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martedì 24 giugno 2025

28 anni dopo (2025)

Per paura che questa settimana il multisala fosse già chiuso per ferie, mercoledì scorso sono andata a vedere 28 anni dopo (28 Years Later), diretto dal regista Danny Boyle.


Trama: 28 anni dopo la pandemia di rabbia che ha distrutto l'Inghilterra, in un isola della Scozia si è ricreata una prospera comunità separata dalla terraferma. Il dodicenne Spike esce per la prima volta assieme a suo padre e apre gli occhi su ciò che si trova fuori dall'isola e dentro di lui...


Quasi vent'anni dopo il secondo capitolo e 23 anni dopo aver creato la saga, Danny Boyle e Alex Garland tornano, rispettivamente, alla regia e alla sceneggiatura per raccontarci cos'è successo al mondo dopo la pandemia di rabbia che ha distrutto l'Inghilterra. Nulla, a quanto pare. Dopo la scena finale di 28 settimane dopo, che vedeva gli infetti correre davanti alla Torre Eiffel, scopriamo infatti che il mondo è andato avanti, isolando gli inglesi sopravvissuti all'interno dei confini nazionali e lasciandoli a riscoprire la "gioia" di difendere le proprie terre con arco e frecce, costruendo fortificazioni, inventando nuove leggende e riti di passaggio, tornando insomma a uno stile di vita più semplice e quasi "tribale". Anche gli infetti, in qualche modo, si sono evoluti, e alcuni di loro somigliano più a uomini di Neanderthal che a mostri (mentre altri sembrano usciti dal Gyo di Junji Ito e fanno schifo a più livelli), ma non è cambiata la loro pericolosità. In questo mondo "di mezzo", dove la natura è tornata a farla da padrone e l'umanità fatica a fare quel salto che separa il sopravvivere dal vivere, il dodicenne Spike si fa protagonista di un coming of age a tinte horror. Spike vive all'interno di una comunità chiusa, fatta di riti di passaggio e regole ferree, assieme al padre e alla madre malata. Il padre, Jamie, è un modello di mascolinità, di forza, un eroe con tutte le risposte a cui Spike guarda con ammirazione sconfinata; la madre, Isla, è vittima di una misteriosa malattia che le sta portando via forza e raziocinio. Dopo la prima sortita all'esterno, Spike scopre l'orrore che si cela sulla terraferma e arriva a conoscere l'imperfezione di un padre tristemente umano; la consapevolezza della fallacia di Jamie si trasforma in un disprezzo che spinge Spike a prendere la madre per portarla da un dottore isolato sulla terraferma, temuto da tutti perché "pazzo". Quindi, Spike intraprende una vera e propria quest per cercare un individuo "magico", o comunque dotato di capacità uniche e, nel cammino, troverà nemici da sconfiggere, pericoli mortali, improbabili alleati; soprattutto, scoprirà il significato di resilienza e cosa rende una persona davvero umana.


In 28 giorni dopo e, soprattutto, 28 settimane dopo, era l'elemento horror-zombie a farla da padrone, e il terrore di una morte violenta. 28 anni dopo rimette tutto in prospettiva, sottolineando una cosa ovvia: la morte c'è sempre stata, anche prima della pandemia di rabbia che l'ha trasformata in un orrore da dimenticare e che ha diviso l'umanità in anonimi mostri malati e persone sane. Il film sottolinea come la morte sia una parte fondamentale della vita, al punto che una delle massime espressioni d'amore è l'accettazione di una dipartita dignitosa; così come ogni esistenza è unica, è giusto che anche la morte venga percepita in questo modo, o il rischio è quello di diventare insensibili di fronte a qualsiasi dolore che non sia il nostro, soprattutto quando le vittime di pandemie e guerre si fondono in un unicum fatto di anonima carne, anonimo sangue. Il rischio, come sempre, è quello di trasformarci a nostra volta in mostri, anche se non corriamo in giro sbraitando in preda a crisi di rabbia. In una delle sequenze più poetiche del film (affidata, per inciso, ad uno degli attori più bravi del mondo) si cita la frase memento mori, alla quale si aggiunge il meno utilizzato memento amare, perché è più facile avere paura e scappare dall'inevitabile, piuttosto che trarre forza dal ricordo di momenti preziosi, per crearne di ulteriori ai quali aggrapparci. Il coming of age di Spike si trasforma così in un bisogno di libertà, nel rifiuto di una costrizione spaziale che priva di individualità le persone e fa di loro tanti piccoli ingranaggi di una struttura anonima e quasi militarizzata, che è poi il leitmotiv dei mille spezzoni di filmati d'epoca che introducono la vita all'interno dell'isola. Il che mi porta, dopo tutti questi pipponi "filosofici", a parlare un po' della regia di 28 anni dopo.


Su Facebook e Instagram ho definito il film come "una bellissima puntata di The Walking Dead in acido". Lo confermo, perché la regia di Danny Boyle e il montaggio di Jon Harris (coadiuvati da una splendida e martellante colonna sonora, il cui unico difetto è l'assenza della storica In the House – In a Heartbeat di John Murphy) creano un'opera isterica, tra gli spezzoni di filmati di cui sopra, flash di visioni orrorifiche, ralenti che portano a rapidissimi fermi immagine ogni volta che un infetto viene ucciso da una freccia, sogni ad occhi aperti e una consecutio temporum che viene spesso mescolata e spezzata. La narrazione è più lo stream of consciousness di un ragazzino che cerca di assimilare tutta una serie di stimoli nuovi e confusi, ma è anche un'eco della malattia di Isla, del delirio che è diventata l'Inghilterra in 28 anni di mutazioni continue, e c'è una bella differenza tra le immagini desolanti del primo film, intervallate da rapidissimi scoppi di sconvolgente violenza, e questo pastiche di invenzioni visive. L'unica cosa che accomuna, visivamente, le due pellicole, è l'utilizzo di un device digitale per le riprese (in 28 giorni dopo era una videocamera della Canon, qui abbiamo un IPhone di ultima generazione), che conferisce alle immagini una grana particolare, e colori ancora più vividi; per il resto, 28 anni dopo presenta molta varietà anche nei setting e non esita a lasciarsi alle spalle la verosimiglianza del primo capitolo per abbracciare momenti di pura locura concretizzati nel personaggio di Ralph Fiennes e nel trashissimo finale aperto (con tutto il rispetto per Jack O'Connell il quale, dopo questo film e Sinners, sta diventando uno dei miei attori preferiti, mi è sembrato di assistere a un mix tra i Teletubbies, una puntata dei Power Rangers e uno sketch di Benny Hill con la parrucca da giovane scapestrato biondo). A proposito di Ralph Fiennes, il cast è perfetto, proprio a cominciare dal suo Dr. Kelson, che evolve da matto del paese a personaggio migliore del mucchio nel giro di pochissime, splendide sequenze; il giovane Alfie Williams, praticamente esordiente, ha un musetto adorabile ed è un protagonista credibile, capace di infondere al suo personaggio tutte le sfumature necessarie a connotarne la crescita, e mi sono piaciuti molto anche Aaron Taylor-Johnson, sempre figo, e Jodie Comer. Non lo credevo possibile, visto che la saga iniziata nel 2002 non rientra nel mio elenco di film cult, ma alla fine di 28 anni dopo mi sono ritrovata ad aspettare con trepidazione il sequel già annunciato e previsto per l'anno prossimo, 28 Years Later: The Bone Temple, diretto da Nia DaCosta. Speriamo non faccia la fine di Horizon e che questa nuova trilogia arrivi fino alla fine!


Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Aaron Taylor-Johnson (Jamie), Jodie Comer (Isla), Ralph Fiennes (Dr. Kelson) e Jack O'Connell (Sir Jimmy Crystal) li trovate invece ai rispettivi link.


Nell'attesa che esca 28 Years Later: The Bone Temple, se 28 anni dopo vi fosse piaciuto recuperate 28 giorni dopo e 28 settimane dopo. ENJOY!

martedì 25 febbraio 2025

Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro (2005)

Con l'uscita su Netflix e la nomination ai Golden Globes del nuovo film dedicato a Wallace e Gromit, ho riguardato assieme al Bolluomo Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro (Wallace & Gromit: Curse of the Were-Rabbit), diretto e sceneggiato dai registi Nick Park e Steve Box nel 2005.


Trama: Wallace e Gromit, proprietari di una ditta di disinfestazione caritatevole, si ritrovano per le mani un'enorme gatta da pelare, quando un coniglio mostruoso minaccia di far razzia della verdura di tutti i cittadini, alla vigilia del Concorso di Verdura Gigante...


Sono già passati 20 anni dalla visione al cinema di Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro. 20 anni durante i quali, benché mi fiondi sempre sui cartoni animati in stop motion, non ricordo di avere mai rivisto i due personaggi in qualche corto o film, anche se di opere a loro dedicate ne sono uscite. Avevo quindi paura di conservare un ricordo positivo alterato dal tempo, come spesso succede, ed ero un po' restia a rivedere col Bolluomo quella che, ai suoi occhi, avrebbe potuto essere una cretinata per bambini. Ovviamente, e per fortuna, mi sbagliavo. Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro riprende le due fortunate creature di Nick Park, l'inventore mangiaformaggio Wallace e il cane Gromit, inserendole all'interno di un lungometraggio che mantiene i toni scanzonati ma anche le atmosfere sottilmente inquietanti dei corti che lo hanno preceduto, soprattutto quelle de I pantaloni sbagliati. Le rispettive personalità dei protagonisti si inseriscono alla perfezione all'interno di una storia che più horror non si può, il trionfo dei cliché del genere, con un mostro vegetariano pronto a sconvolgere una cittadina di agricoltori, dove l'onore più grande è quello di vincere il Concorso di Verdura Gigante. Wallace, pigro e fessacchiotto ma fondamentalmente buono, è la fucina continua di idee che genera le invenzioni più strampalate, fantastiche sulla carta e dannose all'atto pratico, mentre il povero Wallace è la muta voce della ragione, spesso ignorata in quanto proveniente dall'eloquente sguardo di un cane. Combinati all'elemento horror, e all'aggiunta di un parterre di personaggi spassosissimi (Quatermaine e Lady Tottington sono due esilaranti estremizzazioni di tipici comprimari horror e senza di loro il film non funzionerebbe, ma il mio cuore è volato al prete e all'isteria con la quale si ritrova a gestire la crisi mannara), tutti questi elementi danno vita a un film perfetto per bambini e adulti, un'avventura piena di ritmo che non offre il fianco nemmeno a un istante di noia, condita da un pizzico di umorismo british che da il meglio goduto nella versione in lingua originale. 


Per quanto riguarda l'aspetto tecnico, si rasenta la perfezione. Nick Park già all'epoca aveva fatto ricorso alla CGI (in primis per il "volo" dei conigli ma anche nel corso del finale, modificato perché il regista non era soddisfatto del primo risultato), ma il suo è un utilizzo intelligente, atto a far risparmiare agli animatori settimane di modifiche al posizionamento dei pupazzi, e, soprattutto, è un utilizzo mai invasivo né percettibile, perché il cuore del film è la stop-motion. Pensare al miracolo di una tecnica simile, all'incessante, certosino lavoro che c'è dietro, vedere che non esistono sbavature nei movimenti dei personaggi e nelle sequenze più concitate od affollate, mi lascia sempre a bocca aperta per l'ammirazione. La presenza dei segni delle impronte digitali sul muso di Gromit, nei primi piani, per me non è un difetto, ma l'importantissima testimonianza del lavoro manuale degli animatori, della natura artigianale di quella che può essere ben definita un'opera d'arte; sempre parlando di Gromit, è incredibile il modo in cui i realizzatori siano riusciti a renderlo espressivo, a convogliare la mancanza di dialoghi in un linguaggio corporeo assolutamente comprensibile. Ammirevole, ovviamente, anche il character design. Tolto che i coniglietti, con quel loro "weee", sono il trionfo della pucciosità, sfido chiunque a non voler infilare le mani nelle cicce pelosissime del coniglio mannaro; passando, poi, agli esseri umani, tutti gli abitanti del paesino hanno peculiarità distintive e il guardaroba di Lady Tottington, sempre in tema con qualche verdura, è da antologia. Fossi in voi, quindi, approfitterei dell'uscita di Le piume della vendetta per recuperare questo gioiello animato, se non lo avete mai visto, o per riguardarlo e immergervi in un'opera che non ha perso smalto nemmeno dopo 20 anni!

 


Di Ralph Fiennes (voce originale di Victor Quartermaine), Helena Bonham Carter (Lady Campanula Tottington) e Mark Gatiss (Miss Blight) ho già parlato ai rispettivi link.

Nick Park è il co-regista e co-sceneggiatore del film, nonché creatore dei personaggi Wallace e Gromit, dei quali ha diretto ogni corto (gli episodi delle serie TV sono invece stati affidati ad altri registi). Ha diretto anche i film Galline in fuga e I primitivi. Anche produttore, animatore e attore, ha 67 anni. 


Steve Box
è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, era al suo primo e, finora, unico lungometraggio. Anche animatore e produttore, ha 58 anni.


Se Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro vi fosse piaciuto, recuperate ovviamente tutti i corti dedicati al dinamico duo: Una fantastica gita, I pantaloni sbagliati, Una tosatura perfetta e Questione di pane o di morte. Aggiungerei anche Shaun, vita da pecora - Il film e Shaun, vita da pecora: Farmageddon - Il film. ENJOY!

venerdì 17 gennaio 2025

Conclave (2024)

Conclave, diretto dal regista Edward Berger e tratto dal romanzo omonimo di Robert Harris, è stato l'ultimo film visto al cinema nel 2024.


Trama: dopo la morte del papa, il decano Lawrence si ritrova a dover presiedere all'elezione del suo successore, nel corso di un conclave complicato da segreti e alleanze...


