy, era invece la dottoressa Ana Stelline dell'ultimo Blade Runner 2049. A Mia Wasikowska era stato offerto il ruolo di protagonista ma l'attrice ha rinunciato per prendersi un periodo di riposo; la sua defezione ha causato un po' di ritardi in fase di produzione e, pensando che il film non si facesse più, anche Robert Pattinson si è tirato indietro, lasciando il posto a Kit Harrington (e pentendosene amaramente una volta visto il film...). Se Brimstone vi fosse piaciuto recuperate La morte corre sul fiume, The Hateful Eight e Bone Tomahawk. ENJOY!


martedì 23 maggio 2017

Alien: Covenant (2017)

Confortata da un paio di pareri entusiasti tirati fuori dalle persone che più stimo in campo di cVitica cinematogVafica, mercoledì ho deciso di dare una chance ad Alien: Covenant, diretto da Ridley Scott.


Trama: l'equipaggio della nave spaziale Covenant intercetta un messaggio proveniente da un pianeta molto simile alla Terra. Convinti di potervi stabilire una colonia, gli astronauti atterrano solo per scoprire che il pianeta non è ospitale come pensavano...


Probabilmente l'ho già scritto nel post su Prometheus ma in tempi di haters e troll non fa mai male ripeterlo: i film della saga di Alien li ho visti tutti, almeno una volta, ma non hanno mai segnato il mio percorso cinematografico e mi sono limitata ad apprezzarli (qualcuno più, qualcuno meno) senza diventare uno di quei fan capaci di citarli a memoria o addirittura di scovare gli errori di continuity. Per me, insomma, Ridley Scott può fare un po' quello che vuole con la "sua" creatura e non mi offendo se sceglie di cancellare ciò che è venuto dopo il primo Alien con un colpo di spugna preferendo attingere più a Prometheus che al film del 1979. A proposito di Prometheus, della trama rammentavo poco e nulla e ho quindi passato la pausa tra primo e secondo tempo di Alien: Covenant a spulciare Wikipedia scatenando lampi di memoria nel mio cervellino provato dalle continue visioni, cosa che mi ha spinto a considerare una cosa: di sicuro Prometheus era ridondante da morire, con una trama al limite del fastidioso, a tratti incomprensibile, ma diamine le immagini che aveva! Non a caso, alla prima riga di ogni paragrafo del riassunto di Wikipedia smettevo di leggere in quanto i miei neuroni riuscivano a produrre il ricordo delle sequenze perfette di Prometheus, capaci di rimanere impresse più di mille spiegoni ed intrecci, e non a caso sono tornata alla magione pensando "A Ridley Scott non dovete ca*are il ca**o" (cit.). Perché è vero che Alien: Covenant ha una trama facilona, personaggi al limite della stupidità abbozzati alla bell'e meglio (tutti tranne uno) e twist che lo spettatore medio potrebbe riuscire ad anticipare almeno due ore prima che accadano, ma è soprattutto uno spettacolo per gli occhi, la dimostrazione che un regista di ottant'anni è in grado di dare tanta di quella mer*a ai suoi colleghi più giovani da seppellirli per l'eternità, come se non fosse bastato l'esempio di George Miller con Mad Max: Fury Road. Alien: Covenant, forse il film della saga più horror di sempre (ma potrei sbagliarmi), desta ammirazione grazie ai campi lunghi che mostrano spazio profondo e pianeti, sconvolge per la grandiosità con cui viene resa una civiltà ormai morta, emoziona durante una concitata fuga e lascia a bocca aperta per una sequenza bellissima che sfrutta alla perfezione l'assenza di gravità e rende poetico persino l'utilizzo improprio di un modulo spaziale... e questo solo per fare pochi esempi che persino il mio occhio becero è riuscito ad apprezzare ma poi c'è tutta la costruzione della tensione di cui parlare, una roba che il 90% degli horror recenti può solo sognarsi.


