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venerdì 13 gennaio 2023

Glass Onion - Knives Out (2022)

Visto quanto mi era piaciuto Cena con delitto - Knives Out, sono saltata sulla sedia all'idea del seguito, Glass Onion - Knives Out (Glass Onion), film diretto e sceneggiato nel 2022 dal regista Rian Johnson e disponibile su Netflix.


Trama: Un multimilionario convoca i suoi amici più stretti su un'isola deserta di sua proprietà, per un weekend "con delitto". Quando però fa la sua comparsa il detective Benoit Blanc, il delitto si compie sul serio...


Aspettavo con gioia il ritorno di Daniel Craig e del suo Benoit Blanc, detective sui generis dall'accento improbabile, ma di Glass Onion avevo letto le peggio cose, quindi ero pronta a rimanere delusa. Per fortuna, col Bolluomo ci siamo fatti un paio d'ore di sane risate, riuscendo anche a mettere in pausa la visione nel momento clou per cenare e riprendere ancora più fomentati di prima, quindi per quanto mi riguarda Glass Onion è un film perfettamente riuscito. Certo, la differenza con Cena con delitto è lampante, ché nel film del 2019 c'era una critica sociale molto più marcata, forse anche perché Johnson era reduce dallo stress di Star Wars ed era probabilmente (e giustamente) incattivito, mentre Glass Onion presenta personaggi ancora più assurdi del suo predecessore e, per quanto alcuni "tipi sociali" siano ben riconoscibili, le loro caratteristiche sono talmente esagerate da rendere il sequel di Knives Out ancora più parodico e legato ai modelli storici che lo hanno ispirato. Dunque, si potrebbe benissimo dire che Glass Onion è forse più superficiale, ma siccome da questo genere di prodotti non cerco alcun genere di riflessione seria, per quanto mi riguarda va benissimo così: fin dall'inizio il film intriga ed intrattiene, presenta le potenziali vittime/assassini sfruttando un paio di sequenze esilaranti e dei rompicapi da far invidia a Hellraiser, e qui e là getta i semi del vero whodunnit?, che comincia a svilupparsi seriamente nel momento in cui tutte le pedine, Benoit Blanc compreso, mettono piede sulla favolosa isola privata del geniale imprenditore Miles Bron (un misto di Zuckerberg, Begos, Musk e tutti i magnati antisociali che popolano questa terra). Ovviamente, ognuno degli stretti amici di Miles avrebbe un motivo perfetto per ucciderlo e il padrone di casa, con sommo scorno del detective Blanc, decide di "stuzzicarli" proponendo un weekend con delitto, ma questa è solo la superficie di una trama stratificata come la cipolla del titolo, che nasconde più di quanto salta all'occhio nella prima mezz'ora di film. Altro non aggiungo, ovviamente, per non rovinare la sorpresa a quel paio di persone che devono ancora vedere Glass Onion.


A livello di realizzazione, ciò che mi ha molto entusiasmata è lo sforzo incredibile degli scenografi. Se in Knives Out la scenografia era fondamentale per arrivare alla risoluzione del delitto, in Glass Onion essa rappresenta lo sfarzo vuoto e la volontà di impressionare e distogliere l'attenzione, privilegiando contorti argomenti arzigogolati ma privi di contenuto a una diretta semplicità che sbatte in faccia la verità senza troppi fronzoli (attenzione, però: nella citazione più bella del film si sottolinea che "bisogna stare attenti a non confondere il parlare senza pensare col dire la verità"); per questo, l'isola di Miles Bron è un trionfo di assurde architetture, zeppo di oggetti d'arte di ogni genere, tecnologie d'avanguardia, sfacciata opulenza e luci al neon, e lo stesso vale per l'ingegnoso rompicapo inviato a mo' di invito, che nasconde molto più di un biglietto, come diverrà chiaro verso la fine del film. Per quanto riguarda gli attori, ognuno di loro è ugualmente detestabile e, ovviamente, adorabile proprio per questo motivo. A parte un paio di guest star che non vi spoilero (una mi ha spezzato il cuore, l'altra mi ha slogato la mascella, ma d'altronde non mi aspettavo che Blanc fosse convenzionale!) e a parte la raffinatezza di un Daniel Craig che si riconferma mattatore assoluto, sono rimasta nuovamente colpita dalla versatilità dell'affascinante Janelle Monáe, che non sfigura davanti a un divertitissimo Edward Norton e all'esilarante prezzemolino Dave Bautista, ma il mio personaggio preferito è senza dubbio quello interpretato da Jackie Hoffman, che ha conquistato il mio cuore pur col suo brevissimo minutaggio. Dopo le mattonate di Kenneth Branagh e del suo insopportabile Poirot, quello di Knives Out si riconferma dunque, almeno per me, il franchise "giallo" che preferisco e non vedo l'ora che Johnson realizzi un terzo capitolo, soprattutto ora che un crossover con i Muppets si è rivelato un rumor privo di fondamento!


Del regista e sceneggiatore Rian Johnson ho già parlato QUI. Daniel Craig (Benoit Blanc), Edward Norton (Miles Bron), Janelle Monáe (Andi Brand), Kathryn Hahn (Claire Debella), Leslie Odom Jr. (Lionel Toussaint), Kate Hudson (Birdie Jay), Dave Bautista (Duke Cody), Ethan Hawke (Uomo efficiente), Hugh Grant (Phillip) e Joseph Gordon-Levitt (doppia l'orologio quando suona) li trovate invece ai rispettivi link.

Jessica Henwick interpreta Peg. Inglese, ha partecipato a film come Star Wars - Il risveglio della Forza, Underwater e a serie quali Il trono di spade, Luke Cage, Iron Fist e The Defenders. Anche sceneggiatrice, regista e produttrice, ha 31 anni e un film in uscita.


Il film si ispira molto a Un rebus per l'assassino, sceneggiato dallo stesso Stephen Sondheim che compare, nei panni di se stesso (altri VIP che compaiono nel film, tra i quali una che non spoilero, sono la tennista Serena Williams e l'attrice Natasha Lyonne), durante la multichat iniziale con Benoit. Non l'ho mai visto ma potreste recuperarlo, assieme a Cena con delitto - Knives Out, se vi fosse piaciuto Glass Onion. ENJOY!

venerdì 1 luglio 2022

Black Phone (2022)

Questa settimana, nel dubbio, ho fatto doppietta. Prima Elvis e poi Black Phone (The Black Phone), diretto e co-sceneggiato dal regista Scott Derrickson a partire dal racconto Il telefono nero di Joe Hill, contenuto nella raccolta Ghosts


Trama: il piccolo Finney finisce nelle grinfie del Rapace, un maniaco che rapisce e uccide i bambini. Nella sua disperata lotta per la fuga, troverà inaspettati alleati...


