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venerdì 13 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice (2024)

Nonostante qualche perplessità non potevo perdermi Beetlejuice Beetlejuice, diretto dal regista Tim Burton.


Trama: Lydia e la figlia Astrid sono costrette a tornare a Winter River per partecipare a un funerale. Lì, per una serie di circostanze, avranno di nuovo a che fare col bioesorcista Betelgeuse.


Non avevo grandi speranze quando ho deciso di andare al cinema a vedere Beetlejuice Betlejuice. Ormai dai tempi di Planet of the Apes, Burton non è più quello di un tempo, e il massimo che mi sarei aspettata è un prodotto dignitoso, in grado di farmi passare un paio d'ore in tetra allegria. Fino alla fine del primo tempo, in realtà, mi sono sentita invece come Califano. Tra nuovi personaggi abbastanza sciapi, vecchie conoscenze che non sembrano essersi evolute dagli anni '80 e omaggi alla prima pellicola, la sensazione è stata quella di una storia che stentava a decollare, schiacciata nella noia di un'introduzione infinita. Tutto il primo atto, infatti, serve a presentarci una Lydia ormai cresciuta, con figlia annessa che la odia a causa di un lavoro derivante dalla sua capacità di vedere qualsiasi fantasma tranne quello dell'adorato padre defunto. La sceneggiatura scava nelle dinamiche familiari dei Deetz, che subiscono uno scossone alla morte di un altro padre, quello di Lydia; l'evento costringe le donne superstiti, assieme al nuovo compagno di Lydia, Rory, a tornare a Winter River e ad affrontare un passato ancora ben radicato all'interno del diorama dei coniugi Maitland, ma finché non arriva l'unico, imprevedibile twist della pellicola, il tempo scivola via lento tra recriminazioni, bizzarrie e imbarazzi. La cosa che mi ha soprattutto fatto specie è vedere la tosta Lydia ridotta a cretinetti insicura, incapace di riconoscere il belinone che la sorte le ha messo accanto e di comunicare con una figlia ben più odiosa di quanto fosse lei da adolescente. Ha un bel daffare Delia a parlare di Karma, quando la realtà è che la rossa wannabe artista, nonostante il disprezzo di Lydia, ha sempre avuto un carattere egoista e volitivo, mentre la figliastra è diventata un'ameba dallo sguardo stralunato (lì, probabilmente, ci ha messo del suo anche la Ryder, che negli anni si è legata al ruolo di Joyce Byers e non ne è più uscita). Il film si risolleva un po' quando l'aldilà torna a farla da padrone, con le sue stranezze e la grottesca burocrazia sbattute in faccia senza pietà agli umani inconsapevoli, e quando, ovviamente, la presenza di Beetlejuice comincia a farsi un po' più preponderante. Da quel momento, se non altro, il ritmo aumenta e si torna a divertirsi, a dispetto della costante sensazione di avere davanti tre film in uno, rabberciati alla bell'e meglio come la bellissima Sall.... ehm, Delores di Monica Bellucci.


Ha i suoi momenti, Beetlejuice Beetlejuice. Al di là dell'innegabile bellezza dei costumi di Coleen Atwood, delle scenografie, e di parecchi effetti speciali artigianali, il film raggiunge apici notevoli, per esempio, quando si affida alla verve della divertentissima Catherine O'Hara e alla sua elaborazione del lutto, fa battere il cuore nei momenti in cui Burton si convince di stare girando un horror e mette in campo un terrificante neonato frutto dell'empia unione tra Baby Killer e il cadaverino di Trainspotting, e poco prima del finale riesce persino a commuovere nonostante la faciloneria con cui i personaggi ci lasciano le piume. Il resto, purtroppo, l'ho trovato molto superficiale, oppure tirato per le lunghe. Non c'è stato, da parte mia, alcun coinvolgimento emotivo davanti a drammi familiari o ricongiungimenti, e onestamente avrei preferito che il personaggio interpretato all'epoca da Jeffrey Jones non venisse proprio utilizzato "fisicamente" (se decidi, giustamente, di non coinvolgerlo in quanto predatore sessuale pluricondannato e ritiratosi dalla recitazione da anni, mi pare assurdo infilare delle sue foto o animazioni in stop motion dal sembiante identico, o sfruttare un personaggio senza testa, ma perché?). Il numero musicale verso la fine richiama quello iconico della cena coi gamberetti, ma è davvero lunghissimo e, anche se io l'ho apprezzato ridendo parecchio, capisco perché uno dei miei compagni di visione si sia addormentato; allo stesso modo, enorme rispetto verso Burton per la scelta di utilizzare la melodia che accompagna il finale di Carrie - Lo sguardo di Satana, ma francamente mi è sembrato che la conclusione onirica di Beetlejuice Beetlejuice fosse attaccata con lo sputo, messa lì giusto per dare la possibilità di realizzare un altro sequel. D'altronde, il nome del bioesorcista va pronunciato tre volte, non mi stupirei se tra qualche anno arrivasse Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice. Nell'attesa (e non tratterrò il respiro, non mi va di finire laggiù e prendere il numero), per me è un nì. Non è un film che riguarderei, sono contenta comunque di averlo visto, ma temo che la settimana prossima l'avrò già dimenticato. Peccato.  


Del regista Tim Burton ho già parlato QUI. Michael Keaton (Beetlejuice), Winona Ryder (Lydia Deetz), Catherine O'Hara (Delia Deetz), Jenna Ortega (Astrid Deetz), Justin Theroux (Rory), Willem Dafoe (Wolf Jackson), Monica Bellucci (Delores) e Danny DeVito (uomo delle pulizie) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Beetlejuce Beetlejuice vi fosse piaciuto, recuperate Beetlejuice, La sposa cadavere e The Nightmare Before Christmas. ENJOY!

 

venerdì 8 ottobre 2021

Bollalmanacco On Demand: Mulholland Drive (2001)

Mi devo scusare. E' più di un anno che ho abbandonato gli On Demand, lasciando richieste a macerare da tempo ormai immemorabile. Soprattutto, mi devo scusare con Bobby Han Solo perché ho deciso brutalmente di saltare la visione di Ciao Ni!. Ormai se riesco a vedere due film a settimana posso accendere un cero alla Madonna e con tutto quello che di bello c'è da recuperare, vivrei la visione di un film scritto e interpretato da Renato Zero come una privazione: puniscimi pure con la richiesta di qualche horror di serie Z, italiano, orribile, inguardabile, giuro che stavolta non mi sottrarrò! Scusami ancora! Ciò detto, oggi tocca ad Arwen Lynch e alla sua richiesta di un post su Mulholland Drive, scritto e diretto nel 2001 dal regista David Lynch. Il prossimo film On Demand dovrebbe essere A caccia di un sì, chiesto dalla mitica Alessandra. ENJOY!


