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martedì 3 giugno 2025

La trama fenicia (2025)

Siccome io e l'amico Toto siamo bimbi di Wes Anderson, siamo corsi a vedere il suo ultimo film, La trama fenicia (The Phoenician Scheme), il giorno stesso dell'uscita.


Trama: il ricco industriale e avventuriero Zsa-zsa Korda, sopravvissuto all'ennesimo attentato, decide di nominare come erede universale la figlia Liesl, una novizia in procinto di prendere i voti. Tutto ciò per riuscire a realizzare la sua opera più ambiziosa, una complessa infrastruttura in Fenicia...


Su Facebook e Instagram, dove butto giù brevissimi pensieri a caldo sulle visioni concluse, ho messo in guardia i miei sparuti followers relativamente all'odio (o la noia) che molti, dopo anni di onorata carriera, sono arrivati a provare verso Wes Anderson. Per queste persone, lo ribadisco, La trama fenicia sarà una sofferenza, perché la trama, benché complicatina a livello di "schema", apparentemente è molto semplice e lineare, e sembra proprio un mero esercizio del solito stile andersoniano. Come sempre, però, "oltre alle simmetrie e ai colori pastello c'è di più". Gli ultimi film di Wes Anderson, diciamo a partire da The French Dispatch, hanno il potere di lasciarmi perplessa alla fine dei titoli di coda. Il che non significa che non mi piacciano ma, poiché ho ormai una certa età, faccio un po' fatica ad introiettare tutti gli stimoli uditivi e visivi che si affastellano con la stessa rapidità con cui i personaggi del regista snocciolano dialoghi lunghissimi, quindi, solitamente, mi serve un giorno per riflettere con calma su cosa avesse voluto raccontare Wes Anderson. In questo caso, La trama fenicia narra il viaggio fisico e spirituale di un freddo, cinico e ambiguo uomo d'affari, abituato a diffidare dei legami familiari e a contare solo su se stesso, fin dalla più tenera età. Le famiglie disfunzionali non sono una novità per Wes Anderson, anzi, si può tranquillamente dire che tutti i suoi personaggi o quasi partano (e spesso rimangano bloccati) all'interno di una condizione anaffettiva o siano comunque incapaci a relazionarsi in modo "normale" con gli altri. Forse, però, è la prima volta che Anderson tocca il tema della redenzione anche in senso religioso, dando al protagonista de La trama fenicia la possibilità di "morire" e "risorgere" più e più volte, fino ad una rinascita finale definitiva (d'altronde, non credo sia un caso tirare in ballo, almeno nei toponimi, il mitologico uccello che rinasce dalle sue ceneri). La scelta di affiancare a Korda una figlia suora, oltre ad offrire la possibilità di una critica ad una Chiesa che predica bene ma razzola male, soprattutto quando in ballo ci sono molti soldi, apre uno squarcio sul pensiero di Anderson e del co-sceneggiatore Roman Coppola; in uno splendido dialogo rivelatore si dice che va bene fingere che Dio risponda alle nostre preghiere, basta mettere in pratica quello che pensiamo farebbe Lui... e, spesso, si tratta di cose molto semplici, banali, di puro buon senso. Anderson e Coppola, insomma, non vogliono dichiarare la non esistenza di Dio o prendersi gioco di chi crede in qualcosa, anzi, sottolineano l'importanza di avere qualcosa che funga come bussola morale e ci apra gli occhi su ciò che è fondamentale nella vita, benché magari poco glamour, avventuroso, remunerativo o originale. Korda diventa così il Cristo andersoniano, costretto ad una via crucis a tappe (o a scatole, come volete) partita con un obiettivo decisamente materiale, lentamente tramutatosi in un'evoluzione umana e spirituale.


