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martedì 11 novembre 2025

The Toxic Avenger (2023)

Nei cinema, ad Halloween, è stato distribuito The Toxic Avenger, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Macon Blair.


Trama: Winston vive solo col figliastro e sbarca il lunario come uomo delle pulizie di una losca ditta farmaceutica. Quando scopre di avere un tumore incurabile, Winston cerca di derubare la ditta, ma finisce in una pozza di liquami tossici e diventa un mostro...


Io mi chiedo in che mondo viviamo. The Toxic Avenger, remake di uno dei film più iconici e remunerativi della indipendente Troma, è stato presentato in un paio di festival nel 2023, dopodiché è finito in un limbo distributivo in quanto ritenuto troppo violento, praticamente impresentabile al pubblico odierno. Due anni dopo, The Toxic Avenger è arrivato in tutto il mondo, persino da noi, nella sua versione "unrated", e io mi chiedo se ormai sono diventata insensibile o se i produttori si sono rincoglioniti del tutto (propendo più per la seconda ipotesi, ma non metto limiti ai miei problemi). Se un film come The Toxic Avenger è impresentabile a un pubblico "generalista" (ma poi, a parte gli appassionati di horror, chi è che va a vedere gli horror al cinema, scusatemi?), Bring Her Back non avrebbe dovuto nemmeno uscire, perché guardando il lavoro di Macon Blair sembra di avere davanti un cartone animato. Questo non è un complimento, ovviamente. Non sono mai stata fan del Toxic Avenger della Troma, visto troppo tardi per elevarlo a cult e, comunque, troppo distante dai miei gusti, ma ne riconosco la carica sovversiva, l'ironia infantile ma comunque caustica, la patina grezza che lo rende disgustoso a più livelli, e che conferisce "spessore" al personaggio di Toxie proprio per la contrapposizione tra la sua natura buona e lo schifo che lo ha generato. Il film di  Michael Herz e Lloyd Kaufman dissacrava la figura del supereroe dotandolo di tutti i simboli del successo (potenza fisica, una fidanzata procace, l'ammirazione delle persone, persino una base segreta) ma declinati in chiave "trash", nel senso più letterale del termine, spingendo lo spettatore a tifare per lui pur provando un inevitabile disagio. Stessa cosa valeva per la origin story di Toxie, un povero verginello disagiato trasformato in un mostro per lo scherzo di un gruppo di bulli psicopatici che uccideva gente a caso; la casualità del tutto, e la crudeltà inaudita di ogni malvivente sul suolo di Tromaville, erano essenziali alla deriva violentissima intrapresa da un vendicatore non proprio brillante in partenza, preda di un odio sviscerato ed irrazionale verso il male. 


Nel film di Macon Blair, invece, tutto è normalizzato. Quella di Winston, uomo delle pulizie all'interno di una ditta farmaceutica, è una vita come tante. Il protagonista del nuovo Toxic Avenger è un uomo assolutamente normale, pur avendo la sua dose di problemi, e la sua origin story è legata a gravissimi problemi di salute e al disperato tentativo di risolverli o, perlomeno, di non lasciare privo di sostentamento il figlio dell'ex fidanzata, già traumatizzato dalla morte di quest'ultima e, per giunta, autistico. La vendetta di Winston/Toxie è comprensibile e lineare, in quanto va alla fonte di tutte le disgrazie che affliggono lui e la città di St. Roma, ovvero Bob Garbinger e la sua ditta farmaceutica, che fingono di curare le stesse malattie di cui sono la causa, per via di un inquinamento scellerato. Anzi, mi spingo persino a dire che il pattern per cui il villain decide di diventare un mostro ancora peggiore per battere Toxie è una strada battuta mille volte, stravista quanto il ripensamento di uno degli scagnozzi, le beghe familiari, la tizia ribelle che cerca di instillare un po' di coscienza sociale nel protagonista. Insomma, nel nuovo The Toxic Avenger non c'è un minimo di originalità, e non solo perché il film è un remake, ma soprattutto perché, quando si distanzia dall'originale, ricicla topoi vecchi quanto me. Inoltre, Macon Blair, che pur si professa amante indefesso della Troma, non riesce a fare a meno di dare un'immagine ripulita e patinata anche delle discariche a cielo aperto, degli scopettoni, di qualsiasi cosa dovrebbe destare istintivo disgusto.  


Questa tendenza a "ripulire" riverbera anche nelle sequenze che i trailer vendono come esagerate e scabrose, accomunando The Toxic Avenger alla saga di Terrifier. Allora, non scherziamo. Io non sono una "bimba di Leone", per carità, e lungi da me elevare i film dedicati ad Art il clown a capolavori dell'horror, ma se non altro Leone non teme di scatenare il vomito nello spettatore e si appoggia quasi in toto ad ottimi effetti speciali artigianali. The Toxic Avenger, di artigianale, ha solo il trucco di Toxie (sul quale poi torno...) e quel meraviglioso uccello mutante, il resto è schifezza digitale, splatter finto come i soldi del monopoli, macellate da sbadiglio compulsivo, che unite ad un umorismo tutto sommato ben poco corrosivo, contribuiscono alla palpebra calante nonostante qualche buona idea, un paio di citazioni azzeccate, e lo schermo smarmellato di colori acidi. In tutta sincerità, a me sono sembrati svogliati anche gli attori, nonostante il cast facesse ben sperare. In effetti, gli unici che meritano sono Kevin Bacon, ormai abbonato ai ruoli di villain fascinoso che non disdegna però l'essere preso a pesci in faccia come merita, e un Elijah Wood sempre più weird e perfettamente a suo agio nei panni del Pinguino/Gollum. Peter Dinklage, con tutto il rispetto, è una barzelletta, nel senso che recita solo al naturale, mentre sotto il pesante trucco di Toxie c'è una donna, e l'attore si limita a dargli la voce. La cosa risulta abbastanza ridicola perché non solo, effettivamente, Toxie somiglia ben poco a Dinklage (e ci sta, anche i due attori che interpretavano l'originale erano diversi), ma anche perché la voce a volte risulta falsata rispetto ai movimenti labiali dell'attrice e, soprattutto, il trucco di Toxie nelle sequenze in ospedale è completamente diverso da quello che definisce il personaggio in tutto il resto del film. Su Jacob Tremblay, povero amore, stendo un velo pietoso. A 15/16 anni, calcolando a spanne l'epoca delle riprese, il creaturo era in quell'età in cui i ragazzini non sono né carne né pesce, e qualunque cosa facciano sembrano molli come un'oloturia, il che probabilmente ha avuto ripercussioni sulla sua interpretazione. Purtroppo, la pubertà non è stata tenera con chi era un bimbo splendido e puccioso, quindi c'è solo da sperare che Mike Flanagan o altri trovino un modo per valorizzare gli altri suoi talenti. Purtroppo, Macon Blair non ne ha avuto la capacità, così come non è riuscito a rendere omaggio alla Troma, nonostante le buone intenzioni. Vi consiglio dunque di stare ben lontani da questa monnezza ripulita, e di dedicarvi ad altri horror più interessanti.


Del regista e co-sceneggiatore Macon Blair, che interpreta anche Dennis, ho già parlato QUI. Peter Dinklage (Winston/Toxie), Jacob Tremblay (Wade), Lloyd Kaufman (Lloyd), Kevin Bacon (Bob Garbinger), Elijah Wood (Fritz Garbinger) li trovate invece ai rispettivi link.

Taylour Paige interpreta J.J. Doherty. Americana, ha partecipato a film come Ma Rainey's Black Bottom e a serie quali Welcome to Derry. Anche produttrice, ha 35 anni e un film in uscita. 