Trama: Betty, giovane attrice di belle speranze ospite nell'enorme casa della zia, trova come inaspettata inquilina una ragazza che, dopo un incidente, ha perso la memoria e si fa chiamare Rita. Le due decidono di indagare sul passato di Rita ma non sarà così facile...


Ho guardato per la prima volta Mulholland Drive ai tempi dell'università, quando riuscivo (ah, bei tempi!) a spararmi anche due film al giorno. La grossa quantità di pellicole viste in una settimana è però uno dei motivi per cui ricordavo ben poco di un film che avevo capito ancora meno, e l'unica cosa che si era impressa nella mia corteccia cerebrale era stata la comparsa improvvisa del terrificante clochard che porta allo svenimento il povero Patrick Fischler, cosa che, fortunatamente, mi ha impedito di saltare nuovamente sulla poltrona per lo shock. Stavolta devo ammettere che, anche grazie ai post di Edoardo, la visione di Mulholland Drive è stata molto più "facile" della precedente e sono riuscita così a godermi anche la bellezza formale di questo sogno (o incubo) messo su pellicola, innamorandomi soprattutto dell'interpretazione di una Naomi Watts semplicemente perfetta, un vero e proprio Giano bifronte capace di lasciare spiazzati. La sua Betty, attrice ingenua, pura ed innocente eppure dotata di un talento per la recitazione fuori dal comune, è l'ideale protagonista di una storia che più "hollywoodiana" non si può, un noir a base di donne splendide e prive di memoria, seguite da pericolosi criminali, che coinvolgono (e sconvolgono) persone ignare che si ritrovano a doverle aiutare affrontando esperienze al limite del surreale. Accanto a quella di Betty, c'è un'altra storia che sembra uscita dritta da una sceneggiatura hollywoodiana, magari qualche gangster movie alla Tarantino o dal sapore mafioso, ovvero quella del regista Adam, costretto da criminali senza scrupoli a scritturare un'attricetta per il suo nuovo film, pena vedersi privare di fama, ricchezza e vita. Cos'hanno in comune queste due storie lo scoprirete, ahimé, solo nella seconda parte del film, quando si paleserà il fil rouge (o fil bleu, fate voi) che percorre Mulholland Drive dall'inizio alla fine... o magari arriverete ai titoli di coda senza averci capito un'acca, cosa molto probabile.


Seguendo quanto mi ha suggerito il cervellino, l'unico modo di affrontare Mulholland Drive è partire dalla consapevolezza che sogno e realtà sono ribaltati: ciò che sembra lineare e comprensibile, oserei dire "sicuro", nonostante la particolarità delle situazioni presentate, è proprio il sogno nato dalla frustrazione e dal senso di colpa di una persona impazzita per amore e gettata via senza troppa considerazione, mentre nel momento in cui l'unità temporale si frammenta e le visioni cominciano a farla da padrone mescolandosi ai flashback, allora siamo di fronte all'impietosa realtà in cui Betty (amata dalla zia, solare, coccolata dagli sconosciuti e attrice dal talento smisurato) non esiste ma c'è solo Diane, un'attricetta spiantata dal carattere cupo e bizzoso, decisa a vendicarsi della donna che l'ha sedotta e abbandonata per un regista (che, nel sogno, ovviamente viene vessato in ogni modo possibile e immaginabile). Nel mezzo delle due realtà, un confine che sembra la Loggia Nera di Twin Peaks, dove un mefistofelico presentatore continua a ripetere "Silencio, no hay banda" (consegnando allo spettatore la chiave dell'intero film) e dove una cantante distrugge con un solo, tristissimo brano, sia il sogno che la realtà, dando modo agli elementi stridenti del primo di invadere la seconda con tutta la terrificante gioia della follia che cancella ogni cosa. Questo paragrafo prendetelo col beneficio d'inventario, ché potrebbe essere tutto un tentativo di bullarmi fingendo di averci capito qualcosa, che ne sapete?


Quello che è sicuramente innegabile, al di là di tutte le interpretazioni, delle inquietanti scatole blu più potenti della Torre di King e delle ancor più inquietanti chiavi che le aprono, è la bellezza di Mulholland Drive e sì, anche la sua capacità di intrattenere lo spettatore. Il sogno di Betty è giustamente coinvolgente, così come il mistero di Rita, e non c'è vergogna alcuna nel godersi staccando un po' il cervello le disgrazie di Adam, prendendo tutta la ridda di assurdi personaggi incontrati, il Cowboy in primis, come figure bizzarre e grottesche messe giusto per incuriosire ancor più lo spettatore; epurato da tutti gli elementi palesemente onirici, il sogno di Betty è una semplice storia ricca di suspance in cui le due protagoniste, a poco a poco, arrivano ad amarsi nonostante Betty sappia che, probabilmente, Rita nasconde qualcosa di oscuro che potrebbe ostacolare questo amore. E' un sogno godibile, forse un po' ingenuo e sciocchino, che lascia a bocca aperta per la bravura di Naomi Watts (il provino di Betty è qualcosa di splendido) e la bellezza sensualissima di Laura Harring, e che rende ancora più preziosi i momenti di vera "locura", quando tutto si confonde; le luci rosse e blu nell'ipnotica sequenza del Club Silencio, il senso di tristezza e imminente tragedia così tangibile che, anche non capendo nulla, viene da piangere assieme a Rita e Betty, l'orrore che viene vomitato in quel finale da brividi, da tapparsi le orecchie, la "condanna" definitiva della donna dai capelli blu, sono quei tocchi lynchiani che rendono Mulholland Drive un gioiello raffinatissimo e fanno venire voglia di riguardare da capo tutte le opere del regista per reimmergersi nei suoi sogni, nei suoi incubi e nei suoi deliri. Basta solo buttarsi senza paura!