A livello più superficiale, La trama fenicia tira parecchie stoccate ad oligarchi e riccastri zeppi di figli che "potrebbero" essere geni, oltre ad un mercato globale facilmente manipolabile e a guerriglieri sui generis. Purtroppo, la critica sociale e contemporanea si perde un po', perché il film non esce quasi mai dai binari della commedia surreale e, rinunciando ad atmosfere di più cupe e satiriche, non morde mai davvero. Poco danno, perché comunque mi sono ritrovata spesso a ridere di cuore per alcune gag particolarmente azzeccate (una su tutte, quella reiterata delle bombe/ananas offerte agli interlocutori), e poi perché, insomma, a me piace Wes Anderson in primis per quello stile che ora va tanto di moda odiare. Sarei stata ore a guardare i titoli di testa, con la stanza d'ospedale di Korda ripresa dall'alto e le figure umane che si muovono in quella che sembra un'enorme, elegante piastrella quadrata, ma ogni elemento d'arredo disposto con gusto e simmetria (ci sono persino quadri famosissimi presi in prestito da gallerie, santo cielo!!), ogni diorama semovente, ogni abito, anche quelli più dimessi, mi trasportano gioiosamente all'interno della Wunderkammer del regista, zeppa di oggetti e colori nei quali mi perdo senza possibilità di recupero. Gli attori, poi, sono un altro motivo di felicità. In un cast di facce ormai familiari ai fan del regista, tutte impegnate in piccoli, esilaranti ruoli che arricchiscono il bestiario de La trama fenicia, Bill Murray ha finalmente ottenuto il ruolo più adatto al suo status e Benicio del Toro, per quanto sbattuto ed invecchiato, è sempre più patato ed è un protagonista esemplare. Il più a suo agio all'interno del mondo bizzarro di Anderson, stavolta, è però la new entry Michael Cera, uno dei motivi per cui mi è dispiaciuto non poter godere del film in v.o.. L'entomologo Bjorn è sfaccettatissimo, forse il personaggio più ricco di sorprese, e Cera offre una performance incredibile (soprattutto in un momento puramente "fisico", in cui cambia letteralmente davanti agli occhi dello spettatore aggiustando impercettibilmente abiti, accessori e postura. La mia mascella, probabilmente, è ancora in sala), al punto che mi sono chiesta perché mai Anderson abbia aspettato così tanto per chiamarlo in uno dei suoi film, visto che l'attore sembra uscito direttamente da una sua pellicola. Spero sia l'inizio di una lunga e fruttuosa collaborazione! Con questa nota speranzosa, invito i fan di Anderson ad andare a vedere La trama fenicia. Non è il miglior film del regista, questo no, ma è bello e divertente, una piccola chicca colorata in una triste e grigia realtà, e a volte, non so a voi, ma a me basta solo questo per essere soddisfatta. I detrattori si astengano, senza criticare i bimbi di Anderson come me!


Del regista e co-sceneggiatore Wes Anderson ho già parlato QUI. Benicio Del Toro (Zsa-zsa Korda), Steve Park (Il pilota), Willem Dafoe (Knave), F. Murray Abraham (Profeta), Rupert Friend (Excalibur), Michael Cera (Bjorn), Riz Ahmed (Principe Farouk), Tom Hanks (Leland), Bryan Cranston (Reagan), Charlotte Gainsbourg (prima moglie), Mathieu Amalric (Marseille Bob), Jeffrey Wright (Marty), Scarlett Johansson (Cugina Hilda), Bill Murray (Dio), Hope Davis (Madre superiora) e Benedict Cumberbatch (Zio Nubar) li trovate invece ai rispettivi link.


Mia Threapleton
, che interpreta Liesl, è figlia dell'attrice Kate Winslet. ENJOY!



domenica 14 novembre 2021

The French Dispatch (2021)

Avviso ai naviganti. Se avete la fortuna di vivere accanto a un cinema che proietta The French Dispatch, l'ultimo film di Wes Anderson, assicuratevi che la sala o il multisala non sia gestito da beoti o rischiate che vi succeda la stessa cosa successa a me, ovvero uno schifo passabile di avere il biglietto rimborsato (non a Savona, ovvio. "Non si può cambiare. Stacce." è stata la risposta ottenuta dall'incauto spettatore che ha preteso che il film venisse interrotto e proiettato a dovere. Ti sono vicina, incauto spettatore, ti ho voluto davvero bene, giuro): l'aspect ratio di The French Dispatch è il vecchio 1.37:1, in omaggio ai film francesi che hanno ispirato il regista, invece del moderno 1.85:1, e il risultato che abbiamo avuto a Savona è stato di avere la parte superiore delle immagini proiettata sul soffitto e quella inferiore tagliata sotto lo schermo, così che alcuni dei sottotitoli e delle didascalie sono andati perduti, il che è una meraviglia quando Léa Seidoux parla un francese così stretto e veloce da essere incomprensibile. Che i gestori del Multisala Diana si vergognino, davvero. Inutile cercare di salvare il cinema visto in sala e i lavoratori della categoria se poi gli spettatori vengono trattati solo come bestie portasoldi, senza un minimo di rispetto nei loro confronti. 


Trama: tre storie tratte dalla rivista The French Dispatch, dedicate una a un pittore, una alle proteste studentesche in Francia e l'ultima a un abilissimo chef di polizia.