Siccome è passata ben più di una settimana dalla visione di Conclave, potrei anche avere delle difficoltà a scrivere un post di lunghezza standard. Benché, infatti, mi fossi recata al cinema con le migliori intenzioni e la speranza di vedere un film eccellente (il cast è di altissimo livello, Conclave ha la bellezza di sei nomination ai Golden Globes), devo riconoscere che l'opera non mi ha lasciato granché. Se dovessi usare un termine per definire Conclave sarebbe "poco incisivo". E pensare che la trama, tratta da un romanzo di Robert Harris che non ho mai letto, solleva domande interessanti e offre un paio di punti di vista interessanti, ma è tutto sussurrato, molto all'acqua di rose. Il film esplora i dubbi etici e religiosi del decano Lawrence, estremamente legato al papa ma allontanatosi progressivamente da quest'ultimo a causa di una crisi di fede. Alla morte del pontefice, Lawrence è costretto a tornare in Vaticano e a guidare l'elezione del suo successore, in un momento assai delicato per la Chiesa: rinnovata dalle idee riformiste del defunto papa, l'istituzione rischierebbe di tornare a un atteggiamento di chiusura qualora vincesse il reazionario cardinale Tedesco, ma tutti gli altri candidati hanno pro e contro che verranno gradualmente esplorati nel corso del film, tra segreti inconfessabili e giochi di alleanze mutevoli. Per quanto mi riguarda, l'aspetto interessante del film è stato proprio scoprire i segreti appena accennati dei porporati, e vedere portata sullo schermo un'istituzione anacronistica e ipocrita. In un mondo che va avanti, la Chiesa si arrocca su rituali che cozzano con la modernità dei peccati di chi vive in seno ad essa, sul senso di superiorità del sesso maschile rispetto a quello femminile, promuovendo idee "rivoluzionarie" ma che, in realtà, cercano di non minare mai la tranquillità, la tradizione conquistata nel corso dei secoli precedenti. Una delle scelte più intelligenti di Conclave è di non dare una dimensione temporale precisa alla vicenda, ambientata probabilmente in un prossimo futuro, e di inserire elementi perturbanti, persino violenti, che rendono un rituale come il conclave ancora più anacronistico, per quanto affascinante, specchio di un rifiuto ad aprirsi completamente al mondo esterno che non riguarda solo l'elezione papale, ma ogni aspetto della Chiesa. Il clero viene infine descritto come una micro comunità che ripropone, al suo interno, tutte le dinamiche che i prelati dovrebbero combattere e aborrire, e che governano le istituzioni laiche, e i dialoghi tra Lawrence e i suoi "colleghi" sembrerebbero più adatti sulle bocche di politici smaliziati. Il risultato è che lo spettatore accoglie e comprende alla perfezione la crisi di fede del protagonista, impossibile da condannare neppure quando sceglie di mandare al diavolo i rituali per tentare di porre rimedio a danni potenzialmente irreparabili.


Inutile dire che Conclave è un film che, più di altri, si regge sugli attori e forse questo è il motivo per cui non l'ho apprezzato tanto quanto hanno fatto gli spettatori americani o inglesi. Impossibilitata, come sempre, a godere al cinema di una versione v.o., ho dovuto accontentarmi di un doppiaggio ben poco ispirato, e a vedere spiccare, all'interno di un cast di signori attori come Ralph Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow (mai così sprecato) e Isabella Rossellini (mai così sprecata), il nostrano Sergio Castellitto col suo modo di fare arrogante e verace, immaginandomi i dialoghi in italiano tra lui e Fiennes, inevitabilmente appiattiti dall'adattamento. Mi ha poco convinta anche la fotografia cupa di Stéphane Fontaine, nonostante fosse perfetta per accrescere il senso di claustrofobia e reclusione provato dal decano Lawrence alla chiusura delle imposte che segnano l'inizio del conclave. Nulla da dire, invece, sulla regia, rigorosa ed attenta, sui ricchissimi costumi e sulle scenografie, per non parlare dell'attenzione dedicata agli oggetti di scena come anelli e sigilli, e alla riproposizione quasi certosina di rituali che potrebbero anche non scaldare il cuore di chi, come me, non apprezza granché la Chiesa, ma risultano comunque interessanti e affascinanti. Paradossalmente, il vero punto debole di Conclave è proprio la sceneggiatura, il che, per un film che viene presentato come un thriller religioso e invece risulta abbastanza prevedibile negli snodi (salvo per il finale che mi ha lasciata, effettivamente, a bocca aperta) e non granché incisivo nel sviscerare le questioni legate alla fede, non è proprio un bel biglietto da visita. Il fatto che sia stata candidata ai Golden Globes mi porta a temere per la qualità di ciò che mi toccherà sorbirmi prima degli Oscar ma, a parte ciò, nel caso di eventuale vittoria di Fiennes o della Rossellini, mi riservo il diritto di rettificare il mio tiepido giudizio complessivo dopo aver riguardato Conclave in lingua originale.  


Del regista Edward Berger ho già parlato QUI. Ralph Fiennes (Lawrence), Stanley Tucci (Bellini), John Lithgow (Tremblay), Isabella Rossellini (Sorella Agnes) e Sergio Castellitto (Tedesco) li trovate invece ai rispettivi link.




martedì 29 novembre 2022

The Menu (2022)

Spuntato un po' a sorpresa qualche mese fa nelle anteprime, è miracolosamente arrivato anche a Savona The Menu, diretto dal regista Mark Mylod.


Trama: un gruppo di persone selezionate si ritrova nel ristorante dello Chef Slovik per degustare quella che si preannuncia una raffinatissima cena da gourmet, almeno finché non cominciano a succedere cose strane...


Negli ultimi anni, scellerati palinsesti televisivi hanno trasformato quelli che una volta erano normali mestieranti, magari più fantasiosi o bravi di altri, in mega star pronte a far spendere centinaia di euro all'incauto consumatore, il quale magari non capisce una ralla dell'"arte" in questione. No, non sto parlando di pittori o scultori, ma di cuochi, pasticceri o simili, anzi, scusate, dovrei dire chef. Ormai chiunque è costretto a capirsene di cucina (anzi, scusate, food) e a guardare con indulgenza questi figuri aprire locali su locali che, di base, propinano ciò che io mangerei come merendina spacciandolo come primo/secondo annegato in un mare di salsine dubbie e cazzabubbole assortite, dentro un piatto grande come uno scudo, per poi chiedere l'equivalente di un rene al grido di "Eh, ma non devi guardare quanto mangi, bensì all'ESPERIENZA in sé". Io, che nasco bestia e animale brutto morirò, preferisco andare nella taverna rustica o nella pizzeria banale ma buona piuttosto che gettare soldi in queste scempiaggini ma, de gustibus, ognuno fa come crede o come impongono le mode, e mi è parso che fosse quest'ultima motivazione la base di partenza di The Menu, commedia nera tinta di horror ambientata, appunto, all'interno di un ristorante esclusivissimo. All'interno di The Menu i "casi umani" sono ben riconoscibili, anche se non troppo caricati, e ce n'è per tutti i gusti, perché il film non indulge in un banale scontro "ricchi contro poveri"; autocelebrazione che sconfina in un completo distacco dalla realtà, esperienze mordi e fuggi fatte giusto perché "si può", mancanza totale di empatia, esistenze consacrate al nulla, vuota ostentazione, sono solo alcuni degli orrori serviti sul piatto preparato da Mark Mylod, che mescola sapientemente momenti grotteschi al limite dell'esilarante, aspetti thriller e un pizzico di horror, il tutto filtrato da un'estetica accattivante e, sì, molto gustosa. 