E il 90% degli horror recenti può sognarsi Fassbender, ça va sans dire. 
Hic sunt SPOILER, mi spiace
Se in Prometheus ho accolto ogni azione del personaggio David con un enorme punto interrogativo sulla capoccia qui ho provato molto più terrore ad ogni sua comparsa piuttosto che davanti alle zanne dello xenomorfo/neomorfo. E sì, la storia del doppio e di come sarebbe andata a finire la questione era telefonata fin dal taglio di capelli dell'androide (ma come hanno fatto a crescergli??), così come l'utilizzo improprio del chiodo, ma non importa: proprio la convinzione che la faccenda si sarebbe conclusa nel peggiore dei modi ha reso Fassbender una figura demoniaca e glaciale, un folle dal sembiante accattivante e raffinato, una creatura desiderosa di imporre la sua superiorità ai creatori e persino ai creatori dei creatori, e pazienza se la sua progenie e l'incarnazione stessa di un incubo.
FINE SPOILER
Alien: Covenant meriterebbe quindi la visione già "solo" per la bravura di Fassbender ma la verità è che come horror, prima ancora che come parte di una saga, funziona e fa il suo dovere anche al netto di quei necessari "momenti Prometheus" giustamente messi alla berlina da Leo Ortolani. La tensione si taglia col coltello, ci sono sequenze incredibilmente splatter, quel disperato senso di claustrofobica ineluttabilità che è proprio dei migliori horror ambientati nello spazio "dove nessuno può sentirti urlare" e con un paio di personaggi, nella fattispecie Daniels e Tennessee, si può anche empatizzare... basta far finta di non vedere l'inutile Oram di Billy Crudup, forse l'elemento più inutile e dannoso del film. Insomma, non sono una fan di Alien quindi non posso sapere perché questo Alien: Covenant è diventato in poco tempo uno dei film più odiati di sempre (nell'attesa che esca l'ultimo di Nolan, ovvio, o qualche altro remake di intoccabili cult anni '80) ma dall'alto della mia ignoranza crassa posso dire che a me è piaciuto davvero molto. Bravo Ridley Scott, continua così e, come si dice in Liguria, battitene u belin.


Del regista Ridley Scott ho già parlato QUI. Michael Fassbender (David/Walter), Katherine Waterston (Daniels), Billy Crudup (Oram), Danny McBride (Tennessee), Demián Bichir (Lope), Carmen Ejogo (Karine), Callie Hernandez (Upworth), James Franco (Branson), Guy Pearce (Peter Weyland) e Noomi Rapace (Elizabeth Shaw) li trovate invece ai rispettivi link.

Amy Seimetz interpreta Faris. Americana, ha partecipato a film come You're Next, The Sacrament e a serie come Stranger Things. Anche sceneggiatrice, regista, produttrice e costumista, ha 36 anni e tre film in uscita.


Alien: Covenant è preceduto da due corti che dovreste poter trovare su Youtube; uno è Alien: Covenant - Prologue: Last Supper (che mostra l'equipaggio della Covenant prima del sonno criogenico), l'altro è Alien: Covenant - Prologue: The Crossing e mostra cos'è successo a David e alla dottoressa Shaw dopo Prometheus, di cui Alien: Covenant è ovviamente il sequel e sarebbe meglio che lo guardaste prima di recarvi in sala. Nell'attesa che esca l'ultimo capitolo della trilogia promessa da Ridley Scott, se Alien: Covenant vi fosse piaciuto recuperate Alien, Aliens - Scontro finale, Alien³ e Alien - La clonazione e magari aggiungete Life: Non oltrepassare il limite. ENJOY!

mercoledì 16 novembre 2016

Genius (2016)

Questa settimana sono usciti parecchi film validi al cinema e senza dubbio uno di questi è Genius, diretto dal regista Michael Grandage e tratto dalla biografia Max Perkins: Editor of Genius di A. Scott Berg.


Trama: Max Perkins, editore presso la famosissima casa Charles Scribner's Sons, si ritrova tra le mani il lunghissimo romanzo d'esordio di Thomas Wolfe, scrittore spiantato al quale decide di dare una possibilità, consacrandolo così a genio della letteratura americana.