Del regista e sceneggiatore David Lynch ho già parlato QUI. Naomi Watts (Betty/ Diane Selwyn), Laura Harring (Rita/Camilla Rhodes), Robert Forster (Detective McKnight), Brent Briscoe (Detective Domgaard), Patrick Fischler (Dan), Dan Hedaya (Vincenzo Castigliane), Justin Theroux (Adam) e Melissa George (Camilla Rhodes) li trovate invece ai rispettivi link. 


Tra le guest star del film segnalo Michael Anderson, che interpreta Mr. Roque e che era il nano di Twin Peaks, il compositore Angelo Badalamenti, che interpreta Luigi Castigliane, Billy Ray Cyrus (Gene), la cantante Rebekah del Rio nei panni di se stessa e nientepopodimeno che Laura Palmer e Ronette Pulaski in mezzo al pubblico del Club Silencio. A proposito di Twin Peaks, a quanto pare Lynch aveva già pensato a Mulholland Drive nei primi anni '90 come spin-off della serie e le vicende di Betty sarebbero dovute capitare ad Audrey Horne, personaggio principale dello spin-off in questione; lo spin-off è poi diventato il pilot per un'altra serie (intitolato Mulholland Dr.), rigettata dalla ABC perché incomprensibile e noiosa, e infine il film che conosciamo tutti. Se Mulholland Drive vi fosse piaciuto recuperate le tre stagioni di Twin Peaks, Inland Empire e Strade perdute. ENJOY!

domenica 29 settembre 2019

Bollalmanacco On Demand: Inland Empire - L'impero della mente (2006)

Dopo millemila giorni torna il Bollalmanacco On Demand. Ce n'è voluta, eh, ma alla fine sono riuscita a finire di vedere Inland Empire - L'impero della mente (Inland Empire), scritto e diretto nel 2006 dal regista David Lynch e chiesto dall'adorata amica Silvia. Il prossimo film On Demand dovrebbe essere Penelope. ENJOY!


Trama: dopo avere ottenuto il ruolo tanto desiderato, un'attrice smette di distinguere la realtà dalla finzione e si perde in un allucinante trip di eventi...



Siccome di Inland Empire non si può proprio parlare, vi tedierò un po' con qualche aneddoto personale che giustifica anche perché ci ho messo così tanto per sfornare un nuovo post On Demand. L'ultimo lungometraggio di David Lynch (se non vogliamo considerare tale l'ultima serie di Twin Peaks) dura quasi tre ore e io, ovviamente, tutto questo lusso temporale non ce l'ho. Sono vecchia, ormai ho 38 anni, prima delle 21.30 non riesco a cominciare a guardare film (e considerate che questo non l'ho nemmeno proposto al Bolluomo, ci mancherebbe) e ammetto che ogni volta Inland Empire mi faceva crollare tra le braccia di Morfeo dopo 15/20 minuti al massimo; ho provato a guardarlo al mattino, mentre facevo colazione, e talvolta mi veniva da dormire anche lì, a rischio di pucciare la faccia nel tea. Insomma, un successone. Probabilmente Lynch riderebbe di me, oppure magari mi direbbe che il modo migliore per fruire di Inland Empire è proprio lasciare che le immagini del film si mescolino a quel meraviglioso momento in cui la mente svariona prima di abbandonarsi al sonno e ai sogni, mentre gli amanti di Lynch e i cinèfili degni di questo nome mi ricopriranno di insulti e ignominia perpetua. Vi do ragione, per carità, ma a mia discolpa posso dire di averci provato e di essere stata onesta: "qualcuno", messo davanti ai miei evidenti limiti e di fronte alla mia richiesta di aiuto, mi ha detto "leggiti qualche recensione in giro e prova a fartene una tua idea, simulando di averlo visto. Magari dilungati sul fatto che è un film molto lynciano, con degli attori molto lynciani... con un po' di pratica vedrai che riuscirai a scrivere lunghissimi post anche sul nulla cosmico. In fondo è quello che fanno i critici cinematografici stipendiati... mica li guardano per davvero i film". Come dargli torto, in effetti? Perfetto, allora la butto lì: Inland Empire è un film importantissimo, un pugno nello stomaco, indispensabile, lynchiano, perturbante, inquietante e, soprattutto, disturbante. Di sicuro ho azzeccato tutti i termini giusti, il post potrebbe anche essere finito qui, nevvero?


Dai, si scherza. Però diamine, leggenda narra che Lynch abbia telefonato alla Dern e, manco fosse Uma Thurman nella pubblicità della Schweppes, le abbia detto "ti va di sperimentare?" e di sicuro né lui né gli attori coinvolti sono riusciti a spiegare in che diamine consista Inland Empire quindi come posso riuscirci io? E soprattutto, perché dovrei? Lì per lì, tra l'altro, Inland Empire ti gabba, infido, e salvo un siparietto con una sit-com a base di conigli antropomorfi e gente che parla in ungherese, ti illude che abbia una trama: un'attrice moglie di un marito orco ottiene il ruolo tanto agognato e finisce preda, nonostante mille avvertimenti, del co-protagonista donnaiolo, al punto da confondere la vera se stessa con il personaggio che sta interpretando, mentre cominciano a circolare voci inquietanti sull'impossibilità di concludere le riprese di un film già naufragato una volta per motivi mai chiariti. Una trama interessante, che già di per sé titillerebbe l'attenzione dello spettatore e di tutti i fan di Lynch. Peccato che quest'ultimo non avesse intenzione di dirigere un lungometraggio, bensì una serie di "corti" che alla fine lo sono diventati e che hanno creato un trip cinematografico senza capo né coda, senza unità di tempo o spazio, un'infinita serie di suggestioni che sta allo spettatore scegliere come vivere e, probabilmente, come interpretare. Passato, presente e futuro non esistono più, c'è un continuo stream of consciousness che definire tale sarebbe comunque improprio, perché il punto di vista non è sempre quello di Nikki/Susan e talvolta vengono inseriti altri personaggi protagonisti di vicende proprie, che possono essere legate o slegate da quella principale, che comunque principale non è. Insomma, un casino vero, e rimanerne affascinati o meno dipende dalla disposizione d'animo dello spettatore.


