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martedì 3 giugno 2025

La trama fenicia (2025)

Siccome io e l'amico Toto siamo bimbi di Wes Anderson, siamo corsi a vedere il suo ultimo film, La trama fenicia (The Phoenician Scheme), il giorno stesso dell'uscita.


Trama: il ricco industriale e avventuriero Zsa-zsa Korda, sopravvissuto all'ennesimo attentato, decide di nominare come erede universale la figlia Liesl, una novizia in procinto di prendere i voti. Tutto ciò per riuscire a realizzare la sua opera più ambiziosa, una complessa infrastruttura in Fenicia...


Su Facebook e Instagram, dove butto giù brevissimi pensieri a caldo sulle visioni concluse, ho messo in guardia i miei sparuti followers relativamente all'odio (o la noia) che molti, dopo anni di onorata carriera, sono arrivati a provare verso Wes Anderson. Per queste persone, lo ribadisco, La trama fenicia sarà una sofferenza, perché la trama, benché complicatina a livello di "schema", apparentemente è molto semplice e lineare, e sembra proprio un mero esercizio del solito stile andersoniano. Come sempre, però, "oltre alle simmetrie e ai colori pastello c'è di più". Gli ultimi film di Wes Anderson, diciamo a partire da The French Dispatch, hanno il potere di lasciarmi perplessa alla fine dei titoli di coda. Il che non significa che non mi piacciano ma, poiché ho ormai una certa età, faccio un po' fatica ad introiettare tutti gli stimoli uditivi e visivi che si affastellano con la stessa rapidità con cui i personaggi del regista snocciolano dialoghi lunghissimi, quindi, solitamente, mi serve un giorno per riflettere con calma su cosa avesse voluto raccontare Wes Anderson. In questo caso, La trama fenicia narra il viaggio fisico e spirituale di un freddo, cinico e ambiguo uomo d'affari, abituato a diffidare dei legami familiari e a contare solo su se stesso, fin dalla più tenera età. Le famiglie disfunzionali non sono una novità per Wes Anderson, anzi, si può tranquillamente dire che tutti i suoi personaggi o quasi partano (e spesso rimangano bloccati) all'interno di una condizione anaffettiva o siano comunque incapaci a relazionarsi in modo "normale" con gli altri. Forse, però, è la prima volta che Anderson tocca il tema della redenzione anche in senso religioso, dando al protagonista de La trama fenicia la possibilità di "morire" e "risorgere" più e più volte, fino ad una rinascita finale definitiva (d'altronde, non credo sia un caso tirare in ballo, almeno nei toponimi, il mitologico uccello che rinasce dalle sue ceneri). La scelta di affiancare a Korda una figlia suora, oltre ad offrire la possibilità di una critica ad una Chiesa che predica bene ma razzola male, soprattutto quando in ballo ci sono molti soldi, apre uno squarcio sul pensiero di Anderson e del co-sceneggiatore Roman Coppola; in uno splendido dialogo rivelatore si dice che va bene fingere che Dio risponda alle nostre preghiere, basta mettere in pratica quello che pensiamo farebbe Lui... e, spesso, si tratta di cose molto semplici, banali, di puro buon senso. Anderson e Coppola, insomma, non vogliono dichiarare la non esistenza di Dio o prendersi gioco di chi crede in qualcosa, anzi, sottolineano l'importanza di avere qualcosa che funga come bussola morale e ci apra gli occhi su ciò che è fondamentale nella vita, benché magari poco glamour, avventuroso, remunerativo o originale. Korda diventa così il Cristo andersoniano, costretto ad una via crucis a tappe (o a scatole, come volete) partita con un obiettivo decisamente materiale, lentamente tramutatosi in un'evoluzione umana e spirituale.


A livello più superficiale, La trama fenicia tira parecchie stoccate ad oligarchi e riccastri zeppi di figli che "potrebbero" essere geni, oltre ad un mercato globale facilmente manipolabile e a guerriglieri sui generis. Purtroppo, la critica sociale e contemporanea si perde un po', perché il film non esce quasi mai dai binari della commedia surreale e, rinunciando ad atmosfere di più cupe e satiriche, non morde mai davvero. Poco danno, perché comunque mi sono ritrovata spesso a ridere di cuore per alcune gag particolarmente azzeccate (una su tutte, quella reiterata delle bombe/ananas offerte agli interlocutori), e poi perché, insomma, a me piace Wes Anderson in primis per quello stile che ora va tanto di moda odiare. Sarei stata ore a guardare i titoli di testa, con la stanza d'ospedale di Korda ripresa dall'alto e le figure umane che si muovono in quella che sembra un'enorme, elegante piastrella quadrata, ma ogni elemento d'arredo disposto con gusto e simmetria (ci sono persino quadri famosissimi presi in prestito da gallerie, santo cielo!!), ogni diorama semovente, ogni abito, anche quelli più dimessi, mi trasportano gioiosamente all'interno della Wunderkammer del regista, zeppa di oggetti e colori nei quali mi perdo senza possibilità di recupero. Gli attori, poi, sono un altro motivo di felicità. In un cast di facce ormai familiari ai fan del regista, tutte impegnate in piccoli, esilaranti ruoli che arricchiscono il bestiario de La trama fenicia, Bill Murray ha finalmente ottenuto il ruolo più adatto al suo status e Benicio del Toro, per quanto sbattuto ed invecchiato, è sempre più patato ed è un protagonista esemplare. Il più a suo agio all'interno del mondo bizzarro di Anderson, stavolta, è però la new entry Michael Cera, uno dei motivi per cui mi è dispiaciuto non poter godere del film in v.o.. L'entomologo Bjorn è sfaccettatissimo, forse il personaggio più ricco di sorprese, e Cera offre una performance incredibile (soprattutto in un momento puramente "fisico", in cui cambia letteralmente davanti agli occhi dello spettatore aggiustando impercettibilmente abiti, accessori e postura. La mia mascella, probabilmente, è ancora in sala), al punto che mi sono chiesta perché mai Anderson abbia aspettato così tanto per chiamarlo in uno dei suoi film, visto che l'attore sembra uscito direttamente da una sua pellicola. Spero sia l'inizio di una lunga e fruttuosa collaborazione! Con questa nota speranzosa, invito i fan di Anderson ad andare a vedere La trama fenicia. Non è il miglior film del regista, questo no, ma è bello e divertente, una piccola chicca colorata in una triste e grigia realtà, e a volte, non so a voi, ma a me basta solo questo per essere soddisfatta. I detrattori si astengano, senza criticare i bimbi di Anderson come me!


Del regista e co-sceneggiatore Wes Anderson ho già parlato QUI. Benicio Del Toro (Zsa-zsa Korda), Steve Park (Il pilota), Willem Dafoe (Knave), F. Murray Abraham (Profeta), Rupert Friend (Excalibur), Michael Cera (Bjorn), Riz Ahmed (Principe Farouk), Tom Hanks (Leland), Bryan Cranston (Reagan), Charlotte Gainsbourg (prima moglie), Mathieu Amalric (Marseille Bob), Jeffrey Wright (Marty), Scarlett Johansson (Cugina Hilda), Bill Murray (Dio), Hope Davis (Madre superiora) e Benedict Cumberbatch (Zio Nubar) li trovate invece ai rispettivi link.


Mia Threapleton
, che interpreta Liesl, è figlia dell'attrice Kate Winslet. ENJOY!



venerdì 3 gennaio 2025

Nosferatu (2024)

Quest'anno ho chiesto al Bolluomo, come regalo di Natale, di portarmi a Genova per vedere Nosferatu, diretto e co-sceneggiato dal regista Robert Eggers, in v.o. e il primo giorno di uscita. Sono stata accontentata!


