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venerdì 26 aprile 2024

Civil War (2024)

Nonostante un po' di diffidenza, domenica sera sono andata a vedere Civil War, diretto e sceneggiato dal regista Alex Garland.


Trama: Lee, fotografa di guerra veterana, decide di partire per Washington con due colleghi e un'aspirante reporter. L'idea è quella di fotografare ed intervistare il presidente degli Stati Uniti, durante gli ultimi atti di una guerra civile che ha distrutto il Paese...


Dopo la bellezza cerebrale di Ex Machina, mi ero disamorata di Alex Garland. Avevo trovato Annientamento una sciocchezzuola dalla bella confezione e Men talmente disascalico e presuntuoso da chiedermi perché mai tutti lo incensassero. Ero quindi abbastanza terrorizzata da Civil War (soprattutto dall'idea di portare con me Mirco al cinema...) ma il trailer, chissà perché, mi aveva attirata per via di un senso di disagio che non poteva essere attribuibile solo al nome di Alex Garland. Il disagio si è mantenuto fino alla fine del film, perché Civil War è un film angosciante, che mostra uno spaccato di orribile umanità anche troppo plausibile. Ambientata in un futuro molto prossimo, la pellicola racconta gli ultimi giorni di una guerra civile americana in cui Texas e Florida si sono uniti in una federazione decisa a schiacciare il resto della Nazione, in particolare un presidente fascista reo di avere commesso terribili crimini di guerra. L'America è diventata un Paese dove vigono la legge marziale e la confusione, una terra dove il rischio di venire uccisi non solo da bande di disperati afflitti da fame e povertà, ma anche da soldati impossibili da riconoscere come amici o nemici, è tangibile. In questo cupo, plausibilissimo futuro, si muove la fotografa di guerra Lee, ormai svuotata di ogni emozione e passione, un'automa che fotografa le peggiori atrocità, probabilmente vittima di una PTSD perenne; assieme a lei, due colleghi veterani e la giovane Jessie, la quale vorrebbe seguire le orme di Lee e si imbarca nel viaggio verso Washington, dove l'obiettivo finale è fotografare ed intervistare il presidente. Attraverso le vicissitudini di questo quartetto, Garland imbastisce un terribile discorso sul sensazionalismo a tutti i costi e sulla morte di un serio giornalismo di inchiesta. Lo fa, innanzitutto, confondendo volutamente il pubblico. I motivi della guerra civile non sono mai esplicitati, non c'è modo di fare chiarezza su chi sia in torto o meno, delle due parti, i soldati hanno divise impossibili da distinguere e i personaggi non vengono mai mostrati a riflettere sulle cause o le possibili soluzioni del conflitto. Ci sono solo dialoghi sommari su alcuni eventi particolarmente "memorabili", il che è proprio il punto dolorosamente sottolineato dal film. 


La Storia viene raccontata attraverso immagini ardite, più "pornografiche" sono, meglio è. La memoria collettiva vive di singoli momenti eclatanti, il quadro d'insieme non importa più; in un'epoca di informazione mordi e fuggi, conta correre per arrivare primi, ma non per offrire una cronaca in diretta, bensì per rubare lo scatto da primo premio, quello che consacrerà l'autore ad imperitura memoria. La presenza, all'interno del film, di quattro generazioni di giornalisti/fotografi, è testimonianza di un progressivo cambiamento di mentalità e di una mancanza di etica sempre più marcata; se, all'inizio, Lee parrebbe condannata ad un distaccato cinismo, la presenza di Jessie agisce da leva per spingerla a ritrovare l'umanità perduta ed impedire all'innocente ragazzina di prendere la stessa, orribile china. Ahilei, Civil War non è un film ottimista. Alex Garland descrive una società in caduta libera verso la rovina e la perdita di ogni valore positivo, e lo fa accelerando progressivamente il ritmo narrativo. Da un'inizio quasi da road trip (salvo per quell'inizio deflagrante, che scuote i nervi dello spettatore passando attraverso una delle paure più grandi della società occidentale), durante il quale i personaggi hanno tempo di dialogare, riflettere su se stessi e sulle reciproche differenze, si passa alla tensione di un horror ambientato in ambienti sperduti e dati in pasto a un male senza nome, dove qualunque cosa può capitare agli incauti viaggiatori, per poi arrivare a un film di guerra vero e proprio, a un'azione militare ininterrotta e al cardiopalma; la presa di Washington è talmente serrata, tra regia cinetica, montaggio e sonoro, che ho rischiato di lasciarmi influenzare dagli attacchi di panico di Lee, tanto che in qualche momento ho avuto difficoltà a respirare, forse per questo il finale mi ha colpita e sconvolta. D'altronde, non è facile rimanere impassibili davanti al volto sconfitto di una Kirsten Dunst svuotata di ogni entusiasmo, che sembra corteggiare la morte spingendo l'obiettivo della macchina fotografica dove nessuna persona sana di mente oserebbe arrivare, vittima di una mezza vita in cui le emozioni forti lasciano il tempo che trovano. E non è facile rimanere impassibili davanti a Cailee Spaeny, semplicemente favolosa, con la sua faccia da bimba in aperto contrasto con un'ambizione capace di passare sopra le esperienze più orribili, con il distacco di chi, come dicevo all'inizio, vive il momento di sublime gloria, lo immortala, e poi lo dimentica. Se esiste un film in grado di rappresentare la disumanizzazione alla quale siamo sottoposti quotidianamente e la superficialità della società odierna, dove indignazione e orrore durano quanto basta per lasciare spazio a un altro evento di grande risonanza mediatica che verrà a sua volta dimenticato nel giro di un paio di settimane, questo è Civil War. Guardatelo, grazie. E poi spiegatemi come diavolo ha fatto Kirsten Dunst a continuare a dividere il letto con Jessie Plemons, dopo la sua comparsata in divisa, senza temere di venire macellata. 


Del regista e sceneggiatore Alex Garland ho già parlato QUI. Kirsten Dunst (Lee), Cailee Spaeny (Jessie), Stephen McKinley Henderson (Sammy) e Jesse Plemons (non accreditato, interpreta un soldato) li trovate invece ai rispettivi link.


Wagner Moura
, che interpreta Joel, era Pablo Escobar nella serie Narcos. ENJOY!

venerdì 17 dicembre 2021

Il potere del cane (2021)

Dopo un po' di convalescenza si torna a scrivere, almeno ci si prova. Arrugginita come sono potrei anche non riuscire ad esprimermi bene per quanto riguarda Il potere del cane (The Power of the Dog), film diretto e sceneggiato dalla regista Jane Campion partendo dal romanzo omonimo di Thomas Savage


Trama: Phil Burbank è un ranchero rude e tutto d'un pezzo che vede il mondo crollare sotto i suoi piedi quando il fratello si sposa, portando a casa una donna e suo figlio. Phil decide di rendere la vita impossibile ai due nuovi arrivati, ma qualcosa comincia a cambiare...