C'è da divertirsi parecchio a scoprire ogni singola portata del menu, partendo da quelle più eccentriche ma "normali" per arrivare a quelle maggiormente perplimenti e pericolose, e seguire il percorso filosofico/culinario del luciferino Chef Slovik (condannato a destreggiarsi tra piaggiatori e maleducati arricchiti) viene reso ancora più interessante dalla presenza di un punto di vista esterno ma vicino a quello dello spettatore, il quale si ritrova a condividere gli stati d'animo della giovane Margo, commensale suo malgrado. Quest'ultima è una delle punte di diamante di un cast eccellente. Come ho già scritto in passato, Anya-Taylor Joy non sbaglia un film e, anche quando lo sbaglia (penso al recente Amsterdam ma anche New Mutants), riesce comunque rendere tridimensionale e interessante il suo personaggio; la Margo di The Menu non fa eccezione ed è degno complemento del favoloso Ralph Fiennes, impegnato nell'interpretazione sul filo della follia di un uomo ormai privo di uno scopo nella vita, eppure ancora colmo di dignità e desiderio di rivalsa verso chi non l'ha mai capito. Anche il resto del cast è molto interessante, in primis il fastidioso (ma adorabile) Nicholas Hoult e John Leguizamo, quest'ultimo ormai abbonato al ruolo di caratterista di lusso e sempre dotato di una forte presenza scenica, ma non bisogna dimenticare la freddissima cortesia di Hong Chau, i cui modi compiti all'interno del caos fungono da perfetto esempio delle assurdità grottesche di cui The Menu è costellato. Sarò anche bestia per quanto riguarda il cibo e non posso consigliarvi ristoranti stellati in cui andare a mangiare, ma se volete un film appetitoso e ottimo per passare una serata al cinema, fidatevi della cVitica Bolla e correte in sala prima che questa primizia venga relegata agli sciapi palati dello streaming!


Di Ralph Fiennes (Chef Slovik), Anya Taylor-Joy (Margo), Nicholas Hoult (Tyler), Janet McTeer (Lillian) e John Leguizamo (Stella del cinema) ho già parlato ai rispettivi link.  

Mark Mylod è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Ali G Indahouse ed episodi di serie come C'era una volta e Il trono di spade. Anche produttore, ha 57 anni.


Emma Stone era stata scelta per il ruolo di Margo quando si pensava che il regista sarebbe stato Alexander Payne. Se The Menu vi fosse piaciuto recuperate Fresh, The Feast, Silent Night e Flux Gourmet. ENJOY!

venerdì 28 gennaio 2022

The King's Man - Le origini (2021)

E' stato un miracolo che lo tenessero tre settimane al multisala, quindi ho dovuto onorarlo battendo la sfiga e correndo a vedere The King's Man - Le origini (The King's Man) diretto e co-sceneggiato nel 2021 dal regista Matthew Vaughn.


Trama: alla vigilia della prima guerra mondiale, un'organizzazione segreta trama per seminare il caos e sta al pacifista Duca di Oxford, assieme a un pugno di fedeli alleati, evitare che la situazione precipiti ancora di più...


The King's Man
era uno dei film che attendevo con più ansia, perché ADORO la zamarrissima saga creata dal regista Matthew Vaughn partendo da un fumetto di Mark Millar che nemmeno ho mai letto (e, onestamente, non ci tengo a farlo). Kingsman - Secret Service era un action sboccato e pieno di momenti WTF ma anche genuinamente esaltanti e, nonostante Il cerchio d'oro fosse decisamente inferiore, ho voluto molto bene anche a quello; davanti a un trailer che mi metteva davanti un Rasputin folle fino al midollo e brutto come il peccato non ho avuto altra scelta che mettermi in paziente attesa anche del prequel, sebbene non ci fossero né Colin Firth Taron Egerton, e per quanto mi riguarda sono stata ripagata, perché con tutti i suoi difetti The King's Man si è rivelato divertente, caciarone ed esaltante quanto i suoi predecessori. L'idea, come immaginate, è quella di rivelare come sono nati i Kingsman partendo dai pochi indizi disseminati nel corso dei primi due film, e in questo caso i realizzatori hanno optato per un esempio di "fantastoria" che mescola eventi realmente accaduti (l'omicidio del duca Ferdinando, lo scoppio della prima guerra mondiale, il messaggio inviato al Messico dalla Germania) e personaggi realmente esistiti ad elementi di pura finzione destinati ad influenzarli. Fin dall'inizio, il Duca di Oxford interpretato da un magnetico Ralph Fiennes si propone come uomo d'altri tempi, elegante e onorevole, che sceglie di utilizzare una ricchezza nata col sangue e la sofferenza di altri per aiutare i più sfortunati, a mo' di compensazione; ad affiancarlo e "contrastarne" il pacifismo c'è il figlio, ancora giovane e quindi impossibilitato a capire cosa significhi immolarsi per la patria ed entrare in guerra, vittima di una concezione di "disonore" e "codardia" inculcata da chi ovviamente ha bisogno che la gente combatta per una causa. Oltre a fare da sfondo a una storia più grande e complessa, lo scontro generazionale tra i due diventa il cuore della futura fondazione dei Kingsman, cristallizzandosi in un momento decisamente inaspettato in cui, come sempre, Matthew Vaughn ribalta tutte le regole del genere lasciando lo spettatore con un palmo di naso dopo una sequenza così eroica e piena di "sentimento" da fare invidia a Spielberg. Ma non spoileriamo.


L'idea che offre The King's Man è quella di un'opera ad ampio respiro; si vede che Vaughn aveva voglia di sbragare, sia a livello di location che di sequenze eleganti, e anche i folli combattimenti dal montaggio serrato che hanno fatto la fortuna dei due film precedenti qui vengono centellinati, in favore di atmosfere più da film di avventura, à la Indiana Jones quasi, o à la James Bond ma senza gadget né inseguimenti in auto. Onestamente, questo cambio di rotta non mi è dispiaciuto, così come la maggiore "serietà" offerta dalla presenza di Ralph Fiennes a discapito di un protagonista più giovane e scavezzacollo, ma per gli amanti del "vecchio" Kingsman e dei suoi personaggi sopra le righe c'è la creatura migliore del film. No, non intendo Rasputin, ché altrimenti Mirco non mi rivolgerebbe più la parola, ma il capronetto protagonista della scena più apprezzata dal Bolluomo. POI c'è Rhys Ifans col suo Rasputin, che purtroppo mangia la scena a tutti, buoni o cattivi che siano, e sì che come cast The King's Man è messo più che benissimo. Ifans danza, gigioneggia, seduce, combatte come un derviscio e disgusta in una sequenza che è già il mio scult del 2022 e di cui vorrei assolutamente vedere il backstage per capire come diamine hanno fatto Fiennes ed Ifans a rimanere seri anche solo per un istante. Purtroppo, a rimetterci davanti a tanta meravigliosa esagerazione sono personaggi dalle altissime potenzialità ma un po' sciapi come la Polly di Gemma Arterton e il Shola di Djimon Hounsou (il figlio di Orlando Oxford, ahilui, è davvero privo di ogni speranza di essere interessante, invece), quanto a Daniel Bruhl ormai si è cucito addosso il personaggio di Barone Zemo e devo dire che gli calza benissimo, anche se vorrei tornare a vederlo in altri ruoli visto che è sempre stato un ottimo attore. Quindi, per concludere, come potete immaginare, aspetto con ansia il terzo capitolo cronologico della saga, che dovrebbe cominciare le riprese quest'anno, perché a mio avviso l'universo di Kingsman ha ancora molto da offrire!