Non c'è Peter Dinklage sotto il make up di Toxie, bensì un'attrice inglese di nome Luisa Guerreiro. Il film è il remake di The Toxic Avenger - Il vendicatore tossico, che vi consiglio di guardare a prescindere. ENJOY!

martedì 1 aprile 2025

The Monkey (2025)

Pur avendo una scimmia sulle spalle epica (d'altronde...), ho purtroppo dovuto aspettare fino a mercoledì scorso per vedere The Monkey, diretto e sceneggiato dal regista Osgood Perkins partendo dal racconto La scimmia di Stephen King.


Trama: Hal e il gemello Bill trovano, tra i ricordi del padre, una scimmia a molla. Il giocattolo, purtroppo, ha una caratteristica terrificante: dopo aver girato la chiavetta che lo mette in moto, qualcuno è condannato a far una morte orribile...


Ho sempre pensato che il modo migliore di approcciare le opere di Stephen King, se non si è Frank Darabont , Rob Reiner o Mike Flanagan, fosse di battersene le palle del rispetto verso il Venerabile e prendersi tutte le libertà del mondo. Ciò vale, ovviamente, solo quando i soggetti finiscono nelle mani di registi e sceneggiatori con una fortissima personalità, altrimenti i risultati sono oscenità come L'acchiappasogni. Stanley Kubrick, con Shining, ha fatto un capolavoro, Osgood Perkins ha tirato fuori la supercazzola più divertente, folle e centrata dell'anno, partendo da un racconto breve di Stephen King che, come tutte le sue opere più riuscite, trasforma un oggetto normalissimo, quasi ridicolo, in un orrore da gelare il sangue. La scimmia è uno dei racconti Kinghiani che preferisco, nonché uno di quelli che mi fa più paura ancora oggi, ma sono io stessa consapevole che l'idea di una scimmia che batte i cimbali e causa la morte delle persone rischia di trasformarsi in una cretinata noiosissima, trasposta in film. Praticamente ne verrebbe fuori la versione scema di un Annabelle qualsiasi, con la scimmietta che, di tanto in tanto, ciccia fuori dal buio, a spaccarti le coronarie, uno jump scare dopo l'altro. Perkins, per fortuna, non è così banale e ha cestinato il serissimo soggetto proposto dalla casa produttrice, ben deciso a farne una commedia horror proprio per esorcizzare la consapevolezza che la morte è una delle cose più naturali, casuali e, sì, folli che esistano. Il regista, d'altronde, lo sa bene. Il padre, Anthony Perkins, è morto a 60 anni di polmonite causata dal virus dell'AIDS, la madre è morta l'11 settembre, era una dei passeggeri del volo 11 dell'American Airlines. Direi che Perkins la sua dose di morti "strane" le ha avute, e dopo anni passati a domandarsi il perché di una simile sfortuna, ha scelto di adottare una morale ben più filosofica, la stessa di cui si fa portavoce la serafica mamma Lois del film: quest'ultima balla coi figli dopo i funerali, Perkins ne ride prima, durante e dopo. Se pensate che le arzigogolate trame mortuarie di Final Destination fossero trattate con piglio ironico, dopo aver guardato The Monkey le paragonerete a Bergman e lo stesso racconto breve di King vi sembrerà Leopardiano.


The Monkey
riprende solo l'ossatura del racconto omonimo e l'idea di fondo, assieme ai nomi di alcuni protagonisti (mentre quelli di altri personaggi sono mutuati da alcune opere del Re, a mo' di omaggio). Il piccolo Hal trova una scimmia giocattolo tra i souvenir lasciati dal padre, un pilota d'aerei "buono a nulla" che da tempo ha abbandonato la famiglia e, come nel racconto, la scimmia è dotata del tremendo potere di causare una morte misteriosa ogni volta che la sua chiave viene girata, attivando il meccanismo musicale (un tamburo nel film, al posto dei cimbali, per motivi di copyright). Partendo da questo canovaccio di base, Perkins costruisce una trama fatta di crudeltà immotivate e traumi insanabili, popolata di personaggi che sarebbero stati perfetti all'interno di un episodio di Twin Peaks e che incarnano, anche quelli che compaiono solo pochissimi secondi, l'insensatezza del mondo in cui viviamo. A tutti quelli che non riconoscono Osgood Perkins all'interno di The Monkey, ricordo che, pur essendo molto meno estremi e caricaturali, già i personaggi di Longlegs mostravano caratteristiche "Lynchiane", e l'umorismo nero è sempre stata una cifra stilistica dell'Autore. Qui, Perkins si è ritrovato a calcare molto la mano, ma la trovo una scelta sensata. L'episodio de I Griffin in cui Stephen King propone all'editore una lampada assassina sottolinea ironicamente la passione del Re per i più sciocchi veicoli di morte, espressione della trivialità dell'esistenza e di quell'"oh cazzo!" che ci sorprende quando stiamo per arrivare al capolinea. Se esiste un Dio, e se permette che persone a caso muoiano nei modi più svilenti e stronzi, ha senso anche che una persona traumatizzata dal lutto possa elevare una scimmia giocattolo a divinità del caos, che il nostro destino sia manipolato da uno dei Cavalieri dell'Apocalisse, che un prete non abbia assolutamente idea di cosa dire di fronte all'assurdità di una vita stroncata, comportandosi da scemo. D'altronde, siamo circondati da scemi. A casa, al lavoro, per strada, nei negozi, online, in politica, nei centri di potere. La stupidità, in primis la nostra, è spesso causa di morti insensate, quindi tanto vale riderne, non abbiamo comunque la possibilità di farci nulla.


La volontà di calcare la mano sul grottesco si traduce in morti tremendamente splatter ed effetti speciali volutamente caricaturali, ma non per questo meno validi. Perkins avrà anche realizzato The Monkey con piglio ironico, sicuramente divertendosi come un matto, ma ciò non significa che il film non sia curato dall'inizio alla fine in ogni sua inquadratura, a partire dai titoli di testa vintage; le geometrie e le simmetrie tanto care al regista non mancano, un paio di sequenze oniriche sono assai notevoli e l'uso dei colori e delle luci meriterebbe una seconda e persino una terza visione. Considerato che anche la colonna sonora è molto ironica e particolare (la cosa che vorrei davvero sapere da Perkins è perché abbia usato QUESTA spettacolare, vintaggissima canzone in apertura, colonna sonora di un film indiano chiamato The Great Gambler che, a quanto posso capire, non ha davvero nulla a che fare con l'argomento trattato in The Monkey. So già che amerei la risposta!), l'unico aspetto del film che fa davvero paura, almeno a me, è il sembiante orribile della scimmia, dotata di due espressioni entrambe terrificanti ed occhietti che sembrano volerti scrutare nell'animo prima di ucciderti senza pietà. Invece, il solo difetto che imputo a The Monkey è lo spreco di Elijah Wood, il cui personaggio sopra le righe promette faville ma risulta solo una parentesi weird tra una morte e l'altra. Certo, Ted è l'ennesimo bullo pieno di sé che il povero Hal incrocia sul suo cammino, e senza la sua "minaccia paterna" il rapporto tra il protagonista e il figlio non potrebbe evolversi, ma mentirei se dicessi che non mi sarei aspettata qualcosa in più. Pazienza, è davvero un dettaglio trascurabile all'interno di un film che mi ha divertita oltre misura, e fatta uscire dal cinema piena di gioia nonostante l'argomento trattato. Per me, che sono terrorizzata dalla morte, soprattutto dei miei cari, e che talvolta mi trovo vittima di attacchi di panico al pensiero di non esistere più da un momento all'altro, poterne ridere ed esorcizzarla per un'oretta e mezza è un enorme regalo. Speriamo che The Monkey mi trasmetta a lungo un po' della sua leggerezza fatalista!


Del regista e sceneggiatore Osgood Perkins, che interpreta anche zio Chip, ho già parlato QUI mentre Elijah Wood, che interpreta Ted, lo trovate QUA.