Io, lo ammetto, andavo a momenti. L'atavico istinto di horroromane unito alla pavloviana memoria dei migliori istanti twinpeaksiani mi ha portata ad apprezzare moltissimo gli infiniti corridoi in cui si perde Laura Dern, bui salvo per luci rossastre, tendaggi, pavimenti con pattern assai simili a quelli della Loggia Nera, gente deforme che strilla sconvolta in camera, persone che appaiono e scompaiono senza un perché; oppure, le assurde sequenze in cui la gente canta e balla, d'amblé, con altri posti a fare i silenziosi testimoni della follia, ma anche il momento in cui la senzatetto asiatica in botta racconta la sua assurda storia, per non parlare della sempre meravigliosa Grace Zabriskie, la cui sola presenza a me fa gelare il sangue nelle vene. La Dern meriterebbe l'applauso per il modo in cui asseconda ogni pazzia di Lynch senza perdere bravura o dignità, ché son tutti buoni a far gli attori per il depresso Von Trier, ma non vorrei essere nei panni di chi legge uno script di Lynch e affida l'anima al Sacro Cuore di Maria ad ogni ciak, sperando di non sbagliare o non fare una figura barbina imboccando invece la strada per il ridicolo involontario. Per contro, all'ennesimo dialogo tra polacchi e davanti alla fissità di uno psicologo che guardava la Dern con la stessa mia faccia disinteressata e annoiata, avrei voluto che il mio cervello partisse per l'Inland Empire dei sogni per non tornare mai più e ammetto, comunque, di avere fatto una fatica incredibile ad arrivare al termine di una visione protrattasi più o meno per una settimana, segno che questo Lynch sperimentatore ed estremo non fa proprio per me, per quanto gli riconosca una dignità artistica e visionaria senza pari. Di sicuro, la visione di Inland Empire è un'esperienza che consiglio, almeno una volta nella vita, ma dubito che io stessa la ripeterò.


Del regista e sceneggiatore David Lynch, anche voce di Bucky J, ho già parlato QUI. Grace Zabriskie (visitatore n. 1), Laura Dern (Nikki Grace/Susan Blue), Jeremy Irons (Kingsley Stewart), Justin Theroux (Devon Berk/Billy Side), Harry Dean Stanton (Freddie Howard), William H. Macy (Annunciatore), Laura Harring (Ospite alla festa/Jane Rabbit) e Naomi Watts (voce di Suzie Rabbit) li trovate invece ai rispettivi link.


Tra le guest star compaiono Nastassja Kinski nei panni della signora e Ben Harper in quelli del pianista. Il film ha un "sequel" o, meglio, è affiancato da una raccolta di scene eliminate dal titolo More Things That Happened, uscito nel 2007 come appendice alle edizioni video del film. Se Inland Empire vi fosse piaciuto, ovviamente, recuperatelo, e aggiungete il resto della filmografia di David Lynch. ENJOY!

venerdì 9 dicembre 2016

American Psycho (2000)

Proprio il giorno delle elezioni americane ho guardato, giusto per restare in tema, American Psycho, diretto nel 2000 dalla regista Mary Harron e tratto dal romanzo omonimo di Bret Easton Ellis



Trama: Patrick Bateman è ricco, bello e pieno di donne. La sua sarebbe una vita perfetta se non fosse che Patrick è soprattutto pazzo e, la sera, abbandona le vesti di yuppie per indossare quelle di folle killer...



Quello con American Psycho è stato un amore nato leggendone trama ed interpreti su Ciak, che all’epoca, signora mia, mica c’era l’adsl in connessione continua. E’ stato un amore nato affittando la videocassetta, visto che al cinema di Savona, probabilmente, il film della Harron non era arrivato neppure per sbaglio. E’ stato un amore continuato leggendo il romanzo di un Bret Easton Ellis che non era ancora la parodia di sé stesso, incrociando le dita perché non finisse mai nelle mani sbagliate (quelle di MMadreee, per esempio) con tutti quei tubi-topo e perversioni assortite di cui era infarcito e gioendo perché la libreria con i fondi di magazzino all’epoca situata vicino alla spiaggia aveva tutti i romanzi dell’autore (gioia svanita dopo la lettura, ché American Psycho è rimasto inarrivabile). E’ un amore, di fatto, mai finito, visto che riguardarne la versione cinematografica mi ha fatto venire una voglia matta di rileggere il libro, se non fosse per tutti gli altri libri che poverini ancora stanno aspettando che li apra, ultimo di Stephen King compreso. E’ un amore che secondo me affonda le radici in quello ben più profondo per Arancia Meccanica e in un conseguente, malsano interesse per i protagonisti folli e negativi di entrambe le opere, nonostante il romanzo di Burgess affronti il tema della libera scelta mentre quello di Easton Ellis sia l'emblema del vuoto cosmico e quindi, di fatto, la storia di Alex sia totalmente diversa da quella di Patrick. Sarà un amore nato quindi dalla follia? Sicuramente, perché io ancora adesso non riesco a volere così tanto male a Patrick Bateman, figlio degli anni '80 tanto bello fuori quanto marcio e vuoto dentro, nonostante tutte le brutture che passano per la sua mente malata. Intendiamoci, il 90% di quello che costui fa sia nel film che nel libro mi fa accapponare la pelle ma Patrick è fondamentalmente un figlio dei suoi anni, un povero scemo dalla testa vuota al quale il cervello è andato in pappa per lo sforzo di mantenere la migliore apparenza possibile; gli unici pensieri profondi espressi a voce dal protagonista sono legati ai suoi amati dischi (sebbene suonino falsi e costruiti come tutto ciò che lo circonda) e a una sorta di "relazione" con lo spettatore/lettore al quale, di fatto, viene proposto l'inaffidabile stream of consciousness di un uomo che non riesce più a distinguere la realtà dall'immaginazione e che trasmette al fruitore della sua storia le stesse, confuse ed inquiete sensazioni. D'altronde, quanto può essere affidabile e/o consapevole una persona che, a furia di seguire la moda e lo stile di chiunque "conti" all'interno della sua cerchia di amici e colleghi, viene confuso da quelle stesse persone con altri individui? I dialoghi di American Psycho, pesantemente influenzati da alcool, droga e vanità, sono la fiera del grottesco e della banalità, tanto che spesso ci si ritrova amaramente a ridere davanti agli sforzi di Patrick di "appartenere" a qualcosa, di ricercare l'umanità di cui è privo negli abiti griffati, nei biglietti da visita o nelle impossibili prenotazioni al ristorante di lusso in voga al momento.