Trama: Ellen, appena sposata con Thomas, ripiomba negli incubi della sua adolescenza quando al marito viene chiesto di andare in Transilvania per sbrigare affari importanti col mostruoso conte Orlok.


Sono più una bimba di Coppola, invece che di Murnau ed Herzog, quindi le volte che ho guardato Dracula di Bram Stoker sono innumerevoli mentre, per contro, ho visto il Nosferatu originale e il suo remake giusto un paio di volte e non in tempi recenti. Non aspettatevi dunque una precisa disamina sul rapporto tra il nuovo film di Eggers e il suo modello di riferimento, il Nosferatu di Murnau, e prendete il mio post come le semplici impressioni di una spettatrice entusiasta, con tutte le imprecisioni del caso. L'opera di Eggers riconsegna alla figura del vampiro tutte le caratteristiche di ferina, disgustosa, anaffettiva sensualità che le rielaborazioni degli ultimi decenni avevano trasformato in materiale da romanzetto rosa e le inserisce in un contesto sociale che vede la donna come una creatura da tenere a bada e da temere. Per la prima volta è Ellen il fulcro del racconto, l'origine di ogni male. Privata dell'amore della famiglia e di qualsiasi tipo di contatto umano, Ellen parla all'istinto primario celato dentro di lei, che nessun corsetto né regola possono cancellare, e desidera la comunione con qualcuno, "qualcosa" che sia simile a lei ed allevi non solo la tremenda solitudine che l'affligge, ma anche il senso di vergogna per naturalissime pulsioni, considerate malvagie ed impure (che Ellen sia innocente e pura in questo suo desiderio, ce lo dice il fiore del lillà). Dolore e desiderio risuonano annullando tempo e distanze, risvegliando il mostruoso Orlok. Nel legame tra i due non c'è traccia del romanticismo coppoliano, anche se la bestialità degli amplessi e degli sguardi conserva parecchie somiglianze col suo Dracula di Bram Stoker. Anzi, l'elemento di spicco mi è parso, piuttosto, la volontà del maschio "dominante" di sottomettere al suo volere colei che lo ha evocato, di disconoscerne l'innegabile potere, dimostrandosi, in questo, non tanto diverso dai maschi che circondano Ellen e falliscono nella titanica impresa di comprenderla e salvare la città dall'influenza di Orlok. Il potere reale, nel Nosferatu di Eggers, ce l'ha Ellen. E' qualcosa di simile all'innocenza che ha trasformato le eroine che l'hanno preceduta in puri agnelli sacrificali, ma è molto più consapevole, è un'accettazione del destino più volte nominato nel corso del film (ma non è un'accettazione passiva), l'affermazione di una potenza in grado di generare il male, ma anche di distruggerlo. E', soprattutto, un grido di libertà, di una donna che vorrebbe parità anche nel vincolo matrimoniale, vissuto come un modo per legittimare desideri comunemente condannati come osceni, e che guarda con diffidenza a qualsiasi istituzione, religiosa o scientifica che sia.  


Come ho scritto sopra, gli uomini non ci fanno una gran bella figura, Orlok in primis. Il carisma terrificante di quest'ultimo schiaccia gli esponenti del sesso maschile come fossero mosche, riducendoli o a matti adoranti o a bambini terrorizzati, ma in tutto questo il conte non riesce ad avere ragione di Ellen, neppure rovinandole l'esistenza. L'unico che riesce a fungere da utile alleato, in quanto slegato da ogni preconcetto legato alle norme "scolastiche" e sociali (quindi a sua volta un paria), è il professor von Franz, subito seguito dal povero Thomas, che si sforza di aprire la mente in nome dell'amore, ma Sievers e, soprattutto, Harding sono due cause perse in partenza, nonché fonti di dialoghi e situazioni grottesche, di cui Nosferatu, per la cronaca, è zeppo. Sievers non vede oltre i suoi studi medici, e alle crisi sempre più gravi di Ellen risponde aumentando le dosi di etere, Harding è l'archetipo dell'uomo forte, ricco e sicuro di sé, arroccato nel suo gineceo familiare, con tre donne-trofeo da esporre nell'attesa che la moglie gli assicuri, finalmente, l'erede tanto agognato. Non c'è nessuna gioia nel vedere la progressiva distruzione della sicurezza di questi uomini piccini, specchio dei sogni di morte che confondono Ellen, anche perché Orlok, nonostante quel che ho scritto sopra, fa davvero paura. Fa paura soprattutto quando la sua presenza si manifesta nelle spettacolari sequenze oniriche che intrappolano le sue vittime privandole del senso del tempo e dello spazio, o negli incubi sanguinosi di Ellen; il lungo capitolo che vede come protagonista il favoloso Nicholas Hoult senza fiato, sempre più terrorizzato e sull'orlo della pazzia, costretto ad interagire con forze incomprensibili e un uomo disgustoso, contiene, per quanto mi riguarda, le sequenze più belle e terrificanti del film, tanto che, guardandole, mi sono sentita oppressa quanto il povero Thomas. Ma non crediate che l'aspetto di Orlok mi abbia delusa. Imponente, brutto come il peccato e, finalmente, rappresentato come un nobile guerriero rumeno, con tanto di baffoni e copricapo di pelliccia, Orlok è l'incarnazione stessa dell'orrore, una presenza anche fisica, connotata da altezza e stazza eccessive, a rappresentare qualcosa a cui è impossibile sottrarsi, soprattutto quando viene "da dentro".


Orlok è anche uno dei motivi per cui sono felicissima di aver visto Nosferatu in lingua originale. Il lavoro che ha fatto Bill Skarsgård sulla propria voce è qualcosa di notevole, e ogni volta che apre bocca è come se l'Inferno stesso comunicasse coi poveri mortali tanto sventurati da trovarsi nei pressi. Aggiungo anche che è l'unica volta che provo davvero orrore all'idea di godere del morso di un vampiro, perché gli effetti sonori che accompagnano ogni pasto di Orlok rivoltano lo stomaco, alla faccia degli sguardi languidi delle vittime. Ottimo anche il resto del cast. Lily-Rose Depp si è probabilmente riguardata Possession in loop, prima di cominciare a girare, perché la sua performance mi ha ricordato tantissimo quella di Isabelle Adjani (non a caso, la Lucy del Nosferatu di Herzog), e Nicholas Hoult mi ha stretto il cuore più volte, riconfermandosi uno dei miei attori preferiti. Un po' sottotono Willem Dafoe, che comunque dà vita a un von Franz dignitosissimo, a tratti divertente e persino tenero, mentre Aaron Taylor-Johnson l'ho percepito un po' troppo teatrale e non particolarmente a suo agio nei panni del borioso riccastro. Per quanto riguarda la regia (colma di affettuosi omaggi ai due Nosferatu precedenti), ogni immagine è costruita per trasmettere o un senso di claustrofobica angoscia, o solitudine, oppure idilli ingannevoli; i personaggi, soprattutto Ellen e Thomas, sono spesso racchiusi all'interno di cupe cornici naturali, privati gradualmente della luce, oppure ripresi contro paesaggi sterminati e squallidi interni minimali, mentre in presenza di Friedrich e Anna sembra di avere di fronte cartoline d'epoca, spaccati di calorosa vita quotidiana talmente iconici da risultare falsi, punteggiati giusto da qualche elemento dissonante che mette ancora più ansia. E' vero, Eggers sembra essersi impegnato soprattutto nelle sequenze legate al folklore rumeno, al castello di Orlok e, in generale, a tutti i momenti horror, mentre segna un po' il passo nel raccordo che unisce la partenza di Orlok al ritorno di Thomas, ma considerato che, dove rallenta la regia, l'occhio ha comunque modo di godere di una fotografia bellissima e di costumi talmente belli, soprattutto quelli femminili (gli orecchini di Ellen!!!), che viene voglia di indossarli, non ho proprio avuto da lamentarmi. Per quanto mi riguarda, l'anno cinematografico è iniziato col botto, e questo nuovo Nosferatu mi ha conquistata. Speriamo sia un preludio a un 2025 di visioni altrettanto belle! 