Theo James interpreta Hal e Bill. Inglese, ha partecipato a film come la trilogia di Divergent e serie quali Downton Abbey; come doppiatore, ha lavorato in X-Men '97. Anche produttore, ha 41 anni e un film in uscita. 


Tatiana Maslany
, che interpreta Lois è la She-Hulk titolare del MCU. Se The Monkey vi fosse piaciuto recuperate Tucker and Dale vs Evil e la saga di Final Destination. ENJOY!

martedì 23 luglio 2024

Bolla Loves Bruno: Genitori cercasi (1994)

Stavo quasi per saltarlo, invece nella rassegna dedicata a Bruce Willis è finito anche Genitori Cercasi (North), diretto nel 1994 dal regista Rob Reiner e tratto dal romanzo North: The Tale of a 9-Year-Old Boy Who Becomes a Free Agent and Travels the World in Search of the Perfect Parents di Alan Zweibel.


Trama: la vita del piccolo North è costellata di successi, almeno finché la natura menefreghista dei genitori non comincia ad incidere sui suoi risultati sportivi e scolastici. Disperato, North decide così di mettersi alla ricerca di due genitori migliori...


Non avevo mai visto Genitori cercasi, forse non lo avevo mai nemmeno sentito nominare. Avevo deciso di non guardarlo, in quanto Bruce Willis era segnato nei credits di Imdb come "narratore", poi mi sono capitate sott'occhio un paio di immagini in cui l'attore era vestito da coniglio pasquale e ho capito che non potevo perdermi assolutamente il film. Ho quindi guardato Genitori cercasi come faccio di solito, senza informarmi al riguardo né leggere critiche pregresse, e non avete idea dello stupore quando sono venuta a sapere, il giorno dopo la visione, che il film in questione è universalmente considerato uno dei più brutti mai girati, nonché uno dei pochissimi stroncati da Roger Ebert senza possibilità di appello. Di più, Bruce Willis non doveva neanche esserci. Come molti altri insieme a lui (andate a vedere nelle info in fondo al post) era rimasto schifato dalla sceneggiatura ed era stata l'allora moglie Demi Moore, reduce dal successo di Codice d'onore, a convincerlo a partecipare, ed è stato un miracolo che la sua carriera non sia finita nel cesso come quella di Rob Reiner, fino a quel momento considerato regista infallibile e, in seguito, destinato a un flop dietro l'altro. Ora, non pretendo di saperne più di Roger Ebert, anzi, dinnanzi a lui m'inchino, ma tutto questo odio verso Genitori cercasi mi è parso ingiustificato. E' una commedia senza alcuna pretesa di essere seria, filtrata dalle fantasie di un bambino, e come tale è un'opera d'intrattenimento che mira solo a divertire lo spettatore con le sue trovate esagerate. Mi spingo fino a dire una cosa impopolare, che probabilmente mi varrà la cancellazione del blog e una condanna a morte da parte di ogni cinèfilo dell'Internet che si rispetti: a me Genitori cercasi, a livello di sceneggiatura e personaggi sopra le righe, ha ricordato tantissimo lo stile di Wes Anderson, e se quest'ultimo fosse un regista "da remake" sono convinta che potrebbe considerare l'insana idea di riportarlo sul grande schermo con i suoi inconfondibili tratti distintivi. 


Ma perché, in soldoni, Genitori cercasi ha generato tanto odio? Beh, in primis per il suo razzismo diffuso e per gli stereotipi che perpetra. Quando North parte alla ricerca dei genitori "perfetti", comincia la sagra della presa in giro, tra texani da circo, hawaiiani che dichiarano di sentirsi sottovalutati dai parenti americani, francesi dall'umorismo discutibile e alaskani usciti dritti da una distorta idea di qualche ignorante dell'800. Mentirei se dicessi che non è imbarazzante vedere Kathy Bates con "red face" annessa per interpretare l'Inuit, ma c'è anche da dire che questi stereotipi sono talmente enfatizzati e ridicoli, che nessuno potrebbe sentirsi seriamente offeso; allo stesso modo, è stupido inalberarsi perché la scelta di North, nel prefinale, ricade sulla tipica famigliola wasp e quindi automaticamente perfetta (ragazzi, ma ci hanno messo John Ritter e l'idea era di affiancargli Suzanne Somers di Tre cuori in affitto, di cosa stiamo parlando?), cosa dovrebbe scegliere un bambino bianco degli anni '90, di andare a stare con i Jefferson? In realtà, Genitori cercasi funge da blando racconto di formazione per un bimbo che inizia il film ritenendosi il centro del mondo ed emblema di perfezione, mentre alla fine del viaggio capisce di non essere meglio di altri e di doversi accontentare di un amore imperfetto ma sincero, proprio dopo aver visitato diversi luoghi "da sogno" che sono tali solo sulle cartoline, o per una vacanza di un paio di settimane. Il tutto viene raccontato seguendo i cliché di un thriller politico, perché mentre North cerca di trovare il suo posto nel mondo, una nemesi improbabile trama alle sue spalle per sovvertire l'ordine mondiale proprio sfruttando il gesto ribelle del protagonista, con tanto di killer prezzolati, video contraffatti e informatori segreti che diventano preponderanti verso la fine del film. Come potete leggere, la pellicola è pieno di trovate sciocche, giocose ed esagerate, e tutto sta ad entrare nel mood di un'opera essenzialmente parodica, pensata per un pubblico infantile, anche se mi sono divertita persino io.


Quanto a Bruce Willis, protagonista di questa rassegna, non ritengo si sia sputtanato, né che la sua performance sia la peggiore della sua carriera, anzi. L'attore, qui, fa "Bruce Willis", tirando fuori il meglio dei personaggi che hanno contribuito a definire la sua cifra stilistica cinematografica; dotato di un talento naturale per la commedia, asservito nel tempo a ruoli da eroe, Willis ciccia fuori per dare una mano a North in ognuno dei suoi viaggi, incarnandosi, di volta in volta, in uomo carismatico ma rozzo, saggio scoglionato dalla vita che può dare il meglio sia come attore di successo, sia come working class hero, sia come figura mitologica, sia come poveraccio scappato di casa. L'interazione con Elijah Wood, all'epoca tredicenne sulla cresta dell'onda, è tenera e divertente perché il ragazzino gli tiene testa ma senza risultare supponente, in più viene a crearsi proprio un clima di fiducia che fa del "narratore" uno strumento di salvezza non solo fisica, ma anche morale. Oltre a un Bruce Willis a mio parere in formissima, all'interno del cast trovate tantissimi attori amati che non si sono tirati indietro di fronte all'overacting richiesto (Jon Lovitz più o meno fa sempre lo stesso personaggio, ma il giudice di Alan Arkin è talmente sopra le righe da fare il giro) e, soprattutto, Matthew McCurley. Costui è un piccolo mostro che è sparito dalle scene dopo una manciata di film, probabilmente dopo aver perso quell'aria da simil Maculay Culkin che deve avergli fornito gli ingaggi all'epoca, ed è un peccato, perché la sua interpretazione del viscido bastardello Winchell è la cosa più esilarante del film. Al quale, neanche a dirlo, vi invito a dare un'occhiata, anche solo per darmi della matta: è introvabile sui servizi streaming e sul mercato dell'home video, neanche avessero voluto cancellarne il ricordo, ma su Youtube è disponibile per intero e in buona qualità. Fatemi sapere!


Del regista Rob Reiner ho già parlato QUI. Elijah Wood (North), Julia Louis-Dreyfus (mamma di North), Bruce Willis (Narratore), Jon Lovitz (Arthur Belt), Alan Arkin (Giudice Buckle), Dan Aykroyd (Pa Tex), Graham Greene (Papà alaskano), Kathy Bates (Mamma alaskana), John Ritter (Ward Nelson) e Scarlett Johansson (Laura Nelson) li trovate invece ai rispettivi link.


