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martedì 9 ottobre 2018

Venom (2018)

Venerdì sera, trascinata dal Bolluomo e con uno scazzo epico davanti alla coda di adolescenti in visibilio, sono andata a vedere Venom, diretto dal regista Ruben Fleischer.


Trama: durante un'indagine, il giornalista Eddie Brock viene in contatto col simbionte alieno Venom e la sua vita cambia per sempre...



Come sanno gli amici di Facebook, la mia avventura con Venom non è cominciata proprio benissimo. Dopo la coda estenuante, siamo finiti in QUARTA FILA, ovviamente mica al centro, eh no. In più, almeno un esponente dell'accozzaglia di millenials presenti in sala puzzava come un cataletto, ma roba che probabilmente 'sta creatura non ha mai visto la doccia. Io sono schizzinosa solo quando si tratta di cimici ma stavolta ho dovuto gettare la spugna e guardare l'intero film col naso tappato, respirando con la bocca. Con lo scazzo a mille, molto probabilmente ho SUBITO Venom invece di guardarlo, però il risultato a mio avviso cambia poco, ché il film di Fleischer è qualcosa che trasuda brutti anni '90 fin dalle prime sequenze, un ibrido creato da un folle tra il vecchio Spawn The Mask, pellicola quest'ultima di cui Venom ricalca pedissequamente più di una sequenza, al punto che a un bel momento mi sarei aspettata di vedere Eddie Brock "uccidere" i nemici sulle note di Cuban Pete. Razionalmente, potrei dire che Venom è un film "normale", quasi banale, né meglio né peggio dei puntuali compitini Marvel che arrivano come riempitivo tra un Avengers e l'altro (salvo Guardiani della Galassia); come dicevano in The Rocky Horror Picture Show, "I expected nothing and I had that... in abundance!", anche perché a me lo Spiderverse e Venom in particolare non sono mai interessati dunque non potrei nemmeno urlare al vilipendio del personaggio, che del villain ho giusto qualche vecchio ricordo non mutuato da Spider-Man 3 (mai visto). A tal proposito, sinceramente mi sarei aspettata una creatura ben più malvagia, non un simbionte tanto buonino che arriva al punto di dare saggi consigli d'amore al suo ospite o a battibeccare con lui come nemmeno nelle peggiori sequenze di Thor: Ragnarok, toccando l'apice del disagio confessando di essere lo "sfigato" della razza di appartenenza. E allora, ospite e simbionte fanno davvero una bella coppia visto che Eddie Brock è stato caratterizzato come poco più astuto di uno Stanley Ipkiss qualsiasi, il tipico giornalista sensazionalista alla Striscia la notizia che, una volta privato del suo status dal riccone di turno, vaga clueless per le strade della città a rimediare figure di tolla finché l'altrettanto sfigato Venom non comincia ad utilizzarlo come EdgarAbito, maledicendolo con una blandissima necrosi quasi totale degli organi interni in cambio della possibilità di fare una vita che wow!, levàti! Brutto citare nuovamente The Mask ma giuro che la trama è identica dall'inizio alla fine (c'è persino il cane simbionte), con la piccola differenza che Ipkiss sul finale capiva di non aver bisogno della maschera per essere figo mentre Brock rimane ancorato alla sua fondamentale inutilità e niente, serve materiale per un secondo Venom e per giustificare l'imbarazzante scena post credit che vede sprecato uno dei più grandi attori di sempre in virtù probabilmente della sua amicizia con Fleischer.