Del regista e co-sceneggiatore Robert Eggers ho già parlato QUILily-Rose Depp (Ellen Hutter), Nicholas Hoult (Thomas Hutter), Bill Skarsgård (Conte Orlok), Aaron Taylor-Johnson (Friedrich Harding), Willem Dafoe (Prof. Albin Eberhart von Franz), Ralph Ineson (Dr. Wilhelm Sievers) e Simon McBurney (Knock) li trovate invece ai rispettivi link.

Emma Corrin interpreta Anna Harding. Inglese, ha partecipato a film come Deadpool & Wolverine e serie quali The Crown. Ha 30 anni e un film in uscita. 


Bill Skarsgård
era stato scelto per interpretare Thomas Hutter, ma nel corso della pre-produzione Eggers ha deciso di dargli il ruolo di Orlok. La lunga gestazione del film ha fatto sì che né Harry StylesAnya Taylor-Joy, ai quali erano stati offerti i ruoli dei protagonisti, abbiano potuto partecipare. Se Nosferatu vi fosse piaciuto recuperate Nosferatu - Il vampiro, Nosferatu - Il principe della notte e Dracula di Bram Stoker. ENJOY!

venerdì 13 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice (2024)

Nonostante qualche perplessità non potevo perdermi Beetlejuice Beetlejuice, diretto dal regista Tim Burton.


Trama: Lydia e la figlia Astrid sono costrette a tornare a Winter River per partecipare a un funerale. Lì, per una serie di circostanze, avranno di nuovo a che fare col bioesorcista Betelgeuse.


Non avevo grandi speranze quando ho deciso di andare al cinema a vedere Beetlejuice Betlejuice. Ormai dai tempi di Planet of the Apes, Burton non è più quello di un tempo, e il massimo che mi sarei aspettata è un prodotto dignitoso, in grado di farmi passare un paio d'ore in tetra allegria. Fino alla fine del primo tempo, in realtà, mi sono sentita invece come Califano. Tra nuovi personaggi abbastanza sciapi, vecchie conoscenze che non sembrano essersi evolute dagli anni '80 e omaggi alla prima pellicola, la sensazione è stata quella di una storia che stentava a decollare, schiacciata nella noia di un'introduzione infinita. Tutto il primo atto, infatti, serve a presentarci una Lydia ormai cresciuta, con figlia annessa che la odia a causa di un lavoro derivante dalla sua capacità di vedere qualsiasi fantasma tranne quello dell'adorato padre defunto. La sceneggiatura scava nelle dinamiche familiari dei Deetz, che subiscono uno scossone alla morte di un altro padre, quello di Lydia; l'evento costringe le donne superstiti, assieme al nuovo compagno di Lydia, Rory, a tornare a Winter River e ad affrontare un passato ancora ben radicato all'interno del diorama dei coniugi Maitland, ma finché non arriva l'unico, imprevedibile twist della pellicola, il tempo scivola via lento tra recriminazioni, bizzarrie e imbarazzi. La cosa che mi ha soprattutto fatto specie è vedere la tosta Lydia ridotta a cretinetti insicura, incapace di riconoscere il belinone che la sorte le ha messo accanto e di comunicare con una figlia ben più odiosa di quanto fosse lei da adolescente. Ha un bel daffare Delia a parlare di Karma, quando la realtà è che la rossa wannabe artista, nonostante il disprezzo di Lydia, ha sempre avuto un carattere egoista e volitivo, mentre la figliastra è diventata un'ameba dallo sguardo stralunato (lì, probabilmente, ci ha messo del suo anche la Ryder, che negli anni si è legata al ruolo di Joyce Byers e non ne è più uscita). Il film si risolleva un po' quando l'aldilà torna a farla da padrone, con le sue stranezze e la grottesca burocrazia sbattute in faccia senza pietà agli umani inconsapevoli, e quando, ovviamente, la presenza di Beetlejuice comincia a farsi un po' più preponderante. Da quel momento, se non altro, il ritmo aumenta e si torna a divertirsi, a dispetto della costante sensazione di avere davanti tre film in uno, rabberciati alla bell'e meglio come la bellissima Sall.... ehm, Delores di Monica Bellucci.


Ha i suoi momenti, Beetlejuice Beetlejuice. Al di là dell'innegabile bellezza dei costumi di Coleen Atwood, delle scenografie, e di parecchi effetti speciali artigianali, il film raggiunge apici notevoli, per esempio, quando si affida alla verve della divertentissima Catherine O'Hara e alla sua elaborazione del lutto, fa battere il cuore nei momenti in cui Burton si convince di stare girando un horror e mette in campo un terrificante neonato frutto dell'empia unione tra Baby Killer e il cadaverino di Trainspotting, e poco prima del finale riesce persino a commuovere nonostante la faciloneria con cui i personaggi ci lasciano le piume. Il resto, purtroppo, l'ho trovato molto superficiale, oppure tirato per le lunghe. Non c'è stato, da parte mia, alcun coinvolgimento emotivo davanti a drammi familiari o ricongiungimenti, e onestamente avrei preferito che il personaggio interpretato all'epoca da Jeffrey Jones non venisse proprio utilizzato "fisicamente" (se decidi, giustamente, di non coinvolgerlo in quanto predatore sessuale pluricondannato e ritiratosi dalla recitazione da anni, mi pare assurdo infilare delle sue foto o animazioni in stop motion dal sembiante identico, o sfruttare un personaggio senza testa, ma perché?). Il numero musicale verso la fine richiama quello iconico della cena coi gamberetti, ma è davvero lunghissimo e, anche se io l'ho apprezzato ridendo parecchio, capisco perché uno dei miei compagni di visione si sia addormentato; allo stesso modo, enorme rispetto verso Burton per la scelta di utilizzare la melodia che accompagna il finale di Carrie - Lo sguardo di Satana, ma francamente mi è sembrato che la conclusione onirica di Beetlejuice Beetlejuice fosse attaccata con lo sputo, messa lì giusto per dare la possibilità di realizzare un altro sequel. D'altronde, il nome del bioesorcista va pronunciato tre volte, non mi stupirei se tra qualche anno arrivasse Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice. Nell'attesa (e non tratterrò il respiro, non mi va di finire laggiù e prendere il numero), per me è un nì. Non è un film che riguarderei, sono contenta comunque di averlo visto, ma temo che la settimana prossima l'avrò già dimenticato. Peccato.  


Del regista Tim Burton ho già parlato QUI. Michael Keaton (Beetlejuice), Winona Ryder (Lydia Deetz), Catherine O'Hara (Delia Deetz), Jenna Ortega (Astrid Deetz), Justin Theroux (Rory), Willem Dafoe (Wolf Jackson), Monica Bellucci (Delores) e Danny DeVito (uomo delle pulizie) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Beetlejuce Beetlejuice vi fosse piaciuto, recuperate Beetlejuice, La sposa cadavere e The Nightmare Before Christmas. ENJOY!

 

venerdì 21 giugno 2024

Kinds of Kindness (2024)

In ritardo rispetto al mondo, per colpa della durata elefantiaca, sono riuscita a recuperare al cinema Kind of Kindness, diretto e co-sceneggiato dal regista Yorgos Lanthimos.


Trama: nel primo episodio un uomo d'affari decide di liberarsi dalla pesante influenza del suo capo; nel secondo, un poliziotto viene assalito dal dubbio che la donna salvatasi dopo un incidente in mare non sia la sua vera moglie; nel terzo, i membri di una setta cercano il loro messia dai poteri miracolosi.