Al di là della dabbenaggine di chi gestisce le sale, non stupitevi se vi dico che ho amato The French Dispatch dall'inizio alla fine e nemmeno se vi dico che, se odiate lo stile del regista o vi è venuto a noia, vi conviene stare lontani dalla sala, perché la sua ultima opera è praticamente un compendio di WES ANDERSON. Non so se vi è capitato di andare a vedere a Milano la mostra Il Sarcofago Di Spitzmaus E Altri Tesori, curata proprio dal regista, ma guardare The French Dispatch mi ha fatto lo stesso effetto, ovvero mi ha dato la sensazione di vivere per quasi due ore in un mondo altro, un universo apparentemente caotico, fatto di tante piccole "cose" eleganti, graziose ed ironiche messe assieme senza un filo logico, che tuttavia portano il visitatore (in questo caso lo spettatore) a illuminarsi nel momento esatto in cui riesce ad intuire parte delle complesse regole che lo governano, interamente racchiuse in una mente che i detrattori sicuramente definiranno solo "fighetta" e "manierista", ma che io trovo elegantemente geniale. The French Dispatch, sotto la splendida, ricchissima superficie formale, è un film che ripropone nuovamente tematiche profonde quali la solitudine, la speranza di poter contare qualcosa e distinguersi in un mondo particolarmente spietato con chi è dotato di grande sensibilità, il fortissimo desiderio di instaurare dei legami, la consapevolezza (non di tutti i personaggi, solo di alcuni) che nulla di ciò che faremo potrà mai cambiare il triste fatto che è il fato a governarci e a scombinare tutti i nostri piani di gloria, soprattutto se puntiamo in alto; l'unica cosa che possiamo fare per avere un'illusione di controllo è abbracciare l'arte, in ogni sua forma, perché è l'unica cosa che ci è dato creare e gestire, sempre fino a un certo punto. E' per questo che la perfezione formale dei film di Wes Anderson va sempre a braccetto con personaggi tristi, tragicomici, ridicoli e splendidi, accanto ai quali morte e dolore camminano con naturalezza, accettati quali inevitabili compagni di vita, al pari della delusione.


E così, all'interno della redazione del French Dispatch, situato nientemeno che a Ennui-sur-Blasé (ho riso male), il direttore Arthur Howitzer Jr cerca di tenere a bada dei collaboratori dalle personalità strabordanti, intimando di "non piangere" neppure quando si diventa parte delle storie raccontate e delle notizie riportate, mentre allo spettatore non resta che godere di tre vicende (la prima, con Owen Wilson per protagonista, è un'introduzione alla cittadina, letteralmente un mondo in miniatura nonostante la piantina assurdamente semplice) che contengono tutti gli elementi ai quali ho accennato sopra, ovviamente interpretati da attori in stato di grazia. Se dovessero puntarmi una pistola alla tempia e costringermi a scegliere la mia preferita opterei per la seconda, ambientata ai tempi delle proteste studentesche francesi; lì per lì sembra di trovarsi davanti a una parodia di The Dreamers o di qualche film della Nouvelle Vague francese, in realtà forse, nonostante le ampie dosi di ironia, è il segmento più malinconico di tutti perché sviscera tutto il senso di impotenza di chi la sua vita l'ha già vissuta e la grandeur di chi, ancora giovanissimo, mette in discussione ogni cosa e cerca di cambiare il mondo battendosi spesso per cause "stupide" senza neppure capirle bene, ma comunque mettendoci cuore e anima, oltre a tantissima ingenuità. All'interno dell'episodio in questione, Wes Anderson fa un uso magistrale del bianco e nero e della colonna sonora, mescola l'amore per il cinema a quello per il teatro, propone risoluzioni divertenti e assurde a situazioni da cliché e finalmente rende Timothée Chalamet affascinante e tenero come merita.


Per il resto, The French Dispatch è una continua scoperta, oltre che una gioia per le orecchie e per gli occhi. La sequela di guest star che si rendono indimenticabili o iconiche anche solo per 5 minuti è infinita e fanno tutti da degna spalla agli attori principali, ognuno ugualmente strepitoso; impossibile scegliere tra la strana coppia Del Toro/Séydoux (lo scazzo di lei, un po' da maestrina un po' da mistress, è qualcosa di assurdo), la sempre bravissima Frances McDormand, una Tilda Swinton che non smette MAI di essere favolosamente eccentrica o un Jeffrey Wright capace di spezzare il cuore, quindi per non sbagliare mi asciugo lacrime di commozione davanti a un cast della madonna e passo a ringraziare Wes Anderson per tutte le elegantissime scelte di regia, montaggio, scenografia e costumi, questi ultimi affidati a Milena Canonero. A partire dai disegni debitori dello stile del New Yorker, passando a un bianco e nero dalle mille sfumature, che lascia il posto agli abbacinanti colori della nuova arte di un pittore violento e persino a fumetti trasformati in cartoni animati, senza dimenticare quei "finti" fermo immagine colmi di perfida ironia, ogni sequenza di The French Dispatch è un piccolo capolavoro, e quest'ultimo è un altro di quei film meravigliosi che, come Ultima notte a Soho, riconcilia con la Settima Arte tutta e porta a ringraziare che esistano ancora Autori a questo mondo, non solo registi piegati ai voleri della major. Poi, lo sapete, io sono una Bimba di Wes e non posso fare a meno di amarlo a prescindere. 