Del regista e co-sceneggiatore Matthew Vaughn ho già parlato QUI. Ralph Fiennes (Orlando Oxford), Djimon Hounsou (Shola), Matthew Goode (Morton), Charles Dance (Kitchener), Gemma Arterton (Polly), Rhys Ifans (Grigori Rasputin), Daniel Brühl (Erik Jan Hanussen), Tom Hollander (Re Giorgio / Kaiser Guglielmo/ Zar Nicola), Aaron Taylor-Johnson (Archie Reid) e Stanley Tucci (Ambasciatore americano) li trovate invece ai rispettivi link.


Essendo un prequel, The King's Man - Le origini si può vedere anche da solo, ma perché perdervi i divertentissimi Kingsman: Secret Service e Kingsman: Il cerchio d'oro? ENJOY!

martedì 12 maggio 2020

Red Dragon (2002)

Stranamente, qualche tempo fa è stato il Bolluomo a rimanere ipnotizzato davanti alla TV durante l'incipit di Red Dragon, diretto nel 2002 dal regista Brett Ratner e tratto dall'omonimo romanzo di Richard Harris, e chi sono io per non approfittarne?


Trama: dopo essere quasi stato ucciso da Hannibal Lecter, l'agente FBI Will Graham è costretto a ritornare in servizio, e a ritrovarsi faccia a faccia col cannibale, durante la caccia a un altro serial killer, il cosiddetto Lupo Mannaro.



Bisogna tenere conto di due cose, quando si comincia a guardare Red Dragon, film che ero andata a vedere al cinema proprio nel 2002, in gioiosa ignoranza. Primo, il film è il remake di una pellicola vista milioni di anni fa, Manhunter - Frammenti di un omicidio, che purtroppo non ricordo perché probabilmente ero ragazzina e l'avrò guardata senza la dovuta attenzione (da qui la gioiosa ignoranza che mi accompagnava nel 2002); secondo, il film è una mera operazione commerciale nata sulla scia del successo del libro Hannibal e della pellicola omonima uscita giusto l'anno prima, un'opera realizzata per "completare" l'ideale trilogia iniziata nel 1991 con Il silenzio degli innocenti, e per questo il ruolo di Hannibal Lecter è sensibilmente pompato rispetto a quello del romanzo di Richard Harris, con intere sequenze inventate di sana pianta e debitrici delle scenografie, dei costumi, delle inquadrature e dell'atmosfera del capolavoro di Jonathan Demme. Col quale, beninteso, Red Dragon non è nemmeno parente. Il film di Brett Ratner non è un brutto thriller, anzi, è un ottimo thriller venato d'horror, buono come il materiale di partenza da cui è tratto, ma è incapace di fare quel salto di qualità che condanna lo spettatore ad avere gli incubi la notte e fargli cambiare strada nel malaugurato caso di un incontro con Sir Anthony Hopkins; diciamo che è un thriller "normale" nobilitato da attori grandissimi, che però hanno tutti dato il meglio di sé altrove, e questo vale soprattutto per Philip Seymour Hoffman, ridotto al ruolo di viscido giornalista ciccione. La trama si dovrebbe concentrare su Will Graham, agente dell'FBI col potere di mettersi nei panni dei killer e capirne i ragionamenti contorti, e sull'efferato percorso di elevazione del serial killer Lupo Mannaro (in originale Tooth Fairy, "fata dei dentini", e perché mai in fase di adattamento abbiano cambiato il nome mi è oscuro), ma in realtà ci sono parecchie deviazioni "Lecteriane" che portano il buon dottore a sviare l'attenzione rispetto al killer protagonista e Will Graham a diventare un novello Clarice Sterling, tanto che le scene in cui è presente il Lupo Mannaro parrebbero quasi un riempitivo e il poveraccio una pedina all'interno di uno scontro tra intelletti.


In generale, al film avrebbe sicuramente giovato un po' di personalità in più, ma non è facile quando i modelli sono alti. Rispetto al precedente Hannibal, perlomeno, Red Dragon è molto meno trash (siamo sempre lì: registi e sceneggiatori dovrebbero capire che quello che funziona nel libro non sempre funziona nel film), però sa molto di lavoro fatto in fretta, senza sfruttare appieno le potenzialità di storia e cast e questo si nota soprattutto quando entra in ballo Lecter; sembra quasi, infatti, che i realizzatori avessero in mano un taccuino con elencate tutte le caratteristiche tipiche di eventuali scene con il personaggio e una penna per segnare quello che manca, a mo' di lista della spesa (cena sontuosa e ambigua celo, momento artistico celo, screzio col dottore celo, catene e maschera celo, cella trasparente celo, ecc.), il che rende non solo gli altri personaggi delle macchiette sfumate (e pensare che Reba e il Lupo Mannaro sono pieni di potenzialità!) ma lo stesso Lecter è una figurina all'interno della quale Anthony Hopkins sta stretto e si muove preda della volontà di renderlo molto più cattivo e molto meno affascinante. Dimenticato un Edward Norton dalla terribile tinta bionda, gli unici attori che spiccano davvero all'interno del nutrito e famoso cast sono Ralph Fiennes, che però era molto più inquietante in Spider e qui è penalizzato da un doppiaggio fesso, e una Emily Watson magnetica, che compensa al difetto fisico del suo personaggio con una sicumera tenerissima. Insomma, avendo rivisto Red Dragon dopo quasi venti anni capisco perché del film mi era rimasto poco, tranne un paio di vividi ricordi di un tatuaggio particolarmente ardito accompagnato all'unica scena davvero al cardiopalma dell'intera pellicola. Non male per una serata davanti alla TV senza troppe pretese, ma i veri capolavori sono altri, anche senza l'ausilio di cast grandiosi.


Del regista Brett Ratner ho già parlato QUI. Anthony Hopkins (Hannibal Lecter), Edward Norton (Will Graham), Ralph Fiennes (Francis Dolarhyde), Harvey Keitel (Jack Crawford), Emily Watson (Reba McLane), Mary-Louise Parker (Molly Graham) e Philip Seymour Hoffman (Freddy Lounds) li trovate invece ai rispettivi link.


Anthony Heald ha interpretato il Dottor Chilton già ne Il silenzio degli innocenti (nel caso non fosse stato disponibile si era già pensato di chiedere a Tim Roth), che vedeva nel cast anche Frankie Faison, sempre nel ruolo di Barney (come anche in Hannibal); l'attore ha anche partecipato a Manhunter- Frammenti di un omicidio, il primo adattamento del romanzo Red Dragon. Michael Jackson, grande amico di Bett Ratner, avrebbe voluto il ruolo di Francis Dolarhyde (ruolo offerto invece a Paul Bettany, che ha rinunciato per partecipare a Dogville, ma tra gli altri papabili attori c'erano persino Sean Penn e Nicolas Cage) mentre Frank Langella ha doppiato il Drago ma il monologo registrato dall'attore alla fine non è stato utilizzato. La prima scelta per il ruolo di Will Graham era invece Ethan Hawke (al quale si sono aggiunti Matt Damon e Jeremy Renner), mentre per Freddy Lounds si pensava persino a Jack Black; nel toto-registi è spuntato il nome di Michael Bay. Nonostante sia uscito dopo Il silenzio degli innocenti e Hannibal, Red Dragon è cronologicamente collocato prima ed è il remake di Manhunter - Frammenti di un omicidio; se il film vi fosse piaciuto vi consiglio di recuperare tutte e tre le pellicole e di aggiungere, per completezza, Hannibal Lecter - Le origini del male e la serie Hannibal. ENJOY!

venerdì 15 giugno 2018

Lego Batman - Il film (2017)

E' rimasto a frollare per un po' di mesi ma finalmente sono riuscita anch'io a vedere Lego Batman - Il film (The LEGO Batman Movie), diretto nel 2017 dal regista Chris McKay.


