venerdì 8 aprile 2022
La figlia oscura (2021)
venerdì 19 febbraio 2021
The Social Network (2010)
Grazie a un buono Vodafone, il Bolluomo ha ottenuto 10 euro da spendere su Chili e nella selezione di film fuibili col buono in questione c'era The Social Network, diretto nel 2010 dal regista David Fincher.
Trama: il giovane laureando Mark Zuckerberg crea il futuro Facebook ma, nel cammino, perde amici storici e si fa nuovi nemici...
Sono passati undici anni dall'uscita di The Social Network e chissà perché lo avevo snobbato fino a questo momento, visto che gli ingredienti per piacermi c'erano tutti e sono stati confermati durante la visione del film. Forse perché, all'epoca, temevo mi sarei trovata davanti una noiosa agiografia di San Zuckerberg da White Plains, invece The Social Network è tutto il contrario: partendo dal libro di Ben Mezrich intitolato Miliardari per caso - L'invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento, Aaron Sorkin lo riadatta per lo schermo togliendo i gemelli Winklevoss ed Eduardo Saverin dai riflettori ma mantenendo comunque il loro punto di vista pur rendendo Mark Zuckerberg protagonista assoluto, col risultato che molto di quello che viene mostrato sullo schermo è opera di pura fiction basata su un mix di racconti, leggende metropolitane e mera invenzione. Qui scatta il dilemma "morale" che ha tenuti impegnati me e Mirco durante la visione. Nel film, Zuckerberg viene descritto come una sorta di Sheldon Cooper sbruffone, sicuro di sé nonostante una palese incapacità di avere normali rapporti umani, stronzo e, soprattutto, vendicativo ed invidioso; il motore della creazione di Facebook è il pentimento seguito ad un'atroce vendetta nei confronti di una ragazza, al quale seguono moltissime piccole e grandi ripicche nei confronti di amici e nemici in egual modo, cosa che spingerebbe gli animi molto meno critici del mio a partire verso la sede di Facebook con torce e forconi per picchiare selvaggiamente l'eminenza grigia del web. In realtà, molto di quello che si vede nel film è inventato, sopratutto per quello che riguarda l'"uomo Zuckerberg", che si dice sia privo di qualsivoglia capacità di provare emozioni forti o vincolanti, positive o negative che siano, quindi impossibilitato ad agire come una sorta di villain geniale.
Nonostante questo, il film è molto interessante e non potrebbe essere diversamente visto che la sceneggiatura è di Sorkin, che rifugge la banalità della solita struttura di ascesa-caduta-risalita tipica di molte pellicole simili e si focalizza sull'esperienza di una persona che è perennemente in ascesa e perennemente in caduta, vittima di un cervello che lo rende incomprensibile a tutte le persone che incontra, e conseguentemente inviso anche allo spettatore, almeno in parte. Se i papaverini di Harvard sono giustamente dipinti come dei ricchi minchioni viziati che meritano di venire perculati da Zuckerberg e il creatore di Napster Sean Parker viene descritto come una scheggia impazzita da cui guardarsi, elementi che rendono per reazione più simpatico Zuckerberg, è inevitabile infatti che lo spettatore si senta comunque più vicino a Saverin, "reo" di volere una vita normale e magari di fare qualche soldino in maniera corretta. Non è un caso, dunque, che Saverin abbia la faccetta rassicurante di Andrew Garfield, mentre il bravissimo Jesse Eisenberg convoglia tutto il suo magnetismo un po' nerd nella figura controversa del protagonista, che allo stesso tempo affascina e allontana, un po' come la sua creatura più famosa: la facciata innocua di THE Facebook, che permette agli utenti di cercarsi, collegarsi e sviluppare amicizie, in realtà racchiude dinamiche ben più complesse, spesso incomprensibili, talvolta pericolose per gli utenti tanto incauti da fidarsi. In questo, lo Zuckerberg di The Social Network è una perfetta allegoria di quello che ha creato e probabilmente è lì che risiede l'intero senso della validissima operazione di Fincher, Sorkin e soci.
Del regista David Fincher ho già parlato QUI. Jesse Eisenberg (Mark Zuckerberg), Rooney Mara (Erica Albright), Andrew Garfield (Eduardo Saverin), Armie Hammer (Cameron Winklevoss/Tyler Winklevoss), Max Minghella (Divya Narendra), Justin Timberlake (Sean Parker), Dakota Johnson (Amelia Ritter), Aaron Sorkin (Direttore agenzia pubblicitaria), Caleb Landry Jones (membro della confraternita) e Jason Flemyng (non accreditato, è uno degli spettatori alla regata) li trovate invece ai rispettivi link.