Sono rimasta stupita quando ho visto che Il potere del cane era già disponibile su Netflix dopo nemmeno due settimane dall'uscita al cinema d'élite di Savona e mi dispiace dire che ho gioito della cosa, vista l'impossibilità che avevo avuto di sfruttare anche uno solo dei tre giorni di programmazione. Di base, credo però che un film come quello della Campion vada necessariamente visto su un grande schermo in quanto, a livello di "potenza" registica, è un trionfo di paesaggi naturali brulli e campi lunghissimi in perfetto stile western e dà proprio l'idea di praterie sconfinate e distanze difficili da percorrere in tempi brevi, elementi che accrescono quell'enorme senso di solitudine da cui vediamo venire schiacciati uomini dotati di moltissima terra e discrete ricchezze ma sicuramente privi di contatti umani. A scanso di equivoci, posso dire che per quanto mi riguarda (ma contate che mi hanno operata due giorni prima, quindi forse non ero proprio dell'umore giusto per apprezzare appieno un film simile) la bellezza della regia, l'incredibile fotografia e la bravura di Benedict Cumberbatch sono le uniche  cose che "salvano" Il potere del cane dall'essere un lavoro freddo e a mio avviso superficiale, che inanella un cliché dietro l'altro e non consente allo spettatore di empatizzare con nessuno dei personaggi che compaiono sullo schermo, men che meno a provare qualsiasi tipo di umana pietà nei loro confronti; l'idea di questa "distanza", fisica e mentale ma anche temporale, dal mondo e dagli affetti (questi ultimi, almeno per Phil, irraggiungibili per ovvi motivi), che crea rocce in guisa di uomini, esseri stundai che basta un niente per mandare in frantumi, è ben chiara nella mente della regista e sicuramente comprensibilissima per lo spettatore, eppure non penetra nel cuore quanto dovrebbe.


L'idea che mi ha dato Il potere del cane, premettendo che non ho letto l'opera da cui è stato tratto, è quella di un film anche troppo trattenuto nei momenti dove avrebbe dovuto correre un po' più a briglia sciolta, e inutilmente melodrammatico in altri punti, come quando Rose comincia a darsi all'alcoolismo per "sopravvivere" alle cattiverie di Phil, che in una scala da uno ad Iriza Legan non arriva neppure a baciare le scarpe della perfida nemesi di Candy Candy; per contro, l'idea di poter anche solo pensare di provare pena per Phil in quanto represso, privo di amore e condannato a ripensare quotidianamente alla leggendaria figura dell'adorato Bronco Henry, si scontra con la natura di inutile(mente) stronzo del personaggio in questione. Ci si ritrova così davanti a un'accozzaglia di personaggi solitari, muti, paurosi o crudeli (sicuramente una scelta voluta ma, cribbio, penso che un minimo di evoluzione sarebbe servita in tal senso) che verrebbe voglia di lasciare lì, ad annegare nel loro brodo di disagio, tra i quali forse si salva vagamente giusto il Peter di Kodi Smit-McPhee per la sua distaccata visione del mondo e la capacità di fare fessi uomini fatti e finiti che si riempiono la bocca di paroloni e "consigli su come si sta al mondo". Di sicuro, come finale ho preferito quello de Il filo nascosto, che almeno dalla sua aveva un minimo di nerissima ironia, mentre Il potere del cane a me è sembrato algido e represso come il pur bravissimo Cumberbatch. So però che molti lo hanno adorato, quindi dategli un'occhiata e sentitevi liberi di mandarmi a quel paese!


Di Benedict Cumberbatch (Phil Burbank), Jesse Plemons (George Burbank), Kodi Smit-McPhee (Peter Gordon), Kirsten Dunst (Rose Gordon), Thomasin McKenzie (Lola), Frances Conroy (Old Lady) e Keith Carradine (Il Governatore) ho parlato ai rispettivi link.

Jane Campion è la regista e sceneggiatrice del film. Neozelandese, ha diretto film come Lezioni di piano (per il quale ha vinto l'Oscar per la miglior sceneggiatura), Ritratto di signora, Holy Smoke e In the Cut. Anche produttrice e attrice, ha 67 anni. 


George Burbank avrebbe dovuto essere interpretato da Paul Dano, purtroppo già impegnato come Enigmista nell'imminente Batman mentre Elizabeth Moss ha dovuto rinunciare al ruolo di Rose perché impegnata nelle riprese del prossimo film di Taika Waititi. Ciò detto, se vi fosse piaciuto Il potere del cane, recuperate Lezioni di piano. ENJOY!

mercoledì 27 settembre 2017

L'inganno (2017)

Prima di partire per Praga sono riuscita ad andare a vedere anche L'inganno (The Beguiled), diretto e sceneggiato da Sofia Coppola a partire dal romanzo omonimo di Thomas P. Cullinan. Purtroppo, Valerian e la città dei mille pianeti è rimasto al palo, ché io tre giorni di fila per andare al cinema non li ho, quindi speriamo lo tengano anche la settimana prossima!


Trama: durante la guerra di secessione un soldato nordista ferito viene salvato e curato da un gruppo di donne del sud, isolate all'interno di una scuola. La presenza dell'uomo creerà ovviamente scompiglio...


L'enorme errore che ho fatto è stato guardare La notte brava del soldato Jonathan prima di L'inganno. Sofia Coppola ha giustamente dichiarato di essersi ispirata non già al film di Siegel bensì al romanzo di Cullinan per realizzare la sua ultima pellicola ma, non avendolo letto, non posso fare confronti e, davanti ad una simile dichiarazione, sarebbe antipatico da parte mia paragonare le due pellicole, eppure non riesco a farne a meno, quindi perdonate se questo post sarà viziato da inevitabili riferimenti al film del 1971. Quello che colpisce essenzialmente de L'inganno è la sua incredibile bellezza formale, cosa che ha giustamente portato Sofia Coppola a vincere la Palma d'oro a Cannes. Ogni singola inquadratura de L'inganno sembra infatti un dipinto riportato su grande schermo, sia che le scene si svolgano in interni che in esterni; al di là di alcune citazioni che omaggiano film come Via col vento, la composizione dell'immagine ha delle simmetrie e delle geometrie riscontrabili solo all'interno di una galleria d'arte colma di paesaggi e persino le pose degli attori all'interno degli ambienti richiamano alla mente i quadri a tema religioso e conviviale di fine settecento (Colin Farrell quando viene lavato dalla Kidman pare deposto come Cristo ai piedi della Croce), come se le protagoniste del film fossero rimaste prigioniere di un limbo senza tempo. A rendere il tutto ancora più "artistico" e meraviglioso ci pensa la fotografia di Philippe Le Sourd, capace di affascinare persino l'occhio inesperto di una profana come me; la luce naturale che penetra dalle enormi vetrate della magione di Miss Martha, così come quella artificiale di candelabri e lampade, creano dei giochi d'ombra che rende l'atmosfera del film in qualche modo fiabesca ma anche sottilmente inquietante e in molti casi rafforza l'illusione di trovarsi davanti a un quadro semovente, come quando la luce cade dall'alto ad illuminare la Kidman inginocchiata in preghiera o quando si palesano davanti agli occhi dello spettatore le solenni inquadrature nelle quali tre personaggi sostano baciati dalla luce del sole all'interno di una stanza, giustamente finite su più di un manifesto. La "dimensione artistica" de L'inganno è completata infine dai meravigliosi costumi di Stacey Battat, che ha regalato alle fanciulle presenti nel film degli abiti in grado di rivelare la loro personalità al primo sguardo, basti pensare alle mise vezzose di Elle Fanning (molto brava ma Jo Ann Harris all'epoca era su un altro pianeta in quanto a sensualità), quelle castigate di una favolosa Nicole Kidman e quelle più romantiche di Kirsten Dunst, con le sue spalle impudicamente scoperte. Insomma, un capolavoro d'incredibile bellezza, eppure il mio animo rustico non ha reagito bene come mi sarei aspettata.