Pronti per il valzer dei gran rifiuti? John Candy era stato scelto per il ruolo di Pa Tex ma ha rifiutato perché trovava offensivi gli stereotipi all'interno della sceneggiatura, di conseguenza Reiner ha chiesto a Robin Williams, che era però già impegnato sul set di Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre. Altri due che hanno espresso disgusto verso lo script e declinato con grazia sono Mel Brooks e Peter Falk, contattati per interpretare il nonno alaskano; anche Kathy Bates trovava orrenda la sceneggiatura, ma ha partecipato al film per ringraziare Reiner di averle fatto vincere l'Oscar con Misery non deve morire. ENJOY!

mercoledì 1 aprile 2020

Come to Daddy (2019)

Giorni in cui i cinema sono chiusi ma siccome c'è tanta roba da recuperare è bello anche stare a casa *rosic*. Così, in questi giorni ho guardato Come to Daddy, diretto nel 2019 dal regista Ant Timpson.


Trama: un ultratrentenne riceve una lettera dal padre che non vede dall'età di cinque anni e decide di accettare l'invito a raggiungerlo. Purtroppo, papà si rivela uno stronzo di prim'ordine...



Per riuscire a raggiungere le righe minime affinché questo risulti un post "normale", mi toccherà fare i salti mortali visto che il punto di forza di Come to Daddy è il non sapere. Quello che posso dire, per quanto riguarda la trama, è che il film di Ant Timpson è una commedia nerissima o una tragedia comica, all'interno della quale personaggi che non si vedono da decenni cominciano a sbroccare male. Il figlio dal nome improponibile, Norval, ha la faccetta stralunata di Elijah Wood, perfetta per un uomo che vive nella speranza che il padre fedifrago sia una brava persona, che magari possa aiutarlo a fare i conti con un passato di alcolismo, depressione e tentati suicidi, ma viene purtroppo accolto dal genitore con una cattiveria che ha dell'inverosimile, da un uomo rozzo, alcolizzato fin dal mattino e privo di parole che non siano di biasimo costante; Norval, poverello, lì per lì cercherebbe di sopportare, di abbozzare, di darsi un tono nonostante il suo lavoro di "artista" che se la crede, poi a un bel momento sbrocca anche lui, comprensibilmente. Da qui, lascio alla vostra immaginazione. Come to Daddy è un film che gioca molto di attesa e punta tutto su dialoghi e confronti, soprattutto nella prima parte, mentre nella seconda arriva a mescolare i registri, appropriandosi persino di elementi tipici del thriller horror, giusto per confondere un po' lo spettatore, scodellando inoltre una riga di personaggi talmente sopra le righe che al confronto il Windom Earle di Twin Peaks è un signorino posato.


Fior di caratteristi come Martin Donovan e Michael Smiley, soprattutto quest'ultimo, dominano la scena abbracciando con gioia l'atmosfera grottesca di Come to Daddy e il desiderio di "strano" che pare avere avvinto l'ex Frodo Baggins sia come attore che come produttore e verso la fine c'è anche la possibilità di godere di qualche scena pulp. D'altronde, benché sia al suo primo film come regista, Ant Timpson non è estraneo alle splatterate (ve ne accorgerete leggendo più sotto il suo excursus nel campo della produzione), ma oltre a questo ha un occhio non malvagio per la costruzione delle inquadrature e l'utilizzo delle luci artificiali e naturali e lo dimostra la bellezza di alcune sequenze, arricchite dalla scelta di un setting assai particolare, ovvero una casa a pianta rotonda montata su alte palafitte, a strapiombo su un lago (con buona pace dello smartphone d'oro di Lorde), che nasconde nei suoi meandri un sacco di luoghi misteriosi. Onestamente, aggiungere altro sarebbe un vero delitto, vi consiglio di recuperare Come to Daddy senza porvi troppe domande e godervelo per il film interessante e divertente che è, ringraziando il cielo che continuano ad esistere matti come Elijah Wood.


Di Elijah Wood (Norval Greenwood), Martin Donovan (Brian) e Michael Smiley (Jethro) ho già parlato ai rispettivi link.

Ant Timpson è il regista della pellicola. Neozelandese, è alla sua prima prova dietro la macchina da presa ed è conosciuto soprattutto come produttore (il suo nome è legato a film come The ABCs of Death e seguiti, Turbo Kid e Deathgasm). Anche sceneggiatore e attore, ha 54 anni.


Stephen McHattie interpreta Gordon. Canadese, ha partecipato a film come Beverly Hills Cop III, A History of Violence, 300, Watchmen, Pay the Ghost, Madre!, Il giustiziere della notte, Rabid e a serie quali Starsky & Hutch, Il tenente Kojak, Miami Vice, Ai confini della realtà, X-Files, Oltre i limiti, The Hunger, Walker Texas Ranger, Nikita, Detective Monk, The 4400 e The Strain. Anche regista e produttore, ha 73 anni e un film in uscita.


domenica 18 novembre 2018

I Don't Feel at Home in This World Anymore. (2017)



In una di queste calde sere d'estate ho recuperato I Don't Feel at Home in This World Anymore, film presente nel catalogo Netflix, di cui quasi tutti avevano parlato benissimo tempo addietro, diretto e sceneggiato nel 2017 dal regista Macon Blair.


Trama: dopo aver subito un furto, l'infermiera Ruth si imbarca nella ricerca della refurtiva e dei colpevoli, accompagnata dallo strano vicino di casa, Tony.



Non so se è la vecchiaia che sta cominciando a rendermi ipersensibile ma ultimamente a me sembra che la gente sia impazzita tutta. Sarà che abito in una città costiera dove d'estate il flusso di turisti sempre più "fai-da-te" rende quasi impossibile uscire di casa ma nei weekend mi tocca testimoniare ad esempi di inciviltà e menefreghismo terribili, tra gente che parcheggia a cazzo de cane, getta la spazzatura dove vuole, fa defecare i suoi dolci cagnolini su qualsiasi strada percorribile, addirittura (e non sto scherzando) fa pisciare i suoi ancor più SANTI bambini per strada, DAVANTI ai tavoli dei ristoranti all'aperto, perché portarli in bagno è difficile, per non parlare dei vecchiacci/e che, ansiosi come sono di correre a casa e aspettare la Signora Con La Falce, morire che ti facciano passare alla cassa quando tu hai UN sacchetto del pane e loro la spesa per sei mesi. Insomma, ogni giorno mi/ci tocca testimoniare ad esempi di ordinaria maleducazione sempre più fastidiosa e ciò mi ha fatta immedesimare tantissimo nella protagonista di I Don't Feel at Home in This World Anymore, infermiera timida e tranquilla, amante dell'alcool e della musica country, che all'ennesimo sopruso ingiustificato (nella fattispecie, un furto con scasso preso decisamente sottogamba dalla polizia) decide di dire BASTA. Non "basta" tipo "giorno di ordinaria follia", beninteso, quanto piuttosto un "basta" che diventa desiderio di tutelarsi e di non farsi mettere i piedi in testa, partendo dal condivisibile desiderio di recuperare la refurtiva quando la polizia mostra di non avere interesse a farlo, preferendo trattare Ruth con la miserevole condiscendenza che si offre a chi ha scioccamente lasciato la casa incustodita. Da questa semplice ricerca della refurtiva, durante la quale Ruth si allea con lo strampalato vicino di casa amante delle arti marziali, nasce un film che, nonostante il tono leggero e grottesco, racconta l'angoscia di chi non si sente più parte di questo mondo e vive ogni giorno con triste rassegnazione, sentendosi sempre più lontano da un'umanità che corre allegramente verso il baratro dell'autodistruzione, della mediocrità, dello schifo.


