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martedì 12 agosto 2025

Il Bollalmanacco On Demand: The Gangster, The Cop, The Devil (2019)

La rubrica On Demand ci porta oggi in Corea del Sud con una richiesta di Lory, The Gangster, the Cop and the Devil (악인전, 惡人戰, Ak-in-jeon), diretto nel 2019 dal regista Lee Won-tae. Il prossimo film On Demand sarà Vivere e morire a Los Angeles. ENJOY!


Trama: un serial killer uccide le sue vittime dopo averle tamponate in auto, ma la polizia, salvo il giovane poliziotto Jung Tae-sook, crede si trattino di incidenti isolati. Le indagini di Jung Tae-sook hanno una svolta quando il boss della malavita Jang Dong-soo sopravvive a malapena all'attacco del killer, e i due decidono di unire le forze per catturarlo...


Ammetto di essere un po' carente per quanto riguarda il cinema orientale, quindi sono sempre contenta quando qualcuno mi propone di colmare questa mancanza. The Gangster, The Cop, The Devil è un film che avevo sentito nominare en passant, e stupidamente mi ero fatta sviare dal diavolo nel titolo pensando si trattasse di un horror. Invece, il film scritto e diretto da Lee Won-tae è un ottimo action poliziesco con tre protagonisti solidissimi, ognuno delineato alla perfezione e dipinto con tantissime sfumature che rendono difficile inquadrarli come buoni o cattivi, almeno per quanto riguarda il Gangster e il Poliziotto. Il Diavolo invece è un mostro fatto e finito, nonché l'unica cosa in grado di far coalizzare due uomini che vivono dalle parti opposte della barricata della legge, con idee diverse su cosa sia la giustizia. Jung Tae-sook, il Poliziotto, è un guappetto sicuro di sé che non disdegna la violenza, ma ha idee molto chiare su cosa voglia dire essere un uomo di legge e rifiuta ogni tipo di pigrizia e corruzione, comportandosi in modo esemplare, nonostante sia una testa calda; il suo desiderio di catturare il "Diavolo" e consegnarlo alla giustizia non è alimentato solo dal miraggio di una promozione, ma anche da un sincero senso del dovere nei confronti delle vittime. Dall'altra parte, c'è il Gangster Jang Dong-soo, che vive credendo che la vendetta e la violenza inflitta a nemici e alleati riluttanti sia l'unica via possibile, perché la giustizia è affidata principalmente a uomini corrotti, stupidi, avidi ed inaffidabili; il Gangster ha però anche un codice d'onore, l'unico modo per tenere in ordine una vita fatta di caos, e il Diavolo è una scheggia impazzita che turba questo ordine precario, quindi va eliminato non solo come ritorsione per le gravi lesioni subite. The Gangster, The Cop, The Devil si regge sul confronto/scontro tra questi due improbabili alleati, vivendo delle loro interazioni spesso ironiche e dei momenti in cui i rispettivi modi di vivere si toccano, mescolandosi pericolosamente. Le dinamiche che si instaurano all'interno di questa coppia improbabile, si inseriscono perfettamente all'interno della struttura thriller costituita dalle indagini sull'identità del killer, la cui presenza si fa sempre più preponderante e pericolosa, man mano che il film prosegue. 


The Gangster, The Cop, The Devil
è una corsa sulle montagne russe che rallenta poco prima del finale, più ragionato e classico rispetto al resto del film. La regia di Lee Won-tae veicola tutta l'energia di un mondo violento e fatto di rabbia pronta ad esplodere sia nei "buoni" che nei "cattivi", attraverso serratissimi inseguimenti in macchina e sanguinosi scontri corpo a corpo, dove non sempre l'arma bianca batte la mano nuda; la fotografia, poi, rende tutto molto stiloso, grazie a un illuminazione soffusa ed ad esplosioni di neon folgoranti che connotano l'ambiente metropolitano dove si muovono i protagonisti come un luogo pericoloso, sordido, ideale nascondiglio per un killer che sembra essere tutt'uno con le ombre e con la pioggia. Non guasta che il Diavolo abbia il volto volpino e scavato di Kim Sung-kyu, attore che, a un certo punto, diventa un mostro fatto e finito anche d'aspetto, al punto che incrociare Jang Dong-soo e i suoi scagnozzi sarebbe il destino migliore che si potesse sperare. Probabilmente, però, scrivo questo perché amo Ma Dong-seok da quando l'ho visto in Train to Busan, con la sua scorza durissima da ultraviolenta macchina da pugni sudcoreana che nasconde inaspettati sprazzi di umanità. Senza questo attore, dubito che The Gangster, The Cop, The Devil mi sarebbe piaciuto così tanto, poiché la sua interpretazione spicca rispetto a quella degli altri bravissimi interpreti e, sul finale, il suo sorriso "sereno" mette i brividi più dello sguardo perverso di Kim Sung-kyu. Un paio di anni fa era uscita la notizia di un remake prodotto da Stallone, ma da allora non si hanno più novità; dovesse accadere, spero vivamente che Ma Dong-seok riprenda il ruolo del Gangster perché non riuscirei a vedere nessun altro al posto suo. Per finire, ringrazio come sempre Lory per la dritta, The Gangster, The Cop, The Devil è decisamente un film nelle mie corde e lo consiglio a tutti!

Lee Won-tae è il regista e sceneggiatore della pellicola. Sud coreano, ha diretto altri due film, Man of Will e The Devil's Deal. E' anche produttore. 


Ma Dong-seok
interpreta Jang Dong-soo. Sud coreano, lo ricordo per film come Train to Busan, The Outlaws, The Roundup e Eternals. Anche produttore e sceneggiatore, ha 54 anni. 




martedì 22 luglio 2025

Il Bollalmanacco On Demand: L'innocenza (2023)

Per la rubrica Il Bollalmanacco On Demand avrei dovuto parlare oggi di The gangster, the cop, the Devil, ma Lory ha deciso di cambiare il titolo scelto con L'innocenza (怪物 - Kaibutsu), diretto nel 2023 dal regista Hirokazu Koreeda. Il film di  Lee Won-tae sarà comunque il prossimo della rassegna!


Trama: Minato è un ragazzino delle medie che vive solo con la madre, dopo che il padre è morto. Un giorno, Minato comincia a comportarsi in modo strano, a tornare a casa ferito e senza scarpe; indagando, sua madre scopre che la colpa sembrerebbe essere del professor Hori...