Ma ciò che più mi ha infastidito, ciò che davvero mi faceva alzare ogni volta gli occhi al soffitto maledicendo di non essere io stessa simbionte per falcidiare tutti i presenti in sala, è il potenziale sprecato. L'inizio di Venom è una sorta di Alien meets L'alieno, col simbionte che passa da un corpo all'altro sfruttando parecchi topos del body horror "psicologico", quello che non porta lo spettatore a vomitare le sue stesse interiora ma che comunque lo inquieta lo stesso. Ovviamente, tutto ciò viene mandato in vacca in tempo zero, con una sceneggiatura disonesta combinata col terribile spauracchio del PG-13. Davvero, non potevano i realizzatori giocare tutto sul sottilmente inquietante, sulla possessione, sull'incapacità di avere il controllo del proprio corpo invece di sottolineare la fame perenne di Venom, il suo desiderio di staccare teste... reso sullo schermo senza nemmeno UNA goccia di sangue? No, ragazzi, allora. Qui non abbiamo Thanos che schiocca le dita e puff!, la gente sparisce, abbiamo MOSTRI con le zanne che divorano teste e impalano persone con propaggini organiche, non puoi renderlo nella maniera più asettica possibile, come se stessimo parlando di noccioline. Non puoi privare lo spettatore, anche il più giovane, dell'ORRORE della cosa, perché Mombi in Nel fantastico mondo di Oz collezionava teste senza mostrarci una singola goccina di sangue ma Cristo se anche il più stupido dei bambini capiva le implicazioni della questione e non ci dormiva la notte, invece qui il risultato è "Venom mangia le teste? Ah, beh, sticazzi", che è il punto di non ritorno di una desensibilizzazione spaventosa. A ciò va aggiunta la voce di Venom. Ho controllato su Wikipedia perché ad un certo punto ho creduto che il doppiatore italiano del killer in Scary Movie fosse lo stesso di Venom, invece abbiamo da una parte Pino Insegno in un film comico e dall'altra Adriano Giannini in un... beh, in un film comico? Non si spiegherebbe altrimenti perché Venom è garrulo e perculante, una sorta di maggiordomo innamorato della sua voce che a un certo punto si profonde persino in un entusiastico "benone!" che mi ha causato più di un conato di vomito, la parodia di un malvagio come la si sentirebbe in una puntata dei Simpson. Ma perché? E soprattutto: perché Michelle Williams a un certo punto vaga per il film vestita da collegiale? Ma anche: perché Tom Hardy recita col pilota automatico? E infine: perché qualcuno dovrebbe scegliere di andare a vedere questo Venom?


Del regista Ruben Fleischer ho già parlato QUI. Tom Hardy (Eddie Brock/Venom), Michelle Williams (Anne Weying), Riz Ahmed (Carlton Drake/Riot) e Woody Harrelson (Cletus Kasady) li trovate invece ai rispettivi link.


Stan Lee compare in un cameo piuttosto lungo all'interno del film, che è provvisto di due scene mid e post-credit: la prima è direttamente collegata alla trama della pellicola o comunque apre la via ad un sequel, la seconda invece è una sorta di trailer per Spider-Man: Un nuovo universo, di cui il Dottor Manhattan ha parlato QUA. Ovviamente, il film in questione non è legato a Venom così come, per ora, non lo sono Spiderman: Homecoming né tanto meno Spider-Man, Spider-Man 2 e Spider-Man 3, all'interno del quale compare Venom per la prima volta. Se Venom vi fosse piaciuto potreste considerare il recupero di Life: Non oltrepassare il limite, il quale per qualche tempo è stato creduto (erroneamente) un prequel di Venom. ENJOY!



venerdì 15 settembre 2017

Marie Antoinette (2006)

Ormai un mese fa è passato in TV Marie Antoinette, diretto e sceneggiato nel 2006 dalla regista Sofia Coppola, e finalmente anche io che ho sempre adorato le opere legate alla rivoluzione francese e alla figura dell'iconica regina di Francia sono riuscita a vederlo!


Trama: Maria Antonia d'Asburgo-Lorena, figlia dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa, viene promessa in sposa al Delfino Luigi di Francia e mandata a Versailles per il matrimonio. Lì, la giovane Marie Antoinette è costretta a sottostare alla rigida etichetta di corte, a sopportare un marito incapace di toccarla e a subire le maldicenze di nobili e cortigiani...



Guardando Lady Oscar dall'età di sette anni, è normale che sia rimasta affascinata dalle vicende della Rivoluzione Francese e dalla figura di Maria Antonietta, probabilmente la regina più amata/odiata della storia. Chi era davvero Antonietta? La demonessa dello sperpero e della lussuria che teneva in gran dispetto e odio tutto il popolino (pronunciando magari, con rossetto nero d'ordinanza, bufale quali "Il popolo non ha pane? Che mangino brioche!", come accade nella scena più tristemente ironica del film) oppure, semplicemente, una ragazzina ingenua venutasi a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato? La verità, probabilmente, sta nel mezzo anche se ci sono fior di biografie da leggere e sulle quali ragionare, ma sicuramente il ritratto realizzato da Sofia Coppola pende più verso la seconda ipotesi, avvalorata dalla biografia di Antonia Fraser, molto popolare negli USA. La regista, anche in veste di sceneggiatrice, ci mostra fin dall'inizio Maria Antonietta come una ragazzina di buon cuore catapultata in un mondo ostile e spersonalizzante: la ragazza, penultima di sedici figli, è stata ceduta dalla madre come "oggetto" per suggellare l'alleanza tra Francia e Impero Austriaco e viene di fatto abbandonata alla mercé di una Corte sconosciuta, totalmente disinteressata ad Antonietta come "persona". Ad appena quattordici anni, la futura regina di Francia viene da una parte allettata dalla promessa di una vita fatta di agi e lussi, dall'altra la sua natura di donna e il suo valore come essere umano vengono subordinati alla sua capacità di mettere al mondo un erede e di invogliare in primis il Delfino di Francia a giacere con lei, così da adempiere ai suoi doveri. Di fatto, l'unico modo per mantenere un vincolo tra Francia e Austria era proprio dare alla luce un bambino figlio di entrambi i regni, in caso contrario Maria Antonietta sarebbe diventata inutile e probabilmente Re Luigi XV (che già avrebbe dovuto sposare una delle figlie più anziane di Maria Teresa, rimasta sfigurata dal vaiolo) l'avrebbe rimandata dritta a casa dall'Imperatrice; vinta dallo sconforto, dalle parole fredde della madre, dal disinteresse del futuro Luigi XVI, dall'insofferenza verso una vita fatta di regole rigide e protocolli di ferro, ad Antonietta non rimane altra possibilità che fare come qualsiasi ragazza moderna, ovvero darsi allo shopping, ai peccati di gola, alle feste, a tutto ciò che potrebbe darle un'illusione di libertà e felicità, per quanto momentanea.