Benché Kinds of Kindness sia un film a episodi, ho deciso di non dedicare a ciascuno di essi un paragrafo come faccio di solito, soprattutto per evitare inutili spoiler a chi dovesse ancora vedere il film. In seconda istanza, preferisco prendere Kinds of Kindness come un'opera unica, profondamente legata ai primi lavori di Lanthimos, all'interno della quale si possono ritrovare tutti i temi che erano preponderanti nel grottesco Dogtooth. Proprio "grottesco" è l'aggettivo giusto per definire le vicende narrate nel film, all'interno del quale tre questioni profondamente serie e drammatiche offrono risvolti inaspettatamente ridicoli, se non addirittura comici, privando i protagonisti della loro importanza di fronte alla vastità dell'universo e dell'inconoscibile. I personaggi principali di ogni episodio sono, infatti, dei poveri inetti con grosse difficoltà a rapportarsi con l'esistenza; forse per questo motivo, attirano su di loro l'altrui volontà di prevaricare o cercano spontaneamente qualcosa che dia loro uno scopo anche a costo di spersonalizzarsi e incappare in grosse cantonate. I kinds of kindness del titolo originale sono atti di devozione che sfociano nell'insano e nel perverso e rappresentano il fil rouge che porta avanti la poetica del regista, fatta di sentimenti distorti che spingono al controllo dei sentimenti (o all'anaffettività) e dei comportamenti altrui, spesso alla ricerca di una perfezione impossibile che sfocia in frustrazione e in inevitabile violenza. L'esempio perfetto di tutto ciò, nonché il mio episodio preferito, è il primo, che scava proprio in un rapporto di inquietante dipendenza da cui il protagonista cerca di fuggire; mirabile sintesi di tutto ciò che adoro in Lanthimos, è espressione del masochismo più puro ma, a modo suo, è anche tristemente tenero. C'è della tenerezza anche nel secondo episodio, ma ammetto di non averlo capito. Probabilmente, sono stata distratta dalle potenziali implicazioni fantascientifiche o horror richiamate dalla trama e dalla generale impressione che il poliziotto protagonista abbia trovato la "soluzione" al suo problema senza rendere partecipe il pubblico, tuttavia non ho capito dove volesse andare a parare il tutto e la "rivelazione" buttata lì en passant con un sogno raccontato non ha granché giovato. Il terzo episodio torna ad essere più comprensibile e ammetto di avere riso parecchio durante la visione, forse perché è costruito come una parodia di tutte le sette religiose che infestano sia il mondo che le opere di finzione. Nonostante l'abbondanza di aspetti e rituali ridicoli, per non parlare della protagonista goffa e di una serie di inenarrabili sfighe, anche questo episodio nasconde un cuore tragico, fatto di persone che hanno perso loro stesse e sono bloccate in un limbo di prospettive sgradevoli, alla mercé di chiunque voglia approfittarsi di loro o, peggio ancora, offrire aiuti non richiesti che minacciano di distruggerle. 


A prescindere da ogni considerazione personale, come ha detto la mia amica a fine visione "il film è zeppo di chicche", quindi anche nell'episodio meno riuscito ci sono momenti di puro genio che valgono la visione di Kinds of Kindness. Un altro aspetto che ho gradito tantissimo è il ritorno a una regia e una fotografia meno barocche rispetto a Povere creature! e, per quanto mi riguarda, molto più efficaci. Lo spaesamento dei personaggi, il loro essere protagonisti di una tragicommedia sulla quale non hanno alcun controllo, vengono enfatizzati da inquadrature dove sono gli sfondi (naturali o artificiali) ad essere preponderanti sulla figura umana; interni eleganti ma asettici diventano gli spettatori della desolazione dei protagonisti, oppure questi ultimi percorrono strade apparentemente senza fine, per non parlare del modo in cui persino la casetta di due sposi innamorati si priva di calore e si trasforma in ulteriore mezzo di incomunicabilità. Aggiungo inoltre che l'assurda colonna sonora di Jerskin Fendrix, inframmezzata da pezzi più pop e accattivanti, mi ha lasciata spiazzata in più di un'occasione, in particolare quando cupi cori arrivano a sottolineare i momenti più inquietanti o rivelatori. Gli attori, infine, meriterebbero un post a parte. Jesse Plemons è patrimonio mondiale, nonché avviato a percorrere la strada di un altro grande a lui molto simile per "colori" e corporatura, Philip Seymour Hoffman, e meriterebbe davvero che i registi gli cucissero addosso ruoli in bilico tra il weird e il drammatico, perché gli calzano alla perfezione. E lo so che tutti siete andati al cinema per Emma Stone, altrettanto a suo agio e palesemente divertita, però stavolta le ho preferito il biondo co-protagonista, che riesce a tenere testa persino a Willem Dafoe (divino, che ve lo dico a fare?) e a LUI. Con lui, intendo Yorgos Stefanakos, fantastico signor nessuno dalla faccia di pancotto, che arriverà a riempire ogni vostro pensiero e a perseguitarvi nel sonno: è forse lui un Dio? E' forse un silenzioso agente del caos? E' forse un tizio che voleva semplicemente mangiarsi un panino senza fare troppo casino, invano? Chissà. Vi toccherà guardare Kinds of Kindness per scoprirlo!


Del regista e co-sceneggiatore Yorgos Lanthimos ho già parlato QUI. Margaret Qualley (Vivian / Martha / Rebecca / Ruth), Jesse Plemons (Robert / Daniel / Andrew), Hong Chau (Sarah / Sharon / Aka), Willem Dafoe (Raymond / George / Omi), Mamoudou Athie (Will / Neil / Infermiere all'obitorio) e Emma Stone (Rita / Liz / Emily) li trovate invece ai rispettivi link.



venerdì 4 febbraio 2022

La fiera delle illusioni - Nightmare Alley (2021)

Con la stessa velocità di un bradipo assonnato, anch'io ho finalmente potuto vedere La fiera delle illusioni (Nightmare Alley), diretto e co-sceneggiato nel 2021 dal regista Guillermo Del Toro e tratto dal libro omonimo di William Lindsay Gresham.


Trama: in fuga da un violento passato, il giovane Stanton si rifugia in un luna park, dove impara i segreti del mentalista Pete e di sua moglie Zeena, che gli consentiranno di diventare una stella nei vari locali di New York. Ma i pericoli dell'ambizione sfrenata sono in agguato...


Sono arrivata all'appuntamento con La fiera delle illusioni ancora frastornata dalla bellezza de La forma dell'acqua e digiuna sia dal romanzo di Gresham sia da La fiera delle illusioni di Edmund Goulding, al punto che le mie aspettative erano cariche a mille pur non sapendo nulla della trama, del cast o dell'accoglienza del pubblico (non ho voluto nemmeno guardare il trailer, giusto per non sbagliare); l'unica cosa che mi è balzata all'occhio, da vecchia porcella qual sono, è stata una notizia in cui si parlava di un nudo frontale di Bradley Cooper del quale, maledetti giornalari e pennivendoli del webbe, nel film non v'è traccia. La mia aspettativa fomentatissima (non dal nudo, non pensate male) è stata un incredibile errore da dilettante, perché, ahimé, la prima cosa che mi è saltato all'occhio guardando La fiera delle illusioni è che non arriva ai livelli dei migliori film di Del Toro, come La forma dell'acqua o Il labirinto del Fauno. La seconda cosa, probabilmente derivante dalla non conoscenza delle opere che hanno preceduto o ispirato il film, è che ho trovato un paio di personaggi, soprattutto, la Dottoressa Lilith di Cate Blanchett, mancanti di motivazioni e nerbo nonostante il loro indubbio fascino e la loro fondamentale funzionalità all'interno della trama, cosa che mi ha lasciata un po' perplessa nel corso del pur formidabile confronto finale tra "mostri". Qui finiscono però, almeno per quanto mi riguarda, i difetti de La fiera delle illusioni, uno spettacolo di cui godere rigorosamente al cinema per non lasciar andare sprecati i meravigliosi colori, le inquadrature, le scenografie e i guizzi gotici e weird di un Autore che non smette di perdere il suo riconoscibile tocco sia quando deve tratteggiare atmosfere a lui più congeniali (la Casa degli Specchi è davvero terrificante, il pre-finale sotto la neve è un capolavoro gotico, in quanto all'ambiente allo stesso tempo straniante e familiare del luna park ci sarebbe da riguardare il film dall'inizio per fare un elenco di tutti i dettagli interessanti che contiene, mostrini sotto vetro in primis) sia quando muove i suoi personaggi all'interno di ambienti elegantissimi e geometrici, rifulgenti di luce dorata eppure ancora più opprimenti della gabbia di un geek (o uomo bestia, chiamatelo come volete).