Il film ha vinto tre premi Oscar, per la Sceneggiatura, il Montaggio e la Colonna Sonora Originale. Andrew Garfield aveva sostenuto l'audizione per il ruolo di Zuckerberg ma alla fine era troppo spontaneo e sincero e il regista ha deciso di affidargli Saverin, mentre Shia Labeouf ha direttamente rifiutato di partecipare al film come protagonista. Se The Social Network vi fosse piaciuto recuperate Steve Jobs e La grande scommessa .ENJOY!
domenica 27 ottobre 2019
Wounds (2019)
Trama: Will è un barista che si barcamena tra lavoro e sbronze, senza chiedere molto dalla vita. Una sera, nel bar dove lavora, scoppia una rissa e una ragazza dimentica il cellulare nel corso di una fuga precipitosa. Will si mette in tasca lo smartphone e da quel momento cominciano a succedere cose inquietanti ed inspiegabili...
Wounds è stato accolto con sputi e pernacchie da più parti, ma siccome di Lucia mi fido ho deciso di guardarlo lo stesso dopo aver letto il suo post. Ho fatto benissimo, naturalmente. Wounds è uno di quei film allucinati (e allucinanti) che entra sottopelle e suscita un misto innaturale di inquietudine e disgusto, puntando più sulle atmosfere e su pochi dettagli eclatanti piuttosto che indulgere in una serie ininterrotta di twist e jump scare. Di base, la storia è molto semplice ed è interamente imperniata su uno dei personaggi più inutili ed odiosi che possiate trovare sullo schermo. Will è un uomo che si lascia vivere, senza ambizioni né speranze né desideri, salvo quello di farsi Alicia, cliente abituale del bar dove lavora, nonostante lei sia fidanzata con un amico comune. Will ha già la ragazza, per inciso, ma non è facile per un fancazzista senza uno scopo nella vita portare avanti una relazione sana con una studentessa universitaria nel fiore della carriera e i risultati si vedono; Will e Carrie si incontrano giusto per colazione, lei non ha alcun desiderio sessuale nei suoi confronti e giustamente non si fida di un uomo così sfuggevole ed ambiguo, che passa le giornate e le serate a fare chissà cosa. Insomma, c'è molto terreno fertile affinché l'orrore attecchisca, rendendo così visibile lo "sporco" che incrosta l'anima di Will, sempre che quest'ultimo un'anima ce l'abbia e non sia un uomo finto, un corpo vuoto, come lo accusa Carrie nella sequenza più intensa e rivelatrice del film. Una sera, infatti, Will si ritrova per caso un telefonino tra le mani e, senza pensarci, lo porta a casa. E' in quell'istante che comincia il calvario di Will, il cui "vuoto" interiore diventa la culla perfetta per un orrore cosmico di cui non abbiamo notizie certe, che possiamo solo intuire da dettagli sparsi qui e là nel corso del film e che andrà a riempire Will nel modo peggiore, alimentando tutto lo schifo che il protagonista cova da tempo dentro di sé.
Lo "sporco visibile" del titolo originale del racconto di Nathan Ballingrud pervade ogni singolo fotogramma del film. Gli ambienti dove vive Will sono malsani, zeppi di blatte infestanti, e le persone sono costrette a camminare in una calura schiacciante, che appiccica i vestiti al corpo; Will stesso è spesso sudato, puzza, lavora dietro un bancone dove le norme igieniche non paiono esistere e anche quando cerca di ripulirsi ecco che sul corpo si aprono ferite misteriose dalle quali sgorgano sangue e pus. Armie Hammer, solitamente bello come il sole, in questo film si carica addosso tutto il disagio di un personaggio squallido, il cui squallore pare diffondersi come un male su tutti quelli che gli stanno vicino, corrompendoli nel corpo (come l'amico Eric, alla faccia dell'amico, lasciato letteralmente a marcire in solitudine all'interno del suo triste appartamento) o nell'animo (a mio avviso sono molto indicative le tre colazioni che Eric e Carrie fanno assieme, via via sempre più povere, con la prima che termina con uova e pancetta gettate nella pattumiera), un personaggio per cui non è facile provare pietà, men che meno empatia. Lo spettatore non può quindi fare altro che guardare impotente il degrado della "maledizione" che arriva a colpire Will, cominciata come nel più banale dei teen horror e via via sempre più sfuggevole, lasciata intuire da un regista e sceneggiatore che già col più riuscito Under the Shadow aveva dimostrato di sapere gestire alla perfezione la commistione tra sovrannaturale e il vero orrore, quello che dimora dentro le persone, che siano donne impaurite e testarde, terrorizzate all'idea di perdere anche quel minimo di libertà che avevano, oppure uomini che non si meriterebbero uno sputo in faccia nemmeno se stessero andando a fuoco. Vedere per credere, anche se sconsiglio Wounds a chi ha la fobia delle blatte e ancora ricorda l'ultimo episodio di Creepshow come la cosa più terrificante mai vista in vita sua.