In un mondo in cui la gentilezza è diventata merce rara, è successo che una delle mie lettrici, Lory, ha deciso di chiedermi un film On Demand al posto di un altro che aveva proposto da tempo, perché un'altra lettrice, Patrizia, ha chiesto un parere proprio su L'innocenza, dichiarandosi "stupita , confusa, non sono sicura mi sia piaciuto al 100%". Sono stata comunque un po' lenta nel recupero, e mi dispiace, ma devo ringraziare sia Lory che Patrizia per avermi permesso di guardare un film veramente particolare e bellissimo, un "thriller" di sentimenti, raccontato attraverso quattro punti di vista diversi. Cercherò di non fare troppi spoiler, e di invogliare chi non dovesse conoscere L'innocenza a vederlo lasciandosi sorprendere dagli argomenti trattati. La storia è quella di Minato, un ragazzino che frequenta la sesta elementare giapponese (in pratica, l'equivalente di un nostro studente di prima media). Minato vive solo con la giovane madre vedova, Saori; il rapporto tra i due è sereno ma, ovviamente, Saori deve lavorare per mantenere entrambi, e spesso non riesce a stare accanto al figlio come vorrebbe. La donna rimane quindi sconvolta quando Minato comincia a farle domande strane su bambini ai quali verrebbero trapiantati cervelli di maiale, a tornare a casa tardi, a presentarsi con delle ferite oppure senza scarpe, finché un giorno il ragazzo arriva addirittura a buttarsi dall'automobile in corsa guidata dalla madre e finisce in ospedale, pur senza riportare danni gravi. Messo alle strette, Minato confessa di essere vittima delle angherie del giovane professor Hori, e Saori corre a scuola pretendendo soddisfazione, trovandosi davanti però un muro di insegnanti (direttrice compresa) distaccati e freddi, poco interessati ai problemi di Minato o alla rabbia di sua madre. Questo è l'incipit de L'innocenza anche se, per essere esatti, il film inizia in medias res, quando una serie di eventi ha già travolto Minato, ma prima che queste vicende cambino irrimediabilmente le vite di tutti i coinvolti. La sceneggiatura riparte altre tre volte dall'inizio, presentando la storia da altri punti di vista, e lascia allo spettatore il compito di unire tutti i puntini, ottenendo il quadro complesso di un delicato, malinconico coming of age che vede due mondi completamente diversi scontrarsi.


Il titolo italiano, L'innocenza, e quello giapponese, traducibile come "mostro", sono intercambiabili, perché dipendono dai punti di vista dei personaggi presenti nel film e rappresentano due mondi che si incontrano ogni giorno senza capirsi quasi mai, ovvero quello degli adulti e quello dei bambini. Minato e il suo compagno di classe Yori vivono e si rapportano tra loro con l'innocenza della loro età, scevri da pregiudizi o secondi fini, con una semplicità quasi commovente. E' la percezione altrui che è falsata, e da vita a tanti piccoli e grandi equivoci; ciò che è innocenza per alcuni, diviene dapprima stranezza, poi mostruosità per altri, e questo vale per tutti i protagonisti del film, che introiettano questa percezione estranea, arrivando a sentirsi davvero dei mostri e a comportarsi come tali, anche solo spinti da un istinto di autoconservazione. Anche i ruoli di "vittime" e "carnefici" si scambiano costantemente all'interno de L'innocenza, tanto che, se inizialmente si prova odio verso un personaggio, facilmente si verrà mossi a pietà in seguito, quando tutte le tessere del puzzle saranno andate al loro posto. Persino chi, sul finale, si scoprirà essere davvero colpevole di un atto gravissimo, benché involontario, racchiude in sé un dolore e un senso di colpa talmente grandi che è difficile non commuoversi durante la sequenza in sala musica; anche lì, un "semplice" momento di condivisione diventa qualcosa di più, perché rappresenta anche la salvezza fisica di un'altra persona, ed è l'ennesimo esempio di come L'innocenza sia un film complesso e mai univoco, la perfetta rappresentazione della natura spesso soggettiva della "verità". L'alternanza di una dura, prosaica realtà e la fuga verso un perfetto mondo di fantasia e libertà è un altro aspetto fondamentale de L'innocenza, all'interno del quale i personaggi combattono duramente per preservare un minuscolo spazio felice da cui vengono costantemente strappati, persino per mano di chi vuole loro bene. Il finale, in tal senso, è emblematico, e lascia aperta la porta a più interpretazioni, persino negative, anche se lo stesso regista ha parlato di rinascita metaforica, di un'accettazione di se stessi e di un futuro da accogliere con animo più leggero, senza timore di venire nuovamente ingabbiati o frenati.


Le vicende di Minato, Yori, Saori e Hori, vengono narrate attraverso una regia partecipe ma non invasiva, con inquadrature che lasciano ampio spazio allo spettatore per indagare volti, gesti, dettagli apparentemente insignificanti; la regia di Koreeda mima lo sguardo altrui, talvolta utilizzando splendide soggettive, altre volte replicando lo stupore provato da panorami stupefacenti o terribili, spesso lasciando particolari importanti appena fuori dall'inquadratura, a dimostrare che le persone vedono quasi sempre ciò che si aspettano di (o vogliono) vedere. Anche la direzione degli attori è incredibile, in primis quella dei giovanissimi interpreti di Minato e Yori, considerato l'argomento difficile trattato dal film. Gli atteggiamenti dei due ragazzini, così come il modo in cui interagiscono, è molto verosimile, sia nei loro giochi infantili che nei loro drammi, così complicati che schiaccerebbero degli adulti molto più navigati; per quanto riguarda il cast più "maturo", invece, gli attori apportano tantissime sfumature impercettibili ai personaggi, assecondando il costante cambio di punti di vista, dando vita ogni volta a una persona diversa e sempre più complessa. Se la regia di Koreeda è solida ma perfettamente "mimetizzata", la bellissima colonna sonora di Ryūichi Sakamoto, l'ultima realizzata dal talentuoso compositore (il quale ha composto solo due brani nuovi per pianoforte, il resto della colonna sonora comprende vecchi pezzi di Sakamoto scelti per l'occasione, da lui o da Koreeda), sembra sgorgare direttamente dalle immagini, naturale e necessaria quanto i silenzi che spesso accompagnano le vicende dei personaggi. Il brano che si sente sul finale, allungandosi nei titoli di coda, rende difficile allo spettatore staccarsi dalle atmosfere malinconiche e misteriose del film, ed alimenta il desiderio di riguardare L'innocenza da capo, più volte, per cogliere tutto ciò che magari è sfuggito alla prima visione e riuscire a catturare l'essenza di questi personaggi così sfuggenti e complicati.


Del regista Hirokazu Koreeda ho già parlato QUI.

Sakura Andou interpreta Saori Mugino. Giapponese, ha partecipato a film come Love Exposure, Un affare di famiglia e Godzilla -1.0. Ha 39 anni.






martedì 20 maggio 2025

Il Bollalmanacco On Demand: Little Sister (2015)

Tra challenge e nuove uscite è davvero difficile trovare spazio per le rubriche "storiche" del blog. Oggi, però, torna il Bollalmanacco On Demand con un film scelto da Ross, ovvero Little Sister (うみまちダイアリー - Umimachi Diary), diretto e sceneggiato nel 2015 dal regista Hirokazu Koreeda a partire dal manga Our Little Sister - Diario di Kamakura, di Akimi Yoshida. Il prossimo film On Demand sarà The Gangster, the Cop, the Devil.


Trama: alla morte del padre che le aveva abbandonate da piccole, le sorelle Koda si recano al suo funerale, nel paese dove l'uomo si era risposato per la terza volta. Lì, scoprono di avere una sorellastra, la giovanissima Suzu, rimasta ormai orfana, e decidono di invitarla a vivere con loro...