Il dubbio che mi ha accompagnata alla fine della rilettura de Il telefono nero, avvenuta poche settimane fa, è stato "Come hanno fatto a trarre un intero film da qui?". Il racconto di Joe Hill è, in effetti, una cosina breve e molto basica, che comincia nel momento esatto in cui il protagonista, Finney, viene rapito e si conclude dopo pochi giorni di permanenza nel seminterrato del suo aguzzino. Quest'ultimo non è particolarmente connotato a livello descrittivo o motivazionale, si dice solo che è grasso e che "non vorrebbe fare del male a nessuno", e lo stesso Finney viene lasciato molto all'immaginazione del lettore, al quale vengono fornite poche informazioni per quanto riguarda la famiglia, i passatempi e l'aspetto del piccolo. Questo perché il fulcro della storia è il telefono nero del titolo, che rende il racconto una rapida ed inquietante ghost story imperniata su una giusta vendetta postuma, non tra le più memorabili che ho letto, ma comunque gradevole. Gli stessi due aggettivi potrebbero valere per il film di Derrickson, il quale, assieme al fido C. Robert Cargill, trasforma Il telefono nero in un'opera ben più Kinghiana di quanto fosse in origine quella del figlio del Re. La cittadina portata sullo schermo da Derrickson sembra popolata solo da bambini o ragazzi impegnati nelle loro terrificanti battaglie personali, lasciati soli da insegnanti poco attenti e, soprattutto, da genitori completamente assenti, persi in demoni fatti di alcool, traumi e lutti mai elaborati. Per fare davvero paura, il Rapace di Ethan Hawke deve indossare maschere che richiamano quella de La maschera del demonio (opera, per inciso, di Tom Savini), ma i pericoli tangibili e reali, quelli che mettono davvero angoscia a protagonista e spettatore, sono incarnati dai terribili bulli che danno la caccia a Finney a scuola e, soprattutto, dal padre ubriacone e violento; le scene di pestaggio di Black Phone, riprese con crudo realismo, sono tra le più orribili che mi sia mai capitato di vedere, e sfido chiunque a trattenere insulti e magone davanti all'angosciante litigio con cinghiate annesse tra Jeremy Davies e la piccola attrice che interpreta Gwen (personaggio, tra l'altro, ben più riuscito e interessante del protagonista, soprattutto grazie alla bravura di Madeleine McGraw).


Tutta questa violenza quotidiana si contrappone a un Rapace che gioca quasi di sottrazione per buona parte del film. Come un totem malvagio, il Rapace attende, ammantato da un'aura sovrannaturale e accompagnato da troppi rimandi a It, talmente tanti da risultare quasi fastidiosi; è vero, i palloncini neri ci sono anche nel racconto originale, ma il vero "plagio" compiuto da Hill ai danni del padre, al limite, è N0s4a2, e direi che inserire nella trasposizione di Black Phone un tizio con della biacca sulla faccia, palloncini come se piovessero, una ragazzina con l'impermeabile giallo e un look generale che rimanda moltissimo al primo It diretto da Andy Muschietti, non era necessario per renderlo apprezzabile. Anche perché Derrickson riesce a dare personalità al tutto seguendo il proprio stile senza andare a pescare da altri, e si vede nel modo in cui sono realizzate non solo le sequenze in cui Finney usa il telefono (una in particolare nasconde il jump scare più efficace del film, vedere per bestemm... ehm, credere) ma anche quelle dei sogni di Gwen, resi come un filmino Super 8, senza contare lo scantinato, che richiama l'ormai iconica locandina di Sinister. A proposito, si vede che io ormai non ho più memoria per nulla e sono sempre meno fisionomista, ma un altro trait d'union tra il mondo di Derrickson e quello di King è James Ransone, che compare sia nei due Sinister sia in It. Ciò detto, ho sentito le peggio cose su Black Phone, quindi mi sento in dovere di spezzare una lancia sulla bontà dell'operazione. Sicuramente non si parla dell'horror più memorabile dell'anno e nemmeno uno dei migliori, ma è un ottimo prodotto "commerciale" che val la pena andare a vedere, nell'attesa che arrivino i pezzi grossi come X e Nope


Del regista e co-sceneggiatore Scott Derrickson ho già parlato QUI. Ethan Hawke (Il Rapace), Jeremy Davies (Terrence) e James Ransone (Max) li trovate invece ai rispettivi link.

Madeleine McGraw interpreta Gwen. Americana, ha partecipato a film come American Sniper, Ant-Man and The Wasp e a serie quali Bones, Outcast, Criminal Minds; come doppiatrice ha lavorato in Toy Story 4 e I Mitchell contro le macchine. Ha 14 anni e due film in uscita. 


Se Black Phone vi fosse piaciuto recuperate Sinister, Sinister 2, It e It - Capitolo due. ENJOY!

mercoledì 27 aprile 2022

The Northman (2022)

Siccome è miracolosamente uscito anche qui, sabato sono corsa a vedere The Northman, l'ultima fatica di Robert Eggers come regista e co-sceneggiatore.


Trama: un principe vichingo, ancora bambino, fugge al tentativo di omicidio da parte di suo zio e torna a cercarlo, da adulto, per riscuotere una sanguinosa vendetta...


Avevo letto le peggio cose di The Northman, anche scritte da persone fidate. Non so se è perché da Eggers ci si aspettava un delirio lisergico ancora peggiore, nel senso migliore, di The Lighthouse come terzo lungometraggio, oppure perché chi lo ha visto in lingua originale probabilmente non è riuscito a superare lo scoglionamento da dialoghi rimaneggiati, dopo le critiche, persino dallo stesso regista, che si è cosparso il capo di cenere (sì perché noi italiani, invece, con Anya Taylor Joy doppiata con l'accento da bagassa dell'est... vabbé. Vergogna. E vergogna anche ai sottotitolatori, ché poi mi tocca leggere Valalla invece che Valhalla e mi viene in mente "la palla di Lalla". Ma su!), eppure prima della visione mi sono comparsi sotto agli occhi solo commenti negativi. Il "problema" di The Northman, se di problema si può parlare, è che viene fatto passare per un blockbuster fruibile da chiunque, cosa che scontenta ovviamente la maggior parte degli spettatori casuali (ma al Bolluomo è piaciuto molto), e che è troppo "commerciale" per i cinèfili, i quali probabilmente sono morti dall'orrore di dover condividere una sala con gli utenti medi per godere dell'opera di un Autore che, fino a ieri, conoscevano solo loro. Da par mio, che fortunatamente cinèfila non sono, bensì una semplice appassionata di cinema, credo di aver lasciato il segno della bocca spalancata contro la mascherina, perché The Northman è davvero una meraviglia. Epico nel vero senso della parola, di quell'epica che si studia a scuola e che si scopre in tutta la sua crudezza e fantasiosità da soli, è tanto semplice nella sua struttura portante quanto ricco di tutto ciò che può rendere assolutamente avvincente la storia di un eroe antico: morte, tradimenti, riti di iniziazione, leggende, oggetti mitici, mostri, spiriti, superstizioni, sacrificio, divinità, odio, amore, peccati, sesso. L'"origin story" di una dinastia di re, l'ideale "primo libro" di un ciclo vichingo, segue le vicende di un principe rozzo e disperato che non può fare a meno di vivere per l'odio e la vendetta, tenuto d'occhio da messaggeri degli dèi che tessono le fila di un destino già scritto, al quale non ci si può sottrarre, pena l'ignominia perpetua o un'ancor più peggiore condanna di codardia.


