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venerdì 27 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon (2023)

Siccome è uscito al ridosso del ToHorror, ho dovuto aspettare fino a martedì per vedere il nuovo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, tratto dal libro omonimo di David Grann. Ne è valsa la pena? (Che domande, ovviamente SI'!)


Trama: anni '20, città di Fairfax. Al ritorno dal fronte della Prima Guerra Mondiale, Ernest Burkhart trova una terra dove gli indiani Osage si sono arricchiti grazie al petrolio. Lavorando come autista, conosce la giovane Osage Mollie e la sposa, ma il ricco zio Bill Hale trama nell'ombra...


Tra poco Scorsese compirà 81 anni e io vorrei arrivarci, alla sua età, con questa coerenza e lucidità. Killers of the Flower Moon (film che, per inciso, non metterei mai nella lista dei suoi primi 5, ma ciò non vuol dire sia brutto) è l'ennesima conferma della solidità della poetica Scorsesiana, legata alle radici più profonde della nazione Americana, una nazione che affonda nel sangue fin dalle sue origini e che vive pregna di sangue e violenza, vittima di mille contraddizioni e destinata a dimenticare il proprio passato o rinnegarlo. E' anche, ovviamente, una storia di persone che sono condannate ad un destino orribile nel momento esatto in cui si allontanano dal loro ambiente originario, vittime di un mondo che non comprendono appieno, e questo vale sia per gli Osage che, neanche a dirlo, per il protagonista Ernest Burkhart. Nel corso degli anni Scorsese si è fatto più cinico e, se prima i suoi personaggi erano comunque dotati di un'intelligenza che veniva obnubilata dal "vizio" e dall'eccesso, ora ci troviamo spesso davanti dei babbei senza arte né parte, mossi come marionette da gente che se la crede e sicuramente sa come stare al mondo, ma dimostra lo stesso ben poco cervello in più. Ernest, in questo, è emblematico. Il "coyote dagli occhi azzurri" più che un coyote è un cojone, un fannullone assetato di soldi che, pur amando di cuore la sua sposa indiana, non riesce a spezzare la pesante influenza che ha su di lui lo zio Bill, il Re di Fairfax, e corre allegro verso il baratro della rovina sua e della sua famiglia senza quasi neppure capire le implicazioni di ogni suo gesto. D'altra parte, Re Bill non è più furbo. Sovrano di un piccolo regno fatto di bianchi buzzurri e indiani troppo ingenui o resi sicuri dalla ricchezza per capire chi hanno davanti, Bill è in grado di giocare solo secondo le sue regole, consapevole di avere le spalle coperte anche nell'eventualità di dover buttare all'aria la scacchiera, ma crolla come un castello di carte nel momento in cui subentrano giocatori esterni neppure troppo abili. La pietà di Scorsese è, piuttosto, riservata agli Osage, nonostante la "colpevolezza" di avere rinnegato (con dolore, come testimonia la commovente sequenza iniziale) buona parte del loro retaggio, sporcandolo con la ricchezza dell'oro nero; come buona parte dei "vinti" scorsesiani, gli Osage sono stati divorati da una società che ha sfruttato proprio il loro desiderio di fare parte di un altro mondo e, in seguito, dimenticati quando la storia è stata riscritta dai vincitori, ridotta a mero racconto per casalinghe o piccola nota a pié di pagina. 


L'andamento del racconto (sì, il film dura tre ore e mezza, no, a me sono passate in un lampo ma capisco che non siamo tutti uguali) è inevitabilmente quello di un'epopea, di un noir atipico dove il colpevole si conosce fin dall'inizio, e va in netta contrapposizione con la velocità con cui i protagonisti bianchi sembrano dimenticarsi delle vittime Osage; per lo stesso motivo, la violenza sulle vittime è ripresa in campo lungo, a rispecchiare la loro natura poco importante agli occhi della città di Fairfax, e il regista preferisce insistere invece sui primi piani e piani americani, indagando sulla natura dei protagonisti, sulle maschere che indossano, sul lampo brutale di disprezzo di occhi che si fingono amici, sulla malinconica, terribile dignità di chi è costretto a vivere terrorizzato nella sua stessa casa eppure ancora si affida, speranzoso, a un briciolo di amore e umanità. Killers of the Flower Moon è un mosaico di sequenze inaspettatamente poetiche che si inseriscono in un contesto spesso triviale, e in esso la storia vera (quella raccontata da foto in bianco e nero) si mescola ad embrioni di fiction spettacolarizzante (la sequenza dello show radiofonico è spettacolare), passando attraverso gli occhi di chi non capisce letteralmente nulla e rimane lì, a provare dolore senza capire bene perché, oggetto di una lunghissima sequenza di court drama dove i concetti vengono ribaditi più e più volte (nulla me lo toglie dalla testa) a suo uso e consumo, con sommo scorno di uno spettatore già provato. Per questo, l'interpretazione di Di Caprio è perfetta. Ernest passa il tempo a cercare di imitare il Re, a cui guarda come una divinità e come esempio da seguire, conseguentemente la sua mimica facciale è la versione distorta e quasi caricaturale di quella di De Niro, che invece è l'apoteosi del vecchio bastardo che ha in odio il mondo intero e pensa solo a se stesso. In una sfilata di facce davvero brutte (ma amate. Ciao Brendan, ciao John, ciao Martin, ciao Larry e Pat!!) spicca il volto bellissimo di Lily Gladstone, con la sua espressione compassata e gli occhi tristi e profondi, rappresentazione vivente di un popolo forte ma ridotto, con "amore", a folkloristico ricordo celebrato dai pochi che hanno ancora memoria, e danzano sotto la Flower Moon in un finale di inenarrabile tristezza. Dite quello che volete, ma per me Scorsese ha fatto centro anche stavolta, e quando avrà voglia di rapirmi per altre tre ore e mezza saprà sempre dove trovarmi.


Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese (che compare nei panni del produttore radiofonico) ho già parlato QUI. Leonardo DiCaprio (Ernest Burkhart), Robert De Niro (William Hale), Jesse Plemons (Tom White), John Lithgow (Peter Leaward, avvocato dell'accusa), Brendan Fraser (W.S. Hamilton), Pat Healy (Agente John Burger), Michael Abbott Jr. (Agente Frank Smith) e Larry Fessenden (interprete radiofonico di Hale) li trovate invece ai rispettivi link.


Leonardo DiCaprio doveva inizialmente interpretare l'agente Tom White, ma il ruolo è andato a Jesse Plemons (che ha rinunciato così a partecipare a Nope nei panni di Jupe) perché Scorsese ha deciso di rendere il rapporto tra Mollie ed Ernest il fulcro del film. Ciò detto, se Killers of the Flower Moon vi fosse piaciuto, recupererei Gangs of New York, Quei bravi ragazzi, Casinò e The Irishman. ENJOY!

venerdì 6 dicembre 2019

The Irishman (2019)

Con incredibile ritardo dovuto alla distribuzione inesistente e alla lunghezza del film (mi spiace, Martin, ti adoro ma quasi 4 ore di film non ho proprio il tempo materiale di guardarle in una sola serata, non è per mancanza di volontà) sono finalmente riuscita a vedere The Irishman, diretto da Martin Scorsese e tratto dal libro omonimo di Charles Brandt e...


Trama: Frank Sheeran è un camionista irlandese che entra nelle grazie del boss della mala Russell Bufalino e diventa il suo miglior sicario. Attraverso Bufalino, Sheeran diventa anche guardia del corpo del sindacalista Jimmy Hoffa.