Trama: dopo l'ennesimo piano andato a male e la consapevolezza che a Batman importa solo di sé stesso, il Joker concerta un altra impresa malvagia che rischia di distruggere Gotham City. Come se non bastasse, Batman si ritrova ad essere padre adottivo "per caso", mentre il suo ruolo di vigilante viene limitato dall'arrivo del nuovo commissario, Barbara Gordon...



Alzi la mano chi, una volta conclusa la visione di The LEGO Movie, ha sperato fortissimamente che arrivasse uno spin-off interamente dedicato al personaggio più adorabilmente stronzo ed arrogante del film, ovvero Batman. Credo che il tempo totale di presenza Batmaniana nella pellicola del 2014 non raggiungesse nemmeno la mezz'ora ma probabilmente è bastata la canzone cantata dal personaggio per convincere i produttori della necessità di mettere in cantiere Lego Batman - Il film e dare libero sfogo all'incarnazione del Cavaliere Oscuro più perfetta dai tempi di Batman - Il ritorno. Il Batman creato dalla LEGO è una fantastica parodia degli eroi dark, quelli che passano il 90% della loro esistenza persi a crogiolarsi nell'angst di un passato traumatico e l'altro 10% nell'autocelebrazione di sé, elementi fondamentali della personalità del protagonista che vengono ulteriormente esacerbati dall'enorme infantilità di Batman, reso qui come un bambino viziato, antipatico e peppia. L'intero film ruota sul rapporto tra Batman e il suo nemico di sempre, il Joker (scritto e rappresentato come le peggiori storie romantiche viste al cinema ma declinato in "odio" con risultati esilaranti), e sul terrore del protagonista di fronte alla possibilità di crearsi una famiglia o anche solo delle semplici amicizie, scelta di sceneggiatura necessaria per veicolare l'indispensabile messaggio positivo già presente in The LEGO Movie, messaggio che, a onor del vero, rischia di perdersi in una ridda di gag e citazioni pressoché infinita. I veri destinatari di Lego Batman - Il film non sono infatti i bambini ma tutti i fan dell'eroe DC (in ogni sua incarnazione, a partire dai telefilm camp anni '60, ampiamente citati) OPPURE tutti i nerd in grado di cogliere i millemila rimandi ad altri film, serie TV, fumetti che sinceramente non pensavo nemmeno potessero avere qualcosa a che fare col Cavaliere Oscuro. Avendo avuto accanto Mirco, durante la visione, posso assicurare che il Bolluomo ha riso ma non quanto ho fatto io e che parecchie delle gag più "specifiche" gli sono scivolate addosso come acqua, cosa che non era successa guardando The LEGO Movie, un film davvero adatto a tutti e più universalmente "meravigliosoooo".


La sensazione che ho provato io è quella di essermi trovata davanti una sorta di "special TV" non proprio cinematografico, una cosina breve per appassionati. Non che il film non mi sia piaciuto, anzi, e non dico neppure che Lego Batman - Il film sia qualitativamente inferiore al suo predecessore: nell'ora e quaranta di durata passano sullo schermo le cose più assurde che si possano costruire con i mattoncini e col potere dei "mastri costruttori", in primis un mecha pipistrello animato alla perfezione, senza contare che le scene d'azione sono forse anche più emozionanti e "caotiche" rispetto alla prima pellicola, con abbondanza di morte & distruzione in formato LEGO, soprattutto grazie alla presenza di un paio di giganteschi villain di tutto rispetto... però qualcosa è mancato, probabilmente dal punto di vista del sentimento. Partendo sempre da The LEGO Movie, a mio avviso il suo spin-off difetta del senso di magia che lo collegava paradossalmente alla realtà, l'elemento "umano" che faceva dei mattoncini più amati del mondo una componente fondamentale della crescita di un bambino e, in generale, della vita di una persona, veicolando forti emozioni come già accadeva con la trilogia di Toy Story. Qui abbiamo "solo" l'esempio di un gioco, un'avventura che si apre e si chiude a mo' di parentesi e che lascia il tempo che trova; un tempo esilarante, divertentissimo e sicuramente soddisfacente, ma anche "di nicchia", quasi il bimbo di The LEGO Movie fosse stato nuovamente chiuso fuori dalla stanza dei giochi lasciando il campo al papà nerd. Il che, lo ripeto, va benissimo per una serata all'insegna del divertimento sfrenato e della risata compulsiva, anche perché personalmente adoro il Batman della LEGO e tutti i riferimenti all'ambiguità sua e di Robin, ragazzo meraviglia perennemente smutandato e con un gusto tutto particolare per le hit gaye anni '80... e quanto può essere tenero il Joker con gli occhietti tristi, sconvolto nello scoprire che Batman non lo odia? Non è meravigliosoooo ma quasi, via!


Di Will Arnett (voce originale di Batman/Bruce Wayne), Michael Cera (Dick Grayson/Robin), Rosario Dawson (Batgirl/Barbara Gordon), Ralph Fiennes (Alfred Pennyworth), Zach Galifianakis (Joker), Billy Dee Williams (Due facce), Eddie Izzard (Voldemort), Seth Green (King Kong), Jemaine Clement (Sauron), Channing Tatum (Superman), Jonah Hill (Lanterna verde) e Ralph Garman (Reporter numero 2) ho già parlato ai rispettivi link.

Chris McKay è il regista della pellicola e doppia il pilota Bill. Americano, è al suo primo lungometraggio ma ha diretto episodi della serie Robot Chicken. E' anche produttore, tecnico degli effetti speciali, doppiatore, sceneggiatore e animatore.


Zoë Kravitz è la voce originale di Catwoman. Figlia di Lenny Kravitz e Lisa Bonet, la ricordo per film come X-Men - L'inizio, Mad Max: Fury Road e Animali fantastici e dove trovarli. Anche cantante, ha 30 anni e due film in uscita, tra cui Animali fantastici: I crimini di Grindelwald, dove interpreterà Leta Lestrange.


Tra i doppiatori originali figura anche il conduttore Conan O'Brien, che presta la voce all'Enigmista, e Mariah Carey, che doppia il Sindaco, mentre tra quelli italiani spiccano Claudio Santamaria nei panni di Batman e, ahinoi, Geppi Cucciari in quelli di Batgirl, a mio avviso terribile con quell'accento sardo. Billy Dee Williams, che doppia Due Facce, è stato l'Harvey Dent buono del primo Batman di Tim Burton e, se non fosse stato per l'arrivo di Joel Schumacher (e il conseguente casting di Tommy Lee Jones), avrebbe interpretato anche la versione malvagia del personaggio. Detto questo, se Lego Batman - Il film vi fosse piaciuto recuperate anche The LEGO Movie, di cui questo film è lo spin-off. ENJOY!


domenica 14 gennaio 2018

In Bruges - La coscienza dell'assassino (2008)

L'uscita e il successo internazionale di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (che dovrei andare a vedere proprio stasera...), mi ha portato la consapevolezza di non avere mai visto un film di Martin McDonagh. Spinta da commenti positivi ho così recuperato In Bruges - La coscienza dell'assassino (In Bruges), diretto e sceneggiato nel 2008 proprio dal regista inglese.