Sofia Coppola si concentra quindi sull'aspetto più "Bling Ring" della vita di Maria Antonietta, soprattutto nella prima parte del film, accentuandone la frivola modernità con i tanto discussi ammiccamenti alla moda contemporanea (ah, quelle Converse, quei coloratissimi macaron di Ladurée, per non parlare della colonna sonora!) e sorvolando su episodi iconici della vita della sovrana, più legati ad una questione sociale, in primis la famigerata vicenda della collana. A dire il vero, probabilmente per lo spettatore che non conosce a menadito tutte le vicende che hanno portato alla Rivoluzione Francese risulterà anche difficile capire perché ad un certo punto i popolani vorrebbero fare fuori Antonietta e i suoi famigliari, visto che i pesanti problemi di deficit e lo squilibrio tra nobili e il cosiddetto "terzo stato" vengono appena accennati nel film, ma è anche questa scelta a rendere affascinante la pellicola della Coppola. La regia elegante e il montaggio vorticoso, la sovrabbondanza di dettagli per quel che riguarda scenografie e costumi, che inghiottono letteralmente la protagonista, e la fotografia dai colori accesi trasformano la vera Versailles prima e il vero Petit Trianon poi (se siete stati in entrambi i posti non potrà fare a meno di esplodervi il cuore, io vi avviso) in un limbo atemporale capace di sedare i sensi e placare momentaneamente il dolore, un eden dove le brutture della società non arrivano ma dove bisogna anche faticare per rimanere umani e conservare, paradossalmente, qualcosa che sia possibile definire proprio. La seconda parte, quella che coincide con la maternità e maturità di Antonietta, è ben più malinconica e riflessiva della prima e anche lo stile di regia asseconda questo cambiamento di atmosfera, accompagnando lentamente la Sovrana verso il triste destino prefigurato nel finale con eleganti immagini di morte, tra gramaglie e quadri dove i bimbi ritratti scompaiono come se non fossero mai esistiti, mentre la realtà irrompe con forza e violenza in una vita scandita da riti fasulli e assurdamente coreografati... ma non per questo meno vera.


Capita così che, nonostante liberté, egalité et fraternité siano dei concetti santi e condivisibili, sul finale si arrivi persino a versare qualche lacrima per la bellissima Antonietta della Dunst e per quel babbalone di Jason Schwartzman nei panni di Luigi XVI, alla faccia di tutto il "nulla" di cui abbonda lo stilosissimo Marie Antoinette e di tutta la colorata ricchezza che viene sbattuta in faccia con disprezzo sia allo spettatore che al popolo di Parigi. Gli sguardi malinconici di Kirsten Dunst, il sorriso forzato di chi si impegna con tutta sé stessa per piacere inutilmente, lo sguardo gioioso di chi finalmente ha trovato l'amore vero, che sia di uno svedese tutt'altro che freddo oppure dei propri bambini, persino la forza con la quale la protagonista sceglie di essere, finalmente, Regina di Francia fino all'ultimo sono tocchi di profondità che rendono il personaggio umano ed impossibile da odiare, fin dalla prima scena del film. Anzi, oso dire che Marie Antoinette è un film talmente bello, in ogni suo aspetto, che persino Asia Argento (per quanto cagna maledetta sempre e comunque, in saecula saeculorum, amen) mi è sembrata perfetta nei panni della favorita del re, con la sua naturale volgarità e l'incapacità di proferire verbo in una lingua comprensibile, anche se la povera Du Barry non era certo così vajassa ed ignorante come spesso la si dipinge. A dire il vero, alla Coppola rimprovero solo di avere messo un mollo privo di carisma come Jamie Dornan ad interpretare l'affascinante Conte di Fersen, ché se Lady Oscar avesse visto questo antenato di Mr. Grey probabilmente avrebbe scelto di rimanere uomo per il resto dei suoi giorni. E ora, siccome sto scrivendo troppe cretinate, concludo qui il post, ribadendo la bellezza di Marie Antoinette e consigliandovi di non aspettare troppo per recuperarlo come ho fatto io; nell'attesa che esca L'inganno la settimana prossima potrebbe essere un ottimo antipasto... buono quasi quanto i famosi e proibitivi macaron di Ladurée!


