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martedì 10 dicembre 2019

L'ufficiale e la spia (2019)

Abbiamo sfidato il multisala per tre settimane e abbiamo vinto: L'ufficiale e la spia (J'accuse), diretto e co-sceneggiato da Roman Polanski, è durato fino a domenica e siamo riusciti ad andarlo a vedere col Bolluomo.


Trama: il Colonello Picquart, una volta messo a capo dei servizi segreti francesi, si ritrova tra le mani le prove dell'innocenza di Alfred Dreyfus, soldato condannato per alto tradimento.


Considerato il titolo internazionale dell'ultimo film di Polanski, stavolta non sono stati solo i malvagi titolisti italiani a prendere sottogamba lo spettatore, preferendo il didascalico L'ufficiale e la spia, giusto per dare un piglio più "moderno" alla storia, al J'accuse coniato dallo scrittore Emile Zola, entrato a far parte comunque del linguaggio comune e citato all'interno della pellicola. Non stiamo a spaccare il capello; in effetti, all'interno del film si sottolinea spesso il legame "a distanza" tra l'Ufficiale, ovvero il Colonnello Picquart, antisemita ma dotato di una profonda coscienza, e la presunta spia, ovvero Alfred Dreyfus, soldato di origini ebraiche accusato di aver venduto delle informazioni all'esercito tedesco e condannato ai lavori forzati sull'Isola del Diavolo. I due si parlano direttamente solo un paio di volte ma le loro vicende si intrecciano e influenzano le reciproche esistenze, oltre alla società francese della Terza Repubblica, tra crescenti sentimenti antisemiti e la nascita dell'impegno intellettuale moderno, quello in grado di influenzare l'opinione pubblica e portare le masse ignoranti a pensare (o a rimanere ancora più ignorante). A tal proposito, mi rifiuto di mettere bocca sull'affaire Polanski. Se il regista ha deciso di girare il film eleggendo Dreyfus a suo innocente alter ego sono affari suoi e mi ritengo una spettatrice abbastanza intelligente da essermi goduta L'ufficiale e la spia come un'ottima riproposizione storica di una vicenda tristemente attuale, vergognosamente intrisa non solo di razzismo ma anche di incompetenza, menefreghismo e desiderio di parare il culo a chi lo tiene al caldo nei piani alti, trincerandosi dietro la scusa di voler "salvaguardare il nome della Repubblica e della Francia" senza ammettere di aver sbagliato, rovinando non solo la vita a un uomo innocente ma anche facendo prosperare i reali colpevoli.


E' una vicenda conosciuta e che avrebbe potuto, con un altro piglio, risultare pedante o noiosa mentre Polanski decide di giocare la carta della spy story, tra complotti e attentati, e dei legal drama che vanno tanto per la maggiore oggi, riuscendo a spettacolarizzare gli svariati processi di cui si compone il film grazie a un mix vincente di dialoghi e attori bravissimi. Tutto è filtrato attraverso l'occhio di un perfetto Jean Dujardin, che interpreta il Colonnello Picquart, ufficiale dell'esercito per il quale la condanna di Dreyfus è come "aver purgato un organismo da un male terribile"; uomo nel pieno della sua carriera, nonostante l'antisemitismo e l'odio palese per Dreyfus, Picquart non si sottrae al suo senso del dovere e della morale nemmeno quando salvare Dreyfus significherebbe non solo venire degradato ed imprigionato, ma persino rischiare di essere messo a tacere in modi peggiori, mettendo in pericolo la propria vita e quella di amici, amanti e conoscenti. Il senso di angoscia che si respira dalla scoperta di documenti compromettenti è palese, par quasi che Picquart abbia tutti gli occhi addosso, sia quando effettivamente viene spiato dai suoi attuali o ex colleghi, sia quando il Colonnello è solo nel suo appartamento o nel suo studio. Assai forte è anche il senso di frustrazione che si prova guardando L'ufficiale e la spia, perché se è vero che la storia di Dreyfus è risaputa, pare comunque di essere stati inghiottiti da un incubo kafkiano, all'interno del quale la verità viene bloccata e negata tante di quelle volte da rasentare il surreale. Accanto a una storia interessante già di per sé, raccontata in modo moderno e spigliato, c'è ovviamente la messa in scena raffinata di Polanski, che non indulge nel sovraccarico visivo tipico dei film in costume ma preferisce concentrarsi sui protagonisti, sui loro sguardi e gesti, lasciando che la cinepresa indugi su piccoli dettagli fondamentali per capirne la psicologia e le motivazioni. Che siate o meno appassionati di questo genere di pellicole, che amiate oppure odiate l'"uomo" Polanski, è innegabile che L'ufficiale e la spia sia un film molto bello e lo consiglio a tutti.