... e niente, il post potrebbe anche finire qui. Davanti a Scorsese mi anniento, mi riempio di umiltà e mi rendo conto che dovrebbero chiudere tutti i blog di cinema, tutte le pagine Facebook a tema, tutte le puttanate amatoriali di Internet, sottoinsieme in cui rientra anche il Bollalmanacco. Quello che meriterebbe un film come The Irishman è un'analisi ragionata scritta da fior di studiosi che conoscono alla perfezione il Cinema di Scorsese, rilegata in un bel libro che la gente possa leggere con calma e riprendere di tanto in tanto per rinfrescarsi il cervello, non imbecilli urlanti che definiscono The Irishman noioso e Scorsese bollito nello spazio di un post da leggere tra un gattino e una minchiata di Salvini oppure cinèfili dell'internet che nello stesso spazio si sperticano in lodi che lasciano il tempo che trovano. E io che sono l'ultima degli ultimi, come faccio a spiegare il groppo in gola lasciatomi alla fine di The Irishman, l'ideale conclusione di una trilogia che ha visto Joe Pesci e De Niro dapprima giovani e scapestrate schegge impazzite di una mafia che faticava a contenerli, poi avidi arrampicatori sociali pronti a saltarsi al collo per il possesso di Las Vegas e infine vecchi collaboratori, l'uno "mediatore" e l'altro manovale, coinvolti in uno dei tanti misteri della storia politica americana? Come faccio a spiegare la tristezza derivante dalla consapevolezza di come The Irishman potrebbe essere il canto del cigno di Scorsese, che ormai viaggia quasi sull'ottantina, o la malinconia di vedere un Joe Pesci segnato dalle rughe, dimagrito e vecchietto, sapendo che queste icone di un cinema che ho amato tantissimo rischiano di scomparire da un momento all'altro? E' la maturità e il senso di perdita di un'età crepuscolare a intridere ogni singola sequenza di The Irishman, cullato dal ritmo lento e malinconico (grazie, divina Thelma!!) del racconto di un vecchio, di questo irlandese che di professione "tinteggia muri" e ripensa al modo in cui ha intrapreso il mestiere, con tutto quello che ne è conseguito.


Sono lontani i tempi in cui Ray Liotta "aveva sempre sognato di fare il gangster" e gli scugnizzi di mafiosi ciccioni si ingozzavano di sesso, soldi e successo, persi in un montaggio frenetico e sequenze all'insegna dell'accumulo mentre la loro storia seguiva l'ovvia parabola di rapida ascesa e rovinosa caduta; qui abbiamo a che fare con personaggi accorti e consapevoli del loro ruolo all'interno della Famiglia, che sanno stare al loro posto e al limite si impegnano in una ribellione, se così si può chiamare, silenziosa e ragionata, senza pestare i piedi a nessuno. E' ciò che Russell, anziano ed esperto facilitatore, insegna a Frank Sheeran, assieme a tutte le regole da seguire ciecamente per sopravvivere all'interno di quel mondo e Frank, che non ha velleità da protagonista ma desidera solo proteggere quello che per lui è importante (le figlie, gli amici, chi gli ha dato fiducia), diventa così una solidissima roccia su cui contare. Tra un furto, un omicidio e una mazzetta si intrecciano almeno tre piani temporali in alternanza costante ma fluida (di nuovo, grazie divina Thelma!), che toccano decenni di storia americana e convergono tutti nella misteriosa vicenda di Jimmy Hoffa, "re" dei sindacati e dell'ambiguità (Hoffa - Santo o mafioso? si diceva in quel film con Nicholson e De Vito), contemporaneamente salvatore degli interessi dei lavoratori di tutta America e oculato gestore dei propri interessi strettamente intrecciati a quelli della mafia. Piccolissimo problema: stavolta è Hoffa la scheggia impazzita, l'uomo larger than life che non accetta compromessi e divora ciò che gli si para davanti con la boria di chi pensa che tutto gli sia dovuto, senza rispetto per chi gli ha dato buona parte di ciò che possiede, ed è lì che scatta il dilemma morale che diverrà il cuore della vicenda di The Irishman, il rimpianto capace di rodere tutta l'ultima parte dell'esistenza di Frank Sheeran.


Nonostante il protagonista del film sia l'irlandese Frank, tra tutti i personaggi, se andiamo a vedere, Jimmy Hoffa è il più umano o il più verace. Interpretato magistralmente da un Al Pacino che divora ogni scena in cui è presente e che trasforma ogni sequenza in un grottesco esempio di umana testardaggine, illuminando chiunque abbia la fortuna di condividere dialoghi ed inquadrature con lui, Jimmy Hoffa incarna l'illusoria speranza di un potere utilizzato per aiutare l'America intera senza ricorrere alla violenza, un mito la cui caduta segna senza possibilità di recupero sia Frank, arrivato ad apprezzare Hoffa come uomo e non come strumento, sia la figlia Peggy. A proposito di Peggy, è un peccato che Anna Paquin abbia così poche linee di dialogo ma è il suo sguardo, così come quello della piccola attrice che interpreta Peggy da bambina, a contare. E' lo sguardo di chi, a differenza di Karen e Ginger, non è affascinato dalla protezione di uomini rudi e ricchi, nonostante la paura e le umiliazioni, ma prova anzi un disgusto irrefrenabile che a lungo andare la porterà a rinunciare a qualunque privilegio pur di non dover più subire di riflesso i peccati del padre, negandogli il perdono fino all'ultimo e diventando il secondo motivo di rimpianto per una vita altrimenti vissuta con la soddisfazione (distorta) di aver "compiuto il proprio dovere". Come sempre, Scorsese riesce a far provare allo spettatore una rara empatia per personaggi di fatto abietti e ammetto che vedere, sul finale, Frank Sheeran divorato dall'artrite, a un passo dalla morte e solo come un cane mi ha lasciato un discreto magone, perché da quella porta aperta cos'altro potrebbe entrare, presto o tardi, se non la signora con la falce a portare via persino il ricordo di lui, come di tutti i suoi "gloriosi" compagni? E non è quella l'unica sequenza commovente. Come ho detto, sarà che vedere Joe Pesci così invecchiato mi fa male ma gli ultimi dialoghi con De Niro, soprattutto quel "mangia, mangia che cresci" pronunciato in italiano e con un cameratismo dolcissimo, mi hanno fatto salire le lacrime agli occhi.


Fortunatamente, The Irishman è anche molto ironico. Il film conserva un po' dello humour grottesco di The Wolf of Wall Street e, oltre a presentare i personaggi con impietose didascalie in sovrimpressione, alterna dialoghi al fulmicotone ed eloquentissime sequenze silenziose in cui gesti e scambi di sguardi decretano il destino funesto di personaggi incoscienti. E a proposito di silenzio, nel film c'e un'intera, lunga e fondamentale sequenza interamente priva di melodie di sottofondo, un silenzio che rende ancora più greve il peso della colpa che si sta addensando sulle spalle di Frank e la consapevolezza di essere un'impotente pedina di un gioco impossibile da controllare, pur con tutti gli amici in alto loco e la protezione di persone importanti; in quel momento si può sentire letteralmente il suono dei dubbi che crepitano nella mente di De Niro, il quale per quasi tutto il film, bisogna ammetterlo, mantiene un'unica espressione, tanto che a un certo punto mi sono chiesta dove fosse finito il grande attore tanto amato da Scorsese. La risposta è: perso in un personaggio che necessariamente, per la sua natura di duro e puro uomo d'altri tempi, non deve mostrare alcuna emozione, non fosse per quella maledetta telefonata in cui tutto crolla, la voce, il volto, lo sguardo di De Niro, che per pochissimi, memorabili istanti di quella che forse è la sequenza più bella vista quest'anno, lasciano fuoriuscire un fiotto di disperazione e vergogna a stento contenute. E poi, vabbé, c'è Joe Pesci. Dieci anni ha aspettato a tornare il vecchio Joe ed è meraviglioso rivederlo nei panni luciferini e quasi dimessi di un vecchio della bocciofila pericoloso e infido come un serpente a sonagli. Joe Pesci è uno degli attori più sottovalutati di sempre ma io lo amo e se il ruolo di Russell Bufalino dev'essere l'ultimo che deciderà di regalarci, perlomeno sarà stata un'altra interpretazione enorme e perfetta e io non posso fare altro che ringraziare lui e Scorsese e smetterla di scrivere, anche se ci sarebbero mille altre cose da dire su questo splendido The Irishman, in primis quante somiglianze lo collegano a un altro grande capolavoro, C'era una volta in America. Aspetto qualcuno abbastanza autorevole da scriverle.


Del regista Martin Scorsese ho già parlato QUI. Robert De Niro (Frank Sheeran), Al Pacino (Jimmy Hoffa), Joe Pesci (Russell Bufalino), Harvey Keitel (Angelo Bruno), Ray Romano (Bill Bufalino), Bobby Cannavale (Skinny Razor), Anna Paquin (Peggy Sheeran), Stephen Graham (Anthony "Tony Pro" Provenzano) e Jesse Plemons (Chucky O'Brien) li trovate invece ai rispettivi link.

Jack Huston interpreta Robert Kennedy. Inglese, ha partecipato a film come The Twilight Saga: Eclipse, American Hustle - L'apparenza inganna, PPZ: Pride and Prejudice and Zombies, Ave, Cesare! e a serie come Mr. Mercedes. Ha 37 anni e un film in uscita.