Del regista e sceneggiatore Wes Anderson ho già parlato QUI. Benicio Del Toro (Moses Rosenthaler), Adrien Brody (Julian Cadazio), Tilda Swinton (J.K.L. Berensen), Léa Seydoux (Simone), Frances McDormand (Lucinda Krementz), Timothée Chalamet (Zeffirelli), Jeffrey Wright (Roebuck Wright), Mathieu Almaric (Il Commissaire), Bill Murray (Arthur Howitzer Jr), Owen Wilson (Herbsaint Sazerac), Bob Balaban (Zio Nick), Henry Winkler (Zio Joe), Lois Smith (Upshur 'Maw' Clampette), Christoph Waltz (Paul Duval), Cécile de France (Mrs. B), Rupert Friend (Sergente), Liev Schreiber (Conduttore del talk show), Willem Dafoe (Albert "l'abaco"), Edward Norton (il chauffeur), Saoirse Ronan (Tossica/Showgirl #1), Elisabeth Moss (Alumna), Jason Schwartzman (Hermès Jones), Fisher Stevens (l'editore), Griffin Dunne (l'avvocato) e Anjelica Huston (la narratrice) li trovate invece ai rispettivi link.

Steve Park interpreta Nescaffier. Americano, ha partecipato a film come Un poliziotto alle elementari, Poliziotto in blue jeans, Toys - Giocattoli, Un giorno di ordinaria follia, Fargo e a serie come Macgyver, La signora in giallo, Friends e Innamorati pazzi. Anche stuntman, ha 70 anni e due film in uscita. 


Tony Revolori interpreta il giovane Rosenthaler. Americano, lo ricordo per film come Grand Budapest HotelSpider-Man: Homecoming, Spider-Man: Far from Home e serie come My Name is Earl. Anche produttore, ha 25 anni e due film in uscita, tra cui Spider-Man: No Way Home


Spunta anche qui la faccetta "stronza" di Alex Lawther, nei panni di Morisot. Kate Winslet avrebbe dovuto interpretare il ruolo andato poi a Elizabeth Moss, ma ha rinunciato per il film Ammonite. Ciò detto, se The French Dispatch vi fosse piaciuto, recupererei l'intera filmografia di Wes Anderson. ENJOY!

venerdì 4 giugno 2021

Oxygen (2021)

Piano piano (molto, molto lentamente) sto riuscendo anche a recuperare quei due o tre originali Netflix che mi interessavano, tra cui Oxygen (Oxygène), diretto dal regista Alexandre Aja. Niente spoiler, leggete tranquilli!


Trama: una donna si sveglia all'interno di una capsula medica danneggiata e deve capire chi e perché l'ha rinchiusa lì dentro prima che finisca l'ossigeno.


Evidentemente Aja, dopo l'exploit con i coccodrilli di Crawl, ci ha preso gusto con i film claustrofobici e c'è da dire che gli vengono anche bene. Se in Crawl i protagonisti, benché braccati da coccodrilli mordaci in ambienti ristretti e allagati, riuscivano in qualche modo a muoversi e respirare, in Oxygen la protagonista non ha la stessa fortuna ed è rinchiusa all'interno di una capsula impossibile da aprire, con le riserve d'ossigeno dimezzate e in via d'esaurimento. Quello di Elizabeth è un incubo che disorienta, all'interno del quale le immagini di una capsula pericolosissima e dotata di troppi mezzi per dare al paziente una morte rapida ed indolore, somministrata dalla voce incorporea dell'assistente computerizzato M.I.L.O., si alternano a flash di una vita dimenticata che potrebbero anche non essere ricordi, ma semplici allucinazioni. La lotta di Elizabeth è dunque duplice, uno sforzo fisico e mentale, perché la sua salvezza dipende in primis dal riuscire a ricordare la propria identità e il proprio passato, all'interno del quale si nasconde la chiave per poter sbloccare una capsula ironicamente progettata per la salvezza del soggetto che ospita, un oggetto futuristico viziato da un sacco di "gabole" antiquate. Nulla più vi conviene sapere della trama; con un po' di attenzione probabilmente riuscirete, com'è successo a me, ad intuire quello che avrebbe dovuto essere il twist più sconvolgente del mucchio (la sceneggiatura è molto ricca in tal senso) ma lo stesso "capire" non preclude il divertimento di scoprire le cose poco a poco. 