Quella de La fiera delle illusioni, titolo italiano per una volta stranamente azzeccato, è la storia di un uomo ambiguo che, come Icaro, tenta di volare troppo vicino al sole del potere e del denaro e ne rimane scottato; a differenza di Icaro, però, Stanton non è innocente e il suo fondamentale egoismo sporca le mani di sangue sia a lui sia a coloro che decidono di rimanergli accanto nonostante tutto. Fin dall'inizio, empatizzare con Stanton non è facile. I primi quindici minuti di mutismo ci consegnano un personaggio selvatico, diffidente quanto l'uomo bestia che si ritrova a dover affrontare (forse per questo, in un paio di occasioni, viene spinto da un moto di umana pietà verso quest'ultimo), che a poco a poco prende confidenza nelle sue capacità e diventa, grazie soprattutto al dolce e scafato mentalista Pete, la versione vivente di una delle mie citazioni preferite da Ghostbusters 2: "un venditore di fumo e merda". Mi perdoni chi, nel costante utilizzo della sigaretta, vede un sicuro e dovuto omaggio al genere noir, ma io nell'incalcolabile numero di sigarette fumate da Bradley Cooper nel corso del film ho visto soprattutto una meravigliosa metafora di evanescenza e inconsistenza, la fragile armatura di un uomo che deve mostrarsi misterioso, sicuro di sé e impenetrabile a qualunque difficoltà possa mettergli davanti la vita. Tale dispendio di arroganza lo rende in primis spietato contro chi rischia di provare un dolore indicibile a causa del cosiddetto "spiritismo", e poi cieco, non solo davanti ai chiari avvertimenti di chi si è già messo nei suoi panni o di chi è sinceramente innamorato di lui, come l'angelica ed innocente Molly, ma anche ai segnali inconfondibili di imminente distruzione che lo circondano fin dai primi istanti del film, anche prima dell'arrivo della femme fatale Lilith (nomen omen).


I dettagli della trama, ovviamente, ve li lascio tutti da scoprire e vi lascio al parere chi, come per esempio Marika, ha fatto di Del Toro la sua ragione di vita e si è preparata assai più degnamente di me per affrontare La fiera delle illusioni. Spenderò ancora un paio di parole su "colui che, niente, non mi ha mostrato il nudo full frontal promesso" e sui suoi allegri compagni. Seguo Bradley Cooper praticamente dagli esordi, da quando spiccava in bellezza su qualunque altro uomo presente nella serie Alias, e nel tempo l'ho visto azzeccare una serie di ruoli clamorosi, diventando sempre più bravo, ma a mio parere quella di Stanton è la sua interpretazione più bella; grazie ad un timespan assai ampio, Cooper ha potuto fornire al personaggio tutta una serie di sfumature sfruttando sia l'aspetto più fisico della recitazione, come all'inizio, sia "adagiandosi" maggiormente e consapevolmente sul suo aspetto da "contadino con i denti dritti" nel momento di massimo fulgore del personaggio e infine lasciando lo spettatore con uno sguardo allucinato e una risata da brividi, in una perfetta chiusura del cerchio. Se lo nominassero agli Oscar per questo ruolo e ne vincesse anche uno non mi farebbe schifo, lo dico sinceramente. Lo affiancano, assieme ai "feticci" maschili di Del Toro e un Willem Dafoe sempre adorabilmente luciferino, tre donne ognuna a suo modo meravigliosa; se la Blanchett spicca ovviamente nel ruolo di perfetta femme fatale bionda, il musetto di Rooney Mara spezza a tratti il cuore ma è la Zeena di Toni Collette a conquistarlo davvero, con il suo fascino, la sua dignità, la sua tristezza. Insomma, l'ultimo film di Del Toro sarà anche La fiera delle illusioni ma la sua qualità è tangibile e reale, quindi fatevi un favore e non perdetelo.


Del regista e co-sceneggiatore Guillermo Del Toro ho già parlato QUI. Bradley Cooper (Stanton Carlisle), Cate Blanchett (Dr. Lilith Ritter), Toni Collette (Zeena), Willem Dafoe ( Clem Hoatley), Richard Jenkins (Ezra Grindle), Rooney Mara (Molly Cahill), Ron Perlman (Bruno), Mary Steenburgen (Mrs. Kimball), David Strathairn (Pete), Holt McCallany (Anderson), Clifton Collins Jr. (Funhouse Jack) e Tim Blake Nelson (Carny Boss) li trovate invece ai rispettivi link.


Il ruolo di Stanton Carlisle era stato proposto a Leonardo di Caprio, che alla fine ha preferito dedicarsi ad altri progetti mentre per il ruolo di Molly erano stati fatti i nomi di Lady Gaga e Jennifer Lawrence. Occhio alla presenza della nostra Romina Power tra il pubblico, durante l'esibizione in cui Stanton viene "smascherato" da Lilith, un omaggio al padre Tyrone Power, che era il protagonista de La fiera delle illusioni di Edmund Goulding. Io penso che proverò a recuperarlo, voi? ENJOY!

 

domenica 19 gennaio 2020

The Lighthouse (2019)

Oggi parlerò del film che a Natale ha fatto sfracelli sia tra gli amanti del cinema in generale che dell'horror in particolare, ovvero The Lighthouse, scritto e co-sceneggiato dal regista Robert Eggers.


Trama: due uomini sono costretti a rimanere per mesi su un'isolotto, deserto salvo per il faro al quale devono fare manutenzione. A poco a poco, i due si ritroveranno preda della follia.


Sono costretta a cominciare il post citando paro paro la bellissima recensione di Lucia, perché la differenza del formato scelto da Eggers per le riprese è la prima cosa che salta all'occhio guardando The Lighthouse e io di queste cose purtroppo non so nulla: "The Lighthouse è stato girato in 35mm e in un formato stretto e lungo, 1.19:1, che era quello utilizzato dagli studios all’inizio dell’era del sonoro, e di conseguenza dagli horror della Universal, come è noto, fortemente influenzati dall’espressionismo, se non altro grazie alla presenza di tantissimi tedeschi sui set. Ma non solo: la pellicola del film è trattata con un procedimento ortocromatico, atto a evocare la fotografia del XIX secolo" (cit. Ilgiornodeglizombi). Ci avete mai fatto caso a quanto sia angosciante vedere, per l'appunto, un vecchio horror della Universal o, ancor peggio (meglio), un esempio del cinema espressionista tedesco? Al netto di tutte le ingenuità delle trame o dell'assenza degli effetti speciali "de paura" che tanto apprezziamo al giorno d'oggi, ciò a cui reagisce la mente, per quanto obnubilata da CGI e smartphone, sono i terrificanti giochi di luce ed ombra in cui si muovono i personaggi, quel costante senso di oppressione dato dalle riprese "strette", gli angoli sghembi di cineprese usate ancora in modo pionieristico e fantasioso e tutto questo si può ritrovare, tranquillamente, all'interno di The Lighthouse. Film che più minimal non si può, durante il quale compaiono sullo schermo solo due attori (quattro, per amor di precisione) e al massimo mezza dozzina di ambienti, nessuno dei quali viene mostrato nella sua interezza o con abbondanza di dettagli, ma sempre da angolazioni ristrette, soffocanti e scure da morire. Se andiamo a vedere l'unico momento chiaro e luminoso è quello in cui Dafoe e Pattinson guardano direttamente nella cinepresa, quasi volessero salutare assieme al pubblico la civiltà e la loro sanità mentale, perché da lì in poi comincerà un delirio ininterrotto di cui, sinceramente, non mi sento mica in grado di parlare.