Del regista e sceneggiatore Babak Anvari ho già parlato QUI. Armie Hammer (Will), Karl Glusman (Jeffrey), Brad William Henke (Eric) e Dakota Johnson (Carrie) li trovate invece ai rispettivi link.
Zazie Beetz interpreta Alicia. Tedesca, la ricordo per film come Deadpool 2 e Joker. Ha 28 anni e due film in uscita.
venerdì 11 gennaio 2019
Suspiria (2018)
Trama: la giovane Susie si reca a Berlino per frequentare la rinomata accademia di danza di Madame Blanc. Lì, tra misteriose sparizioni e inquietanti incubi, la ragazza si ritroverà invischiata in qualcosa di sovrannaturale...
In mezzo a remake stantii, omaggi terrificanti, rovinatori d'infanzie assortite, ecco spuntare, come la Venere dalle acque, il buon Luca Guadagnino. Il quale, messe da parte le atmosfere bucoliche e delicate di Chiamami col tuo nome, decide di abbracciare quelle fredde e deprimenti di una Berlino Est anni '70, dove il punk va a braccetto con le bombe, non smette di piovere o nevicare nemmeno per sbaglio e la gente muore o sparisce senza un perché, lo spettro della seconda guerra mondiale ancora troppo vicino agli abitanti sconfitti. Nel giro di sei capitoli e un epilogo, Guadagnino si appropria dell'ispirazione Argentiana, partendo dalle suggestioni di quello che per me è il film più bello del vecchio Darione, e va in tutt'altra direzione, scegliendo di raccontare una storia di donne che lottano con le unghie e con i denti per affermarsi in una società che ancora le vuole come sesso debole, schiacciate dalle scelte degli uomini e dalle convenzioni sociali e religiose; nel mondo chiuso dell'accademia di Madame Blanc, dove il maschio viene ridotto ad inutile oggetto da irridere, riti inquietanti mirano a far tornare in forze la "Madre", entità apparentemente primordiale, sicuramente malvagia ma forse, solo forse, anche fautrice di un positivo rinnovamento se "usata" per il bene comune. La congrega capitanata da Madame Blanc è popolata da donne inquietanti, vere e proprie streghe dall'animo insondabile, che allevano giovani fanciulle non solo per amor dell'arte ma anche e soprattutto per i propri scopi. A queste ultime, poverelle, non resta altro da fare che danzare in lieta ignoranza abbracciando i quotidiani incubi notturni senza porsi troppe domande, oppure ribellarsi ad un destino che nessuno riesce bene a comprendere, staccandosi da un luogo che offre sicurezze ma richiede troppo in cambio, andando incontro a conseguenze nefaste; Patricia, Olga, chissà quante altre ragazze "interrotte" sono scomparse nelle tumultuose strade di Berlino, trascinate da fantomatiche brutte compagnie o distratte dai mali terreni del mondo ma Susie no. Susie, lei, è nata per danzare, per sfruttare le sue incredibili capacità onde fuggire dal giogo della famiglia hamish e della madre morente, per essere la donna migliore possibile, non importa a quale prezzo. Non è la Susy di Dario Argento, quella ragazzetta che si limitava a svenire e che giusto per botta di fortuna, sul finale, riusciva ad uccidere la Madre: ben lontana dall'essere agnellino sacrificale, la Susie di Guadagnino è forte e determinata, probabilmente già a metà film intuisce cosa si nasconde dietro il fuoco sacro dell'arte che la muove ma non gliene frega assolutamente nulla.