Davanti a questa realtà spersonalizzante e stressante, sembra quasi inevitabile che Patrick arrivi a sfogarsi uccidendo e torturando, "cercando" la carne e il sangue di cui lui si sente privo. Ma anche lì, siamo proprio sicuri che gli scoppi di follia di Patrick non siano semplicemente il frutto della sua mente ormai allucinata? Ricordo all'epoca di avere voluto leggere il romanzo non tanto per il gusto di capire come fosse scritto ma per decifrare il finale del film di Mary Harron, che si conclude nel modo più ambiguo possibile dopo che il protagonista ha letteralmente gettato alle ortiche la perfetta maschera di razionalità indossata per non trarre in inganno il prossimo e approfittare al meglio della propria condizione agiata. "Questa confessione non ha nessun significato" sono le parole con le quali Patrick si accomiata sia nel film che nel libro e hanno una triplice valenza, lasciata all'interpretazione dell'ascoltatore: può riferirsi all'inutile confessione fatta all'avvocato, al senso di vuoto provato da un protagonista assolutamente privo di qualsivoglia emozione che non sia uno spiccato narcisismo, oppure potrebbe voler dire che tutto ciò che è accaduto nel film si è svolto solo nella mente di Patrick e che quindi confessarlo sarebbe inutile. Ancora peggio, Bateman potrebbe essere solo uno dei tanti American Psycho che popolano la New York dipinta nel film, tanto che ogni sua azione, anche la più depravata, rischia di perdersi in una società fatta, fondamentalmente, di manichini egoisti che si lasciano vivere persi nel tedio di giornate tutte uguali, prive di legami che possano essere definiti tali. Nel microverso yuppie in cui il forte ingoia il debole chi, tra i conoscenti di Patrick, potrebbe essere in grado di accorgersi della scomparsa di un amico o un collega, men che meno delle persone che popolano i bassifondi newyorchesi? Davanti a un film come American Psycho, che si limita a sollevare domande piuttosto che fornire risposte, non resta altro da fare che allacciare le cinture e godersi il viaggio allucinante di Patrick Bateman, interpretato da un Christian Bale praticamente agli esordi e in formissima, un attore con le palle capace di annullarsi interamente in un personaggio scomodo e consacrarlo per l'eternità nell'iconografia cinematografica (il Dandy di American Horror Story è un perfetto omaggio alla fisicità di Bale) tra una serie di addominali fatta guardando Non aprite quella porta, un omicidio perpetuato indossando l'impermeabile, una botta d'ansia causata dai biglietti da visita e un threesome dall'esito sanguinoso. Il tutto, ovviamente, con estrema, vuota eleganza, ci mancherebbe.



Di Christian Bale (Patrick Bateman), Justin Theroux (Timothy Brice), Josh Lucas (Craig McDermott), Bill Sage (David Van Patten), Chloë Sevigny (Jean), Reese Witherspoon (Evelyn Williams), Jared Leto (Paul Allen), Willem Dafoe (Donald Kimball) e Cara Seymour (Christie) ho già parlato ai rispettivi link.

Mary Harron è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Canadese, ha diretto film come Ho sparato a Andy Wharol, The Moth Diaries ed episodi di serie quali Six Feet Under e Constantine. Anche produttrice e attrice, ha 63 anni e un film in uscita.


Samantha Mathis interpreta Courtney Rawlinson. Americana, ha partecipato a film come Super Mario Bros., Piccole donne, The Punisher, American Pastoral e a serie come Oltre i limiti, Salem's Lot, Doctor House, Incubi e deliri, Lost, Grey's Anatomy, Under the Dome e The strain; inoltre, ha lavorato come doppiatrice in film come Ferngully - Le avventure di Zack e Crysta. Ha 46 anni.


Matt Ross interpreta Luis Carruthers. Americano, ha partecipato a film come L'esercito delle 12 scimmie, Face/Off, The Aviator, Good Night and Good Luck e a serie come Rose Red, Six Feet Under, Bones, CSI:Miami, Numb3rs, CSI - Scena del crimine e American Horror Story. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 46 anni.


Il casting di American Psycho è stato un processo lungo e travagliato, che ha visto a un certo punto la Harron abbandonare il progetto quando gli studios hanno scelto di offrire a Leonardo Di Caprio il ruolo di Patrick Bateman, cosa che ha portato Oliver Stone a subentrare come regista. Quando Di Caprio ha deciso di partecipare invece al film The Beach, Stone ha mollato ed è tornata Mary Harron, la quale ha ovviamente tenuto il cast che avrebbe voluto lei (via James Woods e Cameron Diaz quindi, rispettivamente scelti per il ruolo di Kimball ed Evelyn). Negli anni '90 invece era stato Stuart Gordon a progettare una trasposizione cinematografica in bianco e nero del libro, con Johnny Depp come Patrick Bateman e lo stesso Bret Easton Ellis come unico sceneggiatore, poi è stato il turno di David Cronenberg con Brad Pitt come protagonista ma tutti questi progetti si sono persi in fase di produzione. Il film ha generato un sequel a dir poco imbarazzante, ovvero quell'American Psycho II nato dall'unione tra un banalissimo thriller originale e un subplot legato al personaggio di Patrick Bateman, mentre Le regole dell'attrazione è basato sull'omonimo romanzo di Bret Easton Ellis ed è incentrato sulle vicissitudini del fratello minore di Patrick, Sean Bateman: io vi direi di evitarli entrambi ma se American Psycho vi fosse piaciuto consiglio innanzitutto il recupero del romanzo omonimo e poi di aggiungere Kill Your Friends, The Wolf of Wall Street e persino Stress da vampiro. ENJOY!

venerdì 11 novembre 2016

La ragazza del treno (2016)

Approfittando del cinema a 2 euro, mercoledì scorso sono andata a vedere La ragazza del treno (The Girl on the Train), diretto dal regista Tate Taylor e tratto dal romanzo omonimo di Paula Hawkins.


Trama: Rachel, donna con gravi problemi legati all'alcool, percorre tutti i giorni col treno la stessa tratta e comincia ad interessarsi alla vita di Megan, una ragazza che vive col marito nei pressi di una delle fermate e la cui casa è perfettamente visibile dalla carrozza dove siede Rachel. Un giorno però Megan scompare e Rachel viene coinvolta nelle complicate indagini...