E così, Amleth procede come un treno nella sua vendetta, ben lontano dall'intellettuale shakespeariano che porta un nome assai simile (Il co-sceneggiatore Sjón ha preso ispirazione dalle leggende narrate da Saxo Grammaticus, alle quali si era ispirato già Shakespeare per il suo Amleto), e noi spettatori non possiamo che plaudire al suo cammino, benché zeppo di deviazioni che avrebbero fatto storcere il naso alla Sposa, e chiudere un occhio schifato sulle pene sanguinarie inflitte a nemici talmente immorali da mettere i brividi (uno in particolare; se la maggior parte dei personaggi, Amleth compreso, è abbastanza monodimensionale, c'è qualcuno a cui invece viene regalato un monologo talmente feroce e ben recitato da mettere i brividi, oltre che qualche dubbio sulla bontà del cammino del protagonista). Chiudere un occhio, virgola, ché distogliere lo sguardo dalla bellezza della regia di Eggers sarebbe peccato mortale. Il regista confeziona violentissime scene di battaglia calibrate con perfezione millimetrica e l'ausilio di piani sequenza meravigliosi, ma a mio avviso questa è stata solo la punta dell'iceberg; ciò che mi ha davvero catturata sono le scene oniriche di battaglie e prove visionarie, il volo di una valchiria tremenda e bellissima allo stesso tempo, l'inquietante orrore di sacrifici umani colorati dalle tinte del fuoco ed eseguiti con mano "elegante" dalla particolare Olwen Fouéré, la bellezza di una natura lussureggiante ma per nulla amichevole, fatta di colline verdissime, boschi consacrati agli dei e mari salvifici e pericolosi in egual modo. In tutto questo, ovviamente, ci sono fior di attori. Nonostante il brevissimo metraggio di presenza, la Kidman è per The Northman che meriterebbe delle nomination, non per filmetti come Being the Ricardos, quanto a Alexander Skarsgård e Anya Taylor Joy, definirli dream couple di una bellezza esagerata non rende l'idea e nonostante la differenza di età sarebbero coppia da shippare anche nella vita vera; grandissime lodi anche a Claes Bang, affascinante sia quando fa Dracula che quando interpreta lo Scar versione vichinga, e complimentissimi sia a lui che a Skarsgård per la fisicata mostrata in quello che è già il duello finale migliore di sempre. Avrete capito che l'entusiasmo mi impedisce di scrivere qualcosa che vada oltre il "bello bello in modo assurdo", quindi non date retta alle malelingue menose e andate a vedere The Northman, AL CINEMA, per Odino, non aspettate lo streaming! Ce ne fossero di film "banali" e imperfetti così!


Del regista e co-sceneggiatore Robert Eggers ho già parlato QUIAlexander Skarsgård (Amleth), Nicole Kidman (Regina Gudrún), Ethan Hawke (Re Aurvandil Corvo di Guerra), Anya Taylor-Joy (Olga della Foresta di Betulle), Willem Dafoe (Heimir Il Folle), Olwen Fouéré (Áshildur Hofgythja), Ralph Ineson (Capitano Volodymyr) e Kate Dickie (Halldóra) li trovate invece ai rispettivi link.


Claes Bang interpreta Fjölnir il Senzafratello. Danese, ha partecipato a film come The Square, Millenium - Quello che non uccide e a serie quali Dracula. Ha 54 anni e un film in uscita. 


Björk
(vero nome Björk Guðmundsdóttir) interpreta la veggente. Cantante e compositrice islandese, la ricordo per film come Dancer in the Dark. Anche regista e sceneggiatrice, ha 56 anni. 


Ingvar Sigurdsson
, che interpreta lo stregone, era il protagonista di A White, White Day. Bill Skarsgård era stato scelto per il ruolo di Thorir, il fratello di Amleth, ma ha dovuto abbandonare il progetto dopo che la produzione è stata ritardata causa Covid. Ovviamente, se The Northman vi fosse piaciuto recuperate The VVitch e The Lighthouse. ENJOY!


martedì 25 giugno 2019

Rapina a Stoccolma (2018)

Spinta dal trailer accattivante ho deciso di recuperare Rapina a Stoccolma (Stockholm), diretto e sceneggiato nel 2018 dal regista Robert Budreau e uscito proprio in questi giorni in Italia.


Trama: un malvivente fa irruzione all'interno della Kreditbanken di Stoccolma e prende con sé tre ostaggi. Mentre la polizia cerca di risolvere la situazione, con l'aiuto di un altro detenuto, tra rapitori e ostaggi si sviluppa uno strano rapporto di fiducia reciproca.


La cosiddetta Sindrome di Stoccolma, quella per cui delle persone arrivano a dipendere da coloro che hanno abusato di loro in maniera fisica o verbale, arrivando a fidarsi di loro o persino ad amarli, prende il suo nome da una rapina occorsa negli anni '70 a Stoccolma, per l'appunto. Lì, tale Jan Erik-Olsson ha tenuto in ostaggio per alcuni giorni degli impiegati, soprattutto donne, e nel corso di questo pur breve periodo di tempo gli ostaggi sono arrivati a considerare i malviventi gentili, al punto da fidarsi più di loro che della polizia; quando gli agenti sono riusciti a fare irruzione con l'aiuto del gas lacrimogeno, gli ostaggi si sono preoccupati dell'incolumità dei loro carcerieri e anche dopo, a quanto pare, hanno fatto loro visita in prigione. Rapina a Stoccolma si basa proprio su questa storia vera, romanzandola e trasformando Jan Erik-Olsson (qui chiamato Lars Nystrom) in un istrionico malvivente mezzo svedese mezzo americano, appassionato di musica, cinema e motori, un incosciente le cui motivazioni diventano sempre più risibili mano a mano che il film prosegue, anche perché, scopo della pellicola, è riportare su schermo un esempio di Sindrome di Stoccolma. Ecco dunque che, fin dall'inizio, i riflettori vengono puntati sul personaggio di Bianca, moglie e madre di due bambini che finisce (assieme ad altri due colleghi che potrebbero anche non essere presenti vista la loro utilità all'interno della storia) per venire presa in ostaggio da Lars, del quale si innamora senza un perché, seguendo una sceneggiatura disonesta che trasforma il marito in personaggio negativo dopo aver deciso di ignorare le istruzioni di Bianca relativamente alla cena da propinare ai figli e altri piccoli screzi. Bianca, nonostante l'intelligenza e la forza d'animo dimostrata nel corso della rapina, risulta così poco più di una casalinga frustrata in cerca di emozioni, mentre Lars è un povero pirla, punto.