Data la mia atavica ignoranza in campo letterario, ammetto candidamente di non avere mai sentito parlare di Thomas Wolfe, neppure negli anni passati all'università (a dire il vero il corso di letteratura americana l'ho abbandonato dopo una sola lezione, tanto poco mi interessava l'argomento), quindi il film Genius è stato per me una sorpresa totale. In tutta onestà, dopo averlo visto la voglia di recuperare eventuali opere di Wolfe mi è passata in toto: logorroico, autobiografico, con uno stile pesantemente contaminato da afflati poetici, credo mi addormenterei alla terza pagina dei due romanzi nominati nel film (Angelo, guarda il passato e Il fiume e il tempo), a differenza di quanto accaduto all'epoca all'editore Max Perkins il quale, ritrovatosi tra le mani il lunghissimo manoscritto che sarebbe diventato Angelo, guarda il passato, ha deciso invece di dare una chance a Wolfe, aiutandolo a rendere la sua opera il più possibile scorrevole e fruibile per il pubblico. La pellicola di Michael Grandage pone quindi sotto i riflettori non tanto lo scrittore o il processo creativo, come spesso accade in altri film, bensì la figura dell'editore e del lavoro di lima e cesello che sta dietro ad ogni opera scritta, offrendo allo spettatore non solo la storia di un'amicizia travagliata e lo scontro di due personalità apparentemente agli antipodi ma anche uno sguardo su una parte di realtà editoriale spesso messa in secondo piano. Superficialmente, molti penserebbero che il lavoro di un editore sia assimilabile a quello del correttore di bozze, più focalizzato sulla forma, la sintassi e la grammatica, invece in Genius vediamo come un editore con le palle intervenga anche sulla struttura stessa dei romanzi che gli vengono sottoposti, eliminando eventuali lungaggini, assicurandosi che l'autore abbia chiara la direzione da far intraprendere alla sua opera e diventando di fatto una sorta di co-autore. Nel caso di Perkins e Wolfe, vediamo come il lavoro del primo sia sempre stato percepito come una sorta di "ingerenza" da parte del secondo, il cui ego smisurato lo portava a scrivere fiumi di parole da lui stesso ritenute, immancabilmente, fondamentali per esprimere a fondo i propri pensieri; allo stesso tempo, davanti ad un lavoro di revisione e scrematura durato due anni, a costo di pesanti perdite personali subite da entrambi, è legittimo chiedersi se un romanzo come Il fiume e il tempo non abbia ottenuto il successo che ha consacrato Wolfe a genio della letteratura americana anche e soprattutto per merito dell'abilità di Max Perkins. Genius non da una risposta chiara a questo quesito ma di sicuro porta a riflettere, inoltre gioca interamente sul parallelo tra il rapporto lavorativo instauratosi tra Perkins e Wolfe e quello assai simile tra un padre e un figlio, con Perkins che cerca non solo di migliorare l'opera dello scrittore ma anche di instradare la debordante personalità del suo protetto, fondamentalmente un individuo ingrato ed egoista dotato del dono della scrittura facile.


Attorno a queste due figure ruotano altri rappresentanti della scena culturale americana ai tempi della depressione, quali un F. Scott Fitzgerald in piena crisi creativa e un Hemingway in cerca di emozioni forti, e ovviamente le presenze femminili fondamentali (in positivo o in negativo) all'interno della vita dei due protagonisti. Tra tutte spicca una ritrovata Nicole Kidman nei panni di Aline Bernstein, "musa" iniziale di Wolfe, che per lui ha abbandonato marito e figli ritrovandosi con un pugno di mosche quando il giovane scrittore ha deciso di consacrarsi interamente al lavoro; nonostante sia un personaggio assai teatrale, la Kidman riesce a tratteggiarlo con la dose di umanità necessaria affinché il pubblico arrivi ad empatizzare con i gesti della donna, anche quando essi sfiorano il limite dell'autolesionismo. Allo stesso modo, Colin Firth e Jude Law sono favolosi e perfettamente complementari. Il primo indossa i panni a lui più congeniali, quelli dell'americano "all'inglese" apparentemente privo di emozioni che non siano quelle legate alla professione svolta, ed è bello vederlo aprirsi a poco a poco sia con Wolfe che con la chiassosa famiglia composta esclusivamente da donne (per non parlare poi del finale commoventissimo); il secondo è una roboante fucina di parole a propulsione eterna, il cui volto viene costantemente animato dalla miriade di violente emozioni provate dal personaggio durante tutte le fasi della sua breve carriera da scrittore ed è in grado di provocare sia nello spettatore sentimenti ambivalenti di ammirazione e odio. Tra i due non saprei dire chi ho preferito, anche perché, come ho detto, i caratteri contrastanti di entrambi i personaggi si completano a vicenda e i duetti tra loro sono a tratti emozionanti quanto quelli tra Salieri e Mozart sul finale di Amadeus, soprattutto quando il montaggio (curatissimo, come la regia, la fotografia e la generale ricostruzione storica) offre allo spettatore uno scorcio di "processo creativo" durante il quale si alternano animate discussioni, implacabili segni di matita rossa e un paragrafo che viene a poco a poco spogliato da tutti i suoi inutili orpelli. Diciamo, molto banalmente, che i fan dei due attori avranno molto di cui godere, soprattutto guardando il film in lingua originale... e, potrei sbagliarmi, ma sento odore di candidature all'Oscar. A prescindere, Genius è un film che consiglio a tutti quelli che amano non solo il buon cinema attoriale ma anche le pellicole di stampo biografico, soprattutto quelle che si focalizzano su eventi non proprio universalmente conosciuti, e ovviamente i libri. Sia mai che capiti di guardare il romanzo che abbiamo tra le mani con occhi diversi!