Our Little sister
è un manga che ho adorato, forse perché l'ho acquistato poco dopo essere tornata dal mio secondo viaggio in Giappone e avere visto Kamakura, dov'è ambientato. Ero curiosa di vederne una trasposizione live action, tra l'altro diretta da un grande regista come Koreeda, ma mentirei se non dicessi che ne sono rimasta delusa. Prima di parlare del film, forse è meglio spiegare cos'è il manga, anche per capire le difficoltà che l'adattamento ha dovuto affrontare. Our Little Sister è uno slice of life e racconta le vicende quotidiane delle tre sorelle Koda che, un giorno, vengono convocate al funerale del padre che le aveva abbandonate da bambine. Lì incontrano Suzu, figlia di secondo letto dell'uomo, rimasta orfana di entrambi i genitori e costretta a affrontare la prospettiva di vivere con una terza donna che il padre aveva sposato dopo essere rimasto vedovo. Conquistate dalla maturità e dal contegno di Suzu, sentendosi in colpa per la natura scellerata del padre ("era uno stupido, ma buono"), le sorelle Koda invitano la ragazzina a vivere con loro nella grande casa materna, un edificio giapponese vecchio stile, a Kamakura, dove Suzu, letteralmente, rinasce. Il manga si concentra sulla carriera calcistica di Suzu e le vicende dei suoi compagni di scuola, sugli amori tormentati delle tre sorelle maggiori, sul loro legame con molti abitanti di Kamakura, cementati da attività "normali" come mangiare, preparare distillati, allenarsi, lavorare; attraverso questa quotidianità, l'opera tocca temi quali la morte (con tutto ciò che consegue, problemi economici e familiari in primis), la malattia, la capacità di tornare ad avere fiducia verso gli altri, l'importanza della famiglia, non necessariamente di sangue. E' un'opera che scorre lenta, una coccola quotidiana da leggere quando ci si sente malinconici, all'interno della quale ogni comprimario è importante. Purtroppo, date le premesse e la necessità di condensare una dozzina di volumi in due ore, il rischio di realizzare un film noioso e superficiale era dietro l'angolo, e purtroppo Little Sister è caduto nel tranello con tutte le scarpe. 


Il film di Koreeda è, infatti, un bignami del manga. Ci sono interi dialoghi riproposti parola per parola e situazioni identiche (ci sono persino i rafidoforidi nel bagno, con tanto di inquadratura sull'insetto!); a volte, questo approccio funziona, per esempio durante il funerale del padre delle sorelle o durante il duro confronto con la madre delle Koda, altre volte vien da pensare che la sceneggiatura avrebbe potuto approfondire un po' di più altri momenti, magari elaborando qualcosa di originale, invece di mostrare interminabili cene e pranzi in famiglia. Per accontentare i fan del manga sono stati inseriti alcuni personaggi che lì sono fondamentali, come il vecchio dello Yamanekotei oppure il giovane mantenuto di Yoshino, ma nel film si limitano, appunto, ad essere degli omaggi privi di carisma o utilità, che solo chi conosce l'opera della Yoshida potrebbe apprezzare; la loro importanza nella crescita delle sorelle, così come quella di alcuni eventi come la morte della signora della trattoria Umineko (indispensabile motore delle scelte lavorative di Sachi e della maturità emotiva e sentimentale di Yoshino), non viene percepita e risultano come tocchi di "colore", tanto per ravvivare la trama. Anche le quattro protagoniste non sono particolarmente memorabili. Little Sister si concentra soprattutto sul legame tra la sorella maggiore, Sachi, e la piccola Suzu, che oscilla tra la diffidenza iniziale e una lenta apertura, mentre Yoshino e Chika incarnano, rispettivamente, l'ubriacona umorale e la stramba di casa; a onor del vero, le due sorelle sono così anche nella prima parte del manga, e la loro crescita avviene nella seconda, però il film le rende due stereotipi monodimensionali, soprattutto Chika. Il problema di Suzu, invece, è l'attrice. Troppo remissiva, quasi inespressiva, brilla durante la sequenza della partita di calcio per poi spegnersi, lontana anni luce dalla Suzu matura ma vivace del manga. Per quanto mi riguarda, l'unico pregio di Little Sister sono le location, in particolare la casa dove vivono le sorelle Koda, una struttura in stile tradizionale con un ingresso splendido e degli interni che profumano di vecchio Giappone, perfetta per catturare le atmosfere del manga. Per il resto, un prodotto evitabile, che la scellerata Amazon Prime offre (peraltro solo a noleggio, quindi costringendo l'utente a pagare pur avendo l'abbonamento) solamente doppiato in italiano, il che rende il tutto ancora più piatto e monocorde. Un'occasione sprecata, peccato! 

 


Del regista e sceneggiatore Hirokazu Koreeda ho già parlato QUI.

venerdì 6 dicembre 2024

Bollalmanacco on Demand: Mary Reilly (1996)

Un po' mi addolora affrontare l'On Demand di oggi, perché Mary Reilly, diretto nel 1996 da Stephen Frears, è l'ultimo film richiesto da Arwen Lynch, ed è triste pensare che non mi chiederà di guardare più nulla. Oggi, più che mai, la sua natura profondamente cinefila mi manca tantissimo.


Trama: la giovane cameriera Mary Reilly si innamora del suo datore di lavoro, il dottor Henry Jekyll, e rimane turbata dall'arrivo del suo violento, ferale assistente, Edward Hyde...


Non ho mai letto il romanzo originale di Valerie Martin, pubblicato anche in Italia col titolo La governante del Dottor Jekill, ma mi è venuta in soccorso Lucia con un suo vecchio, prezioso articolo che mi ha fatta venire voglia di andare a caccia della versione Bompiani, mai vista su nessuna bancarella. Leggere il post di Lucia mi ha fatta anche un po' vergognare della mia ignoranza; non riguardavo Mary Reilly dai tempi dell'università ma l'ho sempre considerato (e l'opinione, dopo quasi 20 anni, non è cambiata) un bellissimo film, un gotico dalle sfumature sensuali con degli ottimi attori (salvo la protagonista, ahimé), che fa uno splendido uso della cupa fotografia, delle scenografie, persino degli oggetti di scena. In realtà, da ciò che ho letto mi sembra di capire che la sceneggiatura di Christopher Hampton banalizzi un po' il romanzo della Martin, trasformando le riflessioni di una donna del suo tempo nella classica battaglia tra innocenza e oscurità; in effetti, per chi come me ha amato Le relazioni pericolose (sempre frutto del sodalizio tra Frears e Hampton), il legame che si viene a creare tra Mary Reilly e Jekyll/Hyde, soprattutto quando subentra l'alter ego malvagio del dottore, ricorda molto quello tra la pura Madame de Tourvel e Valmont, fatto di assalti e resistenze sempre più deboli, ma anche di crisi di coscienza da parte del "cattivo", frastornato dalla dignitosa purezza dell'avversaria. Questo, nonostante Mary Reilly non sia cresciuta nella bambagia come Madame de Tourvel, anzi, l'esatto contrario. Mary ha subito, fin dall'infanzia, tutto l'orrore di avere a che fare con un uomo incapace di controllare i propri istinti violenti, e ne porta evidenti cicatrici sulla pelle. Il suo naturale distacco nei confronti di Jekyll deriva non solo dal rispetto dei rigidi codici vittoriani ma, probabilmente, anche da un'inevitabile terrore nei confronti degli uomini. Da qui, però, nasce anche l'attrazione verso un padrone di casa gentile, colto, che la sceglie, proprio in virtù del suo acume, come confidente privilegiata, elevandola dal resto del personale di servizio. Il naturale riserbo di Mary fa breccia anche nel violento alter ego di Jekyll, Hyde, e, anche in questo caso, l'impressione è che la cameriera venga "blandita" da una condizione di esclusività che nasce dall'essere l'unica ad avere avuto contatto diretto con l'uomo e la sola ad avere il potere di instillargli scrupoli morali. 