Del regista e co-sceneggiatore Roman Polanski, che compare tra il pubblico del concerto, ho già parlato QUI. Jean Dujardin (Colonnello Jacques Picquart), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Mathieu Almaric (Bertillon) e Vincent Perez (Leblois) li trovate invece ai rispettivi link.

Louis Garrel interpreta Alfred Dreyfus. Francese, ha partecipato a film come The Dreamers - I sognatori, Van Gogh - Alla soglia dell'eternità e l'imminente Piccole donne. Anche regista e sceneggiatore, ha 36 anni e tre film in uscita.


Nei panni di Philippe Monnier compare l'attore e produttore Luca Barbareschi. Se vi fosse piaciuto L'ufficiale e le spia e vi interessasse il tema, recuperate L'affare Dreyfus. ENJOY!

venerdì 21 febbraio 2014

Monuments Men (2014)

Mercoledì sera sono andata a vedere Monuments Men (The Monuments Men), diretto e sceneggiato da George Clooney a partire dal libro The Monuments Men: Allied Heroes, Nazi Thieves, and the Greatest Treasure Hunt in History di Robert M. Edsel.


Trama: sul finire della seconda guerra mondiale un plotone di critici d’arte, architetti, restauratori ecc. si riunisce col nome di Monuments Men per recuperare le opere rubate dai nazisti ed impedire che, al momento della disfatta, quelle già trafugate vengano distrutte…


Dopo aver letto critiche tra il tiepido e il disgustato, mi sono accinta alla visione di Monuments Men a dir poco prevenuta, nonostante la presenza di due beniamini come Bill Murray e John Goodman. Alla fine non è andata male come temevo ma è indubbio che in Monuments Men qualcosa non abbia girato per il verso giusto e me ne sono accorta persino io che il libro di Edsel non l’ho mai letto (ma ho intenzione di farlo). Sulla carta, la storia vera di questi “eroi dell’arte” non è affascinante, di più: immaginatevi un gruppo di esperti che si sono giustamente incaponiti per salvare quanto di più prezioso abbia prodotto l’ingegno umano nel corso dei secoli, quelle opere che dovrebbero renderci orgogliosi e che, senza troppi giri di parole, assieme alle meraviglie della natura possono farci arrivare persino a credere nei miracoli ed elevarci dalle brutture della vita. Immaginatevi non tanto la piccineria di un ometto che voleva queste opere tutte per sé in un museo personale ma l’orrore derivante dalla scellerata decisione di DISTRUGGERE questi inestimabili tesori, patrimonio dell’umanità intera, nel caso l’ometto in questione avesse perso la guerra. La missione dei Monuments Men, lo capirebbe anche un bambino, è giusta, importante e legittima quanto quella di qualsiasi altro soldato, perché a che servirebbe la pace senza la bellezza e la cultura? Il problema però è che, come ha detto meglio di me Andrea Lupia nel suo articolo , sembra quasi che Clooney si scusi di continuo con lo spettatore medio per aver scelto di raccontare la storia di questi eroi poco convenzionali e che cerchi di giustificare la loro esistenza e ogni loro azione attraverso dialoghi, voci fuori campo, postille, lettere strappalacrime e quant'altro. Questi spiegoni giustificativi non solo rallentano mortalmente la prima parte della pellicola, ma dopo un po' suonano forzati e fastidiosi. Ma non è questo l'unico problema del film.


Come già accadeva nel più surreale L'uomo che fissava le capre, non a caso diretto dal produttore e co-sceneggiatore di Monuments Men, Grant Heslov, la pellicola non sa se essere seria o faceta e stenta a trovare un equilibrio tra la sua natura di storia vera e le esigenze di spettacolo. Alcuni momenti sono sinceramente emozionanti, come la sequenza in cui Bill Murray (il più bravo assieme a John Goodman e un inaspettato Bob Balaban) piange nella doccia o le terribili scene in cui i nazisti bruciano alcune tra le più belle opere d'arte esistenti, altri sono ironici al punto giusto, si veda la cena a lume di candela tra Damon e la Blanchett o l'incontro di Murray e Balaban con il giovane soldato tedesco, ma altre cose sono al limite del WTF. Nella fattispecie non capisco perché mai i francesi debbano sempre venire dipinti come dei poveri cretini sentimentali che vivono in un mondo tutto loro: va bene l'inesperienza del plotone, ma non puoi in mezzo alla guerra soffermarti ad ammirare la natura o imitare Chaplin quando ti stanno spianando dei mitra contro! E ci sarebbero tanti altri momenti in cui la simpatica guasconeria o il fine umorismo si trasformano in attentati contro l'intelligenza dello spettatore. A parte questo, comunque, gli attori sono tutti in gran forma e Clooney ci mette del suo, come regista, a non privare splendidi edifici e ancor più meravigliose opere d'arte (per quanto ricostruite) del loro naturale fascino: diciamo che, per quel che riguarda la scenografia, Monuments Men è talmente ben curato che varrebbe la pena vederlo anche solo per questo. Non sarà il film dell'anno, anzi, è stato sicuramente un po' deludente, ma racconta un importante pezzo di storia poco conosciuta... e se vi farà venire la curiosità, com'è successo a me, di leggere il libro da cui è stato tratto, tanto meglio!