Nella marea di attori presenti nel film segnalo Steven Van Zandt, già Silvio Dante de I Soprano, qui nei panni di Jerry Vale. Ovviamente, se The Irishman vi fosse piaciuto, recuperate assolutamente Quei bravi ragazzi e Casinò. ENJOY!

mercoledì 20 novembre 2019

Quei bravi ragazzi (1990)

Tanta è la tristezza per non essere stata tra i fortunati che sono riusciti a vedere The Irishman al cinema, che ho deciso di prepararmi alla visione su Netflix riguardando (e facendo conoscere al Bolluomo) i film che mi hanno fatta innamorare di Martin Scorsese, in primis Quei bravi ragazzi (Goodfellas), da lui diretto e co-sceneggiato nel 1990 a partire dal romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi.


Trama: Henry Hill, dodicenne di padre irlandese e madre siciliana, comincia a fare piccoli lavoretti per il boss Paul Vario e, a poco a poco, si fa un nome nella criminalità organizzata di Brooklyn; crescendo, assieme ai "colleghi" Jimmy e Tommy mette a segno una serie di colpi, truffe ed omicidi, finendo anche in carcere, finché non decide di impelagarsi nello spaccio di stupefacenti...


Io mi vergogno a parlare di Quei bravi ragazzi, perché non ne sono assolutamente degna, men che meno in grado. Rappresenta tutto ciò che adoro in un film, a partire dall'argomento trattato, ché ho sempre avuto un debole per le storie a tema "mafia", e potrei guardarlo anche mille volte senza stufarmi mai, trovando sempre nuovi motivi per entusiasmarmi, gioire e vergognarmi davanti all'assurda vita (vera, tra l'altro) di quella grandissima faccia di merda di Henry Hill. Per la prima volta l'ho guardato con Mirco e giuro, ho provato paura. Paura che non gli potesse piacere, che lo annoiasse, che mi si spezzasse il cuore all'idea che il mio compagno potesse trovare Quei bravi ragazzi meno che folgorante, invece l'ho visto ridere, stupirsi e sconvolgersi davanti a uno dei capolavori di Scorsese, anzi, quello che per me è IL suo capolavoro indiscusso. Guardare Quei bravi ragazzi per me è come salire su una macchina sportiva guidata da un matto e cominciare una sfrenata corsa in mezzo alla città, a rischio di mettere sotto qualcuno o schiantarsi alla prima curva; Scorsese non dà nemmeno il tempo di respirare, non sta fermo un secondo con la macchina da presa (tra piani sequenza, improvvisi restringimenti di campo, soggettive, cambi di prospettiva e il montaggio fenomenale e adrenalinico della Schoonmaker c'è da diventare scemi), perché nella vita frenetica di Henry e soci non ci si può soffermare a godersi nulla e c'è sempre bisogno di nuovi soldi, gioielli, vestiti, donne, cibo, droga. Credo ci siano pochissimi altri film dove lo spettatore viene così bombardato di dettagli contrastanti, attirato un istante prima dalla prospettiva del lusso e della fama ("eravamo come stelle del cinema") e subito dopo mosso a repulsione dall'orrore di un fiotto di sangue o dalla cafoneria di un branco di parvenu disperati, di queste donne truccatissime e sfatte accompagnate da mariti di un'ignoranza e una pochezza abissali. Non solo, lo spettatore viene messo di fronte a più punti di vista ed è costretto a fungere da "freno" per questa corsa disperata, così da non farsi catturare dall'insano fascino di una famiglia che protegge e supporta i suoi membri anche quando razionalmente verrebbe da fuggire a gambe levate davanti a gente che uccide per uno scatto d'ira senza fare distinzione tra amici o nemici.


I punti di vista di Quei bravi ragazzi sono fondamentalmente due, anzi forse tre. Il primo è quello di Henry Hill, ovviamente. Voce narrante per nulla pentita, convinto fautore della vita dei "bravi ragazzi" anche davanti agli eventi più sconvolgenti, Henry è un ragazzino cresciuto con valori distorti che non è mai diventato un adulto e quindi può tranquillamente venire riconosciuto come narratore inaffidabile; non che Henry ci racconti delle palle, quello no, ogni cosa che viene mostrata sullo schermo è effettivamente avvenuta, ma ci viene presentata come la normalità oppure, al massimo, come un piccolo incidente di percorso. Accanto ad Henry, di tanto in tanto, si fa sentire la voce della moglie Karen, di religione ebraica e di buona famiglia, che prende per mano lo spettatore e lo affianca, raccontandogli "la famiglia" vista da un esterno che arriva a poco a poco a comprenderne i meccanismi, alternando un piacevole stupore a perplessità sempre più grandi, a mano a mano che la patina di glamour dorato viene grattata via rivelando uomini abietti e dollari insanguinati, umiliazioni e soprusi a non finire. A fare da "totem", poi, c'è Paul Vario, il boss, interpretato magistralmente da un Paul Sorvino al quale basta uno sguardo per farsi capire, senza bisogno di parole. Paul Vario rappresenta la sicurezza delle regole codificate della strada, il cuore nero della famiglia che protegge ed assicura il perpetuarsi dei valori, per quanto sbagliati e distorti. Persino un bambino capirebbe che i veri nemici dei "bravi ragazzi" non sono poliziotti, governo o federali (che di tanto in tanto spuntano, solo per essere trattati alla stregua di moscerini fastidiosi) ma coloro che, dall'interno, non rispettano le regole, causando così la rovina del sistema; Paul è il guardiano della tribù, silenzioso ma perentorio, la sua è l'oasi relativamente tranquilla di chi conosce quel mondo, lo teme e lo rispetta, ne scandisce il ritmo con "rituali" regolari (Paul era quello che tagliava l'aglio così fine da farlo sciogliere, per dire) mentre Henry, Jimmy e Tommy sono le tre schegge impazzite che a un certo punto, per gratificare il proprio ego, vogliono di più e mandano al diavolo ogni legge del branco, condannandolo alla distruzione senza possibilità di ritorno, come accade spesso nei film di Scorsese. Henry si da allo spaccio, Tommy ammazza senza criterio, Jimmy parrebbe quello più assennato dei tre ma alla fine copre gli altri due in ogni loro sgarro, approfittando di volta in volta dei vantaggi che gli potrebbero derivare, confermandosi così il peggiore del gruppetto.


E che attori, ad interpretare questi personaggi indimenticabili, diventati nel tempo talmente iconici che persino gli Animaniacs li hanno omaggiati con I Picciotti (o i Goodfeathers, chiamateli come volete). Andiamo con ordine. Ray Liotta interpreta Henry ed è bellissimo, almeno all'inizio, con quegli occhi azzurro ghiaccio e il piglio vincente. E' bello come la visione che ha del mondo a cui appartiene, e non si può biasimare Karen per essersi fatta infinocchiare, poi però diventa sempre più brutto e volgare; sul finale, strafatto di coca fino agli occhi, tutto attorno a lui cambia diventando l'allucinazione di un paranoico, cambia persino la fotografia, che si fa più grigia e cupa, mentre l'uomo vaga "sudato che farebbe schifo a un piede" e con gli occhi pallati. Ray Liotta ha affermato di essere "la colla che tiene assieme i glitter". In effetti, la sua interpretazione potrebbe definirsi quasi misurata, perché a risplendere di luce propria (folle, ma pur sempre luce) sono due animali da palcoscenico come Robert De Niro e Joe Pesci. Il Jimmy di De Niro è un bastardo matricolato, calmissimo, a cui basta uno sguardo per dare a intendere un mondo di oscurità e noncuranza verso il genere umano capace di rivaleggiare con quella del grande amicone Tommy, interpretato da un Joe Pesci che, giustamente, ha ottenuto una statuetta come miglior attore non protagonista. Joe Pesci fa paura in Quei bravi ragazzi, ne fa persino a me che avrò guardato il film almeno una ventina di volte e ogni volta stringo i denti nell'attesa di quello che farà Tommy ai poveri malcapitati che hanno avuto la sventura di dire una parola sbagliata, che sia "buffo", "lustrascarpe" o "vai a farti fottere". Joe Pesci è una scheggia impazzita, è la bravura di chi improvvisa e sconvolge persino i suoi colleghi attori, è l'imprevisto costantemente alle calcagna di chi fa la vita da bravo ragazzo e non sa come e dove gli capiterà di morire, è l'aspetto grottesco e tragicamente buffo di gente ridicola, meritevole di venire ridotta a cliché anche quando Scorsese, invece, la eleva a poesia pura. Per dire, è così larger than life il personaggio di Tommy che nella sequenza della "promozione" mi sale un vergognoso magone alla gola. Quanto altro avrei da dire su Quei bravi ragazzi, cominciando con l'apprezzare senza riserve quel delirio di colonna sonora, tra crooner, musicarelli, rock, Layla e My Way che accompagnano alla perfezione ogni singola sequenza. Ma sono solo una povera fangirl di Scorsese, che invece meriterebbe fior di studiosi a venerarlo come merita, e l'unica cosa che posso fare è aspettare The Irishman con trepidazione, riguardando altre mille volte quello che per me è il miglior film sulla mafia di sempre.


Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese ho già parlato QUI. Robert De Niro (James Conway), Ray Liotta (Henry Hill), Joe Pesci (Tommy DeVito), Paul Sorvino (Paul Vario), Kevin Corrigan (Michael Hill), Michael Imperioli (Spider), Samuel L. Jackson (Stacks Edwards) e Tobin Bell (Agente preposto alla libertà vigilata) li trovate invece ai rispettivi link.

Lorraine Bracco interpreta Karen Hill. Americana, la ricordo per film come 4 pazzi in libertà, Nei panni di una bionda, Ritorno dal nulla e serie quali I Soprano, inoltre ha lavorato come doppiatrice in BoJack Horseman. Anche produttrice e regista, ha 65 anni e due film in uscita.


Frank Vincent interpreta Billy Batts. Americano, ha partecipato a film come Toro scatenato, Casinò e serie quali Le avventure del giovane Indiana Jones, Walker Texas Ranger e I Soprano, inoltre ha lavorato come doppiatore in Shark Tale. Anche produttore, è morto nel 2017 all'età di 80 anni.


Abbastanza scandalosi gli Oscar di quell'anno, che hanno visto Quei bravi ragazzi perdere nella categoria miglior film, regia, sceneggiatura non originale e montaggio contro Kevin Costner e il suo Balla coi lupi; ora, io sono anni che non lo guardo ma anche un po' fanculo, dai, e vivaddio nel 1991 avevo 10 anni e non sapevo quasi cosa fossero gli Oscar, men che meno Scorsese, o sai il nervoso che mi sarei fatta. A 'sti punti giustifico di più la vittoria di Woopi Goldberg come non protagonista per Ghost, al posto di Lorraine Bracco. Parlando di cose più facete, Catherine e Charles Scorsese, madre e padre del regista, compaiono rispettivamente come madre di Tommy e come Vinnie. Tra le "comparsate" di spessore dei futuri componenti del cast de I Soprano, invece, oltre agli ovvi Lorraine Bracco, Michael Imperioli e Frank Vincent che sarebbero diventati la dottoressa Melfi, Chris Moltisanti e Phil Leotardo, segnalo la presenza di Tony Sirico (il futuro, amato e odiato Paulie, qui interpreta Tony Stacks), Vincent Pastore (futuro "Pussy" Bonpensiero), Suzanne Shepherd (qui è la madre di Karen, ne I Soprano è la madre di Carmela), Tony Lip (quello di Green Book, qui interpreta Frankie The Wop, ne I Soprano invece Carmine Lupertazzi Jr.); altre comparsate di lusso sono quelle di Vincent Gallo, che interpreta un membro della banda di Henry negli anni '70, e la figlia di Lorraine Bracco ed Harvey Keitel, Stella Keitel, che interpreta la figlia maggiore di Henry. Passiamo ora a chi, per sfortuna o poca lungimiranza, non ce l'ha fatta, Al Pacino in primis, che ha rifiutato il ruolo di Jimmy per paura di diventare uno stereotipo e poi lo stesso anno è finito a fare Big Boy Caprice in Dick Tracy (anche John Malkovich ha rinunciato al ruolo, comunque), mentre per la parte di Henry all'epoca si parlava di Tom Cruise, Sean Penn o Alec Baldwin. E ora una curiosità divertente: la vita del vero Henry Hill dal momento in cui ha cominciato la vita di testimone sotto protezione, è stata portata sullo schermo come commedia ne Il testimone più pazzo del mondo, scritto da Nora Ephron, moglie di Mitch Pileggi. Magari potreste recuperarlo, nel caso Quei bravi ragazzi vi fosse piaciuto, e ovviamente aggiungere Casino, Donnie Brasco e la trilogia de Il padrino! ENJOY!

martedì 15 ottobre 2019

Taxi Driver (1976)

La febbre da Joker non si è ancora spenta ma, almeno per me, non significa andarmelo a rivedere al cinema ventordici volte, quanto piuttosto riguardare le sue dichiarate fonti di ispirazione, come per esempio Taxi Driver, diretto dal regista Martin Scorsese nel 1976.


Trama: afflitto da un'insonnia cronica, un veterano con problemi mentali decide di lavorare come tassista di notte. Il suo desiderio di ripulire la città si rafforza quando incontra Betsy, sostenitrice di un candidato presidenziale, e Iris, prostituta tredicenne...


Cosa si può dire di Taxi Driver che non sia stato detto? Nulla. Basta aprire qualunque libro di cinema, qualunque biografia su Scorsese, qualunque monografia sul film in sé per scoprire un mondo e innamorarsi di una delle pellicole più belle non solo del regista, ma della cinematografia mondiale. Non ho aneddoti legati alla visione di Taxi Driver, sono sincera. E' uno di quei film recuperati dopo essere stata folgorata sulla via di Damasco da Quei bravi ragazzi e mentre l'epopea mafiosa di Ray Liotta e compagnia è roboante, zeppa di glamour e spesso tragicamente divertente, Taxi Driver è "solo" angosciante e cupo, tanto che alla fine della visione avevo preso tutte le immagini e le avevo rinchiuse nella testa e nel cuore per tenerle per me; non mi sarei MAI sognata di consigliare Taxi Driver ai miei amici con l'entusiasmo con cui invece rompevo le scatole per i film di Tarantino, Quei bravi ragazzi, Casino o persino Arancia meccanica. Perché Taxi Driver ti deprime, ti riversa addosso le atmosfere della New York notturna sporca e pericolosa, fatta di papponi, gente che muore senza un perché, tassisti che si fanno scivolare addosso le peggio cose anche se lo sporco di quelle cose gli rimane attaccato addosso, sui vestiti e sui sedili "impiastricciati". E uno di questi tassisti è Travis Bickle, allucinato dalla mancanza di sonno e da problemi mentali che non vengono mai davvero definiti all'interno del film. Un uomo mite (almeno all'inizio), una persona di cui probabilmente non ci accorgeremmo se ci passasse accanto, un essere umano che si guarda attorno e prova schifo per tutto ciò che vede, per la propria soffocante ed ingiusta solitudine, e come tutti noi soffre in silenzio, almeno finché una serie di esperienze negative non lo porta a fare scelte assai drastiche. Possiamo non essere sotto l'effetto di psicofarmaci, per carità, magari non arriveremo mai ad armarci di tutto punto per ripulire le strade, ma Travis Bickle siamo noi, inutile nasconderci dietro un dito.


Siamo noi con le nostre stranezze e il modo goffo di esistere, quando proiettiamo tutte le nostre speranze su qualcuno che colpisce la nostra attenzione, "angelicandolo" come già faceva Dante con Beatrice. La Beatrice di Travis è Betsy, almeno all'inizio, e come la Beatrice dantesca abbiamo a che fare con una bella stronza, non c'è ombra di dubbio. Lusingata dalla corte di quell'uomo particolare, incuriosita forse dai suoi atteggiamenti poco ortodossi, Betsy accetta di uscire con Travis ma non riesce a capirlo e lo rifiuta; lungi da me darle colpe, poveraccia, ché venire portata in un cinema porno da uno sconosciuto al primo appuntamento farebbe strano anche alla sottoscritta, tuttavia Betsy è come la società che circonda Travis, pronta a giudicarlo e lasciarlo di nuovo solo, senza nemmeno fare lo sforzo di ascoltarlo e capirlo. Lo stesso vale per i colleghi (il dialogo tra Travis e Mago dovrebbe far ridere ma è angosciante), lo stesso vale per l'accondiscentente (e falso) senatore Palantine, lo stesso vale per tutti i freaks che popolano New York e viaggiano sui taxi, lo stesso vale per la "scema" Iris, un'innocente dalle ali spezzate che forse è sola e incompresa quanto Travis ma, a differenza sua, non ha la capacità di difendersi o ripulire il mondo né percepisce le ingiustizie che vengono perpetrate nei suoi confronti. Travis è dannatamente solo e più cerca di uscire da quella solitudine più essa lo inghiotte e lo schiaccia. Anche il finale, che in apparenza dovrebbe essere consolante, la vittoria dell'antieroe finalmente accettato per quel che è e "guarito", in realtà non lo è affatto.