Lo "scontro" tra Mary e Jekyll deriva soprattutto da una diversa concezione di "male". Mary accetta l'oscurità del mondo, il dolore, come qualcosa di naturale, dignitoso ed inevitabile quanto la gioia; non lo subisce, ma neppure si dispera quando ne viene colpita, seguendo una mentalità molto pratica. Viceversa, Jekyll richiama Hyde per non soccombere all'orrore dell'esistenza (si parla di una "malattia", ma non è dato sapere se ci si riferisca alle tendenze licenziose di Jekyll, testimoniate dal suo rapporto di lunga data con Mrs. Farraday, o alla perdita di una persona amata), cercando un modo per diventare puro istinto e non venire più turbato da scrupoli di coscienza o vincoli legati alla morale o alle convenzioni sociali. Mentre John Malkovich incarna perfettamente questo dualismo, convincente com'è sia nei panni di tormentato, elegante gentiluomo, che in quelli di demone depravato, quella che fatica di più è Julia Roberts. Dopo il successo ottenuto con commedie romantiche palesemente a lei più consone, l'attrice ha cercato probabilmente di dimostrare che poteva anche reggere altri ruoli (e in futuro ci sarebbe riuscita); purtroppo, Mary Reilly non era forse il personaggio giusto, e per me è la Roberts l'unico, grande difetto del film. L'attrice non riesce a veicolare la naturalezza con cui Mary vive ed accetta le regole della sua società, la rende o un burattino rigido e perennemente immusonito, oppure uno spirito libero che scalpita per diventare altro, e anche i momenti di intimità con Malkovich funzionano poco, tanto è il carisma che l'attore trasuda anche nei panni del dimesso Jekyll. Ho sempre amato molto, invece, la regia di Frears, coadiuvata dalla fotografia plumbea di Philippe Rousselot, che imprigiona i personaggi all'interno della falsa sicurezza di quattro mura claustrofobiche e rappresenta alla perfezione l'ipocrisia dell'epoca vittoriana; la fredda, rigorosa gestione delle ville borghesi rispecchia l'esteriorità della gente perbene, ma appena girato l'angolo c'è lo schifo di sangue e sporcizia che infesta i vicoli della città, pronto ad esplodere ad ogni momento, come i sentimenti negativi che si nascondono nei suoi abitanti. Per tutti questi motivi, Mary Reilly è uno di quei film che rivedo sempre volentieri, e che mi rapiscono nonostante le imperfezioni. Recuperatelo, se non vi è mai capitato di guardarlo, soprattutto se vi piacciono le opere gotiche. Io intanto cercherò il romanzo!


Del regista Stephen Frears ho già parlato QUI. Julia Roberts (Mary Reilly), John Malkovich (Dr. Henry Jekyll / Mr. Edward Hyde), Michael Gambon (padre di Mary), Glenn Close (Mrs. Farraday), Michael Sheen (Bradshaw) e Ciarán Hinds (Sir Danvers Carew) li trovate invece ai rispettivi link.


Tim Burton
avrebbe dovuto dirigere il film ma ha rifiutato per scazzi produttivi, portando con sé anche la possibilità di una Winona Ryder protagonista. Niente di fatto anche per Daniel Day-Lewis, che ha declinato l'offerta di interpretare Jekyll/Hyde, e per Uma Thurman, che ha perso non solo il ruolo titolare ma anche la possibilità di venire candidata a un Razzie Award, onore invece toccato sia a Julia Roberts (quell'anno vinse però Demi Moore per Striptease) che al regista Stephen Frears. Il prossimo film On Demand sarà Little Sister. ENJOY!


mercoledì 31 luglio 2024

Il Bollalmanacco On Demand: Kissed (1996)

Oggi esaudirò la richiesta di Franz Wittenberg (che dopo quattro anni non penso leggerà più il mio sfigatissimo blog) e parlerò di Kissed, diretto e co-sceneggiato nel 1996 dalla regista Lynne Stopkewich a partire dal racconto We So Seldom Look on Love di Barbara Gowdy. Il prossimo film On Demand sarà Mary Reilly. ENJOY!


Trama: fin da bambina, Sandra è affascinata dalla morte. Una volta cresciuta, va a lavorare in un'agenzia di pompe funebri, dove la sua fascinazione si evolve ulteriormente...


Franz mi aveva nominato Kissed nei commenti di The Corpse of Anna Fritz, definendolo "un film che ha saputo rendere fruibile il tema della necrofilia riuscendo a mostrarci il delicato e, sotto certi aspetti, comprensibile ritratto di una bella e sensibile necrofila". Ammetto di avere accolto il commento con parecchio scetticismo, perché la necrofilia è una delle poche cose che mi danno davvero fastidio, specialmente se mostrate sullo schermo, ma siccome Franz mi ha ribadito il concetto anche nel commento seguente, ho deciso di inserire Kissed negli on demand. Ora, il film di Lynne Stopkewich non rientrerà mai nel mio novero di opere preferite e non mi ha spinta a cambiare idea relativamente alla rappresentazione di un argomento che ritengo debba essere tabù, ma non posso che dare ragione a chi mi ha consigliato di vederlo senza timore, perché ha un registro narrativo sorprendente. Kissed, pellicola peraltro molto breve, comincia mostrando squarci dell'infanzia di Sandra, ragazzina affascinata dalla morte al punto da indulgere in complicati rituali prima di seppellire gli animaletti morti trovati per strada. La fascinazione di Sandra non nasce da una perversione, quanto piuttosto dalla convinzione di riuscire a percepire l'anima delle creature defunte, qualcosa che rimane in loro anche dopo la morte e che non li rende meri corpi inanimati. La natura spirituale della "devianza" della ragazzina è palese, e l'accompagna durante gli anni del liceo e, infine, della maturità, quando per un'occasione fortuita Sandra finisce a lavorare in un'agenzia di pompe funebri. Il desiderio di contatto, di comunione con la morte, della protagonista aumenta di pari passo con le pulsioni sessuali proprie di una donna della sua età, generando un tormento che Sandra cerca di sedare cominciando a frequentare Matt, studente fuori corso di medicina. La particolarità della vicenda è il modo in cui il personaggio principale agisce seguendo convinzioni innocenti e pure, frutto di ragionamenti ponderati, nonostante la consapevolezza che agli occhi degli altri risulteranno comunque sbagliate (per non dire orribili, disgustose e passabili di condanne penali); Sandra, inevitabilmente, soffre della sua dipendenza ma non la rinnega, la vive come un modo per rispettare i morti e coglierne l'essenza più pura e luminosa.