Robert Eggers racconta un caso di cabin fever da manuale, dove tuttavia la fever si estende all'intero isolotto in cui il povero (ma nemmeno tanto, se andiamo a vedere) Ephraim Winslow, giovane ed inesperto tuttofare, si ritrova a dover convivere con Thomas Wake, lupo di mare provetto e soprattutto faccia di merda di prim'ordine, un ubriacone che non perde occasione di vessare Ephraim relegandolo ai compiti più ingrati e faticosi e impedendogli di avvicinarsi alla luce del faro, graal proibito in più di un senso. E' un mix di elementi perturbanti e decisamente negativi, affastellati l'uno sull'altro, a erodere lentamente la mente di Ephraim assieme ad ogni certezza dello spettatore, che si ritrova testimone di un incubo che avrebbe probabilmente fatto gioire Lovecraft in persona; la spietatezza degli elementi naturali (che sia una tempesta, il terreno roccioso dell'isolotto o persino i maledetti gabbiani) e di tutto ciò che è tangibile, come la bastardaggine di Wake, la fatica, la mancanza di sonno o l'isolamento, si uniscono al superstizioso terrore di leggende marinare alle quali forse sarebbe meglio credere, così come sarebbe meglio rispettare gli antichi adagi e ogni forma di superstizione legata al mare, pena il venire annientati dallo stesso. Tanti piccoli elementi vanno ad accumularsi e ci trascinano di peso dove vuole Eggers, ovvero in una dimensione dove non esistono certezze, il confine tra realtà e immaginazione si annulla e persino vecchi marinai (o presunti tali) diventano delle terribili divinità adirate.


A tal proposito, è incredibile cosa possa fare la fotografia di un film unita all'abilità del regista con la macchina da presa e al carisma di un attore. Ora verrò uccisa da orde di cinèfili scandalizzati per questo collegamento astruso ma guardando The Lighthouse mi è venuto in mente che Dafoe era anche nel cast di Aquaman, avvinto da pixelate di CGI pacchiana per riuscire a diventare una creatura acquatica; ecco, a Eggers invece è bastato "nulla" per farlo diventare un mostro terrificante, l'ira di Nettuno personificata, un essere inimmaginabile che avrebbe potuto mangiarsi Momoa e sputarlo per dispetto. E vogliamo parlare di Pattinson? Anzi, parliamo un po', Robert. Sei un pirla, fattelo dire. Chiccazzo te l'ha fatto fare di andarti a infognare nella cloaca di haters che infestano il fandom di Batman quando tu, come la tua ex, sei perfetto per i ruoli borderline all'interno di film realizzati da signori registi e non c'entri veramente una fava col cinema commerciale? Ti prego, ripensaci. Ti servono soldi? Te li presto io, piuttosto, ma non abbandonare le sceneggiature che ti costringono in personaggi ambigui, disperati, "brutti" e pronti a perdere l'umanità perché ti calzano alla perfezione, ragazzo mio, e questo The Lighthouse ne è la dimostrazione. Anche perché non è da tutti reggere un film sulla schiena senza farsi mangiare dal carisma di quel satanasso di Dafoe, terrificante persino quando sta zitto o si limita a scrivere su un diario. The Lighthouse, lo avete visto, è entrato nella mia top 5 di fine anno e mi rende molto triste l'idea che ancora non ci sia una distribuzione italiana perché, anche se non riesco a parlarne come dovrei, è splendido. E' vero, sarà un incubo da tradurre, adattare e doppiare, ma un film così DEVE essere visto su grande schermo, a costo di farlo uscire sottotitolato, perché è giusto che Eggers ottenga anche in Italia la fama che merita.


Del regista e co-sceneggiatore Robert Eggers ho già parlato QUI. Willem Dafoe (Thomas Wake) e Robert Pattinson (Ephraim Winslow) li trovate invece ai rispettivi link.


Se The Lighthouse vi fosse piaciuto recuperate il film precedente del regista, lo splendido The VVitch. ENJOY!

martedì 12 novembre 2019

Motherless Brooklyn - I segreti di una città (2019)

Indecisa su cosa andare a vedere, alla fine sabato sono stata "pilotata" dagli orari del multisala, e sono finita così nella sala dove proiettavano Motherless Brooklyn - I segreti di una città (Motherless Brooklyn), diretto e co-sceneggiato dal regista Edward Norton a partire dal romanzo Brooklyn senza madre (tradotto la prima volta con Testadipazzo) di Jonathan Lethem.


Trama: dopo la morte del suo mentore, un investigatore affetto da sindrome di Tourette comincia ad indagare per capire chi lo abbia ucciso e perché.


Troppe cose per le mani, troppe cose. Edward Norton è sempre stato un attore eclettico e bravissimo. Nel 2000 aveva esordito dietro la macchina da presa con Tentazioni d'amore, una commedia romantica a base di preti e rabbini innamorati, in cui recitava accanto a Ben Stiller e Jenna Elfman, poi più nulla, è tornato a fare il regista dopo quasi 20 anni con questo Motherless Brooklyn, ritagliandosi anche il ruolo di sceneggiatore. Come ho scritto prima, troppe cose. Al solito, mi tocca confessare di non aver mai letto il romanzo di Jonathan Lethem, poliedrico scrittore e sceneggiatore in grado di spaziare dalla fantascienza, ai comics, al crime, quindi non farò confronti tra il testo scritto e quello cinematografico, ma sarei curiosa di leggere Brooklyn senza madre per capire se anche il romanzo è un giro intorno al mondo che alla fine lascia il lettore con un enorme "e quindi?" (per non dire "e sticazzi?") sulla capoccia. Che è purtroppo il risultato del film di Norton, tanto splendido e splendente nella realizzazione e nelle interpretazioni quanto sfilacciato e perplimente per quanto riguarda la sceneggiatura. Senza fare troppi spoiler, come nella migliore tradizione noir abbiamo un misterioso omicidio sul quale il protagonista deve indagare. La particolarità di Lionel, detto Brooklyn, è la malattia che lo affligge, quella sindrome di Tourette che lo condanna a spasmi incontrollabili e a parlare in modo buffo ma che gli ha reso anche il cervello "come un brillante", capace di ricordare qualunque conversazione, volto o dettaglio; la voce fuori campo di Lionel non balbetta e non sragiona, anzi, conduce lucidamente lo spettatore attraverso l'indagine che lo porterà a scoprire tutti gli scandalosi segreti di una New York anni '50 corrotta e razzista, nelle mani del visionario costruttore Moses Randolph, il quale per realizzare un futuro da sogno non si fa scrupoli a rendere un inferno il presente dei poveracci che vivono nei bassifondi della Grande Mela. Purtroppo, preso com'è dalla grande personalità di Brooklyn e dalla resa Trumpiana di Randolph, Norton si perde dei pezzi per strada (i colleghi dell'agenzia investigativa di Minna, il mentore di Brooklyn, che a un certo punto spariscono), riannoda fili fondamentalmente poco importanti e che lo spettatore aveva quasi dimenticato dopo un tempo infinito (SPOILER che Vermonte facesse il doppiogioco e si scopasse la moglie di Minna era palese al minuto due della pellicola, frega abbastanza una cippa di "scoprirlo" a dieci minuti dalla fine, visto che non aggiunge nulla alla risoluzione dell'inghippo FINE SPOILER), ed offre non solo una motivazione risibile per ben due omicidi, ma anche un "villain" fondamentalmente impunito (RI-SPOILER Sì, alla fine Lieberman se la prenderà nello stoppino, non sono scema, ma Randolph continuerà a farsi gli affari suoi dopo essere sbroccato solo per una figlia di colore? Siamo nei razzisti anni '50 ma tu sei anche pieno di soldi, figlio mio, paga quel che c'è da pagare e mollaci con la solfa del "sono potente, posso far quello che voglio" FINE RI-SPOILER).


