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mercoledì 15 marzo 2023

Women Talking - Il diritto di scegliere (2022)

Il film che ha segnato la fine del mio tentativo fallito di recuperare per tempo tutte le opere candidate agli Oscar di quest'anno, nonché l'ultimo uscito nelle sale italiane, è Women Talking - Il diritto di scegliere (Women Talking), diretto e sceneggiato nel 2022 dalla regista Sarah Polley partendo dal romanzo omonimo di Miriam Toews, che alla fine ha vinto la statuetta per la Miglior Sceneggiatura Non Originale.


Trama: all'interno di una comunità religiosa retrograda ed isolata, un gruppo di donne deve decidere del destino di tutte le altre, anziane, adulte e bambine, dopo che gli uomini si sono resi protagonisti di crimini inenarrabili...


Women Talking viene presentato come "opera nata dall'immaginazione femminile" ma ciò che lo ha ispirato è agghiacciante e, purtroppo, legato ad una storia vera. Tra il 2005 e il 2009, nella colonia mennonita di Manitoba, in Bolivia, più di 100 donne sono state stuprate da un gruppo di uomini abitanti nella stessa colonia, i quali si sono serviti di un anestetico per animali spruzzato dalle finestre aperte per rendere inerti ed incoscienti le loro vittime. Quando dico più di 100 donne, parlo di un range di età che va dai TRE ai 65 anni, quindi ci sono state anche moltissime bambine e ragazze vergini che si sono risvegliate al mattino doloranti, ferite, con le lenzuola macchiate di sangue senza sapere perché e, se ciò non bastasse, gli anziani della colonia hanno cercato di convincerle che fosse o tutto frutto della loro immaginazione, oppure opera del Diavolo. Ora, per quanto mi riguarda un posto simile avrebbe dovuto essere raso al suolo e dato alle fiamme con all'interno ogni abitante di sesso maschile, possibilmente ancora vivo e urlante, dopo essere stato castrato con forbici arrugginite, ma purtroppo i colpevoli del gesto sono stati semplicemente condannati a una ventina di anni di prigione e, non sto nemmeno a dirvelo, gli stupri non sono mai cessati, solo diminuiti, mentre alle vittime è stata negata qualsiasi forma di aiuto psicologico, poiché durante gli atti erano incoscienti e quindi, signori, quale trauma avrebbero mai potuto subire? Vi giuro che mi tremano le mani mentre scrivo, porca di quella puttana. E ulteriore nervoso si aggiunge pensando a come buona parte del pubblico (soprattutto quello maschile) troverà Women Talking una menata "femminista" nata dalla mente contorta di una rompicoglioni figlia del #metoo, perché all'interno del film non si fa menzione (nel romanzo sì, per fortuna) ad eventi realmente accorsi, ma si parla solo di "opera nata dall'immaginazione femminile", e se non è un autogol questo, non so davvero come definirlo. Anche perché un film come Women Talking, dato in pasto a un pubblico suscettibile come quello attuale, rischia davvero di non venire capito perché tiene fede in toto al suo titolo originale: nella pellicola di Sarah Polley ci sono solo donne che parlano, e la vicenda si concentra in una riunione lunga due giorni tenuta all'interno di un fienile, per decidere quale sarà il destino delle abitanti della colonia, costrette a scegliere tra restare e perdonare, restare e combattere oppure andarsene, pena la scomunica.