A mio avviso, L'inganno offre molto in bellezza ma è assai avaro di emozioni, positive o negative che siano. Sotto questo aspetto, Sofia Coppola gioca di sottrazione arrivando ad esagerare, lasciando sospesi snodi narrativi che forse sarebbe stato meglio approfondire, a meno che non fosse richiesto allo spettatore di mettersi nei panni del Caporale e tenersi per sé tutta la curiosità, osservando da distante queste donne peculiari con una sensazione di straniamento inquieto. Nel film di Siegel, per esempio, i rapporti tra Miss Martha ed Edwina erano ben definiti, in quello della Coppola si percepisce "qualcosa" che le tiene distanti e che è difficile imputare solo ad una differenza generazionale; allo stesso modo, l'affetto che McBurney arriva a provare per Edwina sembra ancora più campato in aria rispetto a quarant'anni fa, e anche le deboli reazioni di lei non convincono, soprattutto sul finale o durante il momento clou, dove sembra che la Dunst non sia mai uscita dal pianeta condannato di Melancholia (forse qui parliamo di limite attoriale di una Dunst un po' sottotono?). L'inganno difetta anche dell'ambiguità che imperava ne La notte brava del soldato Jonathan, all'interno del quale le azioni di Miss Martha, Edwina e McBurney non avevano una connotazione chiaramente negativa o positiva e la scelta disperata delle donne nel pre-finale aveva un sapore di vendetta assai più marcato, così com'era più marcata la natura di "satiro" infingardo, di serpente nell'Eden dello splendido John di Clint Eastwood, mentre Colin Farrell nel momento clou mi è sembrato più mosso dall'alcool che da altro (le minacciose parole di John nel 1971 erano chiare: "Andrò a letto con chi vorrò". E il gioco di seduzione portato avanti dal personaggio era palese fin dal bacio iniziale alla sua piccola salvatrice, cosa che oggi probabilmente sarebbe infilmabile). La delicatezza della Coppola qui sta nello sviare l'attenzione dello spettatore dall'exploitation maschilista di Siegel e nel concentrarsi su una storia di donne sole ed isolate, mosse da carità cristiana prima, da desiderio poi ed infine da spirito di autoconservazione, senza caratterizzarle sfruttando un passato traumatico fatto di violenze, incesti o tradimenti e con la guerra che difficilmente riesce a raggiungere l'austera ma elegante magione di Miss Martha, quasi la stessa si trovasse in un mondo altro; eppure, lo stesso si ha la sensazione che manchi "qualcosa" e non mi riferisco al tanto vituperato white washing che ha fatto sparire persino la schiava di colore (d'altronde, la Coppola non era interessata a dipingere superficialmente la schiavitù quindi la scelta è assai condivisibile). Al southern gothic si è sostituito dunque un bellissimo southern suicide garden, il che non è una cosa negativa ma lo stesso non mi ha convinta quanto avrei voluto e come era riuscita a fare in passato la Coppola, persino col tanto detestato Bling Ring.


Della regista e sceneggiatrice Sofia Coppola ho già parlato QUI. Colin Farrell (Caporale McBurney), Nicole Kidman (Miss Martha), Kirsten Dunst (Edwina) e Elle Fanning (Alicia) li trovate invece ai rispettivi link.

Angourie Rice interpreta Jane. Australiana, la ricordo per film come These Final Hours, The Nice Guys e Spiderman: Homecoming. Ha 16 anni e un film in uscita.


Se L'inganno vi fosse piaciuto recuperate La notte brava del soldato Jonathan e Il giardino delle vergini suicide. ENJOY!

venerdì 15 settembre 2017

Marie Antoinette (2006)

Ormai un mese fa è passato in TV Marie Antoinette, diretto e sceneggiato nel 2006 dalla regista Sofia Coppola, e finalmente anche io che ho sempre adorato le opere legate alla rivoluzione francese e alla figura dell'iconica regina di Francia sono riuscita a vederlo!


Trama: Maria Antonia d'Asburgo-Lorena, figlia dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa, viene promessa in sposa al Delfino Luigi di Francia e mandata a Versailles per il matrimonio. Lì, la giovane Marie Antoinette è costretta a sottostare alla rigida etichetta di corte, a sopportare un marito incapace di toccarla e a subire le maldicenze di nobili e cortigiani...



Guardando Lady Oscar dall'età di sette anni, è normale che sia rimasta affascinata dalle vicende della Rivoluzione Francese e dalla figura di Maria Antonietta, probabilmente la regina più amata/odiata della storia. Chi era davvero Antonietta? La demonessa dello sperpero e della lussuria che teneva in gran dispetto e odio tutto il popolino (pronunciando magari, con rossetto nero d'ordinanza, bufale quali "Il popolo non ha pane? Che mangino brioche!", come accade nella scena più tristemente ironica del film) oppure, semplicemente, una ragazzina ingenua venutasi a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato? La verità, probabilmente, sta nel mezzo anche se ci sono fior di biografie da leggere e sulle quali ragionare, ma sicuramente il ritratto realizzato da Sofia Coppola pende più verso la seconda ipotesi, avvalorata dalla biografia di Antonia Fraser, molto popolare negli USA. La regista, anche in veste di sceneggiatrice, ci mostra fin dall'inizio Maria Antonietta come una ragazzina di buon cuore catapultata in un mondo ostile e spersonalizzante: la ragazza, penultima di sedici figli, è stata ceduta dalla madre come "oggetto" per suggellare l'alleanza tra Francia e Impero Austriaco e viene di fatto abbandonata alla mercé di una Corte sconosciuta, totalmente disinteressata ad Antonietta come "persona". Ad appena quattordici anni, la futura regina di Francia viene da una parte allettata dalla promessa di una vita fatta di agi e lussi, dall'altra la sua natura di donna e il suo valore come essere umano vengono subordinati alla sua capacità di mettere al mondo un erede e di invogliare in primis il Delfino di Francia a giacere con lei, così da adempiere ai suoi doveri. Di fatto, l'unico modo per mantenere un vincolo tra Francia e Austria era proprio dare alla luce un bambino figlio di entrambi i regni, in caso contrario Maria Antonietta sarebbe diventata inutile e probabilmente Re Luigi XV (che già avrebbe dovuto sposare una delle figlie più anziane di Maria Teresa, rimasta sfigurata dal vaiolo) l'avrebbe rimandata dritta a casa dall'Imperatrice; vinta dallo sconforto, dalle parole fredde della madre, dal disinteresse del futuro Luigi XVI, dall'insofferenza verso una vita fatta di regole rigide e protocolli di ferro, ad Antonietta non rimane altra possibilità che fare come qualsiasi ragazza moderna, ovvero darsi allo shopping, ai peccati di gola, alle feste, a tutto ciò che potrebbe darle un'illusione di libertà e felicità, per quanto momentanea.