A proposito di luminoso, la luce bianca è l'aspetto fondamentale di Kissed. Qui, più che in tantissimi altri film visti nel corso della mia vita, ho percepito il valore fondamentale della regia, della fotografia e delle immagini attraverso le quali un autore decide di raccontare una storia. Lynne Stopkewich (la quale, nonostante il sensazionale successo di Kissed è finita in un limbo di lavori televisivi neppure troppo famosi) confeziona sequenze che non sfigurerebbero in una pellicola romantica, ammantando Sandra di una delicata luce soffusa che ne ammorbidisce i lineamenti rendendoli ancora più dolci, la separa dalla trivialità del mondo e rende quasi "sacra" (passatemi il termine, vi prego) la sua unione sessuale con le salme. Non si percepisce morbosità alcuna, non passa nessuna sensazione di disgusto tranne quella razionale inculcata giustamente dalla morale comune, e la sfida vinta dalla Stopkewich è stata proprio quella di consentire allo spettatore di accettare Sandra come essere umano, non come mostro. Un essere umano complesso, colmo di contraddizioni, condannato alla solitudine da una sensibilità troppo particolare, eppure fermo nelle sue decisioni e nel perseguire i suoi obiettivi, quindi non una persona "fallita" o per la quale provare pietà. Fondamentale è anche l'uso degli sfondi, dei colori e degli abiti, soprattutto nel momento in cui Sandra incontra Matt. Là dove la prima viene mostrata, fin dall'inizio, circondata dalla natura e vestita con abiti dallo stile un po' bohemien i cui colori richiamano la luce fredda della morte, Matt è connotato come uno stalker sudaticcio che frequenta ambienti chiusi, squallidi e bui, un ragazzo vuoto che ritrova una scintilla di vita solo attraverso le stranezze di Sandra, di cui vorrebbe fare parte senza capirle. La cosa che ho più apprezzato di Kissed, comunque, è proprio la volontà di non fare della necrofilia (per quanto mostrata, questo è innegabile) l'argomento principale del film, quanto piuttosto un mezzo per indagare sull'animo umano e sul bisogno di trovare una connessione con qualcosa di "superiore", superando una dimensione terrena ed imperfetta che rischia di spegnere la luce interiore delle persone. Non so se Kissed è un film che mi sento di consigliare a cuor leggero, perché la necrofilia comunque c'è ed è potenzialmente un enorme, comprensibile veicolo di trigger, ma confermo la sensibilità, la delicatezza e la serietà con cui la regista si è approcciata all'argomento. 


Di Molly Parker, che interpreta Sandra, ho già parlato QUI.

Lynne Stopkewich è la regista e co-sceneggiatrice del film. Canadese, ha diretto il film Suspicious River ed episodi di serie come The L World. Anche scenografa e produttrice, ha 60 anni.



martedì 16 luglio 2024

Il Bollalmanacco On Demand: Phenomena (1985)

Torna il Bollamanacco on Demand con Phenomena, film richiesto da Arwen chissà quanto tempo fa. Mi spezza il cuore che Laura non possa più leggere né commentare le stupidate che scrivo su questo blog ma non smetterò mai di ringraziarla per tutti i film che mi ha spinto (e ancora mi spingerà, prossimamente) a vedere o riguardare. Nel piccolo della nostra comunità di blogger, non esisterà mai una cinefila appassionata come lei. 


Trama: Jennifer, figlia di un famoso attore americano, viene iscritta in un collegio svizzero. Nei pressi, un feroce serial killer fa scempio di ragazzine e Jennifer, per salvarsi dalle mire di costui, dovrà ricorrere al suo potere ESP, che le consente di comunicare con gli insetti...


Durante la visione di Abigail, il mio amico Ale ha dichiarato di avere apprezzato molto la citazione della "piscina di Phenomena", e io mi sono resa conto di non ricordare più una mazza di un film visto 30 anni fa e poi mai più. Ho quindi appreso con gioia che l'On Demand del mese era proprio Phenomena e, avendolo rivisto con Abigail ancora fresco in mente, posso confermare senza timore che il buon Ale aveva ragione, le piscine dei due film possono essere tranquillamente cugine, se non sorelle, e mi causano conati profondi allo stesso modo. Così non è invece per Phenomena, un'ottima pellicola del periodo in cui il nome Dario Argento era ancora una garanzia, benché forse si tratti di un'opera dallo stile inusuale rispetto al resto della sua filmografia. Phenomena è infatti una fiaba nera avente per protagonista una ragazzina col potere di comunicare con gli insetti e, se è vero che la vicenda la vede impegnata contro un serial killer, l'ambientazione e tutta una serie di altri elementi sono distanti da quelli dei violenti thriller del regista. Ci sono alcune caratteristiche che lo accomunano a Suspiria, come il fatto che la protagonista sia una ragazza costretta a frequentare una scuola in un paese straniero e che l'ambiente scolastico non sia proprio amichevole, ma in Suspiria il fulcro era proprio l'Accademia di danza e tutto ciò che essa nascondeva, qui invece il cuore della storia è Jennifer, una divinità (o un demone?) in miniatura che fin dal principio risulta essere un gradino sopra le sue coetanee. Jennifer è diversa dagli altri: bellissima, figlia di un attore famosissimo, ama gli insetti e loro la amano di rimando, al punto da aiutarla e difenderla quando la sua diversità la porta ad entrare in risonanza con la mente di un assassino. Jennifer è la principessa della fiaba, l'eroina se vogliamo, ma non è soltanto una bella figurina vuota. Diversamente da altre protagoniste argentiane, Jennifer gode di quel minimo approfondimento psicologico che ci fa capire come la solitudine derivante dall'avere un padre famoso e sempre impegnato sia ulteriormente accresciuta da un potere misterioso che la rende diversa dagli altri, e ciò consente allo spettatore di sviluppare maggiore empatia nei suoi confronti, cosa che rende l'orrore di cui è permeato il film ancora più efficace.


Se il sembiante di Jennifer e l'ambientazione svizzera con in suoi boschi da cui non si riesce ad uscire (per non parlare della casa della "strega" nel prefinale) evocano tantissimo l'idea di una fiaba nera, molte immagini e sequenze del film hanno connotazioni fortemente oniriche e le qualità di un incubo, come se la protagonista non le mettesse effettivamente a fuoco o fosse soverchiata dall'orrore degli avvenimenti. Tante cose che accadono nel film, infatti, non hanno una spiegazione logica, oppure vengono mostrate all'improvviso senza nessuna correlazione con ciò che è accaduto in precedenza, ma non lo ritengo un difetto, quanto piuttosto il frutto della volontà di creare un'opera potente ed evocativa, in grado di inquietare a prescindere dalla violenza che viene messa in scena quando il killer colpisce. Altri elementi che danno un tocco surreale al tutto sono il voice over del narratore quando Jennifer arriva a scuola (voce che non si sentirà più per il resto del film), la presenza di una scimmia "infermiera", il suono costante del vento, emblema di follia, e, soprattutto, la spettacolare colonna sonora dei Goblin (il tema portante del film è il fiore all'occhiello di Argento Vivo, CD acquistato in Australia e consumato a furia di ascoltarlo) intervallata da pezzi originali di Iron Maiden e altri gruppi "delicatissimi". Dulcis in fundo, c'è Jennifer Connelly. Io non so come sia possibile l'esistenza di un essere umano così bello, ma la Connelly, all'età di quattordici anni, aveva un volto perfetto e un magnetismo che le giovani attrici di oggi si sognano; più che altro, la cosa che stupisce, è che in Labyrinth sembra molto più "bambina", mentre sia  Sergio Leone che Dario Argento sono riusciti a tirarle fuori un'ombra di nobile alterigia nello sguardo e nell'espressione, un dettaglio che la rende adulta, quasi ultraterrena. E pensare che Argento poi ha fatto solo dei gran pasticci, soprattutto a livello di direzione degli attori. E' un vero peccato che abbia sparato tutte le ultime cartucce con Phenomena, ma da un certo punto di vista meno male, altrimenti non esisterebbe questo piccolo, originalissimo gioiello!


Del regista e co-sceneggiatore Dario Argento, che funge anche da narratore, ho già parlato QUI. Jennifer Connelly (Jennifer Corvino), Daria Nicolodi (Frau Brückner), Donald Pleasence (Professor John McGregor), Michele Soavi (Kurt, l'assistente di Geiger) li trovate invece ai rispettivi link.