Siamo tutti buoni ad applaudire per Arthur Fleck, agente di caos e ribellione, infinitamente glamour nella sua sfiga, tanto da diventare nemesi di Batman, nientemeno. Ma i cinque minuti di gloria di Travis Bickle sono di una tristezza fuori dal comune, resi ancora più amari dalla consapevolezza che lo sfogo di una sera non basterà né a ripulire New York né, tantomeno, a fare di Travis una persona meno sola o più consapevole di sé; sul finale, il sorriso sensuale di Betsy è quello interessato di chi ha per le mani una celebrità e anche se Travis è riuscito a scorgere cosa si cela davvero dentro la ragazza, vedendola per la vanesia superficiale che è, non è detto che sarà così anche in futuro e che il poveraccio riuscirà a farsi degli amici veri, una moglie o una famiglia. Anzi, quei titoli che scorrono continui, coi taxi che non smettono di correre, ci dicono che probabilmente non cambierà nulla, né per Travis, né per New York... e forse nemmeno per Iris, segnata per sempre da una tragedia che l'ha salvata fisicamente dalla droga e dalla prostituzione ma che probabilmente l'ha danneggiata in modi impensabili. E così, ancora oggi, dopo più di 40 anni, esco dalla visione di Taxi Driver un po' più "sporca" e un po' più amareggiata e questo l'ha capito anche il Bolluomo, poverino, il quale "costretto" a guardare il grande capolavoro di Scorsese per la prima volta l'ha rigettato senza riuscire a farselo piacere, così cupo e pessimista com'è, così focalizzato su un personaggio difficile da decifrare, così fuori dal mondo e allo stesso tempo ancora così tristemente, maledettamente attuale senza essere né ruffiano né costruito ad arte per piacere e fare discutere.


Del regista Martin Scorsese, che interpreta anche il passeggero che spia la moglie alla finestra, ho già parlato QUI. Robert De Niro (Travis Bickle), Peter Boyle (Mago), Albert Brooks (Tom), Jodie Foster (Iris) e Harvey Keitel (Sport) li trovate invece ai rispettivi link.

Cybill Shepherd interpreta Betsy. Americana, la ricordo per film come L'ultimo spettacolo, La dea del successo, inoltre ha partecipato a serie quali Moonlighting e Criminal Minds. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 69 anni e un film in uscita.


Taxi Driver è stato nominato per quattro Oscar senza vincerne nemmeno uno: Miglior Film (quell'anno ha vinto Rocky, nientemeno), Robert De Niro come Miglior Attore Protagonista (andato postumo a Peter Finch per Quinto Potere), Jodie Foster come Miglior Attrice Non Protagonista (ha vinto Beatrice Straight, sempre per Quinto Potere, ma quell'anno era candidata anche Piper Laurie per Carrie - Lo sguardo di Satana) e Miglior Colonna Sonora Originale, l'ultima peraltro scritta da Bernard Herrmann, morto dopo poco. Il ruolo di Travis Bickle era stato offerto a Dustin Hoffman, che lo ha rifiutato per poi pentirsene negli anni a venire mentre Harvey Keitel avrebbe dovuto interpretare Tom ma è finito a fare il pappone; la stessa Tippi Hedren ha invece impedito a Melanie Griffith di accettare la parte di Iris nonostante la figlia fosse la prima scelta per interpretarla (la seconda era Linda Blair) quando il regista avrebbe dovuto essere Brian De Palma. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Lo sciacallo - Nightcrawler, Drive e You Were Never Really Here. ENJOY!

venerdì 11 ottobre 2019

Re per una notte (1982)

Presa dall'atmosfera jokeriana, qualche sera fa ho deciso di riguardare Re per una notte (The King of Comedy), diretto nel 1981 dal regista Martin Scorsese.


Trama: Rupert Pupkin, un nullafacente con ambizioni da comico, cerca in tutti i modi di attirare l'attenzione del famosissimo Jerry Langford per poter partecipare al suo show.


Re per una notte è universalmente conosciuto come il primo, vero flop commerciale di Scorsese e lo stesso regista nel corso degli anni ha dichiarato di essersi pentito di averlo girato, vuoi per problemi di salute, vuoi per problemi sul set, vuoi per la follia intrinseca nel film in sé. Se posso permettermi di contraddire il Maestro, è vero che Re per una notte non rientrerà mai nel mio novero dei suoi film preferiti, tuttavia è comunque una pellicola interessante, assai legata ai temi tanto cari al regista. Anche qui, infatti, abbiamo un protagonista estraneo al tessuto sociale che lo circonda e terrorizzato all'idea di uscire dalla sua comfort zone che in questo caso, attenzione, non è legata all'ambito familiare nonostante Rupert viva solo con mammà (la madre opprimente farà la felicità dei fan di The Big Bag Theory), quanto proprio ai suoi sogni e alle sue ambizioni di diventare qualcuno, di essere un comico famoso al pari di Jerry Langford, l'idolo televisivo dell'America intera. Rupert Pupkin, baffetto da sparviero, completi sgargianti e faccia da schiaffi, è il prototipo dell'individuo affetto da manie di grandezza, talmente convinto di essere importante e necessario che le sue illusioni hanno smesso di essere separate dalla realtà, tanto che i suoi colloqui immaginari con Jerry Langford arrivano ad influenzarla come se fossero avvenuti davvero; per il modo in cui si rapporta con gli altri, Pupkin risulta spesso un personaggio odioso e sfiancante, meritevole di venire preso a schiaffi per ore, eppure l'aspetto interessante della sceneggiatura di Paul Zimmerman è il modo in cui i due personaggi principali rifuggono le etichette e i giudizi tranchant. Pupkin è odioso ma "simpatico", ingenuo nella sua continua ricerca del successo a tutti i costi, e la sua dichiarazione finale (meglio Re per una notte che buffone per tutta la vita) stringe il cuore, perché è il pensiero recondito di qualsiasi normale "fallito", messo da parte perché strano ed inquietante quando magari avrebbe davvero, dentro di sé, la stoffa per emergere se solo gliene venisse data l'occasione.


La furbizia della sceneggiatura di Zimmerman risiede nel non far ascoltare, fino all'ultimo, il contenuto degli eventuali monologhi comici di Pupkin, il quale risulta così assillante senza motivo e ridicolo, cosa che ci spinge ad abbracciare il razionale punto di vista di Jerry Langford e della sua bella assistente, oltre ad empatizzare con lo showman. Il povero Langford, infatti, per tutto il film viene costretto a subire le attenzioni sgradite non solo di Pupkin e della sua "alleata" Masha, ma anche delle persone per strada, convinte di "possederlo" in quanto personaggio famoso e di potergli chiedere qualunque cosa in virtù della sua posizione privilegiata ("ti venisse il cancro!!"); in realtà, Langford è un uomo comune, né migliore né peggiore degli altri, con tutti i diritti di avere la sua privacy nonostante lo status di "star"... eppure, sul finale, ci ritroviamo anche a pensare che Jerry avrebbe potuto evitare tutta l'ordalia subita se solo avesse dato una possibilità a Rupert, concedendogli un minimo cenno d'interesse, ad ecco che l'empatia si sostituisce ad un pizzico di antipatia per la sua spocchia "immotivata". Così va il mondo, siamo tutti umani e sognatori, pronti giustamente a metterci nei panni dei più sfortunati anche se non ce ne sarebbe motivo, soprattutto se gli sfortunati in questione sono dei matti da primato, e Re per una notte gioca proprio su questa contraddizione, rivelandosi così più interessante e meno sciocco di quanto non appaia.