Come al solito, sono arrivata al cinema completamente digiuna dal romanzo da cui è stato tratto La ragazza del treno, anche perché io i "casi editoriali" tendo un po' ad evitarli. Il risultato, probabilmente, è stato quello di essermi goduta il film più di tante altre persone che lo hanno stroncato, sottolineando come fosse solo la bravura della Blunt a risollevare le sorti della pellicola. Premesso di essere concorde con l'ultimo punto delle critiche, Emily Blunt è mostruosa e varrebbe la pena di guardare il film anche solo per lei, dal mio punto di vista La ragazza del treno è lo stesso un thriller godibilissimo, magari senza particolari aspetti degni di nota ma comunque l'ideale per intrattenersi la sera con un whodunnit che regge almeno fino alla fine del primo tempo (al netto di ragionamenti arzigogolati della sottoscritta, che hanno fatto ridere la mia collega che aveva già letto il libro, diciamo che ho picchiato abbastanza vicino alla soluzione del caso, una volta riportati i piedi per terra) e che richiede comunque un minimo di attenzione in più da parte dello spettatore. La struttura de La ragazza del treno è idealmente suddivisa in tre “capitoli” introduttivi, ognuno dedicato ad uno dei personaggi femminili, e in alcuni flashback aventi luogo in tempi diversi rispetto all’avvenimento che è il motore di tutta la vicenda, ovvero la scomparsa di Megan; buona parte della storia viene filtrata attraverso gli occhi e la memoria spezzata dell'alcolista Rachel, fatta di incertezze e lacune, quindi la bellezza del film (e del romanzo) sta proprio nell'impegno che deve mettere lo spettatore nel ricostruire la storia e comprendere tutti i segreti che in qualche modo legano i personaggi, anche quelli che apparentemente non c'entrano nulla l'uno con l'altro. Nonostante tutto l'interesse che ha suscitato in me la parte "gialla" della vicenda, devo però dare ragione ai critici più implacabili e ammettere che ciò che sta intorno alla scomparsa di Megan è ben poca cosa, e che non solo le motivazioni dei singoli individui implicati sono una più risibile dell'altra, ma anche la risoluzione finale dell'intreccio è tirata per i capelli tanto quanto ciò che veniamo a scoprire sul passato di Rachel e persino di Megan (anzi, soprattutto di Megan. Non voglio fare spoiler ma, diamine, credo di avere assistito alla disgrazia più fasulla ed improbabile della storia della fiction). Non avendo letto il libro, come ho detto, non posso dare interamente la colpa agli sceneggiatori della pellicola, sta di fatto che se già di suo il romanzo di Paula Hawkins presenta un branco di personaggi con i quali non si riesce a provare la minima empatia, è naturale che il film non piaccia a chi magari si aspettava qualcosa di più.


Parlando della versione cinematografica, Rachel, Megan e Anna sono infatti tre pittime della peggior specie. Rachel, poveraccia, è la meno peggio perché comunque viene tratteggiata come una donna alla quale la natura ha negato la possibilità di avere figli, cosa che l'ha portata all'alcolismo e al conseguente divorzio da Tom e, sarà per la già citata bravura della Blunt, non si riesce a volerle troppo male, neppure quando la sua natura si rivela, in sostanza, quella di una persona che necessita di sentirsi parte di "qualcosa", qualunque cosa essa sia. Fosse anche un casino nato dalla volontà di non farsi i fatti propri, per dire. Anna, la nuova moglie di Tom, è invece il nulla fatto a personaggio, meritevole di tutti gli schiaffi del mondo, innanzitutto perché usa la figlia come scusa per non fare una cippa, né in casa né fuori, e in sostanza passa il tempo a dormire e covare rancore verso chiunque. Ma muovere un po' il culo ti pare brutto? Per la cronaca, uno dei responsabili di quel finale un po' MEH è proprio lei, la quale molto probabilmente viene chiamata confidenzialmente Aquila o Volpe da amici e parenti. Megan, infine, è il terzo ma non per questo ultimo elemento di questo ensemble di tristezza femminile, un personaggio che ha meritato la mia stima solo quando ha scelto di mandare al diavolo Anna, per la quale faceva la babysitter consentendole non tanto di lavorare, quanto di "schiacciar patate e fare volontariato". Per il resto, Megan è la tipica "sgnaccamaroni" (se avete letto Il grande Magazzi di Leo Ortolani capirete di cosa parlo, in caso contrario pentitevi e comprate subito quella perla) impegnata a vivere il suo ruolo di bella e maledetta, di spleen con la patata, di tizia scazzata che non può fare un passo senza che il marito le tiri giù le mutande e la copuli, a prescindere che lei stia cucinando la bagna cauda o stia facendo jogging, condizione disagiata per la quale ella, ovviamente, soffre tantissimo, tanto da doverla dare a tutti per cambiare un po'. Non aiuta il fatto che Haley Bennett in questo film sia la fotocopia vivente di Jennifer Lawrence, attrice per la quale non nutro proprio una passione sviscerata, quindi forse i miei giudizi sul personaggio sono stati condizionati da questa somiglianza, ma giuro che sono pochi i film nei quali mi sono ritrovata così poco coinvolta a livello empatico da tre tipologie di donna che, con un po' di impegno in più, avrebbero potuto dire e dare moltissimo. A parte queste personalissime considerazioni, se avete voglia di guardare un thriller con risvolti psicologici capace di tenere desta l'attenzione fino all'ultimo e non avete grandi pretese autoriali, una chance a La ragazza del treno io la darei.


Del regista Tate Taylor ho già parlato QUI. Emily Blunt (Rachel), Haley Bennett (Megan), Justin Theroux (Tom), Luke Evans (Scott), Edgar Ramírez (Dr. Kamal Abdic) e Allison Janney (Detective Riley) li trovate invece ai rispettivi link.

Rebecca Ferguson interpreta Anna. Svedese, ha partecipato a film come Mission: Impossible - Rogue Nation e l'imminente Florence Foster Jenkins. Ha 33 anni e cinque film in uscita.


Lisa Kudrow interpreta Martha. Indimenticabile Phoebe della serie Friends, ha partecipato a film come Terapia e pallottole, Il dottor Dolittle 2, Un boss sotto stress e altre serie quali Hercules e Innamorati pazzi; come doppiatrice, ha partecipato a serie come I Simpson, American Dad! e Bojack Horseman. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 53 anni e due film in uscita.