Il Suspiria di Guadagnino non è dunque un film da vedere senza collegare il cervello e sicuramente necessita almeno di una seconda o terza visione per essere compreso al meglio, senza venire distratti dalla trama principale e dal fascino dell'horror, ché le sottotrame dell'attentato terroristico, reiterata in ogni modo per tutto il film, e del Dr. Klemperer sono ugualmente importanti e fondamentali al fine di capire appieno ciò che scorre sullo schermo. E siccome è già un miracolo che io sia riuscita a vederlo solo una volta, sarà meglio che mi concentri su quello che colpisce di più di Suspiria, anche ad una prima visione superficiale, ovvero la bellezza della messa in scena e delle musiche, la cupa e deprimente fotografia, la versatilità degli attori. La prima morte che avviene sullo schermo è un capolavoro di regia e montaggio, una danza crudele dalle conseguenze impensabili e terribili; personalmente, sono un'ENORME detrattrice di Dakota Johnson ma è chiaro che qui la ragazza si è fatta il mazzo e i suoi movimenti, i suoi respiri, la determinazione che muove il suo personaggio entrano nella pelle dello spettatore che non può che rimanere ammutolito, affascinato davanti alle prove prima e all'esecuzione poi dell'inquietante spettacolo denominato Volk. Ogni numero di danza, a dire il vero, supera di parecchio il barocchissimo finale (al limite del trash, soprattutto per il trucco della Markos, che pare quello di un suppliziante) che ha spinto molti a paragonare Suspiria a Le streghe di Salem. Ora, per quanto sia una delle poche a cui è piaciuto il film di Rob Zombie, capisco persino io che le due pellicole giocano due campionati diversi e che l'opera di Guadagnino è intrisa di una raffinatezza e di una grazia impensabili per Zombie, caratteristiche che si palesano anche davanti alle peggiori macellate e ad uno schermo interamente ricoperto di rosso, l'unico colore "saturo" dell'intero film, capelli della Johnson compresi. Al limite, se vogliamo fare paragoni, possiamo scomodare The Neon Demon, al quale ho pensato durante i deliranti incubi di Susie, ma anche qui parliamo di due cose completamente diverse, ché Guadagnino non perde mai il filo del discorso, non indulge nei colori sgargianti dell'originale argentiano e non offre il fianco alla voglia di privilegiare una regia visionaria a scapito della linearità della trama. E poi, nessuno dei due film aveva la meravigliosa Tilda Swinton a riempire quasi ogni scena, in tre diverse incarnazioni: donna, uomo, mostro. Ecco, questa moltiplicazione di ruoli è qualcosa su cui vorrei riflettere quando avrò modo di riguardare Suspiria senza essere catturata dalle splendide melodie di Thom Yorke e dall'ansia di quei sospiri concitati. Se qualcuno ha qualche bella interpretazione da offrire, ci sono sempre i commenti, nel frattempo consiglio a tutti di non perdere questo purtroppo mal distribuito Suspiria perché è davvero uno spettacolo!
Del regista Luca Guadagnino ho già parlato QUI. Dakota Johnson (Susie Bannon), Tilda Swinton (Madame Blanc/Dr. Joseph Klemperer/Helena Markos), Chloë Grace Moretz (Patricia), Mia Goth (Sara) e Jessica Harper (Anke) le trovate invece ai rispettivi link.
Se Suspiria vi fosse piaciuto recuperare l'originale di Dario Argento e aggiungete Inferno e La terza madre per avere un quadro più completo. ENJOY!
domenica 28 ottobre 2018
7 sconosciuti a El Royale (2018)
Trama: all'Hotel El Royale, ubicato per metà nel Nevada e per metà in California, si intrecciano i destini di un prete, una cantante, un rappresentante di aspirapolveri e una hippy, tutti con un segreto...
Una perfetta definizione di 7 sconosciuti a El Royale sarebbe quella di pout-pourri. Se con lo splendido Quella casa nel bosco il regista e sceneggiatore Drew Goddard decostruiva i cliché dell'horror e giocava con lo spettatore creando qualcosa di nuovo e originale rimanendo comunque su un binario ben preciso, qui la parola d'ordine pare essere "sovrabbondanza, accumulo compulsivo", non solo di personaggi ma soprattutto di tematiche e stili. Far rientrare 7 sconosciuti a El Royale in un singolo genere cinematografico è infatti assai arduo, ma non solo; sinceramente è anche difficile trovare un "senso" a quello che viene mostrato, data l'insipidità di alcuni dei personaggi. Senza fare troppi spoiler, Goddard parte da una delle immagini ed idee più intriganti di Quella casa nel bosco (un indizio? C'entrano gli specchi) e su di essa ricama per ottenere la storia di un Hotel con un segreto per poi intrecciare le vicende di vari personaggi legate talvolta al filone della crime story, altre al cinema di guerra, altre alla spy story, altre addirittura al thriller con venature horror, senza troppa soluzione di continuità. L'incredibile lunghezza del film, che sfiora le due ore e mezza, è data dall'intrico di flashback che gettano luce sul passato dei protagonisti e dalla riproposta di almeno mezza dozzina di sequenze da altrettanti punti di vista differenti, così che lo spettatore abbia un quadro completo e abbastanza tarantiniano dell'intera timeline della pellicola, ma nonostante questo Goddard lascia in sospeso un paio di punti chiave e non sfrutta interamente la potenzialità di un setting così particolare. 7 sconosciuti a El Royale può infatti "vantare" un paio di McGuffin assimilabili alla valigetta di Pulp Fiction ma anche abbondanza di dettagli inutili, in primis la natura ibrida della territorialità dell'hotel: a che pro sottolineare, fin dall'inizio, la divisione precisa dell'Hotel El Royale tra Nevada e California se questa ubicazione non influenza minimamente le vicende narrate? Per dire, sarebbe stato interessante, vista l'abbondanza di criminali presenti nel film, ricamare un po' sulle diverse leggi dei due stati, costringendo i personaggi a saltare da una parte all'altra per ottenere delle impunità, invece la cosa viene lasciata cadere quasi subito e se il film fosse stato ambientato all'Overlook Hotel, per dire, non sarebbe cambiato di una virgola il risultato finale.