Un film interamente ambientato in un luogo così ristretto rischierebbe di offrire presto il fianco alla noia ma per fortuna Aja ha parecchi elementi con cui giocare. All'interno della capsula, come già ho scritto sopra, ci sono oggetti potenzialmente mortali che rendono ogni azione di Elizabeth un terno al lotto, ché non si sa mai come potrebbe reagire M.I.L.O., inoltre, mano a mano che l'ossigeno diminuisce, ci si mettono anche le allucinazioni della protagonista ad accelerare la tachicardia alimentata dalla situazione già abbastanza spinosa. Accanto alla concretezza del presente ci sono poi i flash del passato, un po' ripetitivi all'inizio e non particolarmente interessanti (anzi, sembra quasi che Aja ricerchi il contrasto tra l'ansia della situazione contingente e ricordi anche troppo idilliaci) ma sempre più importanti ed inquietanti mano a mano che il film prosegue, finché il regista non si decide ad allargare il campo delle inquadrature lasciandoci letteralmente a bocca aperta. Fondamentale, ovviamente, la presenza di Mélanie Laurent, che regge sulle spalle tutto il film e contribuisce, con la sua bella ed intensa interpretazione, a far sì che lo spettatore si faccia carico delle sofferenze di Elizabeth arrivando ad immedesimarsi fino a rimanere senza respiro. Per tutti questi motivi, tra gli originali Netflix visti di recente, Oxigen è uno dei migliori, quindi dategli un'occhiata. 


Del regista Alexandre Aja ho già parlato QUI. Mathieu Almaric, che dà la voce a M.I.L.O. lo trovate invece QUA.

Mélanie Laurent interpreta Elizabeth "Liz" Hansen. Francese, la ricordo per film come Bastardi senza gloria e Now You See Me - I maghi del crimine. Anche regista, sceneggiatrice e produttrice, ha 38 anni e un film in uscita. 


Anne Hathaway è stata la prima attrice chiamata per il ruolo di protagonista, alla quale è poi subentrata Noomi Rapace, sostituita definitivamente dalla Laurent quando il progetto è stato preso in mano da Aja. Se Oxygen vi fosse piaciuto recuperate Meander e Buried. ENJOY!

martedì 22 dicembre 2020

Sound of Metal (2019)

Approfittando del fatto che il Bolluomo è musicista, gli ho propinato Sound of Metal, di cui tutti stanno parlando benissimo, film diretto e co-sceneggiato nel 2019 dal regista Darius Marder e disponibile su Amazon Prime Video.


Trama: un batterista, ex tossico, comincia a perdere irrimediabilmente l'udito. Accolto da una comunità per non udenti, il ragazzo a poco a poco impara a convivere col suo handicap ma sogna sempre di poter tornare a sentire...


Pochi film quest'anno mi hanno lasciata divisa a metà come Sound of Metal. Nemmeno Diamanti grezzi era riuscito a fare tanto, perché il sentimento di odio totale riversato sul protagonista è stato costante dall'inizio alla fine, nonostante abbia riconosciuto al film una bellezza formale incontestabile. Sound of Metal, invece, ha tante cose bellissime che si uniscono ad altre che mi hanno privata di un entusiasmo che, almeno fino a metà film, non mi ha abbandonata. Tra le prime, ovviamente, figura l'interpretazione di Riz Ahmed, attore che onestamente non mi aveva mai colpita più di tanto e che qui ci mette tutto il cuore nel portare sullo schermo la figura di Ruben, batterista che a un certo punto non riesce più a sentire nulla, colpito da una terribile malattia degenerativa dell'apparato uditivo. La sofferenza rabbiosa ed impotente di un musicista privato della possibilità di sentire, il nervoso bisogno di un tossico che torna ad avvertire il richiamo di qualcosa che riesca a farlo evadere dalla realtà, si percepiscono con una forza dirompente, negli sguardi e nei gesti dell'attore, la cui intensità a tratti stringe il cuore (nel momento del primo addio tra Ruben e Lou ho pianto tutte le mie lacrime, il Bolluomo lo sa); a rafforzare ancor più un'interpretazione già valida, ci pensa un sonoro che sarebbe da vittoria assicurata agli Oscar 2021. La genialità di Sound of Metal sta proprio nel farci sentire (o non sentire) tutto quello che sente Ruben, salvo poche, necessarie eccezioni, così da farci provare sulla pelle quell'orribile sensazione di isolamento inaspettato che il protagonista sperimenta dal momento in cui il suo udito scompare, per non parlare di tutto ciò che accade in seguito, nel male, terribilmente angosciante, e nel bene, con una sequenza finale di incredibile poesia.  