Sofia Coppola si concentra quindi sull'aspetto più "Bling Ring" della vita di Maria Antonietta, soprattutto nella prima parte del film, accentuandone la frivola modernità con i tanto discussi ammiccamenti alla moda contemporanea (ah, quelle Converse, quei coloratissimi macaron di Ladurée, per non parlare della colonna sonora!) e sorvolando su episodi iconici della vita della sovrana, più legati ad una questione sociale, in primis la famigerata vicenda della collana. A dire il vero, probabilmente per lo spettatore che non conosce a menadito tutte le vicende che hanno portato alla Rivoluzione Francese risulterà anche difficile capire perché ad un certo punto i popolani vorrebbero fare fuori Antonietta e i suoi famigliari, visto che i pesanti problemi di deficit e lo squilibrio tra nobili e il cosiddetto "terzo stato" vengono appena accennati nel film, ma è anche questa scelta a rendere affascinante la pellicola della Coppola. La regia elegante e il montaggio vorticoso, la sovrabbondanza di dettagli per quel che riguarda scenografie e costumi, che inghiottono letteralmente la protagonista, e la fotografia dai colori accesi trasformano la vera Versailles prima e il vero Petit Trianon poi (se siete stati in entrambi i posti non potrà fare a meno di esplodervi il cuore, io vi avviso) in un limbo atemporale capace di sedare i sensi e placare momentaneamente il dolore, un eden dove le brutture della società non arrivano ma dove bisogna anche faticare per rimanere umani e conservare, paradossalmente, qualcosa che sia possibile definire proprio. La seconda parte, quella che coincide con la maternità e maturità di Antonietta, è ben più malinconica e riflessiva della prima e anche lo stile di regia asseconda questo cambiamento di atmosfera, accompagnando lentamente la Sovrana verso il triste destino prefigurato nel finale con eleganti immagini di morte, tra gramaglie e quadri dove i bimbi ritratti scompaiono come se non fossero mai esistiti, mentre la realtà irrompe con forza e violenza in una vita scandita da riti fasulli e assurdamente coreografati... ma non per questo meno vera.


Capita così che, nonostante liberté, egalité et fraternité siano dei concetti santi e condivisibili, sul finale si arrivi persino a versare qualche lacrima per la bellissima Antonietta della Dunst e per quel babbalone di Jason Schwartzman nei panni di Luigi XVI, alla faccia di tutto il "nulla" di cui abbonda lo stilosissimo Marie Antoinette e di tutta la colorata ricchezza che viene sbattuta in faccia con disprezzo sia allo spettatore che al popolo di Parigi. Gli sguardi malinconici di Kirsten Dunst, il sorriso forzato di chi si impegna con tutta sé stessa per piacere inutilmente, lo sguardo gioioso di chi finalmente ha trovato l'amore vero, che sia di uno svedese tutt'altro che freddo oppure dei propri bambini, persino la forza con la quale la protagonista sceglie di essere, finalmente, Regina di Francia fino all'ultimo sono tocchi di profondità che rendono il personaggio umano ed impossibile da odiare, fin dalla prima scena del film. Anzi, oso dire che Marie Antoinette è un film talmente bello, in ogni suo aspetto, che persino Asia Argento (per quanto cagna maledetta sempre e comunque, in saecula saeculorum, amen) mi è sembrata perfetta nei panni della favorita del re, con la sua naturale volgarità e l'incapacità di proferire verbo in una lingua comprensibile, anche se la povera Du Barry non era certo così vajassa ed ignorante come spesso la si dipinge. A dire il vero, alla Coppola rimprovero solo di avere messo un mollo privo di carisma come Jamie Dornan ad interpretare l'affascinante Conte di Fersen, ché se Lady Oscar avesse visto questo antenato di Mr. Grey probabilmente avrebbe scelto di rimanere uomo per il resto dei suoi giorni. E ora, siccome sto scrivendo troppe cretinate, concludo qui il post, ribadendo la bellezza di Marie Antoinette e consigliandovi di non aspettare troppo per recuperarlo come ho fatto io; nell'attesa che esca L'inganno la settimana prossima potrebbe essere un ottimo antipasto... buono quasi quanto i famosi e proibitivi macaron di Ladurée!


Della regista e sceneggiatrice Sofia Coppola ho già parlato QUI. Kirsten Dunst (Maria Antonietta), Jason Schwartzman (Luigi XVI), Judy Davis (Contessa de Noailles), Rose Byrne (Duchessa de Polignac), Asia Argento (Contessa du Barry), Molly Shannon (Zia Vittoria), Shirley Henderson (Zia Sofia), Danny Huston (Imperatore Giuseppe II), Sebastian Armesto (Conte Louis de Provence), Tom Hardy (Raumont) e Steve Coogan (Ambasciatore Mercy) li trovate ai rispettivi link.

Rip Torn (vero nome Elmore Rual Torn Jr.) interpreta Luigi XV. Americano, ha partecipato a film come Il re dei re, L'uomo che cadde sulla Terra, Coma profondo, L'aereo più pazzo del mondo... sempre più pazzo, RoboCop 3, Giù le mani dal mio periscopio, Ancora più scemo, Men in Black, Men in Black II, Palle al balzo - Dodgeball, Men in Black 3 e a serie quali Alfred Hitchcock Presenta, Colombo, Will & Grace e 30 Rock mentre come doppiatore ha lavorato nel film Hercules. Anche regista e produttore, ha 86 anni.


Jamie Dornan interpreta il Conte Hans Axel Von Fersen. Irlandese, meglio conosciuto come Mr. Grey di Cinquanta sfumature di grigio e Cinquanta sfumature di nero, ha partecipato a serie quali C'era una volta. Ha 35 anni e cinque film in uscita.