Questo setting particolare, così come l'ambientazione fine anni '60, influenza ovviamente la regia, la scenografia, la colonna sonora e il montaggio di 7 sconosciuti a El Royale, dove Drew Goddard ambisce palesemente a mostrare più le sue doti di regista che di sceneggiatore. Dopo un'introduzione di stampo teatrale con uno scioccante finale "a sorpresa", infatti, la pellicola diventa il trionfo dello schermo diviso simmetricamente da una linea rossa, delle stanze virate ognuna in un colore diverso, dell'inquadratura accattivante, dei cartelli che introducono capitoli, della ricchezza della scenografia, delle luci morbide che contrastano coi colori sgargianti, dei primi piani addolorati, dei flashback, dei lustrini e dei juke-box. In particolare, spesso e volentieri il montaggio, sonoro e non, segue la "scuola" Baby Driver e si adegua alle canzoni presenti nella splendida colonna sonora, cuore pulsante dell'intera pellicola grazie all'interpretazione di Cynthia Erivo, attrice e cantante inglese assai famosa nei teatri di Broadway e Londra, alla quale vengono riservate vere e proprie esibizioni canore, talvolta funzionali ai fini della trama (soprattutto in "duetto" con Jeff Bridges), talvolta no, al punto purtroppo da risultare pesanti. Cynthia Erivo, nome quasi sicuramente poco conosciuto a chi ama il cinema, è paradossalmente la punta di diamante di un cast che, sulla carta, sarebbe risultato dannatamente intrigante invece concorre al sapor di diludendo che lascia in bocca 7 sconosciuti a El Royale. Jeff Bridges, infatti, è svogliato rispetto ai suoi standard nonostante abbia gioco facile contro gli inespressivi Dakota Johnson e Chris Hemsworth; in particolare, quest'ultimo mostra tutti i suoi limiti di attore buono giusto per interpretare Thor ed essere figo, ma la colpa forse non è nemmeno sua vista l'imbarazzante caratterizzazione di un personaggio a metà tra Charles Manson e il Fabius di Fabio De Luigi, ingiustificabile da ogni punto di vista. Meglio i giovani Lewis Pullman, sorprendente sul finale, e l'inquietante Kaylee Spaeny, ragazzina da prendere a ceffoni pesanti dall'inizio alla fine del film, anche se tra tutti, il personaggio meglio caratterizzato rimane sempre quello di Chynthia Erivo. Questo è uno dei motivi per cui 7 sconosciuti a El Royale mi ha delusa, nonostante le enormi aspettative, perché è un bell'involucro che avvolge il nulla cosmico e sinceramente da Goddard, conoscendo le sue sceneggiature solitamente intelligenti e soprattutto dopo Quella casa nel bosco, mi aspettavo molto di più.
Del regista e sceneggiatore Drew Goddard ho già parlato QUI. Jeff Bridges (Padre Daniel Flynn/Dock O'Kelly), Dakota Johnson (Emily Summerspring), Jon Hamm (Laramie Seymour Sullivan / Dwight Broadbeck) e Chris Hemsworth (Billy Lee) li trovate invece ai rispettivi link.
Lewis Pullman, che interpreta Miles Miller, ha partecipato a The Strangers: Prey at Night mentre nel cast spunta anche il giovane regista Xavier Dolan nei panni di Buddy Sunday. Russell Crowe avrebbe dovuto partecipare al film ma alla fine è stato sostituito da Jon Hamm. Detto questo, se 7 sconosciuti a El Royale vi fosse piaciuto, recuperate Four Rooms e Paura e delirio a Las Vegas. ENJOY!
martedì 13 settembre 2016
A Bigger Splash (2015)
Trama: in convalescenza per problemi di voce, la cantante Marianne Lane si rifugia in una villa sull'isola di Pantelleria assieme al giovane fidanzato Paul. A rovinare la vacanza arriva Harry, produttore discografico ed ex di Marianne, assieme alla figlia Penelope, della quale nessuno era a conoscenza, che si installano a loro volta nella villa...