Di Colin Firth (Max Perkins), Jude Law (Thomas Wolfe), Nicole Kidman (Aline Bernstein), Laura Linney (Louise Perkins), Guy Pearce (F. Scott Fitzgerald) e Dominic West (Ernest Hemingway) ho già parlato ai rispettivi link.

Michael Grandage è il regista della pellicola, al suo debutto dietro la macchina da presa. Inglese, ha lavorato come attore e produttore e ha 54 anni.


Se Genius vi fosse piaciuto recuperate L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo. ENJOY!

domenica 14 agosto 2016

Equals (2015)

Come ennesima riprova di una distribuzione estiva quest'anno stranamente attiva, oggi parlerò di Equals, diretto e co-sceneggiato nel 2015 dal regista Drake Doremus.


Trama: in un futuro distopico in cui provare sentimenti è visto come una malattia, Silas e Nia arrivano ad innamorarsi l'uno dell'altra...


Nonostante ciò che puntualmente leggete sul Bollalmanacco, dovete sapere che sotto sotto sono una romanticona. Non che vada a cercare col lanternino film d'amore, per carità, tuttavia guardando horror, action, serie TV e quant'altro mi ritrovo spesso a convertire il mio cervellino grebano in modalità fangirl e a sperare contro qualsiasi razionalità nell'evoluzione di improbabili storie d'amore tra personaggi, rimanendo spesso col cuoricino spezzato davanti a relazioni contrastate, finali non graditi et cetera et cetera. L'amore ai tempi della distopia anafettiva era quindi potenzialmente qualcosa di devastante per la sottoscritta, a rischio "fontane del niagara" a livelli di Non lasciarmi, quindi spinta anche e soprattutto dalla presenza dell'ormai quotatissimo Nicholas Hoult, oltre che dall'effettiva bellezza delle immagini viste nel trailer, ho scelto di dare una chance ad Equals. Non me ne sono pentità perché Equals è un film che coinvolge molto e che scorre veloce nonostante un'innegabile prevalenza di gesti e sguardi sui dialoghi, tuttavia devo anche dire che la storia d'amore tra Silas e Nia, per quanto contrastata, difficile e necessariamente tenuta segreta, non mi ha provata emotivamente tanto quanto avrei creduto. Ciò che mi ha intrigata durante la visione del film non è stato infatti lo svisceramento dei sentimenti dei protagonisti (ho una mia teoria sul motivo ma ne parlerò più avanti), rappresentato in modo particolare ed interessante nella prima metà del film ma in maniera meno efficace nella seconda, quanto la rappresentazione di una società in cui le persone ritengono naturale non provare emozioni. Nella distopia di Equals la sensibilità è un difetto del DNA che gli scienziati provvedono a correggere già alla nascita e che spesso sfugge tuttavia al controllo, rendendo così necessaria la presenza di un regime di polizia atto a stanare i malati, a curarli durante i primi stadi del "morbo" e infine a rinchiuderli in un istituto dove verranno condannati a morte; non è dato sapere con precisione il perché di una simile evoluzione della società ma nel corso del film arriviamo ad intuire che il motivo di tale soppressione dei sentimenti potrebbe coincidere con una guerra devastante che in passato ha distrutto buona parte del pianeta Terra. Il risultato è un mondo dove le persone interagiscono nei limiti della reciproca utilità lavorativa, con fredda cortesia, bombardati da continue "istruzioni" su come comportarsi in caso subentrassero emozioni indesiderate e spinti a segnalare la presenza di vicini o colleghi che potrebbero essere affetti dalla temibile "malattia", in un clima costante di oppressivo e guardingo terrore.