Nel cast ci sono che Dalila Di Lazzaro nei panni della direttrice dell'istituto e Fiore Argento, che interpreta Vera Brandt. Nel 2001 era stato annunciato un sequel ma, siccome Dario Argento era sotto contratto con la Medusa, il progetto è sfumato. Ciò detto, se Phenomena vi fosse piaciuto recuperate Suspiria. ENJOY!

martedì 7 maggio 2024

Il Bollalmanacco on Demand: Angel Heart - Ascensore per l'inferno (1987)

Torna dopo qualche mese l'appuntamento col Bollalmanacco On Demand! La richiesta di oggi è stata fatta da Arwen del blog La fabbrica dei sogni, e trattasi di un horror che non rivedevo da decenni, ovvero Angel Heart - Ascensore per l'inferno (Angel Heart), diretto e sceneggiato dal regista Alan Parker a partire dal romanzo Falling Angel di William Hjortsberg. Il prossimo film On Demand sarà Phoenomena. ENJOY!


Trama: l'ambiguo Louis Cyphre chiede al detective Harry Angel di rintracciare un musicista scomparso. Il detective si ritroverà coinvolto in una strana storia a base di cadaveri e voodoo...


Angel Heart
è una curiosa contaminazione tra noir e horror, pervaso, fin dalle prime sequenze, di un'aria non solo malinconica, ma anche "sporca". Protagonista è Harry Angel, uno dei detective cinematografici meno antipatici mai comparsi sullo schermo; Harry da l'idea di farsi i fatti suoi, nonostante la natura del lavoro che svolge, non è strafottente né minaccioso, al limite un po' piacione con le signorine che incontra durante le indagini. Un giorno viene incaricato da Louis Cyphre, un ambiguo riccone, di ritrovare il cantante Johnny Favourite, scomparso prima di saldare un debito proprio con Cyphre. Quella che si preannuncia come un'indagine di routine, diventerà nel giro di poco una discesa all'inferno costellata da testimoni uccisi in modo brutale, ulteriormente complicata da indizi sempre più evidenti legati alla magia nera e al voodoo, mentre la figura di Johnny Favourite si rivela assai più oscura rispetto a quella di un normale cantante. Non andrò avanti a ricamare sulla trama nel caso (probabile, chissà!) che chi legge non abbia mai visto Angel Heart, quindi parlerò un po' delle atmosfere del film. Come ho scritto all'inizio, Angel Heart è un ibrido. Ambientato negli anni '50, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, presenta lo stile tipico di un noir e ne conserva alcuni cliché a livello di personaggi (il detective, il committente dalla dubbia moralità, la femme fatale) e di ambienti metropolitani, tra fumosi bar, appartamenti squallidi e ancor più squallidi alberghi, ma questi elementi vengono arricchiti e resi inquietanti da qualcosa di completamente diverso dal noir. Harry Angel si muove in un mondo che sembra appartenere a una dimensione parallela alla nostra, governato da rituali inquietanti e superstizioni, in bilico tra iconografia cattolica e ciò che di misterioso si nasconde nelle campagne della Lousiana; le figure dei santi, le chiese e i gospel si mescolano ad immagini di feticci, al sangue di polli e galline, al ballo forsennato delle mambo, a qualcosa di talmente radicato nel territorio che un detective nato e cresciuto a New York non potrà mai capire fino in fondo.


La confusione e l'inquietudine di Harry Angel si trasmette allo spettatore grazie alla regia raffinata di Alan Parker, il cui stile elegante non evita sequenze di disgustosa potenza che includono dettagli di cadaveri seviziati nei modi più terribili, o visioni mistiche grondanti sangue. Anche in assenza di immagini esplicite, il disagio del personaggio si manifesta nel fastidio di un caldo perenne che sembra appiccicare gli abiti alla pelle di Mickey Rourke, mentre le inquadrature insistite di ventilatori neri come la pece richiamano l'idea di un'aria talmente soffocante che nemmeno gli strumenti inventati dall'uomo sono in grado di dare sollievo a chi è rimasto invischiato. Il tutto, giustamente, dà l'idea di una situazione da cui è impossibile uscire, e anche il tocco sensuale ed elegante di una colonna sonora jazz di tutto rispetto non fa altro che aumentare la sensazione di estraneità e disagio che sembra essere dominante nel personaggio di Harry Angel. Mickey Rourke, all'epoca, era uno degli attori più belli e carismatici in circolazione, l'anno prima era uscito Nove settimane e mezzo, quindi parliamo di un uomo che richiamava sensualità ad ogni gesto, in grado di conferire un fascino particolare al suo detective; le sequenze che lo vedono "interagire" con Lisa Bonet, all'epoca appena diciottenne, hanno fatto scandalo a ragione (a prescindere dai risvolti della trama, decisamente angoscianti) perché, benché non siano esplicite, sono MOLTO più realistiche e coinvolgenti di quelle di un banale porno, e si sa che in America bisogna sempre fare finta che il sesso non esista. Nelle mani di un altro regista, questa commistione tra noir, horror ed erotismo sarebbe probabilmente diventata un pasticcio di cui ridere, ma Alan Parker è riuscito a trovare un equilibrio miracoloso, e a far sì che De Niro, benché abbia uno screentime di una decina di minuti in tutto il film, diventasse una delle migliori incarnazioni cinematografiche del Demonio. Onestamente, non so perché Angel Heart non abbia avuto successo alla sua uscita, ma io l'ho già visto un paio di volte e ogni volta è una soddisfazione, anche conoscendo la trama, quindi ringrazio Arwen per avermelo chiesto e a voi consiglio la visione, se non avete mai avuto il piacere!  


Del regista e sceneggiatore Alan Parker ho già parlato QUI. Mickey Rourke (Harry Angel), Robert De Niro (Louis Cyphre), Lisa Bonet (Epiphany Proudfoot), Charlotte Rampling (Margaret Krusemark) e Pruitt Taylor Vince (Detective Deimos) ho parlato ai rispettivi link. 


Il ruolo di Harry Angel era stato offerto a Jack Nicholson, Al Pacino e persino a De Niro. Se Angel Heart - Ascensore per l'inferno vi fosse piaciuto recuperate Constantine e Seven. ENJOY!

martedì 13 febbraio 2024

Bollalmanacco On Demand: Anatomia di una caduta (2023)

Oggi unisco una rubrica a me molto cara ma, ahimé, un po' negletta, alla consueta Road to the Oscars annuale, coniugando la richiesta di Patrizia con la necessità di guardare Anatomia di una caduta (Anatomie d'une chute), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dalla regista Justine Triet e candidato a cinque premi Oscar: Miglior film. Miglior regia, Miglior attrice protagonista, Miglior sceneggiatura originale e Miglior montaggio.

Trama: quando un uomo viene ritrovato morto nei pressi del suo chalet di montagna, dopo una presunta caduta dal terzo piano, la moglie viene sospettata di omicidio...