Cosa si nasconde sotto la superficie dell'acqua? Cosa c'è stato prima e dopo il Bigger Splash di David Hockney? Queste le domande che si è posto Luca Guadagnino, nella sua elegante rielaborazione de La piscina a base di isole sulle quali il tempo sembra essersi fermato e artisti che paiono non appartenere a questo mondo, nonostante i loro difetti. La cornice bucolica di Pantelleria è lo scenario perfetto per una storia a base di sentimenti, capricci e rimpianti, all'interno della quale la bella e carismatica cantante Marianne viene contesa tra il fidanzato Paul e l'ex amante Harry, ma fosse tutto così semplice il film finirebbe lì. Il fatto è che Marianne, dopo una carriera folgorante, si è ritrovata ad una certa età priva della voce che le ha dato successo e ciò la rende in qualche modo dipendente dal giovane Paul, fragile documentarista alla perenne ricerca del progetto perfetto che, un giorno, si è visto letteralmente regalare Marianne dallo spregiudicato Harry. Marianne e Paul sono legati in maniera quasi morbosa da questo rapporto di interdipendenza e il produttore discografico nonché ex fidanzato della cantante arriva non invitato a Pantelleria sperando di trovare una breccia onde distruggere un legame che lui stesso, vuoi per noia vuoi per qualsivoglia motivo muova un donnaiolo fanfarone, ha creato (salvo poi pentirsene amaramente). Purtroppo, Harry si porta dietro un bel carico da undici col sembiante di una figlia bellissima che tiene il mondo intero (soprattutto Marianne) in gran dispitto e che non ha altro modo per combattere il tedio e l'ingombrante presenza di un padre che quasi neppure conosce se non distruggendo psicologicamente chiunque le capiti a tiro. A questo punto ce n'è abbastanza per fare esplodere Pantelleria e Guadagnino si diletta, per due ore che sembrano una, ad esplorare la psicologia di questi eleganti e peculiari personaggi all'interno di un ambiente a loro non familiare, capace di donare a Marianne e compagnia un'illusione di sicurezza e libertà che, se mal gestita, rischia di frantumare la luminosa e fragile maschera che cela i loro volti agli occhi degli adoranti autoctoni.
La cinepresa di Guadagnino coglie immagini di rara bellezza baciate dalla luce dorata di una terra splendida, all'interno della quale i campi coltivati, le strade zeppe di curve, le grotte misteriose e i piccoli paesini attraversati dalle processioni convivono con l'opulenza di ville costruite per stranieri ricchissimi e probabilmente annoiati, i quali vedono i problemi dell'isola come qualcosa di irreale e lontano (almeno finché non diventano utili...). La stessa Tilda Swinton, mai così bella e fragile, è l'incarnazione di una divinità superiore, non solo perché lontana fisicamente dalla "plebe" ma anche perché impossibilitata a comunicare con i suoi stessi "simili"; l'attrice offre una performance fatta interamente di sguardi, gesti e poche parole sussurrate in tono graffiante, che esplode sul finale in un crescendo di tensione e dolore difficilmente sostenibile. Suo degno compagno è un inedito Ralph Fiennes, incontenibile e a tratti insopportabile ciclone fatto di canti, balli, celie e fisicità prorompente, costretto ad interpretare un personaggio spesso sgradevole ma comunque dotato di una profondità toccante, ovviamente visibile solo dagli occhi della bella Marianne. Discorso a parte, ahimé, lo meritano i due giovani. Ormai è assodato che, almeno per quanto mi riguarda, Matthias Schoenaerts sia uno degli attori più sopravvalutati di sempre e non capisco perché mai ogni regista se ne innamori e lo voglia nei suoi film; Paul è il personaggio più mollo ed intollerabile della pellicola, un uomo da nulla che dalla vita ha avuto ogni fortuna eppure non gli è bastata, ed è vero che Schoenaerts, con la sua inespressività, è perfetto per il ruolo, tuttavia ciò non lo rende più bravo ai miei occhi. Anche Dakota Johnson è perfetta per la parte di annoiata spaccamaroni priva di qualsivoglia qualità ma non penso che per un'attrice ciò sia qualcosa di cui vantarsi. Mi rendo conto che il confronto con una Swinton carismatica e bellissima sia nei panni di cantante cazzutissima che in quelli di artista ormai sfiorita ed imborghesita risulti forzatamente impari, ma la pallida imitazione di Dominique Swain in Lolita mi ha davvero depressa. Preferisco di gran lunga vedere Guzzanti nel ruolo di Maresciallo da operetta: in tanti hanno criticato il modo parodico in cui il geniale comico interpreta un appuntato che potrebbe figurare alla perfezione in una delle tante barzellette sui carabinieri ma sinceramente mi è sembrato che l'intera Pantelleria, con tutti i suoi abitanti, sia stata rappresentata filtrandola attraverso gli occhi degli ospiti stranieri, piegata ai loro pregiudizi e ai loro desideri. Forse mi sbaglio ma, a prescindere da questo, ho trovato A Bigger Splash davvero bellissimo ed intrigante e ora mi è venuta voglia di conoscere meglio il buon Guadagnino, altro autore italiano da me perennemente snobbato in quanto tale.