Il viaggio allucinante ed allucinato di Re per una notte, con la sinergia perfetta tra Scorsese e la Schoonmaker, artefici di sequenze nelle quali realtà e fantasia si compenetrano, i cartonati all'interno di una stanza chiusa diventano un enorme salotto televisivo e il buon vecchio tubo catodico inghiotte interamente lo schermo cinematografico, non esisterebbe senza due grandi attori come Robert De Niro e Jerry Lewis. Il primo è istrionico e sfiancante, dall'inizio alla fine, nei suoi monologhi o quando duetta con una folle e incazzatissima Sandra Bernhard; mi sarebbe piaciuto ascoltare la voce originale ma purtroppo ho recuperato il film solo in italiano e debbo fare i complimenti alla bonanima di Ferruccio Amendola per il tour de force, ché più che un personaggio scorsesiano Rupert Pupkin sembra stato concepito da Tarantino per la sua devastante logorrea. A fargli da contraltare c'è Jerry Lewis, favoloso esempio di come un attore comico possa dare tanto, anzi, tantissimo a un film drammatico. Abituati come siamo ai suoi ruoli da Picchiatello, vedere un Jerry Lewis serio e appesantito è abbastanza scioccante, anche perché se Rupert non smette un secondo di parlare, Langford sta spesso in silenzio, preferendo comunicare attraverso sguardi di puro odio, disprezzo ed esasperazione, quasi la sua sanità mentale rischiasse di spezzarsi ogni volta che Pupkin ciccia fuori come un pupazzo a molla (magistrale la sequenza in cui Pupkin si presenta, non invitato, a casa del comico, quasi interamente improvvisata, con reazioni genuine da parte di Jerry Lewis). Insomma, alla fin della fiera mi ritrovo a dover ringraziare Todd Phillips e il suo Joker, perché senza quest'opera probabilmente non avrei mai più riguardato Re per una notte e sarebbe ingiustamente finito nel dimenticatoio: sfruttate la risonanza mediatica di Joker e recuperatelo, o guardatelo se non lo avete mai visto, ne vale la pena!


Del regista Martin Scorsese, che compare in un piccolo cameo nei panni del regista dello show, ho già parlato QUI mentre Robert De Niro (Rupert Pupkin) lo trovate QUA.

Jerry Lewis interpreta Jerry Langford. Americano, lo ricordo per film come Il nipote picchiatello, Ragazzo tuttofare, L'idolo delle donne, Le folli notti del dottor Jerryll, I 7 magnifici Jerry e Bentornato, picchiatello!, inoltre ha partecipato a serie come Batman, Innamorati pazzi e doppiato un episodio de I Simpson. Anche sceneggiatore, cantante, regista e produttore, è morto nel 2017, all'età di 91 anni.


Sandra Bernhard interpreta Masha. Comica americana, ha partecipato a film come Hudson Hawk - Il mago del furto, Il fuggitivo della missione impossibile, Zoolander e a serie quali Alfred Hitchcock presenta, I viaggiatori delle tenebre, I racconti della cripta, Clueless, Highlander, Ally McBeal, I Soprano, Will & Grace, Pappa e ciccia e American Horror Story, oltre ad aver lavorato come doppiatrice in Hercules, American Dad! e I Griffin. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 64 anni.


Nel film compaiono i genitori di Martin Scorsese, la mamma solo come voce della madre di Rupert e il papà tra gli avventori del bar nell'ultima scena; Diahnne Abbot, che interpreta Rita, è stata moglie di Robert De Niro dal 1976 (anno in cui è uscito Taxi Driver, dove l'attrice fa una comparsata) al 1988. A prendere in giro Rupert quando litiga con Masha ci sono invece Mick Jones, Joe Strummer, e Paul Simonon, membri dei Clash, mentre Liza Minnelli avrebbe dovuto comparire come guest star e cantare New York, New York ma di lei è rimasto solo un cartonato. Tra coloro che "non ce l'hanno fatta" segnalo anche Meryl Streep, che ha rinunciato al ruolo di Masha. Detto questo, se Re per una notte vi fosse piaciuto potreste recuperare Man on the Moon. ENJOY!

venerdì 8 settembre 2017

Bollalmanacco On Demand: Fuori orario (1985)

Dopo "soli" quattro mesi torna la rubrica Il Bollalmanacco On Demand! Scusate la lentezza ma la mia routine quotidiana ha subito dei cambiamenti e se già prima ero lenta figuriamoci ora. Ma bando alle ciance, oggi esaudirò la richiesta di Rosario che millenni fa mi ha chiesto di parlare di Fuori Orario (After Hours) diretto nel 1985 da Martin Scorsese. Il prossimo film On Demand dovrebbe essere Kids! ENJOY!


Trama: un impiegato conosce per caso una ragazza in un bar e, affascinato, decide di rivederla. Il nuovo appuntamento non va come sperato e la serata si trasforma in un incubo...


Nonostante non sia un horror, Fuori orario è un film capace di mettermi un'angoscia incredibile, alla faccia del suo status di "commedia grottesca". Assistere alle peripezie del protagonista, impossibilitato a tornare a casa, costretto a ripercorrere continuamente i suoi passi e a contare sull'aiuto di persone poco affidabili o completamente folli, è sempre stato fonte di disagio per me e tutte le volte arrivo alla fine di Fuori orario senza fiato. Incubo kafkiano (si veda il dialogo tra Paul e il buttafuori del Berlin) potrebbe essere la definizione giusta per una pellicola che fa dell'assurdo il suo punto di forza e, in quanto opera scorsesiana, "punisce" chi osa sconfinare in un territorio non suo senza conoscerne le regole (se mai ce ne sono, visto che di notte non ne esistono, come dichiara Dick Miller a un certo punto): d'altronde, come può un programmatore, abituato al freddo ma comprensibile calcolo dei computer, riuscire ad affrontare la Soho zeppa di artisti, creature della notte e psicotici di ogni razza? Il povero Paul ci prova, però. La rassicurante carrellata iniziale sulle note di Mozart ha un atmosfera rilassata di caos controllato, in aperto contrasto con quello che verrà dopo. Il protagonista è in ufficio a spiegare il lavoro ad un novellino che ammette di non aspirare ad un futuro in quel campo e lo sguardo di Paul, insofferente, spazia sul resto dei colleghi, ambendo palesemente ad altro; quando lo ritroviamo in un bar a leggere Tropico del Cancro capiamo che Paul vorrebbe "vivere di avventure", per dirla alla Belle, fare parte anche solo per poco tempo di quegli ambienti sordidi ma vitali, zeppi di promesse di sesso e trasgressione, di cui lui (al sicuro dei cancelli dorati di un paradiso medioborghese) può solo fantasticare. Seguendo la massima "beware what you wish for", davanti a Paul compare Marcy, bella, bionda e fragile, che gli propone di andare a Soho per comprare un fermacarte dalla sua coinquilina, l'artista Kiki, e gli lascia il numero di telefono. L'apparecchio telefonico, veicolo di frustrazione e incomprensibilità che accompagnerà Paul per tutto il film, segna l'inizio dell'incubo di cui sopra, dal momento in cui il protagonista chiamerà per avvisare Marcy e Kiki del suo arrivo e scoprirà di aver esercitato la sua volontà per l'ultima volta, condannandosi ad una nottata terrificante solo per aver sperato di portarsi a letto un'affascinante bionda. Il resto degli eventi raccontati nel film, infatti, non dipende affatto dal libero arbitrio di Paul bensì da un'assurda serie di sfighe, fraintendimenti, mezze parole e un senso crescente di terrore che bloccano il nostro anti-eroe in un mondo incomprensibile che non ha pietà verso gli "estranei", verso quelli che sperano di afferrare uno scampolo di "libertà" senza lasciare nulla in cambio o gli sprovveduti che sottovalutano quella che di fatto è una giungla urbana (uscire solo con 20 dollari? Ma siamo seri!).