Il film ha vinto giustamente un Oscar per i Migliori Costumi, andato nelle sante mani di Milena Canonero. La parte di Luigi XV era stata offerta ad Alain Delon il quale però ha rifiutato, sentendosi inadatto al ruolo; per problemi di impegni pregressi, invece, sia Angelina Jolie che Catherine Zeta-Jones hanno dovuto rinunciare ad interpretare la Contessa du Barry, lasciando così tristemente il posto ad Asia Argento mentre a Judy Davis, che è finita a interpretare la Contessa de Noailles, era stato offerto il ruolo di Maria Teresa D'Austria. Se Marie Antoinette vi fosse piaciuto dovete OVVIAMENTE recuperare lo splendido anime Lady Oscar (o il manga di Ryoko Ikeda e magari anche Innocent di Shin'Ichi Sakamoto) e aggiungere L'intrigo della collana, giusto per completare un pezzetto di storia che nel film della Coppola manca. ENJOY!

mercoledì 8 marzo 2017

Il diritto di contare (2016)

Forte di tre candidature all'Oscar (Miglior Film, Miglior Sceneggiatura Non Originale e Octavia Spencer come Miglior Attrice Non Protagonista), arriva finalmente anche in Italia Il diritto di contare (Hidden Figures), diretto e co-sceneggiato nel 2016 dal regista Theodore Melfi e tratto dal libro omonimo di Margot Lee Shetterly. Con questo film è proprio il caso di augurare buona festa della donna a tutte le lettrici del blog!!


Trama: negli anni '60, un gruppo di donne di colore tra le quali spicca la matematica Katherine Goble aiuta i tecnici della NASA a spedire il primo uomo nello spazio.



Nonostante lo scorno degli "addetti ai lavori" per non avere avuto la possibilità di vedere per tempo sul grande schermo uno dei film candidati all'Oscar, stavolta la distribuzione italiana ci ha azzeccato e lo stesso vale per i titolisti. Il diritto di contare è un bellissimo titolo che gioca sia sull'aspetto razziale della vicenda narrata nel film, sia sul lavoro svolto dalle protagoniste, tre "cervellone" di colore impegnate ad eseguire incredibili calcoli matematici per conto della NASA; allo stesso modo, distribuirlo proprio l'8 marzo, giorno della festa della donna, potrebbe non solo spingere più gente al cinema a vederlo ma potrebbe anche scatenare qualche riflessione sulla condizione lavorativa delle donne, che a ben vedere non è cambiata molto dagli anni '60, soprattutto negli ambienti "piccoli". Katherine, Dorothy e Mary sono tre capacissime donne che, oltre ad avere lo svantaggio di appartenere al cosiddetto sesso debole, sono anche nate con la pelle di un colore diverso in un'America ancora piagata dalle leggi di segregazione razziale. Nonostante questo, pur compiendo lavori che non rendono giustizia alle loro capacità individuali, tutte e tre sono impiegate alla NASA e un giorno Katherine, la quale può essere tranquillamente definita un genio della matematica, viene richiesta per svolgere le funzioni di un computer nel corso della delicata preparazione che avrebbe portato al primo viaggio spaziale americano, quello della capsula Friendship 7 e dell'astronauta John Glenn. La sceneggiatura de Il diritto di contare segue dunque le vicende di queste tre donne, all'interno del rispettivo ambito lavorativo (fonte di dolori e soddisfazioni in pari misura) e anche in quello familiare o sociale, focalizzandosi non solo sulla lotta per essere rispettate al pari dei loro colleghi e colleghe bianche, ma anche su quella affrontata quotidianamente contro i pregiudizi di amanti e mariti che ancora riconoscono in loro il "sesso debole" nonostante il cervello, la passione e la determinazione che le rende assai superiori a moltissimi uomini. Il tutto è raccontato con mano lieve, con alcuni momenti divertenti capaci di stemperare situazioni assai spiacevoli (gli episodi più violenti della lotta razziale vengono solo suggeriti o appena mostrati ma le parole fanno più male delle aggressioni fisiche, si sa) ed altri genuinamente commoventi, mentre le vicende di queste signore realmente esistite sono contestualizzate all'interno dei momenti chiave di un pezzo importante di storia americana.


Lo stile proposto da Melfi e soci richiama molto quello di The Help e non solo perché ritroviamo nel cast la simpatica Octavia Spencer, alla quale il film di Tate Taylor aveva portato già parecchia fortuna. Ne Il diritto di contare viene riproposto il cameratismo di chi si trova reietto all'interno della società e condivide modi di essere e tradizioni lontani da quelli dei bianchi, il mix dolceamaro di commedia e dramma, la presenza di personaggi (sia bianchi che neri) a tratti stereotipati ma sui quali riversare comunque tutto il nostro amore o il nostro odio, infine un gusto delizioso per quel che riguarda costumi e scenografie, soprattutto quando il film mostra la vita familiare di Katherine e compagne, le quali meriterebbero la visione della pellicola in lingua originale anche solo per il modo in cui cambiano accento a seconda che parlino tra di loro o con i superiori della NASA. A tal proposito, le attrici sono tutte molto brave, soprattutto quelle principali (sebbene la nomination di Octavia Spencer mi sia sembrata un po' eccessiva) e anche il cast di supporto è molto valido: Kevin Costner offre un'interpretazione assai misurata e adatta al suo phisique du rol, Mahershala Ali e il Chaaaad sono entrambi molto simpatici, Kirsten Dunst ormai pare mia nonna ma è perfetta nel ruolo del colletto bianco femmina alla "non sono razzista ma...". L'unico neo è Jim Parsons che, poveraccio, è costretto per contratto a riprendere i tic di Sheldon anche in un film ambientato negli anni '60 e si è visto superare persino da Wolowitz, che per Florence si è beccato invece una bella nomination ai Golden Globes, In definitiva, Il diritto di contare è un film delizioso che vi consiglio di recuperare, sicuramente uscirete dal cinema con un bel sorriso stampato sulle labbra e di questi tempi non è roba da poco!


Del regista e co-sceneggiatore Theodore Melfi ho già parlato QUI. Octavia Spencer (Dorothy Vaughan), Kevin Costner (Al Harrison), Kirsten Dunst (Vivian Mitchell), Jim Parsons (Paul Stafford), Mahershala Ali (Colonnello Jim Johnson) li trovate invece ai rispettivi link.

Taraji P. Henson interpreta Katherine G. Johnson. Americana, ha partecipato a film come Il curioso caso di Benjamin Button e a serie come E.R. Medici in prima linea, Dr. House e CSI; come doppiatrice, ha lavorato per serie quali The Cleveland Show e I Simpson. Anche produttrice, ha 47 anni e un film in uscita.


Glen Powell interpreta John Glenn. Indimenticabile Chad della serie Scream Queens, ha partecipato a film come Spy Kids - Missione 3-D: Game Over, Il cavaliere oscuro - Il ritorno, I mercenari 3 e ad altre serie quali CSI: Miami. Anche produttore, sceneggiatore e stuntman, ha 29 anni e un film in uscita.