Come dicevo, la parte interessante di Equals è quindi il modo in cui Silas reagisce alle sensazioni nuove che cominciano a germogliare dentro di lui, dapprima temendole poi abbandonandovisi quasi con beata incoscienza, e il primo stadio del rapporto che si instaura tra lui e Nia, che convive con la sua stessa malattia ma, a differenza di Silas, non ha fatto rapporto alle istituzioni sanitarie e vive dunque in una condizione di pericolo costante. I primi, timidi accenni di contatto tra i due sono un trionfo di inquadrature focalizzate su sguardo, labbra e mani, con la cinepresa che entra a spiare nell'unico, claustrofobico posto in cui i protagonisti possono essere liberi di parlarsi e toccarsi, interamente illuninato da una fredda luce blu che, di fatto, è il colore prevalente della pellicola, soprattutto quando i personaggi agiscono nei confini della "legalità" (Silas e Nia vivono la prima fase del loro amore all'interno della ditta per cui lavorano, quindi sottoposti al rischio di essere scoperti dall'occhio del Grande Fratello). In seguito, non voglio dire che Equals si afflosci, tuttavia segue percorsi già battuti ed indugia forse troppo sulle promesse d'amore eterno di Silas e Nia, scadendo spesso e volentieri nel melodrammatico. Il problema di cui parlavo sopra è la mia incapacità di provare più di una limitata empatia verso i protagonisti, molto probabilmente perché, per quanto non neghi la sua bravura all'interno di questo film, proprio non sopporto la faccia di Kristen Stewart (come già non sopportavo quella della Knightley) e continuo a trovarla non solo inespressiva e brutta da morire, ma anche e soprattuttamente una "resting bitch face". Non è colpa sua, poveraccia, quella faccia lì ce l'hai e te la tieni, ma davvero non c'era nessun'altra da affiancare a Nicholas Hoult, sempre tenerello e tanto bravo? Mah. Probabilmente però non era nelle intenzioni di Doremus portare il pubblico a piangere a dirotto, tant'è che Equals mi è sembrato in generale molto trattenuto, quasi una propaggine delle dure leggi che governano la distopia rappresentata, diretto con piglio ferreo ed elegante e persino privo di una colonna sonora "strappalacrime"; comunque, parliamo di un film sicuramente meritevole di una visione, soprattutto se vi piace questo genere di pellicola.


Di Nicholas Hoult (Silas), Kristen Stewart (Nia) e Guy Pearce (Jonas) ho parlato ai rispettivi link.

Drake Doremus è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Like Crazy. Anche attore, ha 33 anni.


Jennifer Lawrence ha letto lo script del film assieme a Nicholas Hoult e se n'è innamorata, tuttavia ha scelto di non interpretare il personaggio di Nia, non sentendolo suo. Detto questo, se Equals vi fosse piaciuto consiglierei la lettura del bellissimo romanzo The Giver di Lois Lowry. ENJOY!

venerdì 15 luglio 2016

Lockout (2012)

E fu così che un giorno mi ritrovai a vedere Lockout, tamarrata galattica diretta nel 2012 dai registi James Mather e Stephen St. Leger, prodotta  e co-sceneggiata dal buon Luc Besson. Il perché lo trovate nel post.


Trama: incastrato per aver rubato una valigetta contenente segreti di stato, Snow viene condannato a trent'anni da scontare in sospensione criogenica all'interno di un carcere di massima sicurezza nello spazio. Quando all'interno del carcere scoppia una rivolta e la vita della figlia del presidente viene messa in pericolo, Snow viene "graziato" e costretto ad improvvisarsi eroe per salvarla...