Trama: dopo un lavoro finito malissimo, il killer Ray si rifugia a Bruges assieme al collega Ken su richiesta del loro spietato boss ma il paese non è proprio di suo gradimento...


Conoscevo Bruges solo di nome, per un paio di motivi. Primo, a un certo punto di Austin Powers in Goldmember il Dr. Male saluta tutti i suoi homies di Bruges, città dove il malvagio è cresciuto; secondo, da alcuni anni a Natale, un corriere di cui non farò il nome omaggia me e alcuni altri dipendenti della ditta dove lavoro con uno "scrigno" di cioccolatini Jeff De Bruges, sopraffine specialità del Belgio che solo a nominarle perdo venti litri di bava (agevolo il sito. Non avete idea di cosa sia mangiare uno di questi cioccolatini). Guardando il film di McDonagh ho deciso, assieme al Bolluomo, che prima o poi andremo a Bruges perché, per parafrasare il cattivissimo Harry, lì "sembra di stare in una fiaba": cigni, canali, strade acciottolate, chiese gotiche, opere d'arte, un'adorabile atmosfera medievale che mi ha ricordato molto Praga, benché con meno caos. Insomma, su di me la cittadina ha sortito l'effetto opposto rispetto a Ray, protagonista del film, il quale fin dall'inizio odia Bruges con tutto sé stesso proprio per i motivi che spingerebbero me a visitarla. Ray è un killer che, poveraccio, alla sua prima missione ha scazzato nel peggiore dei modi e, "tutorato" dal collega Ken, viene spedito dal boss a Bruges per far calmare le acque; la strana coppia di assassini, anche troppo buoni e umani per il lavoro che fanno, cercano così di passare il tempo tra una birra e una visita al museo, parlando di passato e futuro, inferno e paradiso, vita e morte, colpa e redenzione. In Bruges è un film molto dialogato, permeato da un umorismo grottesco che ricorda molto quello dei Coen e che culla lo spettatore nella falsa illusione di avere davanti una commedia, almeno finché il sangue non comincia a scorrere riportandolo alla brusca realtà di un mondo popolato da assassini e uomini d'onore ciechi alle suppliche persino degli amici di una vita, desiderosi di fare giustizia pur nel loro modo perverso. Piccolo purgatorio in guisa di bomboniera europea, luogo da favola in cui accadono le cose più assurde, Bruges diventa il posto ideale ove attendere il giudizio per le colpe commesse in vita e spalancare le porte dell'inferno o del paradiso (benché per Ray l'inferno sia proprio l'idea di vivere a Bruges e per Harry l'esatto contrario), una città dalla quale è impossibile fuggire e dove ogni azione, anche la più semplice, causa una reazione capace di manifestarsi anche dopo ore o giorni, formando un perfetto cerchio sul finale.


Tra nani attori e scorci da cartolina, McDonagh scrive una sceneggiatura surreale e piena di rimandi ad opere d'arte e cinema, rendendo Bruges protagonista fondamentale, tanto quanto i personaggi umani e forse anche di più; come regista, l'inglesotto dimostra di saper gestire al meglio sia le sequenze più action e sanguinose sia quelle più leggere o "intimiste" e, sul finale, si concede persino una scena surreale che ai cinefili potrebbe ricordare A Venezia un dicembre rosso shocking mentre un cultore dell'arte riconoscerà personaggi usciti dritti dal Giudizio universale di Bosch, con un'atmosfera parimenti angosciante e "spirituale" che fa a pugni col registro più allegro di inizio film. Passando agli attori, In Bruges ha la fortuna di vedere coinvolto un terzetto mica da ridere, oltre a un gruppo di caratteristi a dir poco ottimi. Colin Farrell mostra una sensibilità incredibile e offre l'interpretazione divertente ma non superficiale di un giovane killer alle prese con un senso di colpa soverchiante e col desiderio di non pensare, neppure per un secondo, alle circostanze che lo hanno portato a Bruges; gli fa da spalla un Brendan Gleeson perfetto, capace di combinare un atteggiamento da vecchio zio borbottante a quello di criminale (riluttante) perfettamente consapevole delle regole del gioco ma anche stanco di sottostare a persone fuori di testa, per i quali l'onore viene prima di ogni cosa ma che, in sostanza, rasentano la psicopatia, come il superbo Harry interpretato da Ralph Fiennes (mai così cattivo neppure nei panni di Voldemort ma perlomeno coerente con le sue scelte di vita). Nonostante siano passati dieci anni ringrazio quindi tutti quelli che, con infinita pazienza verso la mia manifesta ignoranza, mi hanno parlato di In Bruges - La coscienza dell'assassino in occasione dell'uscita di Tre manifesti a Ebbing, Missouri; ho trovato un film decisamente nelle mie corde, ironico, assurdo e anche malinconico come piace a me, con un terzetto di attori in formissima. E ora tocca a Sette psicopatici, nonostante tutti lo reputino inferiore... ma al titolo non si comanda!


Di Colin Farrell (Ray), Ralph Fiennes (Harry), Brendan Gleeson (Ken) e Ciarán Hinds (il prete) ho già parlato ai rispettivi link.

Martin McDonagh è il regista e sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto 7 psicopatici e Tre manifesti ad Ebbing, Missouri. Anche produttore, ha 47 anni.


Zeljko Ivanek interpreta il canadese. Sloveno, ha partecipato a film come Donnie Brasco, Hannibal, Argo, 7 psicopatici, X-Men: Apocalisse, Tre manifesti ad Ebbing, Missouri e a serie quali X-Files, La signora in giallo, Millenium, Ally McBeal, E.R. Medici in prima linea, 24, CSI - Scena del crimine, Bones, Cold Case, Lost, Numb3rs, Doctor House e Heroes. Anche produttore, ha 60 anni.


Clémence Poésy, che interpreta Chloe, era Fleur Delacourt nella versione cinematografica di Harry Potter mentre il nano Jordan Prentice ha vestito i panni leggendari di Howard il Papero in Howard e il destino del mondo. In una delle scene eliminate c'era l'undicesimo Dottore Matt Smith ad interpretare un giovane Harry, impegnato a decapitare un poliziotto corrotto reo di aver ucciso una donna (la sequenza è stata eliminata in quanto la CGI della decapitazione era imbarazzante); inoltre, lo script mostra come Ray non muoia alla fine del film. Detto questo, se In Bruges vi fosse piaciuto recuperate Lock & Stock - Pazzi scatenati, Snatch - Lo strappo e Burn After Reading - A prova di spia. ENJOY!

martedì 8 novembre 2016

Kubo e la spada magica (2016)

Alla faccia degli orari da denuncia del multisala, domenica sono riuscita ad andare a vedere Kubo e la spada magica (Kubo and the Two Strings), diretto dal regista Travis Knight.


Trama: il giovane cantastorie Kubo vive assieme alla madre in una grotta, dalla quale esce solo di giorno per recarsi al villaggio ed incantare gli abitanti con i suoi origami semoventi. Il giorno in cui il ragazzo rimane fuori dopo il tramonto, le forze oscure del Re Luna si scatenano contro di lui e lo costringono ad intraprendere la stessa ricerca che costò la vita a suo padre...