Paradossalmente, il film avrebbe funzionato di più se non fosse stato tratto da una storia vera. Così, quella che poteva trasformarsi in una tragedia è stata resa su pellicola come una superficiale serie di eventi, con qualche eco di weird Coeniano, all'interno della quale i poliziotti ci fanno una ben magra figura ma, a ben vedere, sono molto più divertenti dei rapinatori e dei loro ostaggi, forse perché questi ultimi sono davvero tagliati con l'accetta. Qualche minuto di divertimento, tuttavia, non sopperisce al piattume generale di un film che prometteva di essere "assurdo" come la storia da cui è tratto e che difetta proprio dell'assurdità di cui sopra, visto che è prevedibile dall'inizio alla fine, più concentrato sulla riuscita della sua parte heist che sui fatti veri, quelli sì davvero incomprensibili ed interessanti. Peccato, perché anche i pur bravi attori hanno risentito di questa superficialità. Ethan Hawke sguazza nei panni di un personaggio tragicamente ridicolo riuscendo a renderlo affascinante più in virtù del suo aspetto sempre belloccio che della sceneggiatura; Noomi Rapace stona un po' vestita come un'impiegata, ché di fatto il suo essere badass si intuisce lontano un chilometro, ma è comunque deliziosa; Mark Strong, infine, fa il suo lavoro, anche se non ha occasioni di brillare come meriterebbe, sacrificato alla "follia" del personaggio di Hawke. Tra tutti ho comunque preferito il perfido Capo Mattsson di Christopher Heyerdahl, l'unico tra tutti i personaggi a riservare più di una sorpresa dietro il suo atteggiamento amichevole e dimesso e ad essere realmente "assurdo". Occasione sprecata, dunque? Mah, per me sì. Il film "perfetto" e "vero" sulla Sindrome di Stoccolma deve ancora arrivare.


Di Ethan Hawke (Kaj Hansson/Lars Nystrom), Noomi Rapace (Bianca Lind) e Mark Strong (Gunnar Sorensson) ho parlato ai rispettivi link.

Robert Budreau è il regista e sceneggiatore della pellicola. Canadese, ha diretto film come That Beautiful Somewhere. Anche produttore, ha 45 anni.




domenica 24 febbraio 2019

First Reformed - La creazione a rischio (2017)

Stanotte verranno assegnati gli Oscar e questa è l'ultima recensione "a tema" che verrà pubblicata prima della fatidica premiazione. Nella fattispecie, First Reformed - La creazione a rischio (First Reformed), diretto e sceneggiato da Paul Schrader nel 2017, ha ottenuto una nomination per la Miglior Sceneggiatura Originale.


Trama: il sacerdote di una piccola congregazione comincia a mettere in dubbio il proprio ruolo nel mondo a seguito di una serie di tragedie che lo hanno toccato da vicino.



Tra tutti i film visionati nel periodo pre-Oscar, First Reformed è indubbiamente uno dei più "scomodi". La sceneggiatura di Paul Schrader, pur non essendo sensazionalistica come quella di Vice, che punta il dito facendo nomi e cognomi, o palesemente impegnata come quella di BlacKkKlansman, sbatte in faccia allo spettatore un problema globale del quale tutti, nessuno escluso, parliamo troppo poco benché ci tocchi da vicino, forse perché attualmente è meno intellettuale parlare di ambiente e riscaldamento globale piuttosto che di politica e razzismo. Scrivere che First Reformed parli "semplicemente" di inquinamento e della graduale presa di coscienza del problema però sarebbe incredibilmente riduttivo. Quella, difatti, è solo la punta dell'iceberg di un percorso che porta il protagonista, un prete fiaccato dai sensi di colpa per la morte del figlio in guerra, a guardare al futuro e a chiedersi se davvero un mondo destinato alla distruzione per mano dell'uomo possa essere un rifugio sicuro per le generazioni future e cosa, effettivamente, possa fare la Chiesa per impedire una catastrofe, per preservare ciò che Dio ha concesso all'umanità al di là di tutte le parole, le preghiere e le formule di rito. First Reformed ci fa scontrare con la realtà di un sacerdote che è poco più di una guida turistica all'interno di una chiesa-museo, incapace di trovare le parole giuste per consolare e dare speranza agli altri perché lui stesso non ne ha per sé, e che piano piano apre gli occhi su una realtà dove la Chiesa è un'industria mangia soldi più che veicolo di conforto per i fedeli, all'interno della quale chi è al vertice si preoccupa  di politica e di apparenze salvate invece che di problemi concreti. Eppure, nonostante questa presa di coscienza, il sacerdote fa del dolore spirituale e della sofferenza fisica una corazza che lo spinge non già ad allontanarsi da Dio o perdere la Fede, bensì a farla diventare qualcos'altro di enorme e terribile, un pensiero strisciante di cui pian piano anche lo spettatore comincia ad avvedersi con angoscia crescente.


Ombroso, rigoroso e "bergmaniano" nell'impostazione (e non solo, ché Luci d'inverno ha una premessa molto simile), First Reformed è un film fatto di dialoghi angoscianti che affondano quanto la lama di un pugnale, che ci fanno vergognare di esistere e di essere sempre così dannatamente superficiali. Concentrati su noi stessi e sull'adesso, troppo spesso consideriamo la religione e la preghiera come scappatoie, comode formule magiche per ottenere quello che vogliamo come se Dio, un qualsiasi Dio, fosse il genio della lampada in grado di esaudire i nostri desideri se preghiamo proprio bene bene. E quando, dall'alto, ci viene mostrato solo un bel dito medio, ovviamente ci incazziamo. E' questa battaglia contro i "fedeli" mulini a vento che viene portata in scena da Schrader, incarnata nel volto granitico di Ethan Hawke, invecchiato e tirato ma sempre affascinante, il ritratto stesso del tormento e della disperazione, chiuso all'interno delle pareti spoglie di una chiesa asettica dove le croci paiono pesare come macigni persino con le loro ombre scure (il senso di claustrofobia viene dato anche dal formato inusuale scelto dal regista, il desueto rapporto d'aspetto 4:3), o perso nel fondo di una bottiglia mentre vomita su carta tutto ciò che lo rode. Il grigiume e la desolazione lasciano il posto giusto ad un paio di scene oniriche, concesse da Schrader a mo ' di sollievo sia per il protagonista che per lo spettatore, piccoli afflati di speranza che non è detto vengano accolti e che hanno il volto angelico di una misuratissima Amanda Seyfried, ma che comunque possono cominciare ad indicare una via. Amore, speranza, indulgenza, comunione col prossimo, impegnati in una strenua battaglia contro disperazione ed autodistruzione, questo il cuore di First Reformed, un film per nulla ottimista ma sicuramente potente, capace di dare un bello scrollone allo spettatore. Peccato che non se lo sia filato quasi nessuno in Italia.