Di George Clooney, regista, sceneggiatore della pellicola e interprete di Frank Stokes, ho già parlato qui. Di Matt Damon (James Granger), Bill Murray (Richard Campbell), Cate Blanchett (Claire Simone), John Goodman (Walter Garfield), Jean Dujardin (Jean Claude Clermont), Bob Balaban (Preston Savitz) e Grant Heslov (il dottore) ho già parlato invece ai rispettivi link.

Hugh Bonneville (vero nome Hugh Richard Bonneville Williams) interpreta Donald Jeffries. Inglese, ha partecipato a film come Frankenstein di Mary Shelley, Il domani non muore mai, Notting Hill, Ladri di cadaveri – Burke & Hare e alle serie Doctor Who e Downtown Abbey. Ha 51 anni e due film in uscita.


Nei panni del vecchio Stokes compare nientemeno che Nick Clooney, padre di George. Al posto di Matt Damon, invece, avrebbe dovuto esserci Daniel Craig, che però ha rinunciato per impegni pregressi. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Il treno e, ovviamente, Inglorious Basterds! ENJOY!

mercoledì 29 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street (2013)

In totale ritardo rispetto al resto del mondo, con somma vergogna ovviamente, martedì sono finalmente andata anch'io a vedere l'ultima fatica del mio amato Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, da lui diretto nel 2013 e candidato a 5 Oscar: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura non originale (la pellicola è tratta dall'autobiografia del vero Jordan Belfort), Leo Di Caprio Miglior Attore protagonista e Jonah Hill Miglior Attore non protagonista. Inutile dire che tifo per tutti loro!


Trama: il film racconta la vita sregolata, dissoluta e lussuosissima di Jordan Belfort, soprannominato giustamente Lupo di Wall Street per il modo spregiudicato con quale si arricchiva in borsa sulle spalle dei poveri gonzi...


A scanso di equivoci, togliamoci il dente: The Wolf of Wall Street non è IL capolavoro di Martin Scorsese ma è sicuramente uno dei suoi Capolavori, senza ombra di dubbio il migliore che abbia girato da dieci anni a questa parte. Per raggiungere l'apice avrebbe dovuto essere meno supercazzola e più tragicomico, così da consacrarsi definitivamente nel mio personale Olimpo, dove regnano incontrastati Quei bravi ragazzi e Casinò, con i quali The Wolf of Wall Street ha comunque parecchi punti in comune, in primis la forsennata, psichedelica e roboante parabola di autodistruzione in cui s'imbarca il protagonista a causa innanzitutto dei suoi peccati e, secondariamente, per colpa di consiglieri e amici poco fidati. Come già ai tempi Jimmy, Henry e Asso Rothstein, anche Jordan Belfort è un lupo e su questo non ci piove, un capobranco nato che non esita a spolpare vive le sue prede per "dare da mangiare" ai suoi seguaci, un Bravo Ragazzo della finanza che consapevolmente rinuncia a controllare i suoi appetiti e si annulla in un vortice di sesso, droga e denaro; a differenza degli altri, famosissimi criminali scorsesiani, però, Jordan ha il carisma, il cervello e, soprattutto, l'indipendenza del self made man capace di vendere (per citare Ghostbusters 2) "fumo e merda" ai boccaloni che gli capitano sotto tiro senza dover temere ritorsioni da parte di qualche sanguinario e permaloso boss della mala. Jordan è il capobranco, sopra di lui c'è solo l'FBI e sotto c'è un gruppo di scimmie ammaestrate alla "fine" arte dell'eloquio e della menzogna, dei burini con vestiti firmati, dei Neanderthal che venerano solo due dèi, Jordan e il Denaro, e che prendono a sputi, insulti e schiaffi chiunque non rientri nel ristretto novero dei loro idoli (il dialogo relativo ai nani o l'incontro con Steve Madden sono scioccanti in tal senso): persone vuote, stupide e, soprattutto, incapaci ed improduttive che, grazie ad apparenze e lingua svelta, vendono il nulla a gente altrettanto idiota, il paradosso su cui è costruita la nostra società.