Di Tilda Swinton (Marianne Lane), Matthias Schoenaerts (Paul De Smedt), Ralph Fiennes (Harry Hawkes) e Dakota Johnson (Penelope Lannier) ho già parlato ai rispettivi link.
Luca Guadagnino è il regista della pellicola e compare in un piccolo cameo quando Paul sta girando il documentario su Harry. Nato a Palermo, ha diretto film come Melissa P. e Io sono l'amore. Anche produttore e sceneggiatore, ha 45 anni e due film in uscita, tra cui il remake di Suspiria.
Corrado Guzzanti interpreta il Maresciallo. Nato a Roma, lo ricordo ovviamente per trasmissioni storiche come Avanzi, Tunnel, Mai Dire Gol, Pippo Chennedi Show, La posta del cuore, L'ottavo nano e Il caso Scafroglia ma ha anche partecipato a film come Fascisti su Marte e serie come Boris oltre ad aver doppiato un episodio de I Simpson. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 51 anni.
Margot Robbie avrebbe dovuto interpretare Penelope ma le riprese di The Legend of Tarzan le hanno impedito di partecipare al progetto, cosa che ha portato all'arrivo di Dakota Johnson, mentre pare che Tilda Swinton abbia sostituito Cate Blanchett, impegnata a teatro. Se siete fan di Jovanotti vi farà piacere sapere che le riprese del concerto di Marianne sono state effettuate a San Siro, proprio durante uno dei concerti del Cherubini. Detto questo, torno in ambito cinematografico per dire che A Bigger Splash non è l'unico film tratto dal romanzo di Alain Page: nel 1969 il regista Jacques Deray aveva già diretto La piscina, con Alain Delon, Romy Schneider e Jane Birkin nei panni rispettivamente di Jean-Paul, Marianne e Penelope mentre François Ozon ha tratto spunto dallo stesso romanzo per il suo The Swimming Pool (tra l'altro Yorick Le Saux ha lavorato come direttore della fotografia sia per A Bigger Splash che per The Swimming Pool). Se A Bigger Splash vi fosse piaciuto recuperate quindi questi due film e aggiungete Il mistero dell'acqua. ENJOY!
domenica 18 ottobre 2015
Black Mass - L'ultimo gangster (2015)
Trama: il boss della mala irlandese James "Whitey" Bulger comincia a lavorare come informatore dell'FBI, sfruttando questa posizione privilegiata per consolidare ed aumentare il suo potere come criminale...
Non è un mistero che io adori le pellicole di stampo "mafioso", soprattutto quelle che si concentrano sull'ascesa e la caduta delle famiglie criminali o di una banda di malviventi in particolare. E' quindi con un certo gusto che ho guardato Black Mass, zeppo di tutti quegli stilemi che adoro, nonostante fosse anche un po' superficiale e abbastanza derivativo, privo di quei tocchi di stile che avrebbero potuto renderlo non dico un capolavoro ma perlomeno un film memorabile. La pellicola di Scott si concentra sull'attività di James "Whitey" Bulger, figura di spicco realmente esistita all'interno della criminalità bostoniana, e sugli anni in cui il boss ha funto da informatore per l'FBI, desideroso di mettere le mani sui vertici della malavita italoamericana; gli sceneggiatori hanno scelto di concentrarsi molto sia sull'ambivalenza di Bulger, che passava in tempo zero dall'essere fine stratega a folle pronto ad uccidere al minimo sospetto di tradimento, sia sul marcio presente all'interno degli uffici federali, calcando la mano sul legame apparentemente indissolubile tra uomini nati nello stesso quartiere e cresciuti con gli stessi valori nonostante siano finiti dalle parti opposte della barricata. Questa parte della vita di Bulger viene ricostruita partendo dagli interrogatori dei suoi collaboratori storici, segmenti che introducono i punti salienti della vicenda come se Black Mass fosse una sorta di documentario, e il quadro generale che se ne ricava è quello tipico di un boss che, col tempo, è arrivato a perdere di vista la realtà sicura della malavita di "quartiere" per calcare sentieri sempre più violenti, sanguinosi e ovviamente pericolosi, per quanto remunerativi; lo stesso, ovviamente, vale per l'agente dell'FBI John Connolly, la cui vita scorre in parallelo a quella di Bulger e che diventa sempre più corrotto mano a mano che il suo "protetto" nonché informatore si espande nell'attività criminale, con ovvie conseguenze.