Tra una gag e un momento decisamente splatter, soprattutto sul finale, le riflessioni di Ruth inducono lo spettatore a gettare uno sguardo non troppo indulgente sulla propria vita, a pensare a quanto sia giusto "lasciarsi vivere" e farsi scivolare addosso tutto sopportando con una pazienza che sconfina pericolosamente nell'atarassia e nel menefreghismo; la consapevolezza che un buon 99% di noi non lascerà alcun segno nella storia non deve diventare una scusa per far sì che la deboscia abbia il sopravvento perché si può lasciare comunque un buon ricordo ad amici, parenti e semplici conoscenti... oltre che, se possibile, cercare quel minimo di soddisfazione e felicità anche per noi, ovviamente. E' per questo che la storia di Ruth, con tutte le sue inevitabili esagerazioni e licenze "poetiche" e al netto dell'indiscutibile assurdità dei personaggi di cui è popolata, rischia di radicarsi nel cuoricino dello spettatore, che può tranquillamente rispecchiarsi nella protagonista in almeno un paio di sequenze chiave; per lo stesso motivo,  I Don't Feel at Home in This World Anymore è più profondo di quanto parrebbe ad una prima, distratta occhiata e non è proprio uno di quei film da guardare col cervello spento, benché l'occhio venga coccolato da una messa in scena accattivante e un montaggio dinamico. Melanie Lynskey, attrice bravissima e fortunatamente distante dai canoni di bellezza hollywoodiani, cicciottina e dal viso non particolarmente attraente, è perfetta per il ruolo di Ruth ed è un altro, fondamentale veicolo di immedesimazione, mentre Elijah Wood, ormai abbonato ai ruoli weird, incarna l'aspetto più assurdo del film ma, attenzione, anche il suo personaggio non è da prendere sottogamba. Tony, infatti, pur con tutte le sue idiosincrasie, è il perfetto contraltare di Ruth, una persona che, a differenza della protagonista, non si limita a lasciarsi vivere ma cerca di crearsi un'oasi di realizzazione e felicità (per quanto piccola) così da non impazzire ed abbruttirsi. Che poi anche lui cerchi riscatto e lo faccia "uscendo" dal suo guscio tendendo una mano a Ruth, non solo materiale ma anche "spirituale", è l'ulteriore messaggio positivo di un film che magari non cambierà la vostra esistenza ma probabilmente vi spingerà a riflettere sul modo migliore di affrontare questo mondo dove tutti, io per prima, rischiamo di non sentirci per nulla "a casa".


Di Melanie Lynskey (Ruth), Elijah Wood (Tony), Derek Mears (Monkey Dick) e Jane Levy (Dez) ho parlato ai rispettivi link.

Macon Blair è regista e sceneggiatore della pellicola, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, inoltre interpreta l'uomo che al bar spoilera il libro a Ruth. Americano, anche produttore e stuntman, ha 44 anni.




venerdì 8 aprile 2016

9 (2009)

In questi giorni mi è capitato di recuperare il delizioso 9, diretto e co-sceneggiato nel 2009 dal regista Shane Acker.


Trama: in una Terra devastata da una guerra tra macchine ed esseri umani che ha portato all'avvelenamento dell'aria, il piccolo robottino 9 si risveglia e trova un misterioso oggetto bramato proprio dalle macchine "sopravvissute"...



Chissà perché nel 2009 non ero riuscita ad andare a vedere 9. Probabilmente perché qui non sarà uscito, come al solito. Peccato, soprattutto perché non mi è parso di sentirlo nominare tanto quanto altri cartoni animati moderni, nonostante meriti almeno una visione e nonostante due grandi nomi impegnati come produttori, ovvero Tim Burton e Timur Bekmambetov. Ambientato in un futuro post-apocalittico, dove a fatica si riconosce nel paesaggio una Parigi distrutta, 9 è un piccolo lungometraggio che racconta di come l'umanità, dopo essersi completamente affidata alle macchine e ad un governo globale di stampo nazista, è riuscita a soccombere sotto gli attacchi di quelle stesse macchine, che hanno inquinato l'aria al punto da impedire la nascita di qualsiasi forma di vita sulla terra. In questo ambiente sterile e malsano, si aggirano dei misteriosi robottini dalle vaghe sembianze antropomorfe, una comunità di "giocattolini" costretti a loro volta a fuggire dalla "Bestia", ovvero ciò che resta delle terribili macchine che hanno spazzato via gli esseri umani; diverso tra i diversi, appena nato quindi inconsapevole del mondo che lo circonda, è il protagonista della pellicola, 9, che un giorno si attiva ritrovandosi tra le mani un oggetto misterioso capace di riunire in sé tecnologia e magia. Alle ovvie difficoltà pratiche che il protagonista dovrà affrontare per compiere il destino riservatogli dal suo creatore, si aggiunge anche la naturale diffidenza di una comunità chiusa e superstiziosa, che ha fatto della sopravvivenza e del disinteresse la sua ragione di vita: i robottini che vanno dall'1 all'8, ognuno caratterizzato non solo per quel che riguarda la personalità ma anche nei materiali "di riciclo" che lo compongono, si relazionano con 9 in maniera differente, alcuni come se avessero ritrovato un pezzo di comunità perduto da lungo tempo, altri come una minaccia portatrice di innumerevoli catastrofi. La verità, ovviamente, sta nel mezzo e 9 non è un film allegro o dotato di un happy ending gioioso, ma celebra comunque il coraggio di chi si batte per il cambiamento e, conseguentemente, per la vita, veicolando un messaggio positivo sempre più necessario in questi tempi.


Per quel che riguarda la realizzazione, 9 potrebbe probabilmente risultare confuso e anche un po' pauroso per dei bambini. I piccoli protagonisti, come ho avuto modo di dire, sono carini e molto ben curati nel loro aspetto fisico, pieni di dettagli caratteristici capaci di differenziarli l'uno dall'altro ma le "bestie", soprattutto quella capace di ipnotizzare e bloccare le altre macchine, sono una più inquietante dell'altra, un concentrato di elementi horror/steampunk che sarebbero perfetti all'interno di un film di fantascienza. 9 ad un certo punto vira più sull'action, allontanandosi dalla delicata e Burtoniana poesia con la quale sono stati realizzati in CGI i primi attimi di vita del protagonista per concentrarsi sull'altra metà della sua "anima", quella più zamarra di Timur Bekmambetov, fatta di scontri all'ultimo ingranaggio tra i robottini e le bestie; l'animazione è spettacolare e ogni scontro viene reso benissimo ma purtroppo ne risente il design della Bestia principale, il cui unico elemento ben riconoscibile è un terrificante occhio rosso, a mo' di Grande Fratello orwelliano, probabilmente a simboleggiare la caotica violenza di un mondo distrutto da macchine impersonali. La poesia torna a farla da padrone sul finale, che di nuovo si riempie di immagini assai poetiche mentre il ritmo dell'azione giustamente cala, lasciando lo spettatore a riscoprirsi più legato di quanto si aspettasse a queste buffe creaturine e forse un po' deluso per una storia che lascia moltissimi punti irrisolti e a tratti si perde in un bailamme di idee interessanti ma contrastanti. Forse dovrei rivedere 9 un'altra volta per poterlo apprezzare nella sua interezza e dare un giudizio definitivo ma già posso affermare senza tema che è comunque un film carinissimo, per quanto magari non adatto ai bimbi troppo piccoli. Genitori, siete avvisati, rischiate che i pargoli facciano gli incubi la notte e si sveglino urlando di macchine che vogliono mangiarli!


Di Christopher Plummer (#1), Martin Landau (#2), John C. Reilly (#5), Crispin Glover (#6), Jennifer Connelly (#7) ed Elijah Wood (#9) ho parlato ai rispettivi link.

Shane Acker è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al momento il primo ed unico lungometraggio da lui diretto. Americano, anche tecnico degli effetti speciali, animatore e produttore, ha 45 anni.