Scorsese si siede davanti alla macchina da presa e ci riporta fedelmente questo mondo tribale, volgare, ridicolo e a tratti aberrante, senza ergersi a giudice ma mostrando alternativamente distacco e partecipazione, lasciando allo spettatore la scelta di rimanere affascinato o disgustato dalle immagini che scorrono sullo schermo. Sfruttando tutta la sua sapienza nel campo della regia, della fotografia e del montaggio, il vecchio Martin inganna impercettibilmente i nostri occhi assecondando gli stati psicofisici del protagonista e creando alla bisogna sequenze stridenti o leggermente sfocate quando Jordan è completamente fatto, ci stordisce con pregevoli piani sequenza, ci immerge nei balli, nei canti e nella depravazione (nei riti!) senza sorvolare su nessun dettaglio, nemmeno quello più scabroso, riempie lo schermo con primi piani e mezze figure del protagonista rendendolo un Dio anche ai nostri occhi, mescola senza soluzione di continuità immagini di repertorio, cartoni animati, spot veri ed inventati in un florilegio di immagini, dialoghi e musiche praticamente ininterrotto; Scorsese ubriaca consapevolmente il suo pubblico, conscio del fatto che almeno per il 90% i risvolti "finanziari" della vicenda non verranno recepiti e passeranno in secondo piano fino a risultare ininfluenti... proprio quello su cui contava Jordan nel corso della sua attività. Il risultato sono tre ore che sembrano una, dove l'attenzione non cala nemmeno per un attimo, anche perché Scorsese realizza senza dubbio il suo film più spassoso: la sequenza dove viene mostrato l'effetto del Quaalude prima al ralenti e poi in tempo reale è esilarante ma mai come quella del confronto "mentale" tra Jordan e il banchiere svizzero, che mi ha lasciata annientata e in lacrime a ridere da sola in mezzo alla sala gremita.


E a proposito di ridere, Di Caprio è mortale. L'avevo già detto per Django Unchained, lo ripeto: Leo, io ti ho perdonato. Tu sei un grande attore e io una capra svizzera che finalmente ha aperto gli occhi, continua su questa strada e non farmi pentire di quello che ho scritto. Di Caprio è nato per il ruolo di Jordan, si annulla completamente nel personaggio e in un attimo passa dal più squallido degrado ad essere il Re del Mondo, un carismatico sobillatore di dipendenti o un'ameba che rantola giù dalle scale in una delle scene più esilaranti dell'anno. Dire che è perfetto sarebbe un eufemismo, così come sarebbe riduttivo dare tutto il merito a lui e dimenticare lo stuolo di grandiosi caratteristi e sgnacchere che lo accompagnano, lo svergognato (nel senso di coraggiosissimo e senza vergogna) Jonah Hill in primis, ma non dimentichiamo Tappetino, il cinese mangione, un irriconoscibile Jon Bernthal e tutti gli altri "soggettoni" che magari compaiono solo per pochi istanti. In un lampo di genio, che spero sia voluto, Scorsese ha utilizzato un grandissimo attore (McConaughey) per insegnare al protagonista come si recita a Wall Street e ha messo tre registi  (Jon Favreau, Rob Reiner e Spike Jonze) a "dirigerlo"e cercare di frenare e regolare le sue ambizioni, per quanto inutilmente; inoltre, proprio per sottolineare la natura "pop" e a modo suo comica, caricaturale, dei personaggi rappresentati, non lesina la presenza di attori tirati fuori a forza dalle più famose serie televisive o di comici apprezzatissimi. E qui mi fermo. Ci sarebbero mille altre cose che vorrei dire ma davanti ai Capolavori tendo a perdermi inutilmente, diventando prolissa ma raffazzonata; ci sarebbero diecimila altre cose che sicuramente ho perso ma un film simile andrebbe visto perlomeno quattro o cinque volte per essere compreso e sviscerato appieno; ci saranno milioni di errori in queste mie indegne parole ma spero che da esse traspaia anche quell'Amore per Scorsese che dura fin dai miei primi passi nel meraviglioso mondo del Cinema e cazzo, questo è quello che conta. Non perdetevi assolutamente The Wolf of Wall Street, in italiano o in lingua originale, non fatevi assolutamente spaventare dalla durata o da altri futili pregiudizi perché questo è Cinema Vero, quello da vedere necessariamente in questi tempi di orrenda sciatteria.

Soocare.
Del regista Martin Scorsese (che in originale si può sentire parlare per telefono con Leonardo Di Caprio quando il suo personaggio vende le prime Penny Stocks) ho già parlato qui. Di Leonardo Di Caprio (Jordan Belfort), Matthew McConaughey (Mark Hanna), Kyle Chandler (agente Patrick Denham), Rob Reiner (Max Belfort), Jon Favreau (Manny Riskin), Jean Dujardin (Jean Jacques Saurel), P.J. Byrne (Nicky “Tappetino” Koskoff), Shea Whigham (Capitano Ted Beecham) e Spike Jonze (compare, non accreditato, nei panni di Dwayne, il “broker” che introduce Jordan al mondo delle penny stocks) ho già parlato ai rispettivi link. 