A fronte quindi di una storia vera ed interessante, quello che manca a Black Mass sono un po' di personalità e "sentimento" che avrebbero potuto rendere la vicenda di Bulger molto più coinvolgente e memorabile. La regia di Scott Cooper non regala sequenze particolarmente d'impatto e la scelta di raccontare la storia come un mosaico di flashback introdotti da un interrogatorio ricorda molto la prima stagione di True Detective. Nel reparto attori andiamo invece molto meglio ma bisogna precisare un paio di cosette. Johnny Depp per la prima volta dopo anni offre un'interpretazione fortunatamente distante da quelle macchiette zeppe di smorfie a cui ci aveva abituati fin da La maledizione della prima luna ma, diciamo le cose come stanno, non porta a casa la performance del secolo e, di fatto, al posto suo avrebbe potuto esserci qualsiasi altro attore mediamente bravo o col phisique du role, Ray Liotta in primis. Molto meglio, almeno per quel che mi riguarda, Joel Edgerton alle prese con un personaggio scomodo e a costante rischio cliché, un Benedict Cumberbatch che finalmente ha trovato un ruolo che non lo facesse apparire un povero minus habens ai miei occhi e perfetto Rory Cochrane, l'unico personaggio negativo in grado di coinvolgermi un minimo, soprattutto verso il finale (nonostante il suo ruolo nella morte di Deborah Hassey sia stato romanzato per esigenze di copione, quindi sono stata colpita da una delle cose "false" raccontate nella pellicola). Molto interessanti, inoltre, i sempre graditi compendi informativi pre-titoli di coda, che "svelano" le condanne francamente discutibili (mi pare che Steve Flemmi si sia beccato l'ergastolo mentre John Martorano, che nel film viene dipinto praticamente come un serial killer, abbia fatto solo 14 anni...) dei coinvolti, e le vere immagini di repertorio che accompagnano i credits. In definitiva, se amate il genere biografico-mafioso, Black Mass è un film perfetto per passare una serata senza cedere alla noia neppure per un istante ma non aspettatevi un capolavoro.
Di Johnny Depp (James "Whitey" Bulger), Joel Edgerton (John Connolly), Benedict Cumberbatch (Billy Bulger), Kevin Bacon (Charles McGuire), Peter Sarsgaard (Brian Halloran), Rory Cochrane (Steve Flemmi), Corey Stoll (Fred Wyshak), Julianne Nicholson (Marianne Connolly) e Juno Temple (Deborah Hassey) ho già parlato ai rispettivi link.
Scott Cooper è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Crazy Heart e Out of the Furnace - Il fuoco della vendetta. Anche attore, sceneggiatore e produttore, ha 45 anni.
Dakota Johnson interpreta Lindsey Cyr. Americana, ha partecipato a film come Pazzi in Alabama, The Social Network e, soprattuttamente, Cinquanta sfumature di grigio. Ha 26 anni e film in uscita tra cui, ossignoreuccidimi, il remake di Suspiria e ovviamente i seguiti di Cinquanta sfumature di grigio, dove la squinzia dovrebbe riprendere il ruolo di Anastasia Steele.
W. Earl Brown interpreta John Martorano. Americano, ha partecipato a film come Fuoco assassino, Nightmare - Nuovo incubo, Vampiro a Brooklyn, Scream - Chi urla muore, Tutti pazzi per Mary, Essere John Malkovich, Lost Souls - La profezia, Vanilla Sky, The Master, The Lone Ranger e a serie come La signora in giallo, Il mio amico Alf, Più forte ragazzi, Angel, Streghe, X-Files, Six Feet Under, Cold Case, CSI: Miami, Numb3rs, CSI - Scena del crimine, American Horror Story, Bates Motel, Grey's Anatomy e True Detective. Anche sceneggiatore e produttore, ha 52 anni e un film in uscita, inoltre dovrebbe interpretare lo sceriffo Hugo Root nel pilot di Preacher.
Inizialmente, avrebbe dovuto essere Guy Pearce ad impersonare James Bulger ma l'attore ha abbandonato il progetto e gli è subentrato Johnny Depp che, tra l'altro, per un po' a sua volta ha rinunciato al ruolo per questioni salariali. La povera Sienna Miller invece, che ha girato parecchie scene nei panni di Catherine Greig, storica fidanzata di Bulger, è rimasta vittima del montaggio che ha tagliato interamente la sua parte (altrimenti il film sarebbe durato più o meno tre ore). Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Quei bravi ragazzi, Casino, Donnie Brasco. ENJOY!