La fangirlitudine
Quando mi fisso su qualcosa è la fine, purtroppo. Dopo la prima puntata di Preacher il mio cuoricino di fangirl ha scoperto l'inglesotto Joseph Gilgun e da allora è stato aMMore a prima vista, con conseguente desiderio di recuperare il recuperabile su questo particolare figuro (non ho detto figo, eh. Figuro.). Il recupero, ahimé, verte soprattutto sulla serie TV Misfits e sul mix di film e miniserie targato This is England, cosa che richiederà un po' di tempo, ma Gilgun ha avuto modo di partecipare anche ad un paio di film tra cui questo e un altro paio di pellicole che dovrei guardare prossimamente. Stavolta diciamo che è andata bene ma non benissimo: effettivamente il buon Joseph qui ha un ruolo abbastanza consistente, per quanto limitato al minacciare la povera Maggie Grace e concupirla uccidendo gente a destra e manca, per giunta il make up col quale l'hanno imbruttito è particolarmente fantasioso, ma Lockout in sé non è proprio uno di quei film da vedere a tutti i costi (tra l'altro ritrovarsi a parteggiare per uno psicopatico non ha giovato al mettere in prospettiva l'intera vicenda, insomma). Trattasi in soldoni di un action "alla Bruce Willis" con Guy Pearce al posto dell'adorato pelatone, nel quale lo stereotipato personaggio duro e chiacchierone è costretto a scontrarsi contro non meno di un centinaio di bruti violenti, con l'aggiunta di quel tocco spaziale-zamarro che fa molto Luc Besson. Come dite? Tutto ciò vi ricorda qualcosa, diciamo un 1997: fuga da New York? Beh, a Carpenter sì, tant'è che ha fatto causa per plagio a Besson e soci e ha pure vinto. Ma fingiamo di non aver scritto l'ultima riga e continuiamo. A far da corollario ci sono degli alti papaveri che vanno dall'ironico/compiacente all'ironico/stronzo mentre l'eroina di turno è una figlia di papà stranamente non viziata ma anche troppo idealista, che nel corso del film rischierà di venire violentata o uccisa più di una volta, cosa che la porterà inevitabilmente a riconsiderare i suoi alti ideali e a vivere come una fanciulla normale (leggi: che l'eroe possa portarsi a letto) mentre i cattivissimi carcerati sono tutti delle brutte facce intercambiabili, eclissati dall'indubbio carisma del folle personaggio di Gilgun.


Rispetto ad altri film simili, Lockout è giusto un pelo più fantascientifico e violento, piuttosto specifico per quel che riguarda alcune operazioni mediche che potrebbero spingere i più sensibili a voltarsi un attimo dall'altra parte (io ve lo dico, c'entrano occhi ed aghi. Lettori avvisati...) e, neanche a dirlo, da facepalm per quanto concerne l'incredibile fortuna dell'eroe e dell'eroina e l'ancor più incredibile noncuranza per il resto del cast: ingegneri vengono falciati senza pietà, cittadini vengono crivellati di colpi a causa del grilletto facile della polizia e, soprattutto, detenuti vengono usati come cavie da laboratorio causando giusto un'alzata di sopracciglio a Pearce e un brividino di dispiacere alla Grace. Passando alla realizzazione, direi che George Lucas (seguendo le orme di Carpenter) avrebbe potuto tranquillamente citare per plagio i registi e gli sceneggiatori di Lockout visto il finale praticamente identico a quello del primo Guerre stellari, un bailamme di navicelle spaziali, droni e bombe che vanno ad aggiungersi al florilegio di esplosioni di cui è costellato il film, dall'inizio alla fine. Se poi vi chiederete, mentre scorrono i titoli di coda, il significato della valigetta alla quale tutti sembrano così interessati e che costituisce il fulcro iniziale della trama, sappiate che probabilmente Besson e soci sarebbero costretti a dare dei soldi anche a Tarantino oltre che a Lucas, visto che tutti la guardano contenti come Jules in Pulp Fiction ma nessuno ha la bontà di spiegare allo spettatore il motivo di tutto 'sto casino. Beh, io invece ve l'ho spiegato perché ho scelto di guardare Lockout e vi direi che se non siete stati colti dalla mia stessa Gilgunmania potete anche bypassare e cercare qualche film più impegnativo e meno supercazzola.