Jonah Hill (vero nome Jonah Hill Feldstein) interpreta Donnie Azoff. Americano, lo ricordo per film come 40 anni vergine, Suxbad: Tre menti sopra il pelo, Una notte al museo 2 – La fuga, 21 Jump Street, Django Unchained e Facciamola finita; come doppiatore, ha lavorato a film come Dragon Trainer, Megamind e l’imminente Lego Movie, oltre che per un episodio de I Simpson. Anche sceneggiatore e produttore, ha 30 anni e quattro film in uscita. 


Jon Bernthal interpreta Brad. Americano, famoso per essere stato lo Shane di The Walking Dead, lo ricordo per film come World Trade Center, Una notte al museo 2 – La fuga e Il grande match, inoltre ha partecipato ad altre serie come CSI: Miami, How I Met Your Mother, Numb3rs e doppiato un episodio di Robot Chicken. Anche animatore, ha 36 anni e un film in uscita. 


Ethan Suplee interpreta Toby Welch. Indimenticabile “comparsa” di moltissimi film di Kevin Smith nonché spalla di Jason Lee in My Name Is Earl, lo ricordo per l'appunto in pellicole come Generazione X, In cerca di Amy, American History X, Dogma e Clerks II. Americano, ha 37 anni e tre film in uscita.


Tra le millemila comparse che popolano la pellicola spunta anche Jake Hoffmann, figlio di Dustin, nei panni di Steve Madden (tra l'altro la scena è stata praticamente co-diretta da Steven Spielberg) e anche il vero Jordan Belford, che presenta Di Caprio alla folla sul finale. Se poi anche voi, come me, vi siete chiesti dove diavolo se l'è tirato fuori Matthew McConaughey quella sorta di rituale fatto al ristorante davanti ad un perplesso Di Caprio, sappiate che è una specie di "riscaldamento" che l'attore fa ogni volta prima di recitare. Per quanto riguarda gli attori esclusi, Amber Heard aveva fatto il provino per essere Naomi, ma alla fine il ruolo è andato all'australiana Margot Robbie; Julie Andrews era stata invece considerata per il ruolo di zia Emma mentre Ridley Scott avrebbe dovuto dirigere il film e per fortuna è finito a fare quella ciofeca di The Counselor o non avremmo avuto un simile capolavoro scorsesiano! Detto questo, se The Wolf of Wall Street vi fosse piaciuto, guardate anche Casinò, Quei bravi ragazzi, Il falò delle vanità e Wall Street. ENJOY!

giovedì 7 giugno 2012

The Artist (2011)

Con un ritardo di mesi sono finalmente riuscita a vedere The Artist, diretto nel 2011 dal regista Michel Hazanavicius e vincitore di ben cinque premi Oscar, tra cui miglior film e miglior attore protagonista.


Trama: George Valentin è una star del cinema muto che, per colpa del suo carattere vanesio ed orgoglioso, rifiuta di accettare l’avvento del sonoro. Nel momento in cui, però, viene abbandonato e dimenticato da tutti, una sola persona cerca di risollevarlo: la star nascente Peppy Miller.


Finalmente anche io potrò dire: l’ho visto. Mesi e mesi a sentire o leggere persone che si profondevano in lodi sperticate per questo The Artist, per la mancanza di sonoro, per l’uso del bianco e nero, per questo meraviglioso Dujardin, io ad aggrottare le sopracciglia rosicando per la mancata visione… e dopo tanta attesa, quel che mi vien da dire è “carino, sì. Molto carino”. E basta, però, perché mi è sembrato di leggere un episodio di X – Men: First Class. Storie mutuate dal passato, una copia quasi anastatica dello stile dei disegnatori e sceneggiatori anni ’60, aggiornate vagamente ai gusti del pubblico attuale e prive del fascino che innegabilmente possiedono le vecchie storie… o in questo caso i vecchi film muti. Volete mettere, infatti, Dujardin che gigioneggia mostrando 87 denti bianchissimi a capolavori come, che so, Metropolis o Nosferatu o Il monello? Io forse sono la persona più ignorante sulla faccia della terra, ma ritengo The Artist niente più che un divertissement cinefilo, una presa di posizione su come, in questi tempi di 3D, effetti speciali e storie arzigogolate, anche un film “semplice” possa riscuotere un successo mondiale. Ma da qui a gridare al capolavoro ne passa.