Poi, per carità, se tutti i giri intorno al mondo che approdano al nulla fossero così, salterei sul primo aereo disponibile. Edward Norton regista è di una finezza deliziosa, si ritaglia tocchi di pura poesia all'interno di una città che ne è priva e riesce persino, a un certo punto, a far vivere sulla pelle dello spettatore la sindrome di Lionel; c'è una sequenza in particolare, infatti, in cui regia, montaggio e colonna sonora trovano un equilibrio miracoloso e la forsennata partitura jazz suonata dal cosiddetto "trombettista" si ripercuote su ciò che sta accadendo al protagonista, rendendo così l'atmosfera ancora più concitata, tanto che mi sono accorta a un certo punto di avere la mascella contratta e di star battendo il piede nemmeno avessi un tic nervoso. La colonna sonora è per l'appunto bellissima. La musica è una delle poche cose capaci di calmare i tic nervosi di Lionel e giustamente Norton la sfrutta alla perfezione, tra il già citato jazz ed eleganti melodie realizzate da Thom Yorke e Flea, che arricchiscono ancor più le immagini mostrate da Norton e anche le interpretazioni degli attori. Ora, lo sapete che sono di parte. Sprecare Bruce Willis è un delitto imperdonabile, ma fortunatamente Norton si redime con lo strano personaggio di Lionel, che poteva essere caricato all'inverosimile e risultare ridicolo, invece è di una tenerezza incredibile, buffo e divertente; Baldwin, da par suo, è molto più borderline, e sembra davvero l'imitazione di Trump, forse anche troppo per essere davvero credibile, nonostante il suo personaggio si basi su una persona realmente esistente, mentre il resto del cast fa il suo lavoro, con menzione speciale alla Laura di Gugu Mbatha-Raw, dotata di uno spessore che fortunatamente va al di là dell'essere solo il love interest di Lionel. Motherless Brooklyn è dunque un film difficile da demolire, nonostante l'eccessiva lunghezza, perché ha tantissimi aspetti positivi, però non sono riuscita ad apprezzarlo quanto avrei voluto, a causa del senso di incompiutezza e "spreco" che ho provato quando hanno cominciato a scorrere i titoli di coda. A mio avviso, anche perderselo sarebbe un peccato ma con tutti i film belli in programmazione questa settimana forse è meglio aspettare una distribuzione su streaming o in home video.


Del regista e co-sceneggiatore Edward Norton, che interpreta anche Lionel Essrog, ho già parlato QUIGugu Mbatha-Raw (Laura Rose), Alec Baldwin (Moses Randolph), Bobby Cannavale (Tony Vermonte), Willem Dafoe (Paul), Bruce Willis (Frank Minna), Ethan Suplee (Gilbert Coney), Cherry Jones (Gabby Horowitz), Dallas Roberts (Danny Fantl), Fisher Stevens (Lou), Michael Kenneth Williams (il trombettista) e Leslie Mann (Julia Minna) li trovate invece ai rispettivi link.

Josh Pais interpreta William Lieberman. Americano, ha partecipato a film come Tartarughe Ninja alla riscossa, Scream 3, Denti, La famiglia Fang, Joker e a serie quali I Robinson, Sex and the City e I Soprano. Anche sceneggiatore e regista, ha 61 anni e due film in uscita.




mercoledì 18 settembre 2019

Vox Lux (2018)

Stasera correrò a vedere l'ultimo film di Quentin e spero di riuscirne a parlare già venerdì. Nel frattempo, spinta dai molti pareri positivi, nonostante la pessima distribuzione italiana ho recuperato anche Vox Lux, scritto e sceneggiato nel 2018 dal regista Brady Corbet.


Trama: sopravvissuta a una strage, la giovanissima Celeste intraprende una carriera di pop star che, nonostante inevitabili alti e bassi, prosegue per oltre vent'anni...


"Ciao, io sono Gianfranzo, sono il vuoto che c'è dentro di te. Se mi accosti l'orecchio alla bocca senti solo il mare e basta!", così cantavano I ragazzi delle ragazze, durante la sigla del mitico Pippo Chennedy Show. Non riuscivo a trovare un perfetto riassunto per ciò che ho provato assistendo alle gesta di Celeste e alla fine toh, l'illuminazione, la Lux anche senza Vox: il nulla cosmico, accompagnato da una sensazione costante di prurito alle mani che non sono riuscita a sfogare con una bella catarsi esplosiva nel corso dei titoli di coda, privi di colonna sonora, arrivati dopo 10 minuti di concerto durante i quali, lo giuro, speravo qualcuno facesse brillare una bomba o perlomeno levasse dal mondo Celeste. SPOILER: magari, e invece. Sono una bestia ignorante, lo so, tuttavia ho provato un reale senso di disfatta guardando Vox Lux, un senso di aspettativa costantemente frustrata che, probabilmente, è proprio ciò che ricercava il regista. Perché, altrimenti, far raccontare la sciocca, inutile vita della pop star Celeste dal Diavolo in guisa di voce narrante, mister Willem Dafoe in persona, accostandola costantemente alle peggiori piaghe sociali (stragi studentesche e terrorismo) nella speranza che la Vox Lux di Celeste, sopravvissuta proprio ad una strage da ragazzina e infusa del potere di guarire col canto, potesse in qualche modo cambiare questo mondo così marcio? In questo modo lo spettatore si trova per le mani la solita storia all'interno della quale la protagonista, con tutte le sue doti e la sua bontà iniziale, il sentimento religioso che la smuove unito al profondo amore per la sorella maggiore, diventa una vuota vaiassa che è riuscita a distruggere tutto ciò che di buono c'era nella sua vita, indulgendo in parossismi di autodistruzione a base di alcool e droga e accumulando soldi, soldi, soldi. One for the Money and two for the Show. Ma 'sti soldi, benedetta fanciulla, a che ti servono? Si potrebbe riflettere sul fatto che il pop di Celeste, nato da una tragedia, serva proprio a non far pensare il suo pubblico, ad aiutare tutti i fan della cantante a superare i propri problemi prendendola come esempio di persona che ha superato un'enorme tragedia risorgendo più forte, come la fenice mitologica, raggiungendo un successo planetario che tutti vorrebbero, tuttavia anche vedendola così non sono riuscita assolutamente a trarre davvero un senso da ciò che viene raccontato nel film.