Il mio problema con Sound of Metal è da ricercarsi in qualcosa, anzi, in qualcuno, che mentre guardavo i titoli di coda tutta corrucciata e triste per non aver apprezzato il film come avrei voluto, mi ha fatta scattare dalla poltrona e urlare "aaaah, vabbé!": il maledetto Derek Cianfrance, regista di Come un tuono. E guardando bene, anche Darius Marder, porca miseria, aveva partecipato alla sceneggiatura di quell'insoddisfazione di film, e giuro che ad averlo saputo non mi sarei avvicinata a Sound of Metal con tutte queste aspettative. Fortunatamente non ricordo benissimo Come un tuono, ma rileggendo il post che avevo scritto all'epoca, mi ero scontrata con personaggi secondari poco incisivi ed eventi dati per scontati, probabilmente importanti ma trattati con una superficialità sconcertante; in misura minore, questo accade anche per Sound of Metal. Ho letto di una probabile nomination ai Golden Globe per Olivia Cooke e spero vivamente non sia vero. Non perché la Cooke non sia bravissima ma perché il suo personaggio raggiunge il picco di intensità emotiva e di importanza più o meno a metà film per poi scomparire e infognarsi in uno di quegli eventi di cui parlavo prima, quelli sicuramente importantissimi e fondamentali per i personaggi ma che tuttavia non riescono ad arrivare a toccare lo spettatore, che arriva solo a fatto "compiuto". Lo stesso, purtroppo, vale per tutta la comunità di non udenti che accoglie Ruben, coi quali non si riesce ad empatizzare mai, nemmeno per un secondo, soprattutto col direttore del centro di accoglienza, i cui metodi paiono funzionare sul protagonista giusto "perché sì", al punto che gli ovvi salti temporali legati ad esigenze di minutaggio sconfinano pericolosamente con omissioni legate alla presunzione degli sceneggiatori. Con questo, ribadisco che Sound of Metal ha tutti i numeri per piacere alla follia a moltissimi spettatori e io stessa ne sono rimasta ammaliata per parte della sua durata; tuttavia, la parte che intercorre tra la separazione da Lou e lo splendido finale mi ha lasciata abbastanza indifferente. Peccato, speravo già di aver trovato l'outsider prepotente delle classifiche di fine anno!


Di Riz Ahmed (Ruben), Olivia Cooke (Lou) e Mathieu Almaric (Richard Berger) ho già parlato a rispettivi link.  

Darius Marder è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo film dietro la macchina da presa. Americano, anche produttore, ha 47 anni.


Dakota Johnson e Mathias Schoenaerts avrebbero dovuto interpretare i due protagonisti ma i ritardi legati alla realizzazione del film hanno fatto sì che rinunciassero. ENJOY!

martedì 10 dicembre 2019

L'ufficiale e la spia (2019)

Abbiamo sfidato il multisala per tre settimane e abbiamo vinto: L'ufficiale e la spia (J'accuse), diretto e co-sceneggiato da Roman Polanski, è durato fino a domenica e siamo riusciti ad andarlo a vedere col Bolluomo.


Trama: il Colonello Picquart, una volta messo a capo dei servizi segreti francesi, si ritrova tra le mani le prove dell'innocenza di Alfred Dreyfus, soldato condannato per alto tradimento.