Non nego che la storia raccontata in The Artist sia molto coinvolgente, visto anche che parecchie star del muto sono entrate nella stessa spirale di autolesionismo e depressione che tocca il personaggio di George Valentin; la triste ed amara nostalgia richiamata dalle splendide musiche, dalle immagini di un tempo che non tornerà più, dai costumi vintage e persino dalle fumose (in senso letterale) sale cinematografiche gremite di spettatori ridenti e stupiti è palpabile per tutta la durata del film ed è quella particolarità che, sicuramente, me lo ha fatto apprezzare più di tutto il resto. Mi è piaciuta molto anche l’idea di rappresentare “fisicamente” il rifiuto di George Valentin, incarnato dall’incubo dove tutti parlano o emettono suoni tranne lui, oppure sul finale, quando dopo aver accettato il progresso il film si trasforma in una pellicola sonora; ho trovato anche molto azzeccato l’uso delle didascalie “ingannevoli”, soprattutto per il colpo di scena verso la fine. Gli attori, lo ammetto, sono tutti molto bravi. Oltre a Dujardin, che riesce a trasformarsi da insopportabile piacione ad umanissimo relitto alcolizzato senza risultare forzato o caricaturale, ho adorato l’interpretazione di James Cromwell nei panni del fedele autista Clifton e mi è molto piaciuta anche la frizzantissima Bérénice Bejo, nonostante la sua Peppy Miller sia da prendere a schiaffoni i parecchie occasioni. Però, la visione di The Artist non mi ha lasciata così soddisfatta da annoverarlo nell’elenco dei miei film cult. A ripensarci, sonoro a parte, con il bianco e nero avevano già giocato, tra gli altri, i Coen e Burton, tirando fuori due capolavori come L’uomo che non c’era e Ed Wood, pellicole da rivedere non una, ma mille volte. The Artist, invece, pur essendo un film di cui consiglio la visione, rimarrà lì, come un ricordo piacevole, ma nulla più.


Di John Goodman (Al Zimmer), Malcom McDowell (una delle comparse) e Missi Pyle (Constance) ho già parlato nei rispettivi link.

Michel Hazanavicius è il regista della pellicola. Francese, ha recentemente diretto Gli infedeli. Anche sceneggiatore e attore ha 45 anni e un film in uscita.


Jean Dujardin interpreta George Valentin. Francese, ha partecipato a film come Lucky Luke, Piccole bugie tra amici e Gli infedeli. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 40 anni e due film in uscita.


Bérénice Bejo interpreta Peppy Miller. Argentina, ha partecipato a film come Il destino di un cavaliere. Ha 36 anni e tre film in uscita.


James Cromwell interpreta Clifton. Americano, lo ricordo per film come Invito a cena con delitto, La rivincita dei nerds (con seguiti), Explorers, Pink Cadillac, Babe, maialino coraggioso, L.A. Confidential, Species II, Deep Impact, Babe va in città, Il miglio verde, Angels in America, inoltre ha partecipato a serie come MASH, La famiglia Bradford, La casa nella prateria, Casa Keaton, Dallas, Riptide, Supercar, Hunter, Ai confini della realtà, Magnum P.I., Quell'uragano di papà, E.R. - Medici in prima linea, Six Feet Under e 24. Anche produttore, ha 72 anni e due film in uscita.


Beth Grant interpreta la cameriera di Peppy. Americana, ha partecipato a film come Rain Man – L’uomo della pioggia, Il piccolo grande mago dei videogames, Linea mortale, La bambola assassina 2, La metà oscura, Speed, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar, Il dottor Doolittle, Donnie Darko, Little Miss Sunshine, Non è un paese per vecchi e a serie come Santa Barbara, Hunter, La signora in giallo, Friends, Jarod il camaleonte, Sabrina vita da strega, Angel, X – Files, CSI, Malcom, Six Feet Under, My Name is Earl, Bones, La vita secondo Jim, Medium e Criminal Minds. Anche regista, sceneggiatrice e produttrice, ha 63 anni e sette film in uscita.


Ed Lauter (vero nome Edward Matthew Lauter III), interpreta il maggiordomo di Peppy. Americano, lo ricordo per film come King Kong (quello del 1976), Cujo, La rivincita dei nerds II, Nato il quattro luglio, Una vita al massimo, Talladega Nights: The Ballad of Ricky Bobby, Number 23 e per serie come Charlie’s Angels, Magnum P.I., The A – Team, Miami Vice, La signora in giallo, Renegade, X – Files, Highlander, Walker Texas Ranger, Millenium, Streghe, E.R. – Medici in prima linea, CSI, Cold Case e Grey’s Anatomy. Ha 72 anni e due film in uscita. 
Penelope Ann Miller interpreta Doris. Americana, ha partecipato a film come Risvegli, Un poliziotto alle elementari, Charlot, Carlito’s Way, L’uomo ombra, Relic – L’evoluzione del terrore, The Messengers e a serie come L’albero delle mele, Casa Keaton, Miami Vice, CSI: NY, Desperate Housewives. Ha 48 anni e tre film in uscita.