9 è nato come un corto animato, che nel 2009 era stato persino nominato all'Oscar, pur non avendo vinto; se il film vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete Coraline e la porta magica. ENJOY!

martedì 8 dicembre 2015

Cooties (2014)

Oggi il Bollalmanacco va incontro a tutti gli insegnati frustrati d'Italia parlando di Cooties, horror diretto nel 2014 dai registi Jonathan Milott e Cary Murnion.


Trama: a causa di una partita avariata di bocconcini di pollo i bambini di una scuola elementare diventano delle belve assetate di sangue e gli insegnanti rimasti bloccati all'interno dell'edificio dovranno cercare di sopravvivere.



Cooties è una parola strana ma carina, che non avevo mai sentito prima di guardare questo film. Credevo derivasse dallo slang e venisse utilizzata per indicare i bambini in generale, magari in senso dispregiativo, invece "cooties" è un po' come il nostro "ce l'hai", nella misura in cui i maschietti e le femminucce rifiutano di venire toccati dagli esponenti del sesso opposto in quanto portatori appunto di "cooties", una sorta di bacillo immaginario particolarmente schifoso. Non c'è però nulla di immaginario nella malattia che colpisce i pargoli nella pellicola di Jonathan Milott e Cary Murnion, nata dall'ingestione di un pasto già di per sé poco sano (giuro su Cthulhu che non mangerò mai più i Chicken Nuggets del MacDonald, la mia cosa preferita all'interno di quelle schifoserie svunce) e diffusa come da tradizione attraverso il contatto fisico tipico appunto del "ce l'hai", con l'aggiunta di un graffio o un morsetto. La banale, noiosa e frustrante giornata di un corpo insegnante formato da casi umani si trasforma così in una lotta per la sopravvivenza nella quale le già imbarazzanti regole, fobie o convinzioni deontologiche di ciascun maestro diventano o dei mezzi per contrastare la ferocissima masnada di pargoli sanguinari oppure i veicoli per una dipartita più celere; massimi esempi di rara demenza sono l'odioso vicepreside col suo falso buonismo, l'insegnante di educazione fisica che riesce tuttavia a diventare una sorta di badassissimo giustiziere sul finale, persino la "mamma in carriera" con una mano sul telefonino, il culo sul SUV e l'occhio ciecamente rivolto al proprio importantissimo universo interiore, incapace di capire cosa stia succedendo ai figli messi al mondo a mo' di status symbol. I bambini selvaggi di Cooties si ribellano ad un sistema che li vuole parcheggiati per ore lontani da famiglie troppo impegnate ma il film offre anche la rivincita ad insegnanti costretti ad affrontare alunni resi idioti e maleducati da genitori inqualificabili e a veder sminuito il valore del proprio importantissimo lavoro; il risultato è un divertente bagno di sangue che potrebbe fungere da valvola di sfogo per chi si ritrovasse costretto ogni giorno ad affrontare le situazioni al limite del surreale presentate all'inizio del film.


A fronte di parecchie scene splatter, sequenze abbastanza cattive e un make-up realistico e rivoltante (ma mai quanto la lunghissima scena introduttiva dei titoli di testa, che mostra nel dettaglio la realizzazione del nugget avariato) ciò che comunque la fa da padrone in Cooties è la sua anima supercazzola di film che non si prende sul serio neppure per un secondo. L'ambiente lavorativo nel quale gravitano gli insegnanti è degno di una sit-com americana, così come i protagonisti, tagliati con l'accetta ma in qualche modo assai umani nell'esacerbare pregi e difetti riscontrabili nella maggior parte delle persone che ci circondano; lo scrittore frustrato di Elijah Wood, la maestrina tutta zucchero e soluzioni pacifiche, la zitella terrorizzata dagli uomini, l'asociale incapace di parlare, il macho, l'insegnante palesemente gay che tutti per tacito accordo fingono di considerare eterosessuale, persino la quintessenza degli stereotipi razziali racchiusi in un bidello giapponese risultano assurdi e familiari allo stesso tempo e ovviamente stridono perfettamente con la componente horror della pellicola. Poi, ovvio, Cooties non è assolutamente al livello di Shaun of the Dead o di altre commedie horror diventate cult, tuttavia gli attori coinvolti (anche comparse di lusso come lo Hugo di Lost o il regista Leigh Whannell) si sono palesemente divertiti, il film non è fiaccato da quell'aria di sciatteria tipica di altre produzioni simili e in generale i registi, per quanto siano dei novellini, si sono sicuramente impegnati per dare al pubblico qualcosa di simpatico e ben realizzato (ho trovato molto ben fatte in particolare la scena del contagio in cortile e la "festa" finale, che mi ha un po' ricordato una delle sequenze più riuscite di Clown). Soprattutto, bisognerebbe ricordare che il co-sceneggiatore è quel Ian Brennan che mi sta dando un sacco di gioie con la folle ed esilarante serie Scream Queens. Tenendo a mente questo dettaglio, Cooties diventa automaticamente un divertissement ideale per una serata di totale relax ad alto tasso di ignoranza citazionistica, zeppo di dialoghi sagaci da appuntarsi e riutilizzare. Aspettando, ovviamente, la fine dei titoli di coda.


Di Elijah Wood (Clint), Rainn Wilson (Wade) e Leigh Whannell (Doug) ho parlato ai rispettivi link.

Jonathan Milott e Cary Murnion sono i registi della pellicola, probabilmente americani e al loro debutto dietro la macchina da presa. Hanno un film in uscita.


Alison Pill interpreta Lucy. Canadese, ha partecipato a film come Scott Pilgrim vs. The World, Midnight in Paris e a serie come Psi Factor e CSI - Scena del crimine. Ha 30 anni e un film in uscita.


Jack McBrayer interpreta Tracy. Americano, ha partecipato a film come Talladega Nights - The Ballad of Ricky Bobby, Comic Movie e, soprattutto, alla serie 30 Rock; come doppiatore ha lavorato per i film Cattivissimo me, Ralph Spaccatutto e per serie come I Simpson e Phineas e Ferb. Anche produttore, ha 42 anni.


Nasim Pedrad, che interpreta Rebekkah, è l'ambigua Gigi di Scream Queens mentre il già citato Jorge Garcia, qui nei panni del fattone Rick, è stato il mitico Hugo di Lost. Se Cooties vi fosse piaciuto recuperate il meno allegro The Children! ENJOY!

domenica 22 giugno 2014

Il signore degli anelli - Il ritorno del re (2003)

Eccoci arrivati alla fine dei post dedicati alla trilogia de Il signore degli Anelli! Si conclude in bellezza con Il ritorno del re (The Lord of the Rings: The Return of the King), diretto nel 2003 dal regista Peter Jackson.


Trama: le forze di Sauron stanno per scagliarsi contro la fortezza di Gondor e la guerra minaccia di segnare la fine dell'era degli uomini. Mentre Aragorn, Gandalf, Merry, Pipino, Legolas e Gimli si preparano per quella che potrebbe essere l'ultima battaglia della loro vita, Frodo, Sam e un sempre più malvagio Gollum devono trovare un modo per penetrare nel cuore di Mordor e arrivare, non visti, al monte Fato per distruggere l'Anello...