La cantante Janelle Monáe, che interpreta Mary Jackson, ha partecipato ad un altro dei film in lizza per l'Oscar quest'anno, Moonlight. Se Il diritto di contare vi fosse piaciuto recuperate The Help e Apollo 13. ENJOY!

martedì 30 ottobre 2012

Love & Secrets (2010)

Sperando che i maledetti porci della Telecom subiscano ogni mio strale e maledizione consumando i soldi degli abbonati in cure contro la diarrea fulminante, mi metto a scrivere comunque un post che spero di riuscire a pubblicare. Oggi si parlerà del thriller Love & Secrets (All Good Things), diretto nel 2010 dal regista Andrew Jarekci e arrivato in Italia solo quest'anno.


Trama: David è il ricco erede di una famiglia che possiede metà degli edifici di New York. Il ragazzo si innamora di Katie e la sposa, ma dopo il matrimonio comincia a manifestare inquietanti turbe mentali...


Questo Love & Secrets (titolo italiano messo davvero lì a caso, potevano chiamarlo anche Money & Madness, tanto sarebbe stato uguale) mi aveva incuriosita ma, a dire la verità, non è nulla di che, sia come thriller che come film in generale. La confezione è molto più curata rispetto ad un prodotto televisivo, ma bene o male la trama non si discosta molto da quella di una pellicola destinata a finire nel ciclo Alta Tensione. Da spettatori, assistiamo al lento e progressivo sfaldarsi di un rapporto all'apparenza idilliaco, con una narrazione del passato intervallata da immagini di un processo in cui David, ormai vecchio, è imputato per crimini che conosceremo solo verso il finale (escamotage assurdo, peraltro, visto che il film è basato su fatti realmente accaduti e su un caso di persona scomparsa tuttora irrisolto). Purtroppo, questo "non sapere" non concorre a rendere Love & Secrets più interessante: dopo un inizio a modo suo brioso e accattivante, infatti, il film si affossa nel melodramma prevedibile perché possiamo benissimo immaginare quale sia il motivo per cui David è processato, e aspettiamo solo il momento in cui il suo crimine verrà palesato. Quest'attesa, tuttavia, viene resa noiosa e quasi inconcludente da sequenze patetiche, personaggi con i quali è praticamente impossibile relazionarsi e twist della trama abbastanza improbabili (soprattutto sul finale) e troppo simili a quelli di altri thriller meglio riusciti, come per esempio Psyco o persino Attrazione fatale.


Di questo ritmo un po' troppo lento, che va a rendere ancor più banale una storia già raccontata millemila volte, risentono anche gli attori coinvolti che, nonostante offrano prove di indubbia bravura, risultano sicuramente meno efficaci di quanto dovrebbero. L'adorabile Kirsten Dunst, sempre a suo agio nei ruoli un po' "vintage", è quella che se la cava meglio nonostante il personaggio faccia parecchie scelte che possono essere comprese e condivise solo da chi possiede una mentalità americana; Ryan Gosling non è mai rientrato molto nelle mie corde, con quella faccia da stordito perenne, ma per il ruolo del traumatizzato e represso David è praticamente perfetto (anche se verso il finale fa un po' senso, lo ammetto...); infine, il vecchio Frank Langella incombe su tutti i personaggi con la sua aura oscura da freddo manipolatore, a cui si possono ricondurre facilmente le tragedie che hanno reso la vita dei suoi "cari" un inferno. Accanto a questi tre personaggi principali ne vengono inoltre introdotti un paio verso la fine che, pur se ben interpretati, parrebbero quasi inseriti a forza nella trama, mossi da motivazioni quantomeno assurde e a loro modo pretestuose; con la loro presenza è come se il film si dividesse in due parti, la prima a modo suo interessante, la seconda quasi slegata dal resto della pellicola, come se fosse una storia a sé stante. Insomma, Love & Secrets è un film che potete perdervi tranquillamente, buono forse solo per i fan della Dunst e di Gosling, che rischiano però di rimanere delusi.


Di Ryan Gosling (David), Kirsten Dunst (Katie), Philip Baker Hall (Malvern) e Kristen Wiig (Lauren) ho già parlato nei rispettivi link.

Andrew Jarecki è il regista della pellicola. Americano, ha già diretto un documentario, Una storia americana - Capturing the Friedmans e un corto. E' anche produttore.


Frank Langella (vero nome Frank A. Langella Jr.) interpreta Sanford, il padre di David. Americano, lo ricordo per film come Dracula, I dominatori dell'universo, 1492 - La scoperta del paradiso, Body of Evidence - Il corpo del reato, Dave - Presidente per un giorno, Brainscan - Il gioco della morte, Junior, Corsari, Lolita, Small Soldiers, La nona porta, Red Dragon (era la voce del Drago in alcune scene eliminate), Good Night, and Good Luck., Superman Returns e Wall Street - Il denaro non dorme mai. Ha 74 anni e tre film in uscita.


Tra gli altri attori segnalo Lily Rabe, che interpreta la migliore amica di David e che è una delle protagoniste principali della meravigliosa seconda stagione dell'inquietante American Horror Story, serie che vi consiglio prontamente di recuperare. ENJOY!!

domenica 14 ottobre 2012

Jumanji (1995)

In questi giorni ho riguardato un film che non vedevo da parecchio tempo, ovvero Jumanji, diretto nel 1995 dal regista Joe Johnston e tratto dall’omonimo libro di Chris Van Allsburg.


Trama: negli anni ’60 il piccolo Alan scompare davanti agli occhi dell’amichetta Sarah, risucchiato all’interno del gioco da tavolo Jumanji. Una trentina d’anni dopo, i fratellini Judy e Jack trovano in soffitta il gioco e un Alan ormai adulto è costretto a concludere la vecchia partita…


Jumanji, almeno sulla carta, è un vero delirio. L’idea che esista un gioco “maledetto”, in grado di penalizzare davvero i giocatori e scatenare su di loro tutti gli orribili, pericolosissimi ostacoli che una persona potrebbe trovare durante un viaggio nella giungla più selvaggia è semplicemente geniale ed è resa ancora più interessante dal fatto che le persone coinvolte siano costrette a sottostare letteralmente alle regole del gioco. Tuttavia, fermo restando che sarebbe stato molto più bello per me vedere una variante a tema horror, gli anni non hanno giovato granché a Jumanji che, oggi più di allora, patisce di un’inusuale rigidezza sia del protagonista principale (un Robin Williams stranamente sottotono), che di una certa ripetitività ammorbata da melassa in abbondanza, solo vagamente stemperata da alcuni momenti di ironia: l’idea del gioco maledetto e la presenza di due orfani, infatti, veicola una riflessione sul rapporto tra padri e figli, sulla difficoltà di crescere in un mondo che è una sorta di giungla in piccolo, dove comunque l’imprevisto è sempre in agguato, dove vige la legge del più forte e del più furbo e c’è poco spazio per mostrare sentimenti e debolezze. Infatti, il terribile cacciatore Van Pelt è interpretato, non a caso, dallo stesso attore che recita la parte del padre di Alan ed è l’essere che più terrorizza il protagonista perché, al di là dell’ovvia minaccia rappresentata dal fucile, incarna l’estremizzazione della cecità, dell’intransigenza, della freddezza e della supposta infallibilità del genitore. 