Di Guy Pearce (Snow) e Peter Stormare (Scott Langral) ho già parlato ai rispettivi link.

James Mather è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, per ora al suo primo e unico lungometraggio. Irlandese, lavora principalmente come direttore della fotografia, per esempio in film come Frank.
Stephen St. Leger è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, per ora al suo primo e unico lungometraggio. Irlandese, lavora principalmente come assistente alla regia, per esempio in serie come Vikings.


Maggie Grace interpreta Emilie Warnock. Americana, la ricordo per film come The Fog - Nebbia assassina, The Experiment, Breaking Dawn - Parte I e II, inoltre ha partecipato a serie come CSI - Miami, Cold Case e Lost. Anche produttrice, ha 33 anni e quattro film in uscita.


Vincent Regan interpreta Alex. Inglese, ha partecipato a film come Giovanna D'Arco, 300, Ghost Rider - Spirito di vendetta e Biancaneve e il cacciatore. Ha 51 anni e quattro film in uscita.


Joseph Gilgun interpreta Hydell. Inglese, meraviglioso Cassidy della serie Preacher (della quale parlerò appena finita la prima stagione), ha partecipato a film come This Is England, Harry Brown, Pride, The Last Witch Hunter - L'ultimo cacciatore di streghe e ad altre serie come This is England '86, This is England '88, Misfits e This is England '90. Ha 32 anni e due film in uscita.


Se vi state chiedendo dove l'avete già visto sappiate che Lennie James, che interpreta Harry Shaw, è l'ammorbante Morgan della serie The Walking Dead. Detto questo, se Lockout vi fosse piaciuto recuperate 1997: Fuga da New York e Fuga da Los Angeles. ENJOY!

venerdì 24 giugno 2016

Priscilla - La regina del deserto (1994)

Oggi ho deciso di ripescare un film cult che col tempo si è ritagliato un posto specialissimo nel mio cuore, ovvero Priscilla - La regina del deserto (The Adventures of Priscilla, Queen of the Desert), diretto e sceneggiato nel 1994 dal regista Stephan Elliott.


Trama: dopo aver ricevuto una telefonata dalla moglie, che gli ha chiesto di fare uno spettacolo ad Alice Springs, la drag queen Mitzi si mette in viaggio assieme al collega Felicia e al trans Bernadette, a bordo di un pulman battezzato Priscilla, la regina del deserto...


Passano gli anni, ormai sono più di 20, ma Priscilla - La regina del deserto rimane sempre un film divertentissimo e capace di far riflettere. Sono poche le pellicole a sfondo "arcobaleno" in grado di mantenersi in equilibrio tra umorismo e denuncia sociale senza scadere nella farsa o nella tragedia e soprattutto credo che Priscilla sia l'unica a raccontare con naturalezza le vicende umane di tre uomini che, prima ancora di venire etichettati come gay, trans, travestiti o quant'altro, sono semplicemente tre esseri umani. Il road trip di Mitzi, Felicia e Bernadette attraverso le zone desertiche dell'Australia e i minuscoli paesini che le punteggiano è un classico viaggio di scoperta, rinascita e presa di coscienza, durante il quale le tre artiste sono innanzitutto costrette a sopportarsi a vicenda, cosa non facile, in secondo luogo ad affrontare i tristi pregiudizi di un Paese ancora sostanzialmente retrogrado (nonostante i tipi assurdi che vi si possono incontrare), popolato da "dure" figure maschili al limite dello stereotipo e femmine assoggettate a questi villani barbuti ed ubriaconi; in un trionfo di glitter, piume di struzzo e "frocks", le tre eroine attirano a sé come delle calamite gli spiriti liberi che hanno la fortuna di incontrare, facendosi accettare e cambiando in meglio le loro esistenze, e talvolta sono costrette a frenare la propria esuberanza, acquistando esperienza in un mondo ancora non pronto ad accoglierle. All'interno del trio possiamo osservare anche tre modi diversi di vivere l'omosessualità, a seconda dell'età anagrafica del singolo. Abbiamo la giovane Felicia, "antipatico" stronzetto convinto di avere il mondo in mano ed interessato solo ai lustrini e all'aspetto fisico, la "mezzana" Mitzi, abbastanza adulto da avere provato anche esperienze eterosessuali e dotato di un passato sconosciuto alle due amiche, infine c'è Bernadette, la più anziana e matura, dolorosamente consapevole del fatto che la sua scelta di vita rischia di condannarla alla solitudine proprio nel momento di maggiore vulnerabilità. L'intreccio di questi caratteri così diversi e di queste varie esperienze di vita, vivacizzato da dialoghi naturalissimi e assai coloriti, è uno dei punti forte del film ed è necessario a far sì che lo spettatore si affezioni a tutti e tre i personaggi, magari preferendone uno in particolare (io ho sempre amato Bernadette, la trovo molto commovente).