Del regista e sceneggiatore Paul Schrader ho già parlato QUI. Ethan Hawke (Toller) e Amanda Seyfried (Mary) li trovate invece ai rispettivi link.


Cedric the Entertainer, che interpreta Jeffers, è la voce originale del Maurice di Madagascar. Per il ruolo di Toller il regista aveva pensato anche a Oscar Isaac e Jake Gyllenhaal ma alla fine ha optato per il più "sciupato" Ethan Hawke. Se First Reformed vi fosse piaciuto recuperate Luci d'inverno e aggiungete Al di là della vita. ENJOY!


domenica 13 dicembre 2015

Regression (2015)

Nonostante sia reduce da una settimana di ferie, o forse proprio per questo, ho avuto davvero pochissimo tempo per scrivere qualcosa sui film visti ultimamente o anche solo per andare al cinema. Rimedio oggi con un post su Regression, l'ultimo film scritto e diretto dal regista Alejandro Amenábar.


Trama: anni '90. La minorenne Angela confessa a un sacerdote di essere stata violentata dal padre e quest'ultimo non nega la possibilità di aver fatto violenza alla figlia, pur non ricordandolo. Nel tentativo di capire cosa sia successo, il detective Kenner chiede aiuto ad uno psichiatra che, inducendo nel padre di Angela una regressione, scopre l'esistenza di una setta satanica radicata all'interno di una cittadina del Minnesota...


Nonostante avessi adorato Tesis, Apri gli occhi e The Others, ultimamente avevo un po' perso di vista Amenábar, che nel frattempo si era dedicato a generi distanti da quelli solitamente nelle mie corde. Appena ho saputo che il suo nuovo film sarebbe stato un ritorno al thriller e visto il cast ho deciso di non farmi assolutamente scappare Regression e per fortuna ho avuto ragione a dar fiducia al regista cileno. Regression è infatti un thriller con forti venature horror che si concentra non tanto sulle perversioni dell'animo umano, quanto sulla percezione che le persone hanno della realtà che le circonda e anche di loro stesse. Fulcro della storia è il detective Kenner, un poliziotto tutto d'un pezzo che non fa nulla per rendersi simpatico ai suoi colleghi e vive soltanto per il lavoro; quando la sua vita, professionale e non, viene sconvolta dalle rivelazioni di Angela (figlia del meccanico ubriacone del paese, da poco convertitosi al cattolicesimo) e soprattutto da ciò che trapela dalle tecniche ipnotiche del Professor Raines, vediamo come la facciata di perfetta e razionale efficienza del detective si sgretoli arrivando a rasentare la pazzia. Il sospetto che ci sia una setta satanica in città, sospetto alimentato dall'ossessivo interesse dei media durante gli anni '90 (una caccia alle streghe assai simile a quella nei confronti dei comunisti durante il maccartismo, a dirla tutta), comincia ad attecchire come un virus contagiando il detective e con lui tutti gli abitanti della cittadina, alimentato dalla convinzione che i membri della setta siano in possesso di droghe o tecniche capaci di cancellare la memoria delle loro vittime e persino dei loro membri, così che i protagonisti del film cominciano a dubitare persino dei propri ricordi e delle proprie convinzioni; la paranoia e il terrore si radicano nella mente dei protagonisti arrivando a colpire anche lo spettatore che, preda di questo clima incerto ed orrorifico, viene preso all'amo da Amenábar e costretto a vedere e pensare quello che vuole il regista.


Ovviamente, il film funziona soprattutto per il suo essere ambientato negli anni '90. La ricerca di prove del detective Kenner, ossessionato dal caso al limite della paranoia, ai nostri giorni sarebbe stata risolta in quattro e quattr'otto grazie ad un paio di test del DNA ben piazzati, quindi le esigenze "di copione" arrivano a sposarsi perfettamente con la scelta di ambientare Regression durante l'ondata di isteria "satanista" americana, quell'epoca in cui si pensava che ogni bambino potesse rischiare abusi sessuali da parte di sette dedite al culto del dìmonio. A tutto questo, Amenábar aggiunge il suo gusto tutto particolare per il thriller e il gotico, cosa che lo porta a confezionare un paio di scene ad effetto genuinamente terrificanti e sul filo del delirio; non siamo ovviamente nel campo dell'horror tout court ma la costruzione della tensione è talmente ben orchestrata che un paio di volte sono arrivata a mettermi le mani davanti agli occhi temendo la comparsa di qualche satanista un po' troppo spaventevole. A rendere il tutto ancora più ambiguo e ad alimentare la diffidenza dello spettatore verso qualsiasi abitante della cittadina ci pensa l'azzeccatissimo casting di attori dotati di un volto impossibile da catalogare come "buono" o "cattivo": tolto il fastidiosissimo prete o la nonna e il papà ubriaconi, esempi di caratteristi perfetti per il loro ruolo, Emma Watson non è più la dolce ed ingenua Hermione di un tempo e il suo sguardo è più quello di una belva che quello di una ragazzina innocente, mentre Ethan Hawke e David Thewlis hanno entrambi delle belle facce da canaglie impunite e si palleggiano amabilmente il primato di "investigatore più odioso del globo terracqueo". Purtroppo, tra Papi Franceschi e feste di Natale imminenti questo Regression è stato un po' bistrattato dalla distribuzione nostrana ma se vi capita andatelo a vedere perché è davvero bello!


Di Emma Watson (Angela Grey), Ethan Hawke (Bruce Kenner), David Thewlis (Professor Kenneth Raines) e David Dencik (John Grey) ho già parlato ai rispettivi link. 

Alejandro Amenábar (vero nome Alejandro Fernando Amenábar Cantos) è il regista e sceneggiatore della pellicola. Cileno, ha diretto film come Tesis, Apri gli occhi, The Others e Mare dentro. Anche compositore, attore e produttore, ha 43 anni.


Se Regression vi fosse piaciuto recuperate Tesis. ENJOY!


mercoledì 15 luglio 2015

Predestination (2014)

Senza un perché, in questi giorni ho deciso di guardare un film passato di soppiatto nelle nostre sale ma di cui quasi tutti stavano già parlando bene, ovvero Predestination, diretto e co-sceneggiato nel 2014 dagli Spierig Brothers e tratto dal racconto Tutti voi zombie di Robert Heinlein.


Trama: un uomo con il potere di viaggiare nel tempo deve impedire che un terrorista faccia innumerevoli stragi nel cuore dell'America...