Scorsese, con la sua regia movimentata e il serratissimo montaggio di Thelma Schoonmacher a tagliare e cucire le immagini seguendo il ritmo del ticchettare delle lancette, nasconde insidie in ogni inquadratura e per ogni promessa di sesso o salvezza inserisce anche un elemento capace di richiamare malattie, morte o pericolo: le trappole per topi, l'illusione di un corpo devastato dalle bruciature, il fuoco, le mise sadomaso, persino i ritagli di giornale suonano come campanelli d'allarme nella mente sempre più frastornata di Paul e in quella ormai pronta a tutto dello spettatore, al punto che ogni persona e ogni luogo, anche i più normali, sembrano nascondere qualcosa di folle. Paul, impreparato ad un simile ambiente e probabilmente debole di carattere, subisce così una depersonalizzazione fortissima e diventa ciò che gli altri vogliono o pensano che sia ed è sconvolgente vedere l'interpretazione di Griffin Dunne mentre precipita sempre più nel baratro della perdita d'identità. Partendo dalla camicia, cambiata da Kiki quando Paul accetta di aiutarla a realizzare la sua statua in cartapesta, fino ad arrivare al taglio mohawk, il protagonista subisce un cambiamento fisico e di stile al quale cerca di opporsi disperatamente ogni volta che può (è bellissimo vedere Griffin Dunne che cerca di lisciarsi i capelli allo specchio, come a ritrovare un'immagine di sé riconoscibile) finché a un certo punto decide di assecondare la realtà che lo circonda per salvarsi la vita e a un certo punto arriva persino a scomparire. Sì, Paul scompare due volte, una poco prima del finale e una nel finale stesso, in cui il protagonista torna nel luogo a lui più congeniale, dove finirà per passare inosservato nella marea di persone identiche a lui, tutte prese da un lavoro insoddisfacente che impegna gran parte del loro tempo e delle loro energie. Al sicuro, ma forse infelice per sempre, chissà? Scorsese, così come la sceneggiatura di Joseph Minion (lo stesso di Stress da vampiro, aiuto!), non danno risposte precise ma l'idea sembra comunque essere quella di mantenere lo status quo e non mescolare "tribù" diverse, pena la distruzione di entrambe, ché se a Paul non va bene la serata, ad alcuni membri del "popolo della notte" va anche peggio. Probabilmente, alla fine l'Icaro Paul non si avvicinerà mai più al "sole" e, anzi, avrà solo aumentato i pregiudizi verso la Soho notturna, gli stessi che sono serviti prima ad avvicinarlo a quel mondo alieno e poi a commettere tanti sbagli ed imprudenze nel giro di 8/9 ore. Qualunque sia il significato recondito di Fuori orario, comunque, sta di fatto che la pellicola è l'ennesimo capolavoro di Scorsese, magari meno conosciuto di altri e anche per questo ancor più consigliato... anche perché è uno dei pochissimi film pesantemente anni '80 a non essere invecchiato di un solo giorno!


Del regista Martin Scorsese, che interpreta anche il tecnico delle luci al Club Berlin, ho già parlato QUI. Griffin Dunne (Paul Hackett), Rosanna Arquette (Marcy), Linda Fiorentino (Kiki), John Heard (Tom il barista), Cheech Marin (Neil), Catherine O'Hara (Gail) e Dick Miller (Cameriere) li trovate invece ai rispettivi link.

Verna Bloom interpreta June. Americana, ha partecipato a film come Animal House, L'ultima tentazione di Cristo e a serie quali Il tenente Kojak. Ha 78 anni.


Tommy Chong interpreta Pepe. Canadese, membro del duo comico Cheech and Chong, ha partecipato a film come Up in Smoke, Barbagialla, il terrore dei sette mari e mezzo e a serie quali Miami Vice, Nash Bridges, I viaggiatori, Dharma & Greg e That's 70's Show; come doppiatore ha invece lavorato per i film Ferngully - Le avventure di Zak e Crysta, Zootropolis e per episodi di serie quali South Park e Uncle Grandpa. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 79 anni e un film in uscita.


Teri Garr interpreta Julie. Indimenticabile Inga di Frankenstein Junior., ha partecipato ad altri film come Incontri ravvicinati del terzo tipo, Tootsie, La stangata 2, Scemo & più scemo, Michael, Ghost World e a serie quali Batman, Star Trek, Hunter, MASH, I racconti della cripta, Sabrina vita da strega, Friends e ER Medici in prima linea. Americana, ha 70 anni.


Will Patton (vero nome William Rankin Patton) interpreta Horst. Americano, lo ricordo per film come Cercasi Susan disperatamente, Il cliente, Armageddon - Giudizio finale, The Mothman Prophecies - Voci dall'ombra The Punisher, inoltre ha partecipato a serie come Numb3rs, 24 CSI - Scena del crimine. Ha 63 anni e due film in uscita.


Bronson Pinchot interpreta Lloyd. Americano, lo ricordo per film come Beverly Hills Cop, Una vita al massimo, Beverly Hills Cop III e I Langolieri, inoltre ha partecipato a serie quali Una famiglia del terzo tipo, Clueless e ha lavorato come doppiatore per episodi di Mucca e pollo, Io sono Donato Fidato e Angry Beavers. Ha 58 anni.


Nel caffé dove Paul incontra Marcy per la prima volta si possono scorgere, alle spalle dei protagonisti, la madre e il padre di Scorsese. Il regista, peraltro, ha accettato di dirigere Fuori orario a causa dei ritardi legati alla produzione de L'ultima tentazione di Cristo; se tutto fosse andato "liscio" avrebbe invece potuto essere Tim Burton a finire dietro la macchina da presa, in quanto era stato la seconda scelta dei produttori dopo avere visto Vincent. Detto questo, se Fuori orario vi fosse piaciuto potete provare Velluto blu oppure Magnolia. ENJOY!

martedì 17 gennaio 2017

Silence (2016)

Potevo esimermi dal vedere l’ultimo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese? Assolutamente no! Come ennesima prova d’amore sono stata accompagnata nientemeno che dal povero Mirco allo spettacolo pomeridiano di Silence, tratto dall’omonimo libro di Shusaku Endo. Segue post lunghissimo e sconclusionato che potete anche non leggere ma che è servito a me per dare un senso a ciò che ho visto. Se volete un riassunto: il film è bellissimo, andatelo a vedere ma astenetevi se non avete la pazienza di sopportare tempi cinematografici dilatati a dismisura.  Banalmente, se già non avete sopportato The Wolf of Wall Street questo vi ucciderà.


Trama: due missionari gesuiti si recano in Giappone per scoprire quale sia stato il reale destino di Padre Ferreira, presumibilmente ucciso durante le persecuzioni cristiane oppure convertitosi agli usi locali…


Se Quentin Tarantino è per me aMMore, quello di una fangirl che mai riscontrerà un solo difetto nelle sue opere, quello per Scorsese è sempre stato un sentimento più serio, che mi accompagna più o meno dagli anni delle superiori, da quando cioè sono rimasta folgorata da Quei bravi ragazzi. Martin Scorsese è una fede, qualcosa da studiare a fondo, qualcuno con cui non essere sempre d’accordo ma verso il quale il rispetto non deve mai venire meno, anche quando sforna robette come Hugo Cabret che ti fanno alzare un po’ il sopracciglio e guardare oltre, nell’attesa che arrivi il prossimo film capace di toglierti il fiato. Onestamente, fiato me ne è rimasto parecchio dopo la visione di Silence (che non è, almeno per me, IL film più bello di Scorsese come sentirete dire da molti) eppure è stata l’unica pellicola recente del regista che mi ha spinta a recuperare libri e saggi universitari per rituffarmi nello studio della poetica del buon Martin, cercando di capire cosa potesse nascondersi dietro la passione per la storia raccontata da Shusaku Endo e, soprattutto, per comprendere il punto di vista di chi ha passato anni cercando di realizzare un film simile. Il dubbio, ovviamente, è nato fin da subito ed è stato condiviso a lungo con l’amico Toto: per chi, come noi, è ipercritico nei confronti del cattolicesimo, cosa potrebbe significare guardare quasi tre ore di film apprezzato dai prelati che lo hanno visto proiettato in anteprima in Vaticano e tratto da un’opera scritta da un convertito? Saremmo stati costretti a subire tre ore di pippone pro-cattolico, all’urlo di “che cattivi i Giapponesi e poveretti i cristiani”? Sinceramente, non lo credevo possibile e sono contentissima di non essermi sbagliata, perché la poetica scorsesiana dell’”incertezza”, dell’essere umano incapace di distinguere tra giusto e sbagliato, dell’uomo in lotta contro la società, della solitudine e delle illusioni si riafferma prepotentemente in Silence, al di là del contenuto cattolico della pellicola. La storia dei due missionari che vanno in Giappone per recuperarne un terzo è l’ennesima conferma che solo il Cristo de L’ultima tentazione è stato capace di prendere in mano il proprio destino e fare una scelta dettata dalla propria coscienza (giusta o sbagliata, questo non sta a noi deciderlo) mentre tutti gli altri personaggi di Scorsese sono stati influenzati o dalla società in cui sono nati e cresciuti o da una limitata visione del mondo, ritrovandosi così privi del controllo sulla loro vita. 