Considerato il titolo internazionale dell'ultimo film di Polanski, stavolta non sono stati solo i malvagi titolisti italiani a prendere sottogamba lo spettatore, preferendo il didascalico L'ufficiale e la spia, giusto per dare un piglio più "moderno" alla storia, al J'accuse coniato dallo scrittore Emile Zola, entrato a far parte comunque del linguaggio comune e citato all'interno della pellicola. Non stiamo a spaccare il capello; in effetti, all'interno del film si sottolinea spesso il legame "a distanza" tra l'Ufficiale, ovvero il Colonnello Picquart, antisemita ma dotato di una profonda coscienza, e la presunta spia, ovvero Alfred Dreyfus, soldato di origini ebraiche accusato di aver venduto delle informazioni all'esercito tedesco e condannato ai lavori forzati sull'Isola del Diavolo. I due si parlano direttamente solo un paio di volte ma le loro vicende si intrecciano e influenzano le reciproche esistenze, oltre alla società francese della Terza Repubblica, tra crescenti sentimenti antisemiti e la nascita dell'impegno intellettuale moderno, quello in grado di influenzare l'opinione pubblica e portare le masse ignoranti a pensare (o a rimanere ancora più ignorante). A tal proposito, mi rifiuto di mettere bocca sull'affaire Polanski. Se il regista ha deciso di girare il film eleggendo Dreyfus a suo innocente alter ego sono affari suoi e mi ritengo una spettatrice abbastanza intelligente da essermi goduta L'ufficiale e la spia come un'ottima riproposizione storica di una vicenda tristemente attuale, vergognosamente intrisa non solo di razzismo ma anche di incompetenza, menefreghismo e desiderio di parare il culo a chi lo tiene al caldo nei piani alti, trincerandosi dietro la scusa di voler "salvaguardare il nome della Repubblica e della Francia" senza ammettere di aver sbagliato, rovinando non solo la vita a un uomo innocente ma anche facendo prosperare i reali colpevoli.


E' una vicenda conosciuta e che avrebbe potuto, con un altro piglio, risultare pedante o noiosa mentre Polanski decide di giocare la carta della spy story, tra complotti e attentati, e dei legal drama che vanno tanto per la maggiore oggi, riuscendo a spettacolarizzare gli svariati processi di cui si compone il film grazie a un mix vincente di dialoghi e attori bravissimi. Tutto è filtrato attraverso l'occhio di un perfetto Jean Dujardin, che interpreta il Colonnello Picquart, ufficiale dell'esercito per il quale la condanna di Dreyfus è come "aver purgato un organismo da un male terribile"; uomo nel pieno della sua carriera, nonostante l'antisemitismo e l'odio palese per Dreyfus, Picquart non si sottrae al suo senso del dovere e della morale nemmeno quando salvare Dreyfus significherebbe non solo venire degradato ed imprigionato, ma persino rischiare di essere messo a tacere in modi peggiori, mettendo in pericolo la propria vita e quella di amici, amanti e conoscenti. Il senso di angoscia che si respira dalla scoperta di documenti compromettenti è palese, par quasi che Picquart abbia tutti gli occhi addosso, sia quando effettivamente viene spiato dai suoi attuali o ex colleghi, sia quando il Colonnello è solo nel suo appartamento o nel suo studio. Assai forte è anche il senso di frustrazione che si prova guardando L'ufficiale e la spia, perché se è vero che la storia di Dreyfus è risaputa, pare comunque di essere stati inghiottiti da un incubo kafkiano, all'interno del quale la verità viene bloccata e negata tante di quelle volte da rasentare il surreale. Accanto a una storia interessante già di per sé, raccontata in modo moderno e spigliato, c'è ovviamente la messa in scena raffinata di Polanski, che non indulge nel sovraccarico visivo tipico dei film in costume ma preferisce concentrarsi sui protagonisti, sui loro sguardi e gesti, lasciando che la cinepresa indugi su piccoli dettagli fondamentali per capirne la psicologia e le motivazioni. Che siate o meno appassionati di questo genere di pellicole, che amiate oppure odiate l'"uomo" Polanski, è innegabile che L'ufficiale e la spia sia un film molto bello e lo consiglio a tutti.


Del regista e co-sceneggiatore Roman Polanski, che compare tra il pubblico del concerto, ho già parlato QUI. Jean Dujardin (Colonnello Jacques Picquart), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Mathieu Almaric (Bertillon) e Vincent Perez (Leblois) li trovate invece ai rispettivi link.

Louis Garrel interpreta Alfred Dreyfus. Francese, ha partecipato a film come The Dreamers - I sognatori, Van Gogh - Alla soglia dell'eternità e l'imminente Piccole donne. Anche regista e sceneggiatore, ha 36 anni e tre film in uscita.


Nei panni di Philippe Monnier compare l'attore e produttore Luca Barbareschi. Se vi fosse piaciuto L'ufficiale e le spia e vi interessasse il tema, recuperate L'affare Dreyfus. ENJOY!

domenica 17 febbraio 2019

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (2018)

Torniamo a parlare di Oscar, che ormai non manca più tanto. Oggi tocca a Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità (At Eternity’s Gate), diretto nel 2018 dal regista Julian Schnabel e candidato per il Miglior Attore Protagonista (Willem Dafoe).


Trama: Vita del pittore Vincent Van Gogh, tra genio e follia, fino alla morte in circostanze misteriose.