Avevo perso Anatomia di una caduta per via delle date limitate e gli orari balenghi del cinema d'élite, e mi era dispiaciuto molto perché tutti lo incensavano. L'attesa è stata lunga, ma, finalmente, posso dare ragione a chi ha definito questo film un gioiello. Anatomia di una caduta è un thriller ibridato con un legal drama e, soprattutto, uno studio psicologico raffinatissimo non solo dei protagonisti e dei legami che intercorrono tra essi, ma anche del modo in cui la percezione del singolo viene influenzata da dubbi, preconcetti e pressione sociale. Tutto prende il via dalla morte di Samuel, insegnante e aspirante scrittore che viene trovato morto in mezzo alla neve dal figlioletto cieco, di ritorno da una passeggiata. Poiché il luogo della morte è lo chalet di montagna di Samuel, e poiché in quel momento solo lui e la moglie Sandra si trovavano all'interno, la donna viene indagata e processata per omicidio, mentre il piccolo Daniel diventa l'unico, inaffidabile testimone di una vicenda ricostruita ed analizzata tramite perizie esterne e prove circostanziali che scoperchiano un vaso di Pandora fatto di rancore, colpe rinfacciate, dolore ed egoismo. Davanti agli occhi della giuria (e degli spettatori) viene messo a nudo un legame affettivo duramente provato dall'incidente che è costato la vista a Daniel, e logorato in maniera irreparabile dall'incapacità che hanno Sandra e Samuel di venirsi incontro. Sandra è una scrittrice famosa, la sua vita è consacrata alla propria arte e tutto ruota attorno ai suoi ritmi, mentre Samuel è schiacciato dalla frustrazione di essere uno scrittore fallito che ha dovuto ripensare la sua esistenza in funzione dei bisogni della moglie e del figlio: ogni crepa della relazione viene definitivamente chiarita dalla spietata registrazione della litigata furibonda accorsa il giorno prima della morte di Samuel, ma i rapporti "di forza" tra i due sono chiari fin dalla prima, geniale sequenza, in cui la musica a tutto volume del marito (non ascolterete mai più P.I.M.P. con la stessa spensieratezza) arriva, inopportuna e fastidiosa, ad interrompere l'intervista di Sandra, costretta a congedare la sua interlocutrice con un sorriso indulgente, colmo di amara ironia.  


A sconvolgere, durante la visione di Anatomia di una caduta, non è tanto la scoperta di altarini nascosti o la capacità della Triet di presentarci una vicenda priva di risoluzione (nessun flashback arriverà, alla fine, ad avvallare o confutare il verdetto), ma la spietatezza riservata al piccolo "osservatore" esterno che, con volontà incrollabile e un terribile desiderio di sapere, si ritrova con la famiglia e l'infanzia a pezzi, condannato a rimanere solo con una madre che potrebbe o non potrebbe essere un'assassina. Il "la verità è solo quella in cui desideri fermamente credere", offerto a mo' di salvagente dopo un devastante attacco di panico, è qualcosa con cui la mente di un bambino, per di più privato di un senso importante come la vista, rischia di non venire mai a patti, e la conseguenza è la possibilità concreta di diventare un adulto egoista e disorientato come i suoi genitori. Per questo, ritengo che l'intero cast sia da Oscar, non solo la bravissima Sandra Hüller, che interpreta una straniera in terra straniera, costretta ad articolare concetti difficili e personali in una lingua a lei quasi sconosciuta (il film andrebbe visto in v.o.), in un'alternanza incredibile di momenti in cui la protagonista meriterebbe schiaffi e biasimo ad altri in cui suscita una pena infinita; il piccolo Milo Machado Graner mette una gran pena (e mannaggia al mio animo horror, che per un attimo terribile mi ha ingannata) ma il mio cuore è andato interamente a quel grandissimo merda di Antoine Reinartz, un avvocato d'accusa implacabile e spietato, pronto a non fare eccezioni nemmeno per un ragazzino palesemente impaurito ed insicuro, davanti al quale la mia speranza che Sandra fosse innocente ha vacillato più volte, "deviata" dal ritratto di un'assassina costruito con granitica convinzione. E questa è la conferma definitiva che Anatomia di una caduta è, innanzitutto, un efficacissimo film sulla manipolazione e sul potere di una narrazione costruita ad arte, per quanto distorta, un'opera necessaria in quest'epoca che ci vede pronti ad additare e condannare senza pensarci su due volte. Guardatelo, non ve ne pentirete!

Justine Triet è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Francese, ha diretto film come Tutti gli uomini di Victoria Sibyl - Labirinti di donna. Anche montatrice e produttrice, ha 45 anni. 


Sandra Hüller
interpreta Sandra Voyter. Tedesca, ha partecipato a film come Vi Presento Toni Erdmann, Sibyl - Labirinti di donna e La zona d'interesse. Ha 46 anni e un film in uscita. 


 

martedì 1 agosto 2023

Bollalmanacco On Demand: L'orribile segreto del Dr. Hichcock (1962)

Ho saltato Ciao, nì! perché davvero non potevo farcela, ma per l'On Demand di oggi ho finalmente esaudito una richiesta di Bobby Han Solo, ovvero quella di guardare L'orribile segreto del Dr. Hichcock, diretto nel 1962 dal regista Riccardo Freda (sotto lo pseudonimo di Robert Hampton). Il prossimo film On Demand sarà Angel Heart - Ascensore per l'inferno. ENJOY!


Trama: dodici anni dopo la morte della prima moglie, il dottor Hichcock si risposa con la bella Cynthia. Quest'ultima, però, comincia a notare strani ed inquietanti fenomeni nella nuova dimora, mentre il marito si fa sempre più freddo e scostante...


L'orribile segreto del Dr. Hichcock è un ottimo, elegante esempio di gotico all'italiana, molto debitore delle atmosfere dei film Hammer. Non è una pellicola che mette particolare paura, come spesso succede in questi casi, ma è affascinante per i topoi gotici che inanella non solo a livello di scrittura ma, soprattutto, per quanto riguarda la messa in scena; il film è privo di quei colori saturi e sgargianti tanto cari a Bava, tuttavia ha uno stile rigoroso che fila come un treno ed è prodigo di fitte nebbie che nascondono giardini zeppi di rovi, sotterranei umidi illuminati da candele smoccicate e camere da letto dove la fioca luce lunare rivela gli angoscianti contorni di incubi fusi nelle ombre (che potrebbero essere veri oppure frutto della mente affaticata di una donna che, come sempre accade in questo genere di storie, ha sposato l'uomo sbagliato). C'è però qualcosa, ne L'orribile segreto del Dr. Hichcock, che lo differenzia dalle opere simili uscite contemporaneamente o in precedenza, ed è appunto il segreto del titolo italiano. E' qualcosa, in effetti, che nel 2023, abituati come siamo a vedere in TV o al cinema le peggio cose, magari non salta tanto all'occhio, ma dovete capire che questo è un film girato nel 1962, prima che arrivasse il "buon" Aristide Massaccesi col suo Buio Omega a sdoganare la necrofilia sbattendola in faccia al pubblico con dovizia di particolari. Qui, il "segreto" è rappresentato in maniera più sottile ma inequivocabile e ricade interamente sull'interpretazione del povero Robert Flemyng (attirato da uno script ingannevole, quando ha capito che tipo di personaggio avrebbe incarnato ha cercato di tirarsi fuori, e solo un contratto già firmato gli ha impedito di scappare dal set), costretto a disgustose sequenze in cui il suo personaggio palpeggia cadaveri di giovani fanciulle dopo avere invano tenuto a bada l'orrido impulso per tutta una serie di primi piani fatti di labbra leccate e fronti sudate. Immaginate nel '62 cosa dev'essere stato vedere una cosa simile al cinema, considerato che non è proprio bellissimo nemmeno oggi.