Il ritorno del re è sicuramente il film della trilogia che preferisco perché, mentre La compagnia dell'anello fungeva da introduzione ed era in qualche modo più "lieto" e Le due torri era principalmente concentrato su epiche battaglie, quest'ultima pellicola si sofferma maggiormente sulle emozioni dei singoli personaggi ed è pervaso, dall'inizio fino alla fine, da un'intensa atmosfera di ineluttabilità, malinconia e flebile speranza. Ognuno dei protagonisti, infatti, è consapevole della possibilità di stare combattendo una battaglia persa in partenza e di stare letteralmente proseguendo nel cammino a braccetto con la morte e molti, di fronte a questa consapevolezza, scelgono ad un certo punto di arrendersi. In questo senso, la figura che mi ha sempre colpita maggiormente è quella del padre di Boromir e Faramir, Denethor, che si getta a testa bassa nel vortice della follia e della rassegnazione, spinto da un orgoglio fasullo e da una sete di potere senza pari, e solo quando la fine è imminente capisce quanto fossero inutili i valori a cui si è sempre aggrappato; a differenza di Re Theoden, che riesce a trovare nuova linfa vitale nelle situazioni disperate, Denethor soccombe al dolore e decide di abbandonare tutto, distruggere regno e famiglia senza dare battaglia, un po' come un novello Mazzarò che sceglie di portare con sé la sua "roba". Allo stesso modo anche Sam, fino a questo momento la voce della semplicità, dell'innocenza e della saggezza "di campagna", si ritrova a perdere tutto a causa delle macchinazioni di Gollum e per un attimo, un attimo incredibilmente toccante e umano, perde di vista la via rischiando così di condannare quella povera oloturia di Frodo nonché l'intera Terra di Mezzo. Il ritorno del re inoltre (almeno all'epoca, prima che arrivasse Lo Hobbit) significa dare l'addio a meravigliosi personaggi a cui ci siamo affezionati, creature che, inevitabilmente, sono rimaste toccate nel profondo dai terribili, per quanto epici, eventi raccontati. Ritornare senza pensieri alla vita di prima non è umanamente pensabile, perché il male assoluto può aiutare a cambiare in meglio ma lascia anche cicatrici profonde e un'altrettanto profonda stanchezza; il finale de Il ritorno del re tira sì ogni filo lasciato in sospeso ma devasta lo spettatore con una malinconia infinita, lasciandolo nella triste consapevolezza che il tempo delle favole, della magia e delle epiche battaglie appartiene a un mondo che ormai non esiste più e che può tornare, di tanto in tanto, solo in forma di racconto.


E il racconto in questione Peter Jackson e i responsabili della WETA l'hanno realizzato talmente bene che, ad ogni fotogramma, ad ogni evento, ad ogni inquadratura, veniamo risucchiati nello schermo e viviamo sulla nostra pelle tutto ciò che accade ai protagonisti. La tremenda Shelob, nascosta nel ventre della montagna, rischia di annidarsi negli incubi dello spettatore anche a distanza di anni, il confronto tra il Re dei Nazgul ed Eowyn è semplicemente da applauso, la rabbia con cui i "buoni" si scagliano disperati contro le forze di Mordor fa venire voglia di impugnare una spada e affiancarsi a loro nella battaglia, la scalata di Frodo e Sam al Monte Fato è in grado di fiaccare l'animo e lo spirito, il geniale montaggio che mostra il destino di Faramir e, contemporaneamente, il disgustoso banchetto di Denethor è in grado di fomentare un inaudito desiderio di uccidere il Reggente, la riunione finale nella camera da letto di Frodo fa sciogliere in lacrime e risate liberatorie: tutto questo, nonostante Il signore degli Anelli sia commerciale quanto volete, è per me indice di grande Cinema e anche l'Academy ha dovuto chinare il capo e inondare di Oscar l'opera di Jackson (Miglior film, miglior regia, miglior adattamento, miglior fotografia, miglior scenografia, migliori costumi, miglior make-up, miglior colonna sonora, migliore canzone, miglior suono e migliori effetti speciali) pur snobbando degli attori che, non stiamocela a raccontare, in tutti quegli anni sono diventati tutt'uno con i personaggi. Ne Il ritorno del re persino Elijah Wood diventa credibile e un po' più espressivo rispetto agli altri due film, Merry e Pipino riescono finalmente ad uscire dalla sorta di anonimato a cui il loro ruolo di "spalle" li aveva condannati assumendo quello di spettatori esterni che vedono due regni andare in rovina e poi risorgere, Aragorn subisce una metamorfosi incredibile da outsider a vero Re di Gondor (perdendo almeno 800 punti fascino ma così è la vita...) e, ovviamente, Sean Astin nei panni di Sam svetta su chiunque grazie alla sua sensibilità e il faccino pacioso, stanco e disperato. Ci sarebbero mille altre cose da dire su quella che è diventata LA trilogia con cui confrontarsi a partire dal 2000, ci sarebbe da insultare Peter Jackson che ha deciso di cavar sangue da una rapa e sputare sulla sua meravigliosa creatura sperando di replicarla dividendo in tre Lo Hobbit, ci sarebbe anche, ovviamente, da muovere delle critiche da "puristi" rispetto alle diversità tra film e romanzo... ma rischierei di dilungarmi e diventare noiosa. Secondo me, c'è solo da riprendere in mano i DVD o i BluRay e immergersi senza pensieri in questa splendida Trilogia, seguendo l'affascinante ed ipnotico richiamo dell'Unico Anello.


Del regista e co-sceneggiatore Peter Jackson (che compare anche durante la battaglia al Fosso di Helm) ho già parlato quiElijah Wood (Frodo Baggins), Sean Astin (Samwise "Sam" Gamgee), Sean Bean (Boromir), Cate Blanchett (Galadriel), Orlando Bloom (Legolas), Billy Boyd (Peregrino "Pipino" Tuc), Bernard Hill (Theoden), Ian Holm (Bilbo), Ian McKellen (Gandalf il grigio), Dominic Monaghan (Meriadoc "Merry" Brandybuck), Viggo Mortensen (Aragorn), Miranda Otto (Eowyn), John Rhys-Davies (Gimli), Andy Serkis (Gollum/Smeagol), Liv Tyler (Arwen), Karl Urban (Eomer), Hugo Weaving (Elrond) e David Wenham (Faramir) li trovate invece ai rispettivi link.

Durante il film riusciamo finalmente a vedere Andy Serkis "quasi" al naturale, nei panni di Smeagol. La cosa buffa è che, all'inizio, i realizzatori pensavano di utilizzare un altro attore per interpretarlo! Tra le comparse segnalo invece lo stesso Peter Jackson (il corsaro colpito dalla freccia di Legolas), il figlio di Viggo Mortensen, Henry, il pronipote di J.J.R. Tolkien, Royd, e la figlia di Sean Astin, Alexandra. Il ritorno del re segue La compagnia dell'anello e Le due torri quindi, se vi fosse piaciuto, recuperate il primo capitolo e il secondo capitolo della trilogia, leggete assolutamente Il Signore degli anelli cartaceo e, se vi va, proseguite guardando i primi due episodi della trilogia de Lo Hobbit. ENJOY!

venerdì 20 giugno 2014

Il signore degli anelli - Le due torri (2002)

Dopo aver parlato de La compagnia dell'anello oggi si prosegue con Il signore degli anelli - Le due torri (The Lord of the Rings - The Two Towers), seconda parte della trilogia diretta nel 2002 dal regista Peter Jackson.


Trama: la Compagnia dell'anello si è divisa. Mentre Frodo e Sam incontrano Gollum e si dirigono verso Mordor per distruggere l'Anello, Pipino e Merry vengono salvati dal misterioso Barbalbero; Aragorn, Gandalf, Legolas e Gimli vengono invece coinvolti in un'epica battaglia tra le forze del malvagio Saruman e gli abitanti del regno di Rohan.