E voi ora direte: bella schifezza di trama. O meglio, quanta banalità! A mia discolpa posso solo dire che l'enorme problema di Predestination, se siete degli ignoranti come me e non avete mai letto il racconto di Heinlein, è l'impossibilità di scrivere più di così, pena rischio di incappare in spoiler mortali. Fidatevi, non vi piacerebbe conoscere altri dettagli sul film degli Spierig Brothers anche perché la cosa più bella è lasciarsi rapire dal racconto de "la ragazza madre" e venire a poco a poco a scoprire tutto ciò che nasconde Predestination. Ho detto ovviamente scoprire, non capire. Predestination, nonostante la fondamentale prevedibilità dei suoi colpi di scena, è il film più complesso ed intrigante che ho visto nell'ultimo anno, zeppo di paradossi temporali in grado di fulminare il cervello a chiunque dovesse mettersi a ragionarci troppo ma allo stesso tempo popolato da protagonisti talmente umani che sarebbe impossibile non interessarsi alle loro sorti tanto che, cullati dalla voce fuori campo de "la ragazza madre", diventa quasi ininfluente seguire le indagini sul cosiddetto "fizzle bomber" che sta minacciando l'America. Sulla trama quindi altro non dirò, se non che il mio amore per i personaggi è stato talmente grande da farmi sorvolare su un incredibile WTF che probabilmente avrà inficiato il giudizio di molti spettatori meno sensibili... ma non è stato solo l'amore a farmi apprezzare Predestination. O meglio, non solo l'amore per i protagonisti.


La verità che mi sono innamorata perdutamente di Sarah Snook. Già me n'ero accorta guardando Jessabelle ma con Predestination ne ho avuto la conferma: adoro il suo viso delicato, gli occhi espressivi e la capacità di interpretare eroine allo stesso tempo forti e fragili senza mai calcare la mano o esagerare le peculiarità che caratterizzano i suoi personaggi. Ethan Hawke è sempre bello da vedere e piacevole da sentire ma è Sarah Snook il cuore pulsante di Predestination, l'attrice giovane che riesce a rubare la scena al vecchio attore consumato non solo grazie alla bellezza ma soprattutto grazie al carisma. E gli Spierig Brothers sono altrettanto bravi. A fronte di una storia che si può tranquillamente definire fantascientifica, i gemellini tedeschi scelgono di raccontarla in modo sobrio e quasi classico, riducendo al minimo la violenza e gli effetti speciali e preferendo lasciare che questi ultimi siano "naturali", realizzati da ingegno manuale invece che da orridi ritocchi in CG. Gli Spierig Brothers, con le loro inquadrature eleganti e il gusto vintage per scenografie e costumi, nascondono in ogni sequenza (e persino nella scelta della colonna sonora!!) dei dettagli per nulla casuali in grado di risultare molto significativi col senno di poi e confezionano così uno di quei film poco pubblicizzati, poco conosciuti e tuttavia molto più gradevoli ed intriganti di tanti altri loro sponsorizzatissimi cugini. Insomma, mi tocca concludere perché ogni altra parola rischierebbe lo sconfinamento in territorio spoiler. Per me Predestination è stata la sorpresa dell'estate e lo consiglio caldamente... tuttavia, nonostante il mio entusiasmo sarebbe meglio che i non cultori dei paradossi temporali si astenessero perché conosco molta gente che mi ricoprirebbe d'insulti dopo aver visto un film simile!!


Di Ethan Hawke (il barista) e Sarah Snook (la ragazza madre) ho già parlato ai rispettivi link.

I gemelli Michael e Peter Spierig, conosciuti come gli Spierig Brothers, sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola. Tedeschi, hanno diretto film come Undead e Daybreakers - L'ultimo vampiro. Anche produttori e responsabili degli effetti speciali, hanno 39 anni.


Noah Taylor interpreta Mr. Robertson. Inglese, lo ricordo per film come Quasi famosi, Vanilla sky, Le avventure acquatiche di Steve Zissou e La fabbrica di cioccolato. Ha 46 anni e un film in uscita.


Se Predestination vi fosse piaciuto recuperate Source Code, Donnie Darko e magari Inception. ENJOY!

venerdì 7 novembre 2014

Boyhood (2014)

In questi giorni sono finalmente riuscita a guardare il film sulla bocca di tutti, Boyhood, diretto e sceneggiato nel 2014 (o meglio, girato nel corso di 12 anni) dal regista Richard Linklater.


Trama: il film segue letteralmente la crescita di Mason, dall'età di 5 anni fino ai 18, e le vicissitudini della sua disastrata famiglia...



Alla fine di Boyhood mi sono ritrovata a riflettere parecchio su quello che avevo visto, rimanendo sveglia nel letto più di quanto normalmente farei. In particolare, mi tornavano in mente le parole della madre del protagonista (una Patricia Arquette che dovrebbero far partecipare a più film) mentre, in lacrime, guarda il figlio partire per il college ed esclama queste parole, che riporto pari pari: "This is the worst day of my life. I knew this day would come, except why is it happening now? First I get married, have kids, end up with two ex-husbands, go back to school, get my degree, get my masters, send both my kids off to college. What's next? My own fucking funeral? [...] I just thought it would have been better." Pensavo solo che sarebbe stato meglio. Che cosa, il distacco? O forse la vita? In quanti l'abbiamo già pensato, in quanti lo penseremo davanti ai figli grandi, in quello che sarà "il peggior giorno", quando ci guarderemo indietro e penseremo a quali traguardi abbiamo raggiunto nella vita, SE li avremo raggiunti, e a quanto poco di emozionante ed importante ci rimarrà da fare? Il film si intitola Boyhood, il protagonista è il piccolo Mason, ma io ho focalizzato tutta la mia attenzione su quella madre che nella vita non ne ha mai azzeccata una, che è passata da un marito fannullone e sognatore a due ubriaconi della peggior specie e che, alla fine della fiera, si ritrova sola davanti all'amara verità dell'esistenza, una verità enunciata dall'ex marito e ripetuta come un mantra in svariate sequenze della pellicola: infanzia ed adolescenza sono una fucina di emozioni e sentimenti che, quasi inevitabilmente, l'età adulta incanalerà fino a farli affievolire e consumare, fiaccandoli con responsabilità, preoccupazioni, scelte, fallimenti, lavoro, famiglia, problemi economici e quant'altro.


La maggior parte di noi comuni mortali va al cinema per emozionarsi con storie straordinarie, pregne di significato, divertenti, paurose, per vivere un paio d'ore nei panni di qualcun'altro; Linklater ci "frega" e lo stesso ci cattura, realizzando un film che copre dodici anni di vita di un ragazzino e della sua famiglia, all'interno dei quali non succede nulla di particolarmente eclatante né vengono mostrati personaggi "speciali" o degni di particolare interesse ma "solo" uno spaccato di esistenza come ce ne sono milioni di altri all'interno della civiltà occidentale, con piccoli traguardi, pochi successi e troppi fallimenti. Laddove Malick trovava la poesia e la mano divina, Linklater mostra solo ciò che è prosaico, addirittura triste se vogliamo. So che sono una persona da bicchiere mezzo vuoto ma, ribadisco, al di là delle gite col papà, delle confidenze tra fratelli, delle feste e dei piccoli traguardi di Mason, quello che ho percepito guardando Boyhood è stata la costante e drammatica contrapposizione tra la speranza della giovinezza e la disillusione dell'età adulta; sequenze come quella in cui la madre di Mason neppure più sorride davanti ai ringraziamenti del ragazzo a cui ha cambiato la vita consigliandogli di iscriversi a scuola, quella in cui il padre ammette di essere stato costretto dagli eventi a diventare "quell'uomo noioso che tua madre avrebbe voluto" invece di continuare a vivere un'esistenza scapestrata o quella in cui il prof di Mason stronca con due inconfutabili parole ogni sua convinzione di essere speciale sono sequenze che mi hanno magonata più di quanto immaginavo possibile e che, neanche a dirlo, mi hanno messo addosso un indescrivibile ansia per il futuro e un incredibile rimpianto per ciò che poteva essere e che non è stato, per svariati motivi.