Pubblico avvisato, mezzo salvato: se odiate i film di impianto teatrale e zeppi di dialoghi, con l'azione ridotta a pochi flashback di orribile, suggerita crudeltà, state pure lontani da Women Talking, nessuno ce l'avrà con voi per questo. Se, invece, dopo quello che ho scritto sopra, avete la curiosità di capire quali riflessioni possono scatenare eventi così orribili, soprattutto all'interno di una comunità di donne fortemente religiose la cui fede è in buona parte basata su pacifismo, comprensione, perdono e ricerca del "buono" in tutte le sue forme, allora questo è il film che fa per voi. Viceversa, vi perderete alcune delle più belle ed intense interpretazioni dell'anno. Ognuna delle protagoniste ha una personalità ben definita che consente, alle attrici che le interpretano, di attingere ad una vasta gamma di emozioni alimentate e modificate da importanti riflessioni su vita, salvezza, sicurezza e futuro, e che dà origine ad un'unica voce sfaccettata, formata da tanti punti di vista diversi eppure accomunati dalla natura storicamente "debole" ed ignorata di chi tenta disperatamente di farsi sentire. Rooney Mara è di una delicatezza incredibile, la sua fragilità sognante spezza il cuore quanto l'interpretazione malinconica di Ben Whishaw, l'unico interprete maschile nonché l'unico uomo della comunità che si apre alla voce delle donne, mentre dalla parte opposta c'è la giusta e feroce rabbia di Claire Foy e Jessie Buckley, che personalmente avrei seguito in capo al mondo per fare scempio di uomini malvagi (il monologo della Foy mette i brividi, considerato quello che è successo davvero in Bolivia); nel mezzo, ci sono tutte le incredibili sfumature offerte da un cast eccezionale, dalle "anziane" Judith Ivey e Sheila McCarthy, passando per Michelle McLeod, per arrivare alle esordienti Kate Hallett Liv McNeil con la prima, in particolare, dotata di un'espressività capace di renderla indimenticabile. Ciliegina sulla torta è la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir, che asseconda con grazia l'atmosfera malinconica e, a tratti, persino lieve (Sometimes I think people laugh as hard as they want to cry) di un opera che riesce, nonostante i temi trattati e nonostante la fotografia "sbiadita" di un mondo chiuso ed inghiottito dal passato, a offrire un raggio di luminosa speranza sia allo spettatore che alle sue sfortunate protagoniste, a differenza di moltissimi dei candidati di quest'anno. 


Di Rooney Mara (Ona), Claire Foy (Salome), Sheila McCarthy (Greta), Jessie Buckley (Mariche), Frances McDormand (Janz) e Ben Whishaw (August) ho parlato ai rispettivi link.

Sarah Polley è la regista e co-sceneggiatrice del film. Canadese, più conosciuta come attrice, ha diretto film come Away from Her - Lontano da lei e Take This Waltz. Anche produttrice, ha 44 anni. 


Se Women Talking vi fosse piaciuto recuperate Room, Charlie Says e First Reformed (li trovate tutti su Amazon Prime Video, anche se solo Charlie Says è compreso nell'abbonamento base). ENJOY!

martedì 6 settembre 2022

Men (2022)

L'ultimo film che volevo assolutamente vedere la settimana scorsa era Men, diretto e sceneggiato da Alex Garland.


Trama: dopo una tragedia legata al suo matrimonio, Harper decide di rifugiarsi per un paio di settimane in un paesino della campagna inglese dove, tuttavia, comincia a venire perseguitata da uno strano uomo...


Come ho scritto su Facebook, ho paura che io e Alex Garland non andiamo d'accordo... o, forse, non ci siamo mai andati, di sicuro qualcosa si è rotto dopo la passione provata per Ex Machina, visto che Annientamento mi aveva lasciata molto fredda. Lo stesso, mi duole dirlo, vale per questo Men. Come Annientamento, Men non è brutto, anzi. Ce ne fossero, di film "brutti" così, zeppi di immagini bellissime e calibrate al millimetro, pregne di significato, film coraggiosi fatti di sequenze in cui sono colonna sonora, attori, regia e fotografia, senza nemmeno un dialogo, a parlare; tutta la lunga introduzione in cui Harper passeggia da sola per la campagna inglese, cerca se stessa nella solitudine, nella melodia della sua voce che gioca con un'eco, innocente come una bambina, rasenta la perfezione e la pura poesia, mentre il finale, anch'esso silenzioso ma violentissimo e disgustoso, ne è il perfetto contraltare ed è, non a caso, virato nel rosso, il colore complementare del verde della natura. Men è un film d'Autore, nella misura in cui Garland ha voluto fare un personale ragionamento non solo sulla condizione odierna del genere maschile partendo da miti ancestrali come quelli del Green Man (simbolo di rinascita) e della Sheela na gig (antichissimo simbolo di fertilità ma anche protezione contro il male, potere femminile) ma anche sul modo di affrontare il dolore e la paura senza lasciarsi divorare, accettandone piuttosto le molteplici sfaccettature. La scelta del regista di girare un horror che va contro ogni topos del genere, addirittura privando la final girl delle sue "solite" caratteristiche di catartica dea vendicativa, è coraggiosa, come ho detto prima, e ha tutto il mio rispetto. Eppure, nonostante i messaggi di Men siano arrivati forti e chiari, nonostante mi tolga umilmente il capello davanti alla perizia tecnica e all'occhio del regista, non sono riusciti a coinvolgermi.