Sia benedetta la Laika! Dopo quel mezzo diludendo di Boxtrolls - Le scatole magiche il quale, nonostante tutto, conteneva comunque il particolarissimo gusto "adulto" e per nulla sciocco della casa di produzione, mi ha regalato questo Kubo e la spada magica che prometteva di essere un trionfo fin dal trailer... e così è stato! Avete presente l'adagio orientale che recita di come sia più importante il viaggio per raggiungere la meta piuttosto che la meta stessa? Ebbene, tra un accordo di liuto cinese e una battaglia tra origami, Kubo e la spada magica racconta proprio di una seconda occasione resa sotto forma di "quest", all'interno della quale non contano tanto gli oggetti ottenuti, bensì le prove sostenute per recuperarli e i legami creati assieme ai compagni di viaggio oltre alla Storia (con la S maiuscola, ovviamente) nata dall'esperienza. Kubo è un bambino che il nonno, il malvagio Re Luna, vorrebbe rendere fisicamente cieco affinché gli venga impedito di provare emozioni ed abbassarsi così al rango dei comuni mortali, bloccati in un mondo "vile" pieno di brutture, sofferenza e soprattutto morte; venuta meno la protezione della madre, figlia dello stesso Re Luna, il piccolo Kubo si imbarca, assieme ad una scimmia e un samurai trasformato in scarafaggio, in un viaggio alla ricerca di tre oggetti magici capaci di renderlo il dominatore dei cieli. Tra le mani, Kubo ha un liuto cinese che gli consente di animare la carta ed incanalare il potere della sua magia negli oggetti inanimati, cosa che lo porta ad ammaliare gli abitanti di un villaggio, letteralmente rapiti dalle storie ereditate dal ragazzino per bocca della madre; all'interno delle storie di maghi e samurai si fondono realtà ed immaginazione, almeno finché Kubo non si accorge di stare vivendo una pericolosissima versione dei racconti da lui tramandati e di essere inseguito dagli stessi mostri che davano la caccia a suo padre, colpevole di avere trascinato nel mondo mortale la figlia del Re Luna. Umanità, solitudine, sofferenza, il dualismo vita/morte e la potenza del ricordo, capace di rendere immortali non solo le storie ma anche i loro protagonisti, sono gli importanti temi toccati da un cartone animato che non esita a mostrare al pubblico momenti di indicibile tristezza e malinconia, offrendo una consolazione minima, per quanto assai poetica.


La bellezza della storia viene sostenuta degnamente da animazioni strepitose e una colonna sonora perfetta. E' difficile pensare di avere davanti un film realizzato in stop motion quando le animazioni dei pupazzini sono fluide e perfettamente fuse con gli inevitabili effetti speciali digitali capaci di rendere questa tecnica ancora più affascinante (la scena alla fine del film che mostra com'è stato realizzato lo scheletro gigante, di fatto il pupazzo più grande mai utilizzato per un film simile, fa venire voglia di avere per le mani l'intero backstage della pellicola). A ciò bisogna aggiungere un character design a dir poco spettacolare, ispirato agli anime (la pettinatura e la benda sull'occhio di Kubo ma anche il guardiano scheletrico, che ricorda non poco il Dio della guerra di Nausicaa della Valle del vento), all'arte e iconografia giapponesi, al teatro No (bellissime le maschere delle tremende sorelle) e persino agli animali "simbolo" del giappone, quali la scimmia bianca e gli amatissimi scarabei, character design capace di offrire anche un drago sui generis, assai diverso da quello che mi sarei aspettata, più simile ad un pesce abissale che alle creature del folklore orientale. Protagoniste indiscusse di Kubo e la spada magica, assieme agli artistici origami animati dal protagonista, sono le due corde che gli consentono di incanalare la magia (non a caso il film in originale si intitola Kubo and the Two Strings, titolo che ha una doppia valenza non spoilerabile e che, giustamente, priva di importanza la spada magica che di fondamentale ha ben poco) e ovviamente creare le splendide melodie composte dall'italiano Dario Marianelli, già premio Oscar per le musiche di Espiazione, che qui si sbizzarrisce con un mix tra tradizione giapponese e una concezione del ritmo che apre ad influenze occidentali, fino ad arrivare alla bellissima cover finale di While My Guitar Gently Weeps cantata da Regina Spektor. Riassumendo, Kubo e la spada magica, per realizzazione e storia, vince a man bassa su tutti i cartoni animati che mi è capitato di vedere quest'anno e lo consiglio a chiunque tranne a chi ha bimbi con meno di sei anni, i quali potrebbero spaventarsi e piangere (per contro dai sei anni in su potrebbero fare domande scomode: sta a voi se turbarli con la verità oppure fare come il dolce nonno seduto accanto a me, che sdrammatizzava ogni cosa gabbando il nipotino preoccupato. Rispetto, signore!!!).


Di Charlize Theron (voce originale di Scimmia), Ralph Fiennes (Re Luna), Rooney Mara (Le Sorelle) e Matthew McConaughey (Scarafaggio) ho già parlato ai rispettivi link.

Travis Knight è il regista della pellicola, al suo primo lungometraggio dietro la macchina da presa. Americano, ha lavorato come animatore nei film Coraline e la porta magica, ParaNorman e BoxTrolls - Le scatole magiche ed è anche produttore. Ha 43 anni.


George Takei è la voce originale di Hosato. Americano, famoso per essere stato Sulu nelle serie e nei film dedicati a Star Trek, ha partecipato anche a film come Zohan - Tutte le donne vengono al pettine e serie quali Ai confini della realtà, Missione impossibile, Una moglie per papà, L'uomo da sei milioni di dollari, MacGyver, La signora in giallo, Miami Vice, Hercules, Scrubs, Will & Grace, La vita secondo Jim, Heroes e The Big Bang Theory, inoltre ha lavorato come doppiatore in episodi de I puffi, Futurama, Drawn Together, Kim Possible, Phineas e Ferb, Adventure Time, Robot Chicken, American Dad! , I Simpson e film come Mulan. Anche sceneggiatore e produttore, ha 79 anni e due film in uscita.


Cary-Hiroyuki Tagawa è la voce originale di Hashi. Giapponese, ha partecipato a film come Grosso guaio a Chinatown, L'ultimo imperatore, I gemelli, 007 - Vendetta privata, Mortal Kombat, Vampires, Pearl Harbour, Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, Elektra, Memorie di una geisha, Hachiko - Il tuo migliore amico, 47 Ronin, The Man With the Iron Fists 2 e a serie come McGyver, I Colby, Miami Vice, Moonlighting, Baywatch, Renegade, Nash Bridges, Sabrina vita da strega, Walker Texas Ranger e Heroes. Anche produttore, ha 56 anni e tre film in uscita.


Pare che una delle fonti di ispirazione di Kubo e la spada magica sia la leggenda giapponese chiamata Hakaba no Kitarou, raccontata negli anni '30 in forma di kamishibai e già trasposta in un manga dal titolo Kitaro dei cimiteri, che non conoscevo ma che pare avere generato un'infinità di anime e film; se Kubo e la spada magica vi fosse piaciuto cercate tutto il materiale al riguardo che riuscirete a trovare in rete e ovviamente non perdetevi Coraline e la porta magica, ParaNorman e BoxTrolls - Le scatole magiche. ENJOY!

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