A fare le spese di questa ossessione c'è la sempre affascinante, elegantissima, splendida Barbara Steele nei panni della seconda moglie. Ora, grazie a Marika sto leggendo l'ottimo saggio semi-autobiografico House of Psychotic Women della studiosa di horror Kier-La Janisse, ed è stato interessante guardare il film nell'ottica di ciò che è scritto nel libro, che in un capitolo sottolinea come le donne, nell'horror italiano di quegli anni, fossero sempre condannate ad essere pazze e, per questo, sempre trattate a pesci in faccia anche da protagonisti maschili positivi. Cynthia non fa eccezione, e in uno dei dialoghi veniamo a sapere infatti che il dottor Hichcock l'ha incontrata in una clinica per malattie mentali, dov'era stata ricoverata per esaurimento; mentre la prima, docile moglie si sottometteva alle voglie del dottore con tutte le conseguenze del caso, Cynthia ha anche troppa personalità (la scena in cui prova ad esprimere il suo pensiero uscita dall'Opera e viene prevaricata dai due dottori, tra cui quello che diverrà il suo knight in shining armour è tristissima) e non ci vuole molto perché la sua natura fragile venga sfruttata da Hickcock e dalla sua governante con una serie di episodi di gaslighting da manuale, riducendola all'ombra di se stessa e condannandola ad uno stato di paranoia che, ironicamente, ne decreterà la salvezza. Il vero difetto del film, in effetti, è che a un certo punto la trama sbraga affondando i denti nell'assurdo, ma anche questo, in fondo, fa parte del suo fascino weird, tanto quanto la Steele che si mette a letto con le ciglia finte e il rossetto color pèsca per poi svegliarsi al mattino col cuscino pulito e il trucco intonso, quindi il mio consiglio è quello di vedere L'orribile segreto del Dr. Hichcock e ringrazio Bobby Han Solo per avermelo chiesto!


Di Barbara Steele, che interpreta Cynthia Hichcock, ho già parlato QUI.

Riccardo Freda (come Robert Hampton) è il regista della pellicola. Nato in Egitto, ha diretto film come I Vampiri, Caltiki il mostro immortale, Lo spettro e Maciste all'Inferno. Anche sceneggiatore, attore e produttore, è morto nel 1999, all'età di 90 anni. 


Se L'orribile segreto del Dr. Hichcock vi fosse piaciuto recuperate I Vampiri, Amanti d'oltretomba e La maschera del demonio (li trovate tutti su Prime ma solo L'orribile segreto del Dr. Hichcock  e La maschera del demonio sono compresi nell'abbonamento). ENJOY!   


martedì 23 maggio 2023

Bollalmanacco on Demand: Greta (2018)

Torna il Bollalmanacco On Demand con un film richiesto nientemeno che da Mr. Ink del blog Diario di una dipendenza! Oggi parlerò di Greta, diretto e co-sceneggiato nel 2018 dal regista Neil Jordan. Il prossimo film On Demand sarà L' Orribile Segreto Del Dr. Hichcock! ENJOY!


Trama: la giovane Frances, da poco orfana di madre, trova sulla metro una borsa abbandonata e la riporta a Greta, elegante vedova di origini europee che vive da sola. Dall'episodio nasce un'amicizia, che si incrina quando Frances scopre l'inquietante segreto di Greta...


Purtroppo è passato tantissimo tempo da quando Michele mi ha chiesto di recensire Greta e non ricordo, ahimé, il contesto in cui è nata quest'occasione di confronto, quindi chiedo al diretto interessato di dire la sua, magari nei commenti! Per quanto mi riguarda, guardare Greta è stato come fare un tuffo negli anni '80/'90, in piena febbre da "Ciclo Alta Tensione", che offriva allo spettatore thriller sul filo dell'assurdo dove persone assolutamente normali vedevano la loro vita sconvolta da matti col botto. E' ciò che accade alla povera Frances, ragazzotta di buon cuore finita a fare la cameriera a New York, che in un giorno come tanti trova sulla metro una borsa abbandonata e decide di restituirla personalmente alla proprietaria. Quest'ultima è la Greta del titolo, un'elegante signora dall'accento francese che, complice la condizione di vedova solitaria e con figlia lontana, si accattiva le simpatie della sensibile Frances ed instaura un rapporto di sincera amicizia con la ragazza. Tutto crolla quando Frances scopre l'inquietante segreto di Greta, che inizialmente va a collocarla, su una scala di follia da zero a psicopatica, al livello "follower di Giorgia Soleri". La ragazza decide comprensibilmente di non avere più niente a che fare con Greta e tutto finirebbe lì, non fosse che la signora si incaponisce e da "semplice" eccentrica diventa una stalker via via sempre più pericolosa, con sviluppi della trama che vi lascio il piacere di scoprire. Come tutti i film di genere, Greta funziona grazie a un po' di sospensione dell'incredulità (soprattutto verso la conclusione, a causa di una scelta di Frances che lascia abbastanza perplessi), aiutata dal fatto che, purtroppo, è vero che la legge non tutela minimamente le vittime di stalking finché il persecutore non passa alle minacce fisiche vere e proprie, quando ormai è già troppo tardi; diversamente da altre pellicole simili, invece, la protagonista non viene fatta passare per scema, e la sua migliore amica la sostiene fin da subito nel corso della sua lotta disperata contro le attenzioni indesiderate di Greta, elemento della trama che mi è piaciuto molto.


Per quanto riguarda la realizzazione, Greta ha il difetto di essere leggermente piatto e trattenersi troppo durante il primo e il secondo atto, forse per rispetto di un'attrice blasonata come Isabelle Huppert. Ciò è un vero peccato, perché l'attrice esplode nel terzo, folle atto, che la trasforma in una strega cattiva da fiaba e va incontro alla vocazione registica di Neil Jordan, il cui stile è perfetto per questo genere di storie dark e un po' grottesche; a differenza di un thriller come Watcher, che vede come protagonista proprio Maika Monroe, Greta non riesce a sfruttare appieno gli ambienti in cui viene a trovarsi la protagonista (tranne quando la casa di Greta, all'interno della quale i suoni esterni e il tempo sembrano annullarsi, diventa il luogo principale dell'azione), né a creare un reale senso di isolamento attorno alla Moretz, di conseguenza risulta piatto e privo di personalità, almeno fino al provvidenziale tintinnio del forno a microonde, un suono che preannuncia il cambiamento di registro della pellicola, rendendola molto più interessante (e anche schifosa. In una scena che coinvolge una siringa ho dovuto distogliere lo sguardo). Avessero deciso di giocare fin da subito la carta del weird, Greta avrebbe potuto essere un capolavoro, ciò nonostante il film risulta molto godibile, perché si regge interamente sull'interpretazione di attrici assai brave. Chloë Grace Moretz, coi suoi grandi occhioni e il sembiante da brava ragazza ingenua, fa tutto quello che si può chiedere a una protagonista, la Huppert si è palesemente divertita e, come ho scritto sopra, non si sottrae alla richiesta di alzare il tasso di weirdness da un certo punto in poi, cosa che rende il suo personaggio ancora più inquietante, e la Monroe fa come il buon vino, ovvero migliora se lasciata a riposo. Capirete il perché di quest'ultima affermazione guardando il film, che ovviamente vi consiglio, anche in virtù di una breve durata che gli impedisce di annoiare lo spettatore, trattenendolo dall'inizio alla fine. Peccato che ormai questa regola aurea di brevità non venga più seguita!


Del regista e co-sceneggiatore Neil Jordan ho già parlato QUI. Isabelle Huppert (Greta Hideg), Chloë Grace Moretz (Frances McCullen), Maika Monroe (Erica Penn), Colm Feore (Chris McCullen) e Stephen Rea (Brian Cody) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Greta vi fosse piaciuto recuperate Watcher (lo trovate a noleggio su varie piattaforme legali). ENJOY!

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