Riflessioni a parte, quello che all’epoca aveva attirato miriadi di ragazzini al cinema era l’incredibile dispendio di effetti speciali, fiore all’occhiello di Jumanji e figli dell’alta tecnologia utilizzata per Jurassic Park. Oggi alcuni di essi risultano un po’ datati e le bestiole hanno comunque quell’aria di “finto”, soprattutto il leone e le scimmie, ma non si può negare che la maggior parte delle sequenze risultino tuttora spettacolari, basti solo pensare alla crescita della pianta carnivora, al monsone (con conseguente inondazione) che si scatena all’interno della villa o alla devastante carica di rinoceronti ed elefanti impazziti che travolgono ogni cosa al loro passaggio. Inquietante anche la resa del gioco stesso, con il suono di tamburi in lontananza che attira le malcapitate vittime e la bellissima, evocativa confezione vintage con tanto di sfera verdastra a produrre indovinelli sibillini che preannunciano il peggio agli incauti giocatori. Visto una volta, quindi, Jumanji raggiunge sicuramente lo scopo di intrattenere, divertire ed emozionare, ma rivisto anche a distanza di anni subentra quella ripetitività di cui parlavo sopra, con i personaggi che tirano il dado, subiscono la penitenza e, una volta scampato il pericolo, ricominciano tutto da capo. Non un capolavoro, quindi, ma comunque un film godibile ed ideale per fare un salto nel passato.


Del regista Joe Johnston ho già parlato qui, mentre Robin Williams (Alan Parrish) e Kirsten Dunst (Judy Shepherd) li trovate ai rispettivi link.

Jonathan Hyde interpreta sia Van Pelt che Sam Parrish. Australiano, ha partecipato a film come Richie Rich – Il più ricco del mondo, Anaconda, Titanic e La mummia. Ha 64 anni. 


Bonnie Hunt interpreta Sarah. Americana, la ricordo per film come Rain Man – L’uomo della pioggia, Beethoven, Dave – Presidente per un giorno, Beethoven 2, Jerry Maguire, Il miglio verde; inoltre, ha doppiato pellicole come A Bug’s Life – Megaminimondo, Monsters & Co., Cars – Motori ruggenti, Toy Story 3 – La grande fuga e Cars 2. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 51 anni.


Patricia Clarkson interpreta Carol Parrish. Americana, la ricordo per film come The Untouchables – Gli intoccabili, Scherzi del cuore, Il miglio verde, Lontano dal paradiso, Carrie (il film TV) e Shutter Island, inoltre ha partecipato a serie come Six Feet Under. Ha 53 anni e un film in uscita.


Adam Hann – Byrd interpreta Alan da ragazzino. Americano, lo ricordo per film come Il mio piccolo genio, Diabolique, Tempesta di ghiaccio e Halloween H20: Venti anni dopo. Ha 30 anni.


Bradley Pierce invece, che interpreta il piccolo Peter, è stato la voce originale di Chicco in La Bella e la Bestia. Il libro scritto da Chris Van Allsburg si conclude un po’ diversamente, con Judy e Peter che si sbarazzano del gioco solo per poi vederlo, poco dopo, tra le braccia di due ragazzini che diventeranno i protagonisti di un altro racconto dello scrittore, Zathura (da cui è stato tratto il film Zathura -  Un’avventura spaziale, nel 2005), assai simile a Jumanji ma a tema spaziale, appunto. Rimanendo sempre in tema di seguiti e affini, pare che sia in progetto da qualche tempo di girare un remake di Jumanji, ma il tutto è ancora avvolto nel mistero… se però l’avventura nella giungla non vi fosse bastata sappiate che esiste anche un’omonima serie animata tratta dal film, andata in onda in Italia negli anni ’90 su Disney Channel e Rai 2. Per finire, se la pellicola vi fosse piaciuta, consiglio la visione di Inkheart – La leggenda del cuore d’inchiostro e Hook – Capitan uncino. ENJOY! 

lunedì 25 luglio 2011

Intervista col vampiro (1994)

Chi mi conosce sa che amo i film dedicati alla figura del Vampiro (con la V maiuscola, non le mezzeseghe twilightiane…) più di ogni altro horror, quindi non potevo non amare Intervista col Vampiro (Interview with the Vampire), diretto dal regista Neil Jordan nel 1994 e tratto dall’omonimo romanzo di Anne Rice.



Trama: Attraverso gli occhi del vampiro Louis veniamo a conoscenza della sua triste e centenaria esistenza. La “nascita” per mano del crudele Lestat, il rifiuto della propria natura, l’arrivo della piccola Claudia e il funesto incontro con altri della sua stessa razza, dalla New Orleans di fine ottocento all’America dei giorni nostri.



Intervista col vampiro è uno dei più bei film sull’argomento, secondo solo a Nosferatu e al barocco Dracula di Coppola. Purtroppo (e stranamente, almeno per me) non ho mai letto il romanzo da cui è tratto ma, a parte alcuni punti di secondaria importanza, pare gli sia fedelissimo, soprattutto nello spirito. La pellicola infatti riesce a mostrare in modo esemplare il paradosso dell’esistenza di un Vampiro, il fascino che essa esercita su chi è semplicemente umano e l’orrore di vivere un’eternità di solitudine e morte, col rischio di diventare relitti del passato mentre le epoche avanzano. Louis concede la famosa intervista al giovane David perché la sua storia venga tramandata e i suoi errori non vengano ripetuti, e lo fa quando la sua umanità e la sua scintilla di vita sono già irrimediabilmente perdute, a causa dei propri errori e della fondamentale “incapacità” del suo Maestro Lestat. Attraverso le figure dei due vampiri vediamo la Luce e la Tenebra, l’innocenza e la crudeltà, la forza e la debolezza, due opposti tenuti insieme malamente e solo grazie a quello splendido personaggio che è la piccola Claudia, eterna ed innocente bambina per Louis, degna e crudele erede per Lestat, che alla fine pagherà il prezzo del suo affetto distorto. Siamo quindi anni luce lontani sia dall’affascinante ma statica figura del Dracula di Bram Stocker e, per fortuna, anche da quell’aborto che sono i vampiri di Twilight (e pensare che all’epoca avevo la stessa età delle ragazzine odierne, ma per fortuna noi degli anni ’80 siamo cresciuti con cose nettamente migliori di quelle di ora…), un idilliaco “equilibrio” che raramente troviamo nei romanzi o nei film dedicati ai succhiasangue.