Men mi è sembrato un freddo manuale, una proposizione di "situazioni", con una protagonista che viene connotata solo dalla tragedia che l'ha spinta a rifugiarsi in campagna. Intendiamoci, ciò che è successo ad Harper è orribile ed ingiusto, ma chi era questa donna prima della tragedia e perché dovrebbe importarmi di una persona solo perché, come carico a coppe, viene anche costretta a subire le violenze più o meno dirette di archetipi maschili? Harper, per quanto interpretata da una bravissima Jessie Buckley, non mi ha fatto né caldo né freddo e l'empatia provata verso di lei è nata solo dallo schifo verso ogni personaggio incarnato da Rory Kinnear, ma lì si gioca facile: abbiamo l'uomo apparentemente gentile ma comunque asfissiante e palesemente pieno di pregiudizi, il prete che vede nella vagina tutti i mali del mondo, il ragazzino maleducato, il poliziotto privo di empatia, il matto violento e l'essere totalmente alieno ed incomprensibile, simbolo dell'ineluttabilità e della ciclicità di una natura che, purtroppo, è principalmente fatta di dolore, quindi è normale provare fastidio davanti ad ognuno di loro. E' l'enormità del METAFORONE che mi ha fatto storcere il naso, il ritrovarmi davanti  un film che probabilmente lo affronta in maniera troppo sussurrata, quando io sono per le cose più caciarone, maggiormente propensa a prendere il metaforone e ridurlo a più miti consigli trattandolo con l'irriverenza e la ferocia che meriterebbe, in quanto non dovrebbero esistere Harper e nemmeno Geoffrey, né vittime di un dolore imposto né stronzi che rendono la vita più difficile di quanto già non sia. Ma probabilmente è un limite mio, visto che Men sta ottenendo moltissimi consensi e, pertanto, vi invito a leggere la bella recensione di Germano, che è tornato a parlare di cinema in pianta stabile. E, magari, a raccontarmi nei commenti cosa ne pensate di Men


Del regista e sceneggiatore Alex Garland ho già parlato QUI. Jessie Buckley (Harper) e Rory Kinnear (Geoffrey) li trovate invece ai rispettivi link.



 

venerdì 8 aprile 2022

La figlia oscura (2021)

Apparso come una meteora il 31 dicembre su Netflix, dov'è rimasto solo per 24 ore, è uscito ieri al cinema La figlia oscura (The Lost Daughter), diretto e sceneggiato nel 2021 dalla regista Maggie Gyllenhaal a partire dal romanzo omonimo di Elena Ferrante.


Trama: Leda è una professoressa di lingue e traduttrice in vacanza in un'isola della Grecia. Lì, l'arrivo della giovane Nina e della sua famiglia scatena nella donna dolorosi ricordi...