Laura Prepon, che interpreta Kathy, è stata un elemento importante del cast di That's 70's Show e Orange is the New Black mentre Jared Leto e Chris Evans hanno rinunciato rispettivamente ai ruoli di Scott e Tom perché impegnati con altri film. Detto questo, se La ragazza del treno vi fosse piaciuto recuperate L'amore bugiardo - Gone Girl. ENJOY!

venerdì 19 febbraio 2016

Zoolander 2 (2016)

So che siamo in tempo di Oscar ma non si può sempre e solo parlare di film seri. Nell'attesa che di andare a vedere quel Deadpool per cui ho già una scimmia mutante nutrita a chimichanga sulla schiena, beccatevi un post su Zoolander 2, diretto e co-sceneggiato da Ben Stiller.


Trama: sono passati quindici anni dall'ultimo film e Derek Zoolander è diventato un eremita a seguito di terribili eventi che hanno coinvolto sua moglie, suo figlio e persino il biondo Hansel. I due ex modelli vengono però richiamati sulle passerelle e si ritrovano coinvolti in un complotto legato alla morte di alcune popstar...


Iniziamo il post con una premessa MOLTO importante: se non vi è piaciuto Zoolander, se non amate questo genere di film supercazzola, se non tollerate la comicità assolutamente demenziale e/o priva di qualsivoglia satira, critica, riflessione, smettete pure di leggere, tanto nulla di ciò che scriverò potrà convincervi ad andare a vedere Zoolander 2. Che, per inciso, mi è piaciuto molto, nei limiti della belinata che è, ovviamente, e forse soprattutto perché sono una di quelle persone che non ha elevato il primo film a cult della vita. Al grido di "squadra che vince non si cambia!" e addirittura "sceneggiatura che vince non si cambia!" Ben Stiller si è limitato a prendere personaggi e situazioni di Zoolander, immaginare come gli stessi sarebbero cambiati dopo una decina di anni, trascinarli all'interno di un mondo della moda che, complici anche le nuove tecnologie, si rinnova completamente nel giro di mezza stagione (tanto che quello che era cool la settimana prima, dopo sette giorni è già demodé) ed esasperare al limite estremo le gag più riuscite del capostipite. Stop. Zoolander 2 è praticamente Zoolander all'ennesima potenza, niente di più e niente di meno, un'ininterrotta serie di momenti WTF affidati quasi interamente alla natura clueless dei "bellissimi" Derek e Hansel, con qualche stoccata all'acqua di rose al jet set internazionale (diciamo che in questo senso a Stiller e Theroux è piaciuto vincere molto facile, come dimostra l'iniziale comparsata di Justin Bieber) e una sottotrama da film action che è un mero pretesto narrativo per appoggiare le suddette gag a qualcosa di tangibile, onde evitare che gli spettatori si perdano nel marasma di espressioni "belle belle in modo assurdo" del protagonista.


Non vi sto ovviamente ad anticipare NULLA di quei cinque o sei momenti genuinamente esilaranti presenti nel film, meriterei di venire arrestata dalla divisione Fashion dell'FBI se lo facessi. Posso solo dire che Zoolander 2 sfrutta forse più che nel primo capitolo le comparsate dei VIP che si sono prestati al gioco (Pénelope Cruz compare persino nella locandina ma il vincitore assoluto di TUTTO - e non a caso - è un favoloso Benedict Cumberbatch) e anche il tempo che ormai si riflette in maniera abbastanza impietosa sui volti dei due protagonisti Stiller e Wilson è una componente fondamentale della trama. L'ambientazione italiana, o per meglio dire romana, ricatapulta lo spettatore all'interno di una Dolce Vita, più che di una Grande Bellezza, quasi d'antan e l'omaggio a vecchi film come Vacanze Romane è palese, così come sono palesi i rimandi non solo a 007 ma anche e soprattutto a Guerre stellari ed Austin Powers, celebrato in una sfacciatissima scena di bacio slinguazzato. Quel che manca a Zoolander 2 (anche se il mio ragazzo non è proprio d'accordo) è però quell'elemento un po' "froSCio" che era parte integrante del primo film, quel modo tutto particolare di mescolare immagini da videoclip ad una colonna sonora molto azzeccata; sì, qualche timido tentativo lo troviamo anche qui (il finto spot con Naomi Campbell è geniale quanto il destino finale di Mugatu) ma si tratta soprattutto di rimandi al vecchio Zoolander e lasciano un po' il tempo che trovano. Per finire, vi consiglio di non andare a vedere Zoolander 2 al cinema e di recuperarlo in lingua originale: tolta la voce di Pino Insegno, al quale voglio sempre molto bene, l'adattamento italiano sfiora l'imbarazzante. Mi rendo conto di quanto sia difficile rendere un modo di parlare probabilmente astruso come quello del personaggio Don Atari nella nostra lingua ma infilarci uno "stica" ogni due per tre non mi è parso il modo migliore e lo stesso vale per l'imbarazzante "figoso" messo in bocca a Zoolander, che mi ha causato la stessa pelle d'oca di quando Fabio Volo dice "cioé...ficofico" in Kung Fu Panda. Orrore vero, altro che "bello bello in modo assurdo"!


Del regista e co-sceneggiatore Ben Stiller, che interpreta ovviamente anche Derek Zoolander, ho già parlato QUI. Penélope Cruz (Valentina), Christine Taylor (Matilda Jeffries), Kristen Wiig (Alexanya Atoz), Benedict Cumberbatch (Tutto), Justin Theroux (è il co-sceneggiatore della pellicola ma anche il DJ malvagio), Milla Jovovich (Katinka), Will Ferrell (Mugatu), Owen Wilson (Hansel), Jerry Stiller (Maury Ballstein) e John Malkovich (Skip Taylor) li trovate invece ai rispettivi link.