Nonostante il piglio serio che ha preso il post (d'altronde sto diventando vecchia e malinconica come Bernadette), Priscilla - La regina del deserto è anche e soprattutto apparenza, fatta di stupendi paesaggi naturali, mise e make-up da urlo e tanta, tanta musica. Il road trip delle tre grazie tocca posti davvero esistenti, a cominciare dalla cittadina di Broken Hill in cui spicca il trashissimo Mario's Palace Hotel il quale non è assolutamente un'invenzione degli scenografi: purtroppo la stanza dove alloggiano le protagoniste era occupata ma vi assicuro che soggiornare in quel trionfo di corridoi dipinti è stata un'esperienza indimenticabile, per quanto spartana (le camere e la cittadina in sé non sono nulla di che, uno di quei posti che ti porta a chiedere come facciano gli abitanti a sopravvivere senza impiccarsi dalla noia...) e la sola idea di avere condiviso un pezzo di viaggio con Felicia e compagnia mi ha scaldato il cuore. Allo stesso modo, scalda il cuore scatenarsi al ritmo delle canzoni cantate in playback dalle nostre eroine, capaci di unire i personaggi più inaspettati, che siano vecchi burberi dal matrimonio facile a giovani aborigeni che probabilmente non avevano mai visto un trans in vita loro; nonostante l'odio di Bernadette per i "fuckin'Abba" il sound del gruppo svedese è immancabile e Mamma Mia corona una colonna sonora nella quale spiccano pezzi da '90 come gli immancabili Village People, Donna Summers, Gloria Gaynor e mille altri successi molto "disco" e molto gay. Fondamentali, infine, gli abiti di scena delle ragazze, che non a caso hanno portato a casa l'Oscar. Vedere un "cock in a frock on a rock" è sicuramente tanta roba ma mai come vedere metri di stoffa satinata che si snodano dal tetto di un autobus sparato in mezzo al deserto oppure la fantasia immessa nella creazione delle parrucche, dei vestiti e del terrificante make-up indossato dalle fanciulle in ogni loro spettacolo, cose che probabilmente farebbero sciogliere il trucco dall'invidia ad ogni drag queen che si rispetti. A prescindere da quali siano le vostre idee in merito, Priscilla la regina del deserto è un film stupendo che mi sento di consigliare a tutti, gay e soprattutto etero... chissà che, tra un lustrino e l'altro, non riescano a scorgere un barlume di comprensione e tolleranza!


Di Hugo Weaving (Tick/Mitzi), Guy Pearce (Adam/Felicia) e Terence Stamp (Bernadette) ho già parlato ai rispettivi link.

Stephan Elliott è il regista e sceneggiatore della pellicola. Australiano, ha diretto film come Scherzi maligni, The Eye - Lo sguardo e Un matrimonio all'inglese. Anche attore e produttore, ha 52 anni e un film in uscita.


Tim Curry, famoso per aver interpretato il transessuale Frank'n'Furter nel Rocky Horror Picture Show, ha rifiutato all'epoca il ruolo di Mitzi, purtroppo. Detto questo, se Priscilla - La regina del deserto vi fosse piaciuto recuperate proprio il Rocky Horror e aggiungete A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar e Piume di struzzo. ENJOY!

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