Per evitare di sprofondare nel disagio e nella depressione, da inguaribile cinefila mi tocca allora cercare conforto nell'inconfutabile bellezza di questo Boyhood, che trova fondamento in un lavoro incredibile durato dodici anni, dove l'affiatamento del cast dev'essere stato necessario e comprovato, quasi ai livelli di una famiglia. Mi tocca trarre forza dalla colonna sonora che, come nella vita reale, accompagna e rende indelebili i momenti più importanti dell'esistenza di Mason, sia quelli belli che quelli brutti, avvicinandolo maggiormente a quello strano padre-bambino il cui inquilino ha davvero accompagnato Bob Dylan in parecchi concerti. Mi tocca ripensare, ovviamente, alle belle e naturali sequenze con cui Linklater è riuscito a rendere fantastica anche la quotidianità; tra le mie preferite ci sono il dialogo tra Mason e la ragazzina in bicicletta, il saluto della petulante sorellina alla prima casa, lo sguardo verso i genitori dalla finestra, accompagnato dall'ingenua speranza che i due si possano rimettere insieme, i dialoghi solitari tra Mason e il padre (un favoloso Ethan Hawke) e, ovviamente, quel finale aperto in cui tutte le speranze del protagonista si cristallizzano in una camminata in mezzo alla natura, in un momento in cui il futuro è miracolosamente scomparso e c'è solo l'attimo. Quell'attimo che non siamo noi a dover prendere, perché è lui che prende noi, quando gli va. Avrei ancora mille cose da dire su Boyhood ma mi rendo conto che, per la natura stessa del film, sarebbero anche troppo personali e serie per un blog cazzaro come questo. Fatevi quindi il favore di andare a vedere una delle migliori pellicole dell'anno e abbandonatevi a tutte le sensazioni che vi potrà suscitare!


Del regista e sceneggiatore Richard Linklater ho già parlato QUI. Patricia Arquette (Mamma) ed Ethan Hawke (Papà) li trovate invece ai rispettivi link.

L'attrice che interpreta Samantha è Lorelai Linklater, figlia del regista: pare che intorno al quarto/quinto anno di riprese la ragazza avesse perso interesse verso il progetto e avesse chiesto al padre che il suo personaggio venisse ucciso ma ovviamente Linklater ha rifiutato! Se fosse stato invece il regista a morire davvero nel corso dei dodici anni del progetto, Ethan Hawke avrebbe preso il suo posto dietro la macchina da presa. Per concludere, se vi fosse piaciuto Boyhood non saprei davvero cosa consigliarvi di guardare vista la particolarità del progetto; scorrete la filmografia di Linklater e lasciatevi ispirare da questo eclettico regista! ENJOY!


martedì 9 settembre 2014

Sinister (2012)

Dopo aver pubblicato la recensione di Liberaci dal male in parecchi hanno nominato Sinister nei commenti quindi ho deciso di guardare questo horror diretto e co-sceneggiato nel 2012 dal regista Scott Derrickson.


Trama: uno scrittore in crisi decide di basare il suo ultimo libro su un terribile caso di omicidio multiplo con scomparsa di minore e di trasferirsi, di conseguenza, nella casa dove si sono consumati entrambi i delitti assieme alla famiglia. Le indagini, a poco a poco, riveleranno una pericolosa verità...



Quando ho letto frasi come "Sinister fa paura" non ci ho creduto, lo ammetto. Figuriamoci, ormai dormo tranquilla anche dopo aver guardato film su bambole assassine ed esorcismi, l'ultima notte insonne devo averla passata ai tempi di Rec e, bene o male, quasi tutti gli horror degli ultimi anni o mi annoiano o non riescono a sorprendermi. E invece Sinister mi ha inquietata parecchio, sia durante la visione che dopo, anche se il perché non saprei specificarlo. D'altronde, ad una prima occhiata Sinister non si discosta molto dalle storie di spiriti e case infestate che vanno per la maggiore negli ultimi tempi e l'idea di base è sempre quella della famiglia che si trasferisce in un posto nuovo e viene subito perseguitata da fenomeni misteriosi, tuttavia la pellicola di Derrickson ha il pregio di utilizzare questi cliché come una base da cui partire, senza renderli il fulcro dell'intera trama. L'attenzione dello spettatore e degli sceneggiatori, infatti, è interamente concentrata sulla progressiva distruzione morale del protagonista, uno scrittore fallito che molti anni prima era stato talmente famoso da riuscire a finire persino in TV; il bisogno di avere i famosi "5 minuti di gloria", di essere visti e riconosciuti, si intreccia spasmodicamente con la necessità compulsiva di guardare e sviscerare anche e soprattutto le immagini più truci e "proibite", terreno fertile per la natura del babau che perseguita i protagonisti di Sinister. Ellison, a poco a poco, condanna sé stesso e la sua famiglia nonostante la miriade di avvertimenti che gli arrivano dalla moglie, dal vice-sceriffo e anche dalla sua stessa anima, ignorando quanto il proiettore da lui utilizzato per guardare i misteriosi filmini ritrovati in soffitta assomigli incredibilmente alla canna di una pistola puntata contro la sua tempia; a un certo punto lo scrittore avrebbe l'istinto di chiamare la polizia per denunciare il ritrovamento degli atroci filmati girati dal presunto killer, tuttavia viene frenato dall'infausto desiderio di scrivere il libro dell'anno, di riottenere la fama e il successo che sono andati scomparendo col passare del tempo e che sono diventati più importanti persino della moglie e dei figli. Questo, fondamentalmente, è l'unico passo falso compiuto dal protagonista perché, a differenza di altri horror, Sinister non insiste a mostrare la solita famiglia che, nonostante fenomeni inspiegabili e sempre più violenti, si ostina a rimanere nella casa, anzi: Ellison è di coccio finché gli eventi si mantengono nell'ambito del razionale ma non appena le "entità" sovrannaturali si palesano chiaramente è il primo a prendere baracca e burattini e a scappare senza chiamare preti, studiosi o esorcisti.