Diverso, invece, l'entusiasmo per il MODO in cui viene raccontata la storia di Celeste. Conoscevo Brady Corbet solo come uno dei protagonisti dell'angosciante ma bellissimo Mysterious Skin (film che peraltro vi consiglio di recuperare se non lo avete mai fatto, preparando stomaco e fazzoletti) e non avrei pensato che sarebbe diventato un regista raffinato e capace, in grado di padroneggiare diversi registri e, soprattutto, giocare con le aspettative dello spettatore. Avendo cominciato a guardare Vox Lux senza mai avere visto trailer o letto recensioni, onestamente mi sarei aspettata, dalle poche foto scorse sulla rete, di avere davanti un novello The Neon Demon oppure un Il cigno Nero, ovvero qualcosa in bilico tra il dramma e l'horror; in effetti, la già citata voce narrante di Defoe e l'inizio scioccante concorrono a dare proprio questa impressione, e il contrasto che si crea tra la pacatezza del narratore e la freddezza delle immagini mostrate da Corbet, seguite dai titoli di testa più angoscianti e "arty" visti quest'anno, provoca uno shock sensoriale non da poco. In realtà, andando avanti, più dell'abilità registica, che comunque si mantiene su livelli altissimi, contano le performance di Natalie Portman e della meravigliosa Raffey Cassidy, che incarnano il triste contrasto tra una ragazzina cupa che cerca di superare il peggior trauma della sua vita e la donna che sarebbe diventata, una pazza umorale prosciugata dal successo che prospera sulla sciocca vacuità del suo pubblico di riferimento e si crede una divinità. Il glitter & gold citato da Rebecca Ferguson abbonda, ammaliando lo spettatore assieme al make up, agli abiti glamour di una sfattissima Natalie Portman dal trucco pesante, spezzata nel corpo e nello spirito, e alle melodie pop di Sia (combinate alle melodie totalmente diverse di Scott Walker), ma è tutta vuota apparenza, una maschera talvolta splendente e talvolta dark priva di significato, tanto che può essere indossata da chiunque, terroristi o killer in primis. Il risultato è un film bellissimo, affascinante e anche capace di tenere avvinto lo spettatore alla poltrona anche solo per mera curiosità, ma che a mio avviso si perde un po' e rischia di avere difficoltà a far passare il suo messaggio, se davvero ne ha uno; a pensarci, però, potrebbe essere proprio questa la sua carta vincente, ovvero quella di far scervellare il pubblico per cercare di colmare quei "vuoti" di cui Vox Lux è pieno, interessanti quanto lo stesso film e ugualmente affascinanti. Insomma, un bell'esercizio cerebrale, altro che una semplice canzonetta pop.


Del regista e sceneggiatore Brady Corbet ho già parlato QUI. Natalie Portman (Celeste), Jude Law (il manager), Jennifer Ehle (Josie), Raffey Cassidy (Celeste da giovane/Albertine) e Willem Dafoe (il narratore) li trovate invece ai rispettivi link.

Stacy Martin interpreta Eleanor. Francese, ha partecipato a film come Nymphomaniac - Volume 1, Nymphomaniac - Volume 2, Il racconto dei racconti, High Rise e Tutti i soldi del mondo. Ha 28 anni e quattro film in uscita.


Rooney Mara avrebbe dovuto interpretare Celeste ma quando la produzione è andata per le lunghe l'attrice ha abbandonato il progetto. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Il cigno nero. ENJOY!

domenica 7 luglio 2019

Aquaman (2018)

L'avevo perso al cinema e ora ho recuperato Aquaman, diretto nel 2018 dal regista James Wan.


Trama: nato dalla Regina di Atlantide e da un essere umano, Arthur conduce la sua tranquilla vita da supereroe "per caso", finché gli atlantidei non cominciano ad attaccare il mondo di superficie...



Cosa ho visto, santo Cielo. No, aspettate, non è mica una critica. Cioé, lo sarebbe anche ma, boh, ho il cervello talmente pieno di roba che non so come farò a scrivere il post. E io che pensavo che Thor: Ragnarok fosse zamarro e sfacciato. Ingenua, non avevo pensato che Aquaman avrebbe preso la creatura di Taika Waititi e le avrebbe riso in faccia per quasi tre ore che scorrono come se fossero mezza, unendo una marea di cretinate a livello di sceneggiatura (ci si sono messi in quattro, se non sbaglio, a scriverla, bastavano le mie due cuginette o anche solo la più piccola) a un delirio visivo continuo. E quando dico continuo intendo che non c'è un solo momento di stasi riflessiva, ogni tanto sullo schermo accadono settanta cose contemporaneamente, per almeno due ore la gente salta in aria, si mena, spara, nuota e corre come se non avesse un domani; quando questo non succede arrivano mostri marini, delfini, mante, cavallucci cavalcabili, aragoste (aramostre) e persino il polpo Paul bonanima a suonare i bonghi manco fossimo sul set live action de La sirenetta (Spoiler: la Disney non riuscirebbe a creare un mondo sommerso così nemmeno a impegnarsi mille anni), per non parlare di luci al neon, improbabili architetture subbaQue, vestitini fatti di meduse sbrilluccicanti e tridenti d'oro. Insomma, poteva uscire fuori una cafonata ed effettivamente lo è, ma è una cafonata che (in qualche modo che ancora non riesco a capire) James Wan è riuscito a gestire in modo talmente fluido che non mi è nemmeno venuto da vomitare o da strapparmi gli occhi per la sovrabbondanza di computer graphic utilizzata, anzi. Non si fa neppure in tempo a pensare "macheccazz, quello è Dolph con la parrucchetta ross..." che esplode qualcosa, arriva un cavalluccio marino a morderti le chiappe e tu ti sei già dimenticato la castroneria di piazzare un tridente in mezzo al deserto del Sahara. O La Banca di Fiducia nell'Italia più da cartolina ever, per dire.


Tutto questo perché Aquaman è un film cucito interamente addosso a Jason Momoa, lo one man show di un uomo buffo, nescio, incredibilmente gnocco nella sua zamarreide e nessuno ha fatto nulla per gettarlo in mezzo a qualcosa di meno cafone... tranne affidarlo a un regista che sa fare il suo mestiere e che, quindi, è riuscito a regolare la zamarraggine dandole paradossalmente un senso. Come si fa a non parteggiare, tra l'altro, per questo Aquaman compagnone, che salva il mondo tra una pinta di birra e l'altra, che piscerebbe sui monumenti della sua gente e lascia lì i nemici a morire senza troppi complimenti, che se deve diventare re vabbé, magari è divertente, cazzucene, l'importante è poter limonare con la rossa Amber Heard e far casino? Non si può resistere, perché Aquaman è ignorante quanto Sharknado ma realizzato benissimo, zeppo di attori con le palle che hanno accettato di finire all'interno della parodia di un episodio dei Power Rangers o dei Cavalieri dello Zodiaco EPPURE non hanno perso la loro dignità. Perché l'unica cosa davvero orrenda del film, alla fine, è quel terrificante filtro computerizzato messo in ogni inquadratura subacquea, un'offesa agli occhi che se la gioca con l'ancora più orribile "filtro piallante" che ringiovanisce Willem Dafoe, Nicole Kidman e rende il solitamente adorabile Patrick Wilson una maschera di cera (a tratti, davvero, non sembra nemmeno lui).  Ma poi, honestly, chissenefrega del filtro pialla? Jason Momoa è seminudo per buona parte del metraggio, abbiamo davvero bisogno di altri motivi per guardare Aquaman e farci esplodere la psiche? I don't think so.


Del regista James Wan ho già parlato QUI. Amber Heard (Mera), Willem Dafoe (Vulko), Patrick Wilson (Re Orm), Nicole Kidman (Atlanna), Dolph Lundgren (Re Nereus), Graham McTavish (Re Atlan), Leigh Whannell (Pilota del cargo), Julie Andrews (voce di Karathen), John Rhys-Davies (voce di Re Brine) e Djimon Hounsou (voce di Re Ricou) li trovate ai rispettivi link.

Jason Momoa interpreta Arthur. Hawaiiano, ha partecipato a film come Batman vs Superman: Dawn of Justice, The Bad Batch, Justice League e a serie quali Baywatch Il trono di spade; come doppiatore ha lavorato in Lego Movie 2: Una nuova avventura. Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 40 anni e un film in uscita, Dune.


Aquaman era già comparso in Batman vs Superman: Dawn of Justice e Justice League, quindi se il film vi fosse piaciuto recuperateli. ENJOY!


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