Lasciando per un attimo da parte ciò che il film racconta, è venuto il momento di dire come lo fa. La messa in scena è semplicemente perfetta, a partire dalle splendide scenografie e dai costumi di Dante Ferretti, per non parlare della colonna sonora e del trucco dei vampiri (mi ha sempre molto colpito, in special modo, quello di Brad Pitt con quello strano rigonfiamento della mascella che lo fa sembrare un cucciolo perennemente magonato, ma anche quello di Tom Cruise è splendido, soprattutto quando Lestat diventa una sorta di vecchia mummia), per finire con l’ovvia parte “horror” che, per una volta, viene utilizzata con parsimonia ed è funzionalissima alla storia. Le scene dove viene mostrato il modo in cui i vampiri si nutrono hanno lasciato il segno nell’iconografia vampirica, perché se prima il non – morto infilava le zanne solo nel collo della vittima, in Intervista col Vampiro sono i polsi la fonte principale di nutrimento, assieme ad altre zone più o meno convenzionali: Neil Jordan non indugia troppo sui particolari macabri, ma non lesina nemmeno sul gore e su immagini emblematiche (come quella ambientata nel Theatre des Vampires, con la vittima uccisa davanti a un’intera platea di spettatori) o disgustose al limite del trash (come quella dove Lestat spreme letteralmente un topo per procurare sangue a Louis).



Infine, spendiamo due parole sugli attori. Sicuramente, quello di Louis non è il ruolo migliore di Brad Pitt, che col tempo si è dimostrato in grado di interpretare personaggi assai distanti dalla solita immagine di “bello e dannato”, tuttavia in Intervista col vampiro riesce a conferire una fragilità tutta particolare al triste e anche troppo umano Louis. D’altra parte, Tom Cruise qui da decisamente il meglio di sé. Il suo Lestat è un modello di spocchiosa bastardaggine, un elegante, raffinato e aristocratico assassino, a suo modo timoroso della solitudine congenita nella sua condizione e assolutamente incapace di abbassarsi a chiedere aiuto o mostrare affetto ai suoi “figli”. Ma l’interpretazione migliore è senza dubbio quella della giovanissima Kirsten Dunst, che imprime nel cuore dello spettatore l’indimenticabile figura di Claudia: un personaggio ambivalente e difficile, in bilico tra innocenza e spietata freddezza, emblema di salvezza e dannazione nonché fulcro dell’intera esistenza vampirica di Louis (che, non a caso, davanti allo scetticismo di Armand la definisce “il suo Amore”, non la sua amante). La sua presenza, in effetti, è così fondamentale da definire il vero inizio e la vera fine di Intervista col vampiro, tanto da rendere ciò che viene prima e dopo una mera cornice. In due parole, insomma, Intervista col vampiro è un caposaldo per chiunque ami non solo il cinema horror o quello “vampirico”, ma per tutti gli amanti del cinema fatto bene, quello con la C maiuscola.



Di Brad Pitt, che interpreta Louis, ho già parlato qui, mentre Stephen Rea, qui nei panni di Santiago, lo trovate qua. Anche il bell'Antonio Banderas, che interpreta Armand, ha avuto modo di partecipare al Bollalmanacco con questo post.

Neil Jordan è il regista della pellicola. Irlandese, lo ricordo per film dei generi più disparati, come In compagnia dei lupi, High Spirits – Fantasmi da legare, Michael Collins, In Dreams e La moglie del soldato, con il quale ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura. Anche sceneggiatore e produttore, ha 61 anni e un film in uscita.



Tom Cruise (vero nome Thomas Cruise Mapother IV, manco fosse un faraone…) interpreta il vampiro Lestat. Sicuramente uno degli attori più famosi del mondo, non tra i miei preferiti (tranne quando interpreta rari ruoli comici), lo ricordo per film più o meno “storici” come Legend, Top Gun, Il colore dei soldi, Cocktail, Rain Man – L’uomo della pioggia, Nato il quattro luglio, Giorni di tuono, Cuori ribelli, Codice d’onore, Il socio, Mission: Impossible, Eyes Wide Shut, Magnolia, Vanilla Sky, Minority Report, Austin Powers in Goldmember, L’ultimo samurai e Tropic Thunder. Americano, anche produttore, sceneggiatore e regista, ha 49 anni e due film in uscita, tra cui l’ennesimo seguito di Mission: Impossible.



Kirsten Dunst interpreta la piccola Claudia. A differenza di Tommaso Crociera, lei è invece una delle attrici che preferisco in assoluto, e la ricordo per film come Il falò delle vanità, il bellissimo Piccole donne, Jumanji, Small Soldiers, Spider – Man, lo splendido Se mi lasci ti cancello, Spider – Man 2, Elizabethtown, Maria Antonietta e Spider – Man 3. Ha inoltre partecipato a serie come Oltre i limiti ed E.R. e, infine, ha a doppiato Kiki nella versione inglese di Kiki Delivery Service e Anastasia in Anastasia. Americana, anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 29 anni e tre film in uscita, tra cui Melancholia, l’ultima pellicola di Lars Von Trier.



Christian Slater interpreta il giornalista Daniel. Slater è senza dubbio uno degli attori che ho avuto più modo di vedere “in azione” ed apprezzare, vista la marea di film interpretati, tra i quali ricordo Il nome della rosa, I delitti del gatto nero, Robin Hood principe dei ladri, lo splendido Una vita al massimo, Alcatraz – L’isola dell’ingiustizia, Nome in codice: Broken Arrow, Austin Powers e il geniale Cose molto cattive. Per la TV, ha partecipato ad episodi di Alias, My Name is Earl e ne ha doppiato parecchi di Robot Chicken. Americano, anche produttore e regista, ha 42 anni e dieci film in uscita.



Siccome il romanzo è stato scritto da Anne Rice nel 1973 (poi pubblicato nel ’76), l’attore che la scrittrice aveva in mente all’epoca per il ruolo di Lestat era Rutger Hauer, e si era pensato anche a John Travolta. Tuttavia la realizzazione di Intervista col vampiro è stata posticipata di vent’anni e i due attori sono diventati troppo vecchi per il ruolo, così la scelta è ricaduta, con iniziale disappunto della Rice, su Tom Cruise, anche se sarebbe stato molto più interessante vedere un Lestat interpretato da Johnny Depp. Tra le attrici in lizza invece per il ruolo della piccola Claudia (all’epoca Kirsten Dunst aveva 12 anni) c’erano la sempre validissima Christina Ricci, quella Julia Stiles che, negli anni a venire, ci avrebbe ammorbati con filmacci come Save the Last Dance o Le 10 cose che odio di te e Dominique Swain, diventata famosa qualche anno dopo per il ruolo di Lolita nell’omonimo e moscio remake del classico Kubrickiano. Scelta obbligata, invece, quella di Christian Slater, visto che Daniel avrebbe dovuto essere interpretato da River Phoenix, morto di overdose l’anno prima. Nei titoli di coda del film, infatti, si legge una dedica alla memoria del giovane attore. Di Intervista col Vampiro esiste anche un seguito del 2002, sempre tratto dai libri di Anne Rice ma nettamente inferiore, ai limiti dell’orrendo, La regina dei dannati. Dimenticatelo, e godetevi il trailer del film recensito, invece! ENJOY!

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