Lo stesso, ovviamente, accade al vero protagonista di Silence, Padre Rodrigues. Il film prende il via dalla missione “gesuitica” che porta lui e Padre Garupe ad andare in Giappone per scoprire cosa ne è stato di Padre Ferreira ed inizialmente si ha davvero l’impressione di stare guardando un’opera incentrata sulle persecuzioni dei Gesuiti e in generale di tutti i cristiani in terra nipponica: le torture iniziali, la disperazione di chi si ritrova privo di guide religiose, la speranza di avere nel villaggio ben due preti (trattati alla stregua di reliquie), l’inquisizione del terrificante Inoue, sono tutti elementi importanti ma in qualche modo fuorvianti. Presto la sceneggiatura (scritta dallo stesso Scorsese e da Jay Cocks) si focalizza sui dubbi umani di Padre Rodrigues, ritrovatosi solo in terra straniera e messo costantemente alla prova da immagini di violenza, da una cultura che non capisce e, soprattutto, dal SILENZIO. Silence è un film quasi privo di colonna sonora e quando i personaggi non dialogano si sentono solo i monologhi interiori di Padre Rodrigues, i suoni della sofferenza o quelli di una natura spietata ed indifferente: la pellicola si apre e si chiude con l’assordante frinire delle cicale che, come ben sa chi legge manga (ed è talmente sfigato da non avere mai vissuto in Giappone, come la sottoscritta), è un suono tipico dell’estate giapponese, calda e soffocante, perfetta per rappresentare la prigione fisica e spirituale in cui viene a ritrovarsi il protagonista. Dio già non dava risposte a Cristo, l’umanissimo Cristo raccontato da Scorsese negli anni ’80, figurarsi se la sua voce può venire in soccorso di un giovane gesuita che, paradossalmente, si addossa una vocazione da martire talmente egoistica da fargli perdere completamente il senso di ciò che lo circonda. Padre Rodrigues non sente la voce di Dio (come tutti, del resto) eppure arriva a credersi l’incarnazione di Cristo sulla Terra, il depositario di tutte le sofferenze dei cristiani giapponesi, chiudendosi ancora di più nelle sue convinzioni superbe e causando così la morte di coloro che hanno deciso di seguirlo e resistere in suo nome; le illusioni di cui è preda (che lo portano persino ad immaginarsi la voce di Cristo che lo perdona, giacché il silenzio non era abbastanza) offrono gioco facile all’inquisitore giapponese che invece, forte di un senso pratico interamente collegato alla realtà storico-culturale in cui vive, riesce a portare a termine il suo compito con disarmante leggerezza e lucida spietatezza, senza tuttavia risultare un personaggio completamente negativo.  


Quello che temevo, ovvero che i cristiani venissero dipinti interamente come buoni e i giapponesi come dei maledetti torturatori, fortunatamente non è successo perché ogni personaggio viene tratteggiato con delle sfumature di grigio, fortemente connotato da qualcosa che supera la sua indole naturale. L'inquisitore Inoue, la cui identità coglie di sorpresa tanto noi quanto Rodrigues (ed ecco il pregiudizio su cui fa leva quella volpe di Scorsese), è figlio del Giappone e se ci si prendesse la briga di andare oltre le sue pose da aristocratico e l'interpretazione magistrale e molto caricaturale dell'attore nipponico Issei Ogata si capirebbe chiaramente come tutto ciò che l'uomo racconta a Rodrigues corrisponda ad una triste realtà che, nonostante non possa essere intesa come verità assoluta (ma lo stesso vale per la religione cristiana), è comunque radicata all'interno di una società antica, provvista di regole ben chiare e resa fragile da problemi di politica interna; se, di nuovo, ci si prendesse la briga di contestualizzare la vicenda di Silence, si capirebbe come la religione cristiana, dopo essere stata bene accolta ai tempi di Oda Nobunaga, venisse vista negli anni seguenti come un tentativo di colonizzare il Giappone e sovvertire l'ordine sociale, anche perché molti gesuiti offrivano supporto armato ai daimyo cristiani, tra le altre cose. Quindi torturare cristiani inermi è una buona cosa? Assolutamente no ma Scorsese si premura lo stesso di sottolineare la profonda differenza tra l'atteggiamento aggressivo-passivo di Rodrigues e quello più "aperto" di Padre Ferreira, per quanto quest'ultimo sia stato imposto con la forza. Ferreira è quindi migliore di Rodrigues? Anche lì, Scorsese non da risposte e lascia tutto alla sensibilità dello spettatore, ma a me verrebbe da dire no. Anche Ferreira è un uomo che lasciato che altri decidessero per lui e, pur di non perdere la vita a sua volta, oltre che la fede, ha accettato non solo di abiurare ma persino di aiutare il governo giapponese a scovare le immagini religiose nascoste dai cosiddetti キリシタン (la traslitterazione in katakana di "christian"), rimanendo quindi privo di uno scopo nella vita e, probabilmente, continuando a soffrire per l'impossibilità di sentire la voce di Dio: Ferreira sicuramente alla fine salva i prigionieri e il corpo di Rodrigues ma lo lascia poi allo sbando, abbandonando l'anima del suo ex discepolo in balìa degli stessi dubbi che attanagliano lui. 


Chi invece agisce come veicolo di salvezza, per quanto improbabile, è il peculiare Kichijiro. Ubriacone, sporco, traditore e paraculo (posso anche dirlo, tanto ormai chi è arrivato a leggere fino qui??), Kichijiro è il tipico cristiano che compie le nefandezze peggiori confidando comunque nel perdono di Dio e, nonostante non smetta di tormentare per un attimo Rodrigues, alla fine viene comunque ringraziato da quest'ultimo in un toccante confronto. Lì per lì pensavo che Kichijiro fosse la rappresentazione di Giuda, invece diventa per il protagonista l'ultimo baluardo di fede, l'estrema prova di coraggio che porta a perdonare i peccati più empi e a rimettere le colpe anche quando la persona in questione non lo merita; probabilmente Kichijiro è l'unico ancora in grado di far sentire a Rodrigues che la voce di Dio, per quanto flebile, esiste e forse viene persino considerato un modello di forza per la sua capacità di attaccarsi alla fede anche dopo assere stato schiacciato, gettato nel fango e deriso. Forse invece sono io che mi faccio troppi viaggi mentali, spinta dalla complessità degli argomenti trattati e dalla bellezza che Scorsese, in quanto regista, riesce a ricreare attraverso le immagini, anche quando queste ultime mostrano soltanto sangue, morte e desolazione, sfruttando il creato "divino" come mezzo per spegnere le vite dei fedeli. Il regista italoamericano, come al solito, non lascia nulla al caso e non spreca neppure un'inquadratura o un suono (quel gallo che canta tre volte a me ha messo i brividi), così che ogni splendida immagine ed ogni sequenza diventano l'equivalente di immagini sacre per tutti coloro che amano il buon cinema. E già che sono arrivata al quarto paragrafo di post annichilendo il 99% di chi passerà di qui posso sfogare anche la mia anima scema, visto che ho scritto queste righe per puro piacere personale: Adam Driver è stato deluso dalla fede, ecco perché è passato al lato Oscuro della Forza (e comunque, figlio mio, sei brutto come il peccato, non ti si può guardare!!), ad Andrew Garfield non avrei dato due lire invece non è mai stato così bravo e Tadanobu Asano è figo, tremendamente figo, persino con l'orrido taglio di capelli che andava di moda in Giappone nel 1600. 浅野忠信 遊びに行こう!

Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese ho già parlato QUI. Andrew Garfield (Rodrigues), Adam Driver (Garupe), Liam Neeson (Ferreira), Tadanobu Asano (Interprete), Ciarán Hinds (Padre Valignano) e Shin'ya Tsukamoto (Mokichi) li trovate invece ai rispettivi link.


Daniel Day-Lewis avrebbe dovuto interpretare Padre Ferreira ma la lunga produzione del film (è dai tempi di Gangs of New York che Scorsese avrebbe voluto girarlo) ha fatto sì che l'attore fosse impossibilitato a partecipare e lo stesso è successo a Gael García Bernal e Benicio Del Toro, in parola per i ruoli di Padre Rodrigues e Padre Garupe. Tadanobu Asano ha invece sostituito Ken Watanabe nel ruolo di interprete. Il romanzo di Shusaku Endo era già stato portato sullo schermo nel 1971 dal regista Masahiro Shinoda, col titolo Chinmoku; ovviamente non l'ho mai visto ma se Silence vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete L'ultima tentazione di Cristo e magari Kundun. ENJOY!

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