Segnalo inoltre la presenza nel cast di Joel Murray (fratello del più famoso Bill Murray e storico amico “scemo” di Greg nella sit com Dharma e Greg), qui nei panni del poliziotto che segue il cagnolino allarmato dall’incendio. Altra menzione d'onore va doverosamente dedicata a Douglas Fairbanks, famosissimo divo dei film d'avventura anni '20-'30: il film che George Valentin guarda sul suo proiettore è infatti Il segno di zorro, che vede come protagonista l'attore americano e i cui piani ravvicinati sono stati modificati, sostituendo Fairbanks con Dujardin. Beccateve 'sta botta de cultura e... ENJOY!!




lunedì 27 febbraio 2012

Oscar 2012

Anche quest’anno l’appuntamento con gli Academy Awards è arrivato e passato, come un ciclone. Oddio, quest’anno è stato più un venticello, visto che non ha portato con sé neppure una sorpresa. The Artist ha fatto man bassa di premi (miglior film, Michel Hazanavicius come miglior regista, Jean Dujardin, che già aveva vinto lo stesso premio al festival di Cannes, miglior attore protagonista, miglior colonna sonora originale e migliori costumi) candidandosi come film da vedere assolutamente al ritorno dalla mia gitarella berlinese, per cui rimando eventuali giudizi e rosicchiamenti di dita dopo la visione. Però permettetemi di dire che almeno il premio come miglior regista a Martin Scorsese per lo splendido lavoro fatto con Hugo Cabret lo dovevano dare (mi andava bene anche quello a Malick per il bellissimo The Tree of Life, che invece meritava di vincere come miglior film, eh!!). Invece il film porta a casa una marea di premi tecnici, tra cui quello meritatissimo ai “soliti” Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti per la scenografia e quello per la migliore fotografia.


Parlando di “soliti”, indovinate un po’ a chi è andato invece il premio come miglior attrice protagonista? All’iperfavorita Meryl Streep, che nonostante The Iron Lady fosse un film per molti versi debole, ha dimostrato di essere attaccata ai suoi ormai ottantamila Oscar come una cozza allo scoglio. Chino il capo davanti all’ormai comprovata e quasi banale grandezza di Mrs. Streep, ma la povera Rooney Mara andava premiata per mille motivi. Chissà, forse per i prossimi film dedicati a Millenium, se ci saranno.


Jean Dujardin, come ho detto, ha vinto il premio come miglior attore protagonista. Ribadisco la sospensione di giudizio finché non avrò visto The Artist, ma sono contenta che abbia vinto lui rispetto ad altri mostri sacri che ormai hanno stufato (leggi Giorgio Clooney e Bradano Pitt). Per lui, la carriera stenta un po’ a decollare, ma ci sono già due film che lo aspettano. Staremo a vedere, anche se un po’ rimpiango il mancato premio a Gary Oldman, attore superbo ne La Talpa.


Forza, forza, vai vai! e giubilo a palate per la vittoria di Octavia Spencer come miglior attrice non protagonista. La sua interpretazione della forte, scafata e sfacciata cameriera di colore Minnie in The Help è praticamente perfetta e rispetta in pieno lo spirito del personaggio, rendendolo sfaccettato e interessante come nel libro. Nel futuro la aspettano cinque film, per ora le aspettative sono molto alte ma, si sa, spesso gli Oscar sono l’anticamera di una carriera mediocre. Speriamo che questo destino non tocchi la povera Octavia.


Altro mostro sacro, Christopher Plummer, premiato come migliore attore non protagonista per il film Beginners, uscito nelle sale italiane (pare!!) lo scorso dicembre. Nel film in questione, che vede anche la partecipazione di Ewan McGregor e della Mélanie Laurent di Bastardi senza gloria, Plummer interpreta un vecchio malato terminale di cancro che confessa al figlio di essere gay. Sospendo il giudizio anche su questa interpretazione, nonché su quella degli altri candidati, perché non ho visto nessuno dei film coinvolti. Come al solito, tra il tempo che manca e la scarsa distribuzione italiana, il mio approccio alla notte degli Oscar è poco meno che vergognoso.


Tra gli altri premi, quello per la miglior sceneggiatura originale è andato a Midnight in Paris (quello per la miglior sceneggiatura NON originale è andato invece a Paradiso amaro), mentre Rango ha surclassato, e per fortuna, il tristissimo Gatto con gli stivali e il debole Kung – Fu Panda 2. Grandissimo escluso, relegato ad avere solo nomination per premi tecnici che neppure ha portato a casa, Harry Potter e i doni della morte – parte II, che meritava un po’ più di considerazione, se non altro per il povero Alan Rickman che, nel mio cuore, sarà sempre il vincitore morale di un Oscar come miglior attore non protagonista nei panni del divino Piton. E con questo sproloquio da Piton addicted concludo, alla prossima edizione!!