Tra i VIP che compaiono nel ruolo di se stessi segnalo la futura Betsy Braddock Olivia Munn, Susan Sarandon, l'immancabile Billy Zane, Justin Bieber, Demi Lovato, Katy Perry, Kiefer Sutherland, Anna Wintour, Lenny Kravitz, Naomi Campbell, Sting, Kate Moss, Susan Boyle, Tommy Hilfiger, Valentino, M.C. Hammer, Mark Jacobs e Skrillex (solo per citare quelli che ho riconosciuto) mentre in piccoli ruoli compaiono anche la modella rumena Madalina Diana Ghenea e il cantante Mika. Ovviamente, detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate il primo Zoolander, ENJOY!

domenica 2 gennaio 2011

Megamind (2010)

Lo scontro cinematografico di fine anno, almeno per me, non è stato tra i due cinepanettoni che hanno invaso le sale a colpi di wakawaka e starlette seminude, ma tra i due cartoni animati a base di supercattivi, Cattivissimo me e il più recente Megamind, diretto da Tom McGrath. Purtroppo per la Dreamworks, ha vinto il primo, e di lunga misura!

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Trama: Megamind è un alieno “malvagio” impegnato fin dall’infanzia in una lotta contro la sua nemesi naturale, il supereroe Metroman. Quando, inaspettatamente, Megamind riesce a fare fuori il protettore della città, il supercattivo si ritrova privo di uno scopo nella vita e decide di rimediare, creando un nuovo supereroe…

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Sarà che ho adorato Cattivissimo me. Sarà che ero reduce da una giornata massacrante. Sarà che ormai ne ho visti troppi… ma questo Megamind non mi ha convinta più di tanto. Innanzitutto cominciamo col dire che come trama è assai meno originale di Cattivissimo me e si basa molto sul mito e le origini di Superman, quindi si ammanta di quell’alone di “già visto” che fa un po’ storcere il naso (parodie su Clark Kent e compagnia bella ne sono già state fatte a bizzeffe…). Come seconda cosa Megamind è un cattivo molto meno incisivo di Gru: si vede da subito che non ne ha troppa voglia, non è convinto, non è davvero bastardo dentro, quindi anche il suo ovvio cambiamento arriva in modo prevedibile e fin troppo rapido, grazie al tipico personaggio femminile carismatico e fighetto. Terzo, i momenti esilaranti sono troppo pochi, e quasi tutti legati alla strepitosa colonna sonora. Il finale sulle note di Bad di Michael Jackson o la sequenza scandita da Welcome to the Jungle dei Guns’n’Roses sono strepitosi, ma di nuovo: BASTA usare canzoni cool per ravvivare i cartoni animati, è dal primo Shrek che lo fanno, quindi ormai sono quasi dieci anni, diciamo che l’effetto novità è un pochino esaurito.

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Certo, non si può dire che Megamind sia brutto. Il 3D è inutile come sempre ma la grafica strepitosa a tratti ci fa illudere di trovarci davanti ad un telegiornale o ad un film live action: le scene dove Roxanne è in bilico in cima al grattacielo o viene sballottata in aria da Titan mi hanno messo le vertigini, tanto che ho dovuto distogliere lo sguardo e pensare ad altro (non so che farci, mi fanno soffrire certe sequenze…); inoltre la “spalla” del supercattivo che, guarda un po’, si chiama anche lui Minion, è di una dolcezza disarmante ed è sicuramente il personaggio più riuscito dopo il narcisista Metroman ( - Ti amiamo, Metroman! – E io amo TE, cittadino qualunque!!), che con il lungo flashback risolutivo vince indubbiamente la palma d’oro per il personaggio più paraculo dell’anno. Se dovessi trovare un momento preferito, sicuramente è quello in cui viene introdotta la mitica figura del Padrino Spaziale (un nano capelluto che parla come Marlon Brando nel Padrino e che, a ripensarci, potrebbe essere un riferimento ai vecchi film di Superman, dove il compianto Marlon interpretava proprio il padre del supereroe…) accompagnato ovviamente dalla Madrina, un improbabile Minion con parrucca bionda e grembiulino rosa. Insomma, io fossi in voi eviterei di pagare 10 o più euro per guardarvelo al cinema e aspetterei di affittarlo… questo a meno che non siate in crisi da mancanza di cinema e l’alternativa fosse andare a vedere un cinepanettone. Allora, nel dubbio, andate a vedere Megamind, ovviamente!

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Parecchie le guest star tra i doppiatori della versione originale. Brad Pitt, di cui ho già parlato qui, doppia Metroman, mentre Ben Stiller, che trovate qua, presta la voce a Bernard, anche se in origine il ruolo di Megamind era stato offerto proprio a lui (e a Robert Downey Jr., per la cronaca).

Tom McGrath è il regista della pellicola. Tra i suoi altri lavori ricordo Madagascar, Madagascar 2 – Via dall’isola e qualche episodio del geniale The Ren & Stimpy Show. Americano, ha 45 anni.

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Will Ferrell doppia Megamind nella versione originale del film. Uno degli ultimi comici americani ad aver spopolato anche all’estero (e uno di quelli che preferisco di meno…) ha partecipato a film come Austin Powers, Austin Powers – La spia che ci provava, Jay & Silent Bob… fermate Hollywood!, Zoolander, Elf, Starsky & Hutch (dove si profonde in uno splendido cameo XD), il geniale Anchorman: the Legend of Ron Burgundy, Wedding Crashers e Talladega Nights: the Ballad of Ricky Bobby, inoltre ha doppiato serie come Mucca e Pollo, The Angry Beavers e I Griffin. Ha 43 anni e un film in uscita.

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David Cross doppia Minion. Attore americano, lo ricordo per piccoli ruoli in film come Mr. Destiny, Il rompiscatole, Men in Black, Small Soldiers, Ghost World, Scary Movie 2, Men in Black II, Se mi lasci ti cancello ed Alvin Superstar; ha inoltre prestato la voce alla Gru di Kung Fu Panda e doppiato un episodio de I Griffin. Ha 46 anni e due film in uscita, tra cui il seguito di Kung Fu Panda.

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Justin Theroux presta la voce al padre di Megamind. Americano, tra i suoi film segnalo American Psycho, Mulholland Drive, Zoolander e Charlie’s Angels: più che mai, ha inoltre partecipato ai telefilm Alias e Six Feet Under. Ha 39 anni e tre film in uscita.

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Se vi fosse piaciuto il genere, Megamind non è il primo film d’animazione a trattare il tema dei supereroi. Ben più riusciti, a mio avviso, sono Gli Incredibili e Mostri contro alieni, che vi consiglio di cercare e vedere. Un ultimo avviso prima di lasciarvi al trailer originale del film: rimanete almeno fino a metà dei titoli di coda, c’è un simpatico siparietto con Minion e Bernard. E ora.. ENJOY!


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