Le due torri, di fatto una sorta di raccordo tra il primo e il terzo capitolo de Il signore degli anelli, è la parte di trilogia che meno preferisco, sebbene la versione estesa sia molto più completa e piacevole da vedere rispetto a quella che era passata nei cinema italiani. All'epoca l'avevo trovata eccessivamente lunga e lievemente tediosa perché il fulcro della sceneggiatura è l'epica battaglia finale al Fosso di Helm, una mezz'ora buona di frecce, esplosioni, orchi e cavalli che, nonostante fosse stata realizzata in maniera impeccabile, al limite della commozione, non era riuscita comunque ad entusiasmarmi come avrebbe dovuto. Altra pecca della pellicola (ma lì la "colpa" risiede nella natura del personaggio, ereditata dai libri di Tolkien) è l'introduzione del noiosissimo Ent Barbalbero, un'enorme quercia semovente amante degli spiegoni e incarnazione dello spirito ecologista che anima questa parte della pellicola, quasi interamente imperniata sulla battaglia tra tradizione e progresso, natura e industria. Il crudele Saruman, ormai completamente asservito a Sauron, non esita a distruggere foreste o deviare fiumi, affidandosi totalmente all'"industria" del fuoco, del metallo e della magia nera per ottenere il potere portando morte ed oscurità nella Terra di Mezzo, mentre invece gli sparuti membri della Compagnia dell'Anello continuano a preferire la comunione con la Natura e l'unione "corretta" delle forze, ottenuta attraverso la difficile ricostruzione di vecchie alleanze. Se la grandiosa battaglia al Fosso di Helm, diretta conseguenza di questi scontri, è la parte più importante dell'Opera, non bisogna comunque dimenticare che il successo della missione di Frodo e Sam è ciò da cui dipende la vittoria del bene o del male e ne Le due torri le vicende dei due Hobbit compiono un importantissimo passo avanti grazie soprattutto all'arrivo di Gollum.


Gollum è uno dei tre personaggi nuovi introdotti nel secondo capitolo della trilogia e, neanche a dirlo, è uno dei migliori della saga. Interpretata magistralmente da un Andy Serkis completamente nascosto da un sembiante digitale, questa creatura è il terribile esempio del potere dell'Anello, un essere tormentato dalla bramosia, dalla sete di vendetta e da una follia che lo sdoppia in due distinte personalità, da una parte l'infantile e timoroso Smeagol e, dall'altra, il freddo e crudele Gollum, che compirebbe ogni sorta di nefandezza per rimettere le zampe sul Tessoro. Gollum ovviamente rappresenta ciò che potrebbe diventare Frodo se si lasciasse sedurre dalle lusinghe dell'Anello ed è quindi inevitabile che tra i due si instauri una connessione da cui il povero Sam rimane escluso; ed ecco che, di fatto, diventa  proprio Samvise Gamgee il lato fondamentale di questo particolare triangolo, l'unico ad essere riuscito a mantenere una dimensione umana, una mentalità semplice in grado di toccare il cuore e l'animo di persone ormai troppo immerse nel dolore e nell'odio, come si può vedere nello splendido, commovente dialogo tra lui e Faramir. L'altro stupendo personaggio a venire introdotto è Eowyn, femminile e forte allo stesso tempo, la "dama sfortunata" che rischia di perdere l'amato zio Theoden a causa delle macchinazioni di Saruman (e della new entry Vermilinguo, meravigliosamente interpretato da un viscidissimo Brad Dourif) e che, per quanto si sforzerà, non potrà mai essere alla pari dell'elfa Arwen e scalzarla dal cuore di Aragorn; sarà perché sono donna e perché la mia dose di due di picche immotivati me la sono presa ma ogni volta che Eowyn compare mi viene voglia di prendere a ceffoni sul coppino l'erede di Isildur per il modo in cui si ostina a rendere triste la poveretta, già segnata da mille sofferenze. Questi personaggi nuovi, ai quali aggiungo anche Faramir e re Theoden, sono talmente ben tratteggiati da riuscire tranquillamente a rivaleggiare con quelli conosciuti nel primo capitolo (sicuramente surclassano Gimli e Legolas) e saranno a dir poco fondamentali per il terzo, ovviamente.


Tecnicamente parlando, anche Le due torri è un capolavoro. Barbalbero, per quanto risulti odioso come personaggio, è comunque realizzato in maniera divina e sembra davvero che porti in spalla di due hobbit quando cammina ma l'olifante che si vede ad un certo punto non è da meno e, ovviamente, Gollum è qualcosa di inimmaginabile. Per quel che riguarda le sequenze invece, il fiore all'occhiello della pellicola è sicuramente la delirante battaglia al fosso di Helm, che ha richiesto mesi di riprese e innumerevoli aggiustamenti fatti al computer (tanto che il cast alla fine portava delle magliette con su scritto "I survived Helm's Deep") per poter essere completata al meglio, tuttavia io sono molto più affezionata alla vertiginosa carrellata che, finalmente, svela quale inferno si nasconda sotto la torre di Saruman e a due sequenze "statiche" che mi mettono sempre i brividi: una è il primo piano del viso di Vermilinguo solcato da una singola lacrima, peraltro vera e frutto dell'abilità di Brad Dourif, mentre l'altra mostra una solitaria Eowyn che si staglia contro Edoras, disperata e vulnerabile ma allo stesso tempo fiera, mentre il vento porta via la bandiera con lo stemma della sua casata e l'evocativa musica di Howard Shore riempie le orecchie e il cuore dello spettatore. Per quel che riguarda il cast, fortunatamente, valgono le stesse parole dette nel post precedente. Si vede che tutti gli attori tenevano particolarmente alla riuscita della trilogia e l'atmosfera di amicizia ed intesa, reciproca e rivolta verso il regista Peter Jackson, traspare da ogni gesto, sguardo o fotogramma del film. Mi rendo conto di aver scritto un papiro che farebbe invidia a Tolkien, quindi concludo qui lo sproloquio relativo a Le due torri e mi preparo perché domenica tocca a Il ritorno del re!!


Del regista e co-sceneggiatore Peter Jackson (che compare anche durante la battaglia al Fosso di Helm) ho già parlato qui. Elijah Wood (Frodo Baggins), Sean Astin (Samwise "Sam" Gamgee), Sean Bean (Boromir), Cate Blanchett (Galadriel), Orlando Bloom (Legolas), Billy Boyd (Peregrino "Pipino" Tuc), Brad Dourif (Grima Vermilinguo), Bernard Hill (Theoden), Christopher Lee (Saruman), Ian McKellen (Gandalf il grigio), Dominic Monaghan (Meriadoc "Merry" Brandybuck), Viggo Mortensen (Aragorn), John Rhys-Davies (Gimli ma da anche la voce a Barbalbero), Andy Serkis (Gollum), Liv Tyler (Arwen), Karl Urban (Eomer), Hugo Weaving (Elrond) e David Wenham (Faramir) li trovate invece ai rispettivi link.

Miranda Otto interpreta Eowyn. Australiana, ha partecipato a film come La sottile linea rossa, Le verità nascoste, Il signore degli anelli - Il ritorno del Re, La guerra dei mondi, Locke & Key, I, Frankenstein e a serie come The Flying Doctors. Ha 47 anni e un film in uscita.


Il film ha vinto due Oscar, uno per il miglior sonoro e uno per i migliori effetti speciali; a tal proposito, purtroppo, Andy Serkis non ha potuto ricevere una meritata nomination per gli Oscar perché il suo personaggio era stato generato al computer. Per quanto riguarda invece i nuovi personaggi introdotti in questo secondo capitolo, il ruolo di Eowyn era stato offerto a Kate Winslet, che già aveva lavorato con Peter Jackson nel meraviglioso Creature del cielo; addirittura, durante le prime fasi di pre-produzione si era pensato ad Uma Thurman per il ruolo di Eowyn e a Ethan Hawke per quello di Faramir. Le due torri segue La compagnia dell'anello e precede Il ritorno del re quindi, se vi fosse piaciuto, recuperate il primo capitolo della trilogia, proseguite col terzo, leggete assolutamente Il Signore degli anelli cartaceo e, se vi va, proseguite guardando i primi due episodi della trilogia de Lo Hobbit. ENJOY!

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