Lungi da me voler fare la splendida, ma non sapevo affatto che La figlia oscura fosse stato tratto da un libro della Ferrante e mi è venuto da ridere quando, guardando il film, ho pensato "sembra uno spin-off de L'amica geniale" solo per poi scoprire che, effettivamente, l'autrice era la stessa. Lungi da me passare anche per esperta di Elena Ferrante, visto che ho letto solo la già citata quadrilogia de L'amica geniale, eppure il modo in cui l'autrice riesce a parlare di donne soffocate dalle convenzioni della società è facilmente riconoscibile e, oserei dire, unico. Come Lina e Lenù, anche Leda è una donna dal passato zeppo di dolore e rimpianto, a cui guarda, in età già matura, dopo l'incontro con la giovane Nina e la figlioletta Elena; giovane promessa della letteratura e della traduzione, Leda ha vissuto gli anni dell'affermazione professionale "schiacciata" dalla presenza di due bambine piccole e di un marito dal futuro promettente ma incerto quanto il suo, in un torbido miscuglio di amore per la famiglia e desiderio di essere libera e affermata senza essere limitata dal ruolo di madre e moglie. Da donna priva di figli e non ancora sposata, non posso che apprezzare il modo in cui la Ferrante (e in questo caso la Gyllenhaal, che ne accoglie il punto di vista riportandolo sullo schermo) tratteggia queste donne che vivono nella vergogna di avere desideri egoistici ai quali si abbandonano con un costante senso di colpa a pungolarle, dolorosamente consapevoli di quello che la società pretende da loro e straziate dall'innegabile sentimento di amore profondo e odio infastidito che alternativamente provano davanti alle creature che hanno messo al mondo; ipocritamente, penso ogni volta "ma guarda tu sta stronza", per poi sciogliermi in lacrime pensando "ma poveraccia, che vita orribile", presa dallo stesso dilemma sociale e morale di queste donne complicate e fragili, dalla psiche spesso appesa a un filo.


La figlia oscura
, a scanso di equivoci, è "solo questo". Nonostante il titolo inquietante, che evoca l'idea di un thriller psicologico, è la storia di una donna in vacanza che commette un solo, grande errore nel corso della stessa, un errore che la distanzia anche da chi vorrebbe la capisse, quella giovane mamma intrappolata da una famiglia che veglia su di lei e sulla sua bambina senza lasciarle un attimo di respiro. La regia evocativa della Gyllenhaal trasforma la rilassante vacanza nell'assolata Grecia in un angosciante limbo all'interno del quale passato e presente si fondono e la fragilità mentale si fa anche fisica, tra sprazzi di vicende che hanno ormai acquisito i contorni di un sogno (o un incubo) e una realtà "nemica", dove ogni cosa può essere fonte di fastidio, se non addirittura di pericolo; il montaggio di Affonso Gonçalves, già abituato a narrazioni simili, rende i passaggi tra presente e passato incredibilmente fluidi e naturali e, nonostante questo, riesce a trasmettere allo spettatore la stessa confusa inquietudine di cui è preda Leda. Il punto di forza de La figlia oscura, tuttavia, sono state per me le interpretazioni. Olivia Colman è da anni una certezza e ho amato tantissimo la fragilità che la sua Leda cerca di dissimulare con un atteggiamento consapevole e spavaldo, le sue chiacchiere "impanicate" e la sua profonda tristezza, ma la sorpresa del film è stata Jessie Buckley, che interpreta Leda da giovane conferendole quel fascino "scazzato" tipico dei personaggi della Ferrante, offrendo il ritratto di una donna carismatica ma dalle profonde insicurezze, capace di grandi gesti di affetto e anche di crudeltà inaudita (lo so, io che non ho figli dovrei stare zitta, ma davanti alla bambina che chiede semplicemente un bacino sul dito tagliato mentre la madre nemmeno la guarda, ho provato l'insana voglia di strozzare Leda). Come avrete capito, La figlia oscura è uno di quei slow burn psicologici in cui succede davvero poco o nulla e che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare dall'atmosfera; a me è piaciuto parecchio ma se non amate questo genere di film state lontani chilometri. 


Della regista e co-sceneggiatrice Maggie Gyllenhaal ho già parlato QUI. Olivia Colman (Leda), Dakota Johnson (Nina), Ed Harris (Lyle), Peter Sarsgaard (Professor Hardy) e Alba Rohrwacher (escursionista) li trovate invece ai rispettivi link.

Jessie Buckley interpreta Leda da giovane. Irlandese, ha partecipato a film come Judy, Sto pensando di finirla qui e a serie quali Chernobyl e Fargo. Anche cantante, ha 33 anni e due film in uscita. 


Oliver Jackson-Cohen interpreta Toni. Inglese, lo ricordo per film come The Raven, L'uomo invisibile e per le serie Hill House, The Haunting of Bly Manor. Ha 36 anni e due film in uscita. 





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