Van Gogh – Sulla soglia dell’Eternità è un interessante biopic che forse rivela poco della vita del pittore olandese ma sicuramente approfondisce il suo modo di intendere l’arte e affrontare la malattia mentale, due aspetti molto più affascinanti e fondamentali. Il film segue le vicende di Van Gogh dal momento del suo arrivo ad Arles, terra che avrebbe dovuto essere più calda e luminosa rispetto all’Olanda e che, in realtà, accoglie Vincent con pioggia, vento e diffidenza da parte degli abitanti del paese, poco convinti di dover ospitare un pittore poco conosciuto, povero e dagli atteggiamenti strani. Attirato talvolta dai suoi simili, al punto da dedicare loro dei quadri, l’artista è tuttavia schivo, timoroso e maggiormente interessato alla Natura, intesa come unico mezzo per avvicinarsi a Dio, da catturare con tutta l’urgenza di una mente in costante, febbricitante fermento che punta a rivelare la Realtà. Una realtà cupa, distorta, inquietante (bellissimo il prete interpretato da Mads Mikkelsen, talmente disgustato dai quadri di Van Gogh da arrivare persino a rivolgerne uno verso il muro, per nascondere il disegno) ma anche piena di bellissimi colori, sui quali spicca l’energia del giallo, del sole tanto bramato dall’artista, un grido di speranza che Van Gogh, almeno nel film, insegue attraverso interminabili camminate, corse a perdifiato e sguardi trepidanti rivolti al cielo. Da l’idea, questo Sulla soglia dell’eternità, che Van Gogh fosse un turbine incontenibile, tuttavia privo della spocchia edonista di molti suoi colleghi, una creatura intrappolata in un corpo limitante e in una realtà ancora più opprimente, spinto proprio da questo desiderio di libertà a vomitare su tela colori pastosi stesi con pennellate rapide e nervose.


Effettivamente, Willem Dafoe sembra proprio Van Gogh redivivo. Al di là di un reparto costumi che richiama proprio quelli degli autoritratti realizzati dal pittore, c’è qualcosa nel volto e nello sguardo dell’attore che farebbe quasi pensare alla possessione di qualche fantasma; colpiscono, più di tutto, quegli occhi persi ed innocenti, le improvvise espressioni di spaesamento, il sorriso estasiato di chi vede oltre quello che vedono i comuni mortali e si impegna a fare in modo che possano scorgerlo anche loro senza tuttavia essere capito. Le lacrime per l’abbandono di Gauguin, la consapevolezza di essere creduto pazzo, di essere, effettivamente, anormale, la speranza di essere accolto, il sollievo di potersi riposare tra le braccia di un fratello buono e protettivo, rendono Dafoe una creatura splendida celata dalle rughe e dai tratti rozzi e luciferini dell’attore, per questo ancora più preziosa quando viene scorta da un occhio attento. A sostenere la performance dell’attore c’è un regista la cui macchina da presa non sta mai ferma, che ripropone attraverso le immagini la foga e il tormento interiore del protagonista e spesso anche il punto di vista “distorto”, poco a fuoco, influenzato dalla malattia mentale; la fotografia, talvolta virata in blu e talvolta talmente nitida che i colori risaltano vivissimi, come appena catturati sulla tela di Van Gogh, impreziosisce ancora più questa regia particolare e si accompagna ad una colonna sonora altrettanto azzeccata, un trionfo di note suonate al pianoforte che sottolineano sia i momenti concitati che quelli più tristi. Mi avevano parlato benissimo di Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità (qualcuno aveva accusato anche un po’ di mal di mare, ora ho capito perché) e mi era dispiaciuto perderlo ma sono contenta di averlo recuperato in vista dell’Oscar perché è davvero interessante e, soprattutto, Dafoe è splendido. Guardatelo, merita.


Di Willem Dafoe (Vincent Van Gogh), Oscar Isaac (Paul Gauguin), Mads Mikkelsen (il prete),  Emmanuelle Seigner (Madame Ginoux) e Vincent Perez (il direttore) ho parlato ai rispettivi link.

Julian Schnabel è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Basquiat, Prima che sia notte, Miral e Lo scafandro e la farfalla. Anche produttore e compositore, ha 68 anni.


Rupert Friend interpreta Theo Van Gogh. Inglese, ha partecipato a film come The Libertine, The Zero Theorem - Tutto è vanità, Morto Stalin se ne fa un altro e Un piccolo favore. Anche sceneggiatore, regista e produttore, ha 38 anni e un film in uscita.


Mathieu Amalric interpreta il Dr. Paul Gachet. Francese, ha partecipato a film come Marie Antoinette, Lo scafandro e la farfalla e Grand Budapest Hotel. Anche sceneggiatore, regista e produttore, ha 54 anni e due film in uscita.


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