lunedì 23 maggio 2011

Cannes 2011

Anche quest’anno il festival di Cannes si è concluso, con vincitori e vinti. Personalmente, non posso dire di avere vissuto appieno l’edizione 2011, non ero effettivamente troppo interessata, nonostante in giuria ci fossero Uma Thurman e Robert De Niro; in generale, comunque, mi è sembrata un’edizione un po’ sottotono, “vivacizzata” solo (se così si può dire) dall’infelice performance del regista Lars Von Trier durante la conferenza stampa per il suo ultimo film, Melancholia. Un’uscita che ha fatto parlare per almeno tre giorni la stampa mondiale e fatto dichiarare Von Trier “persona non gradita” al Festival, nonostante le parole del regista, se ascoltate con attenzione, suonassero più ironiche e volutamente provocatorie che seri deliri nazisti, come hanno urlato in molti. Tutta pubblicità per un regista più furbo che bravo, che tuttavia ogni volta porta parecchia fortuna alle protagoniste dei suoi film, come vedremo più avanti.

cannes-2011

Cominciamo quindi con l’elenco dei vincitori! La Palma d’Oro come miglior film, nonostante l’accoglienza tiepidissima del pubblico in sala, se l’è portata a casa il film The Tree of Life di Terrence Mallick (che peraltro è uscito la settimana scorsa anche dalle mie parti). Del regista avevo visto solo La sottile linea rossa, trovandolo davvero splendido, e sono convinta che anche The Tree of Life mi potrebbe piacere. Il film infatti racconta la vita di una famiglia americana e soprattutto di uno dei tre figli (interpretato da Sean Penn, mentre il padre è Brad Pitt) il quale sperimenta la graduale perdita dell’innocenza e cerca, in qualche modo, di ritrovarla, assieme al senso della vita, durante l’età adulta. Chi lo ha visto ha parlato come un’opera quasi new age, che accomuna le esperienze umane ai fenomeni naturali, un film sicuramente particolare e non per tutti, che mi incuriosisce parecchio. Cercherò di andarlo a vedere, per poter farmi un’opinione.

Mallick

Il premio per il miglior regista è volato in Danimarca, tra le mani di Nicolas Winding Refn, che personalmente non conosco, per il film Drive, dove uno ad uno stuntman viene messa una taglia sulla testa dopo un furto andato male. Un’americanata, insomma, per un regista che si era già concentrato sulla malavita con una serie di film dal titolo Pusher e che è stato già scritturato per dirigere il remake dello storico La fuga di Logan, un film di fantascienza ambientato in un mondo dove chiunque deve morire a trent’anni. Aiuto! La mia ora è scoccata!

WindingRefn

E’ rimasto in patria, invece, il premio per il miglior attore, che è andato al francese Jean DuJardin per il film The Artist, una storia d’amore ambientata nella Hollywood degli anni ’20, quando l’avvento del sonoro rischiava di mandare in pensione tutte le star del muto. Nel film figurano pezzi da novanta come John Goodman e Malcom McDowell e l’unica cosa che posso fare, non conoscendo ahimé nulla di questo Dujardin, è augurargli una carriera come la loro!

Jean-Dujardin

Conosco invece benissimo la vincitrice del premio come migliore attrice, visto che è una tra le mie preferite. Sto parlando infatti di Kirsten Dunst, che si è portata a casa il premio in virtù del fatto che Von Trier sarà anche stato dichiarato “persona non grata”, ma il suo Melancholia è rimasto in concorso. Il film in questione ci mostra gli ultimi giorni della vita sulla Terra, condannata a venire cancellata dallo scontro con un altro pianeta, Melancholia appunto. La trama si concentra in particolare su come vivono la vicenda una giovane neosposa (la Dunst) preda di una potente malinconia e la sorella di lei (Charlotte Gainsbourg, che ha vinto la palma d’oro come migliore attrice nel 2009, per un altro film di Von Trier, il controverso Antichrist). Siccome seguo Kirsten Dunst dai tempi di Piccole donne e dello splendido Intervista col Vampiro, dove interpretava la piccola vampira Claudia, sono strafelice della sicuramente meritata vittoria e non vedo l’ora che Melancholia esca da noi.

Kirsten-Dunst

Prima di chiudere, vorrei esprimere la mia felicità anche per un’artista che ho avuto modo di apprezzare in due film molto diversi, la francese Maiwenn (Alex in Alta Tensione e l’aliena Diva Plavalaguna de Il quinto elemento), che ha vinto il premio della giuria come regista del film Polisse, un’altra controversa storia d’amore che vede coinvolti una poliziotta sotto copertura e un ragazzo richiuso in riformatorio. L’aMMore quest’anno porta fortuna, pare, e ancora una volta l’Italia ha portato a casa poco o nulla. Ci rifaremo con Venezia? Ai posteri l’ardua sentenza… Nel frattempo vi lascio con il trailer originale di The Tree of Life. ENJOY!

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