La bellezza di Sinister è da ricercarsi dunque principalmente in questo approccio realistico mentre il vero terrore si trova tranquillamente all'interno dei filmati che Ellison continua a guardare e riguardare. Ogni filmino (peraltro tutti dotati di un titolo beffardo e terribile) mette i brividi, innanzitutto per la consapevolezza della presenza di un invisibile "occhio" che spia le famiglie protagoniste e poi anche per la realizzazione in sé, resa disturbante sia dalla natura amatoriale delle riprese sia, soprattutto, dall'utilizzo di una colonna sonora fatta di suoni stranissimi ed inquietanti, melodie dissonanti che farebbero uscire di testa chiunque. In questo caso, dunque, è più l'atmosfera a mettere paura, la consapevolezza che qualcosa di "sinistro" (non necessariamente sovrannaturale) si stia a poco a poco insinuando nella mente e nella vita di Ellison; il babau in sé a dirla tutta è fatto maluccio (fa sicuramente più paura quando rimane lì, sullo sfondo, a fissarti non visto) e i bimbini spettrali lasciano un po' il tempo che trovano (anche se la sequenza del nascondino casalingo è parecchio d'effetto) e sono sicura che l'errore che faranno i realizzatori del futuro Sinister 2 sarà proprio quello di renderli protagonisti assoluti, sacrificando quelle atmosfere thriller che rendono Sinister così particolare. Per il resto, mi sento di dire ancora che Ethan Hawke è assolutamente convincente nella sua interpretazione di Ellison, che il vice-sceriffo riesce ad essere simpatico e divertente senza scadere nel ridicolo come spesso accade a simili macchiette e che la figlioletta di Ellison, pur comparendo poco, ruba tranquillamente la scena a quel fratello urlante e disturbato messo lì giusto per dare un po' di colore. Insomma, probabilmente Sinister non sarà perfetto ma è comunque uno dei pochi horror validi e, soprattutto, spaventevoli visti negli ultimi tempi. Il che non è poco, affatto.


Del regista e co-sceneggiatore Scott Derrickson ho già parlato qui mentre Ethan Hawke, che interpreta Ellison, lo trovate qua.

James Ransone, ovvero il vice sceriffo, dovrebbe tornare in Sinister 2, previsto per l'anno prossimo. Nell'attesa, se Sinister vi fosse piaciuto recuperate L'evocazione - The Conjuring e magari anche The Ring, visto che lo sceneggiatore C. Robert Gargill ha auto l'ispirazione per Sinister dopo averlo guardato e aver passato una notte in preda agli incubi! ENJOY!

domenica 4 agosto 2013

La notte del giudizio (2013)

D'estate non c'è niente di meglio di un buon thriller/horror per raffreddare le calde serate. In questi giorni la scelta è ricaduta su La notte del giudizio (The Purge), diretto dal regista James DeMonaco.


Trama: in una realtà distopica l'America è finalmente una nazione priva di crimini, violenze e povertà. Il merito va tutto alla notte dello "sfogo", l'unico giorno dell'anno in cui, per 12 ore, ogni efferatezza viene permessa e incoraggiata. La famiglia Sandin, fiera sostenitrice dello "sfogo", dovrà però ricredersi sulle proprie scelte di vita...


Tu vuoi che muoro? Potrebbe riassumersi così la mia reazione alla fine di La notte del giudizio, considerato che mi sono rialzata dal letto con un peso sul petto tale da non riuscire più a respirare. Ero giusto un pochino tesa, ecco. E siccome il corpo solitamente non mente credo proprio che, almeno con me, la pellicola abbia raggiunto tranquillamente lo scopo di inquietare e mettere un'ansia del Diavolo. L'assunto in sé, ma già lo avevo capito leggendo semplicemente la trama, è parecchio controverso: se esistesse una notte in cui ogni crimine è permesso come reagirebbe la gente? Mi sono ritrovata spesso a pensare a questa cosa mentre guardavo il film e, con una punta di vergogna, ammetto che io farei quel che fanno i signori Sandin, rimarrei bella barricata in casa e lascerei che quelli fuori si ammazzino come vogliono, visto che non mi sento così "stressata" da sentire il bisogno di uscire con un machete a far piazza pulita di gente, anche se qualcuno lo meriterebbe. In La notte del giudizio invece, ed ovviamente, si scontrano varie scuole di pensiero, la più interessante delle quali non è quella dei "buoni" o dei "cattivi", ma quella dei media che si dedicano a sviscerare il significato dell'atto dello "sfogo", considerandolo un diritto, un momento indispensabile nella vita degli americani, la panacea per tutti i mali che affliggono la società, in un crescendo di dichiarazioni deliranti che inquietano più dello stesso film.


Il resto, a dire il vero, è banalmente quello che ci si dovrebbe aspettare da ogni thriller/horror degno di questo nome. La notte del giudizio non ci da particolarmente dentro col gore ma compensa innanzitutto con un inquietante (quanto inutile, d'accordo, ma se siete deviati come me ne avrete paura!) pupazzotto robotico che deambula per la casa buia, con un paio di interessantissimi twist che ribaltano più di una volta i ruoli preda/predatore dei protagonisti, con la faccia assolutamente perversa dell'educatissimo capetto del "branco", alias l'attore australiano Rhys Wakefield che spero  di rivedere prestissimo in altri film, e con un finale talmente beffardo, ironico e cupo che meriterebbe da solo l'applauso. James DeMonaco, regista e sceneggiatore, sarà anche un novellino o quasi ma riesce a mescolare piacevolmente riprese classiche e "trucchi" tipici degli horror recenti come telecamere esterne o visori all'infrarosso, che moltiplicano i punti di vista e consentono allo spettatore di inquietarsi ancora di più. Gli attori adulti, in generale, portano a casa la pagnotta in modo dignitoso (i ragazzini sarebbero da abbattere) ma devo dire che Ethan Hawke, uno dei motivi che mi ha spinta a vedere La notte del giudizio, viene tranquillamente surclassato dall'interpretazione di Lena Headey, soprattutto sul finale. In definitiva, The Purge è un film che mi sento tranquillamente di consigliare a tutti quanti cerchino un thriller solido e particolare... certo, se abitate in posti un po' isolati come la sottoscritta magari assicuratevi di avere compagnia durante la visione!!


Di Ethan Hawke, che interpreta James Sandin, ho già parlato qui.

James DeMonaco è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto solo un altro film, Staten Island, e ne ha uno in uscita. Anche produttore, ha 44 anni.


Lena Headey interpreta Mary Sandin. Originaria delle Bermuda, ha partecipato a film come Mowgli – Il libro della giungla, Il gioco di Ripley, I fratelli Grimm e l’incantevole strega, 300 e alle serie Terminator: The Sarah Connor Chronicles e Il trono di spade. Anche produttrice, ha 40 anni e cinque film in uscita tra cui 300 – L’alba di un impero.


Dato il successo de La notte del giudizio si sta già pensando ad un seguito, ovviamente. Nell'attesa, se il film vi fosse piaciuto consiglio la visione del bellissimo Funny Games e di The Strangers. ENJOY!

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