Della regista e sceneggiatrice Sofia Coppola ho già parlato QUI. Kirsten Dunst (Maria Antonietta), Jason Schwartzman (Luigi XVI), Judy Davis (Contessa de Noailles), Rose Byrne (Duchessa de Polignac), Asia Argento (Contessa du Barry), Molly Shannon (Zia Vittoria), Shirley Henderson (Zia Sofia), Danny Huston (Imperatore Giuseppe II), Sebastian Armesto (Conte Louis de Provence), Tom Hardy (Raumont) e Steve Coogan (Ambasciatore Mercy) li trovate ai rispettivi link.

Rip Torn (vero nome Elmore Rual Torn Jr.) interpreta Luigi XV. Americano, ha partecipato a film come Il re dei re, L'uomo che cadde sulla Terra, Coma profondo, L'aereo più pazzo del mondo... sempre più pazzo, RoboCop 3, Giù le mani dal mio periscopio, Ancora più scemo, Men in Black, Men in Black II, Palle al balzo - Dodgeball, Men in Black 3 e a serie quali Alfred Hitchcock Presenta, Colombo, Will & Grace e 30 Rock mentre come doppiatore ha lavorato nel film Hercules. Anche regista e produttore, ha 86 anni.


Jamie Dornan interpreta il Conte Hans Axel Von Fersen. Irlandese, meglio conosciuto come Mr. Grey di Cinquanta sfumature di grigio e Cinquanta sfumature di nero, ha partecipato a serie quali C'era una volta. Ha 35 anni e cinque film in uscita.


Il film ha vinto giustamente un Oscar per i Migliori Costumi, andato nelle sante mani di Milena Canonero. La parte di Luigi XV era stata offerta ad Alain Delon il quale però ha rifiutato, sentendosi inadatto al ruolo; per problemi di impegni pregressi, invece, sia Angelina Jolie che Catherine Zeta-Jones hanno dovuto rinunciare ad interpretare la Contessa du Barry, lasciando così tristemente il posto ad Asia Argento mentre a Judy Davis, che è finita a interpretare la Contessa de Noailles, era stato offerto il ruolo di Maria Teresa D'Austria. Se Marie Antoinette vi fosse piaciuto dovete OVVIAMENTE recuperare lo splendido anime Lady Oscar (o il manga di Ryoko Ikeda e magari anche Innocent di Shin'Ichi Sakamoto) e aggiungere L'intrigo della collana, giusto per completare un pezzetto di storia che nel film della Coppola manca. ENJOY!

mercoledì 6 settembre 2017

Dunkirk (2017)

Domenica sono riuscita ad andare a vedere Dunkirk, salutato da tutti, prima ancora dell'uscita, come IL Capolavoro di Christopher Nolan in veste di regista e sceneggiatore. Vi avviso, il post sarà molto breve ma zeppo di Caps Lock. Se non volete leggere i miei sproloqui ma vi interessa la recensione in sé saltate pure al secondo paragrafo. Niente spoiler ovviamente, tranquilli!


Trama: all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, soldati inglesi e francesi rimangono bloccati a Dunkerque, con l'esercito tedesco a circondarli ed attaccarli via terra, cielo e mare.


Sinceramente, un post su Dunkirk non volevo nemmeno scriverlo. Ne troverete a bizzeffe in rete, al 100% molto più competenti e completi del mio e al 90% scritti da gente folgorata dall'ultimo lavoro di Christopher Nolan. Potrei consigliarvi di non leggerne nemmeno uno ma se siete capitati qui probabilmente vi piace informarvi prima di andare a vedere un film, quindi vi do un consiglio spassionato per le prossime pellicole che verranno universalmente salutate come Capolavori Innovativi Film Dell'Anno prima ancora che escano: astenetevi da internet, Twitter e blog, soprattutto astenetevi da Facebook. Sono una vecchia brontolona già a 36 anni ma fidatevi se vi dico (l'ho già scritto QUI) che si stava meglio quando prima di andare al cinema si potevano consultare solo poche riviste di settore e assaporare il gusto della pellicola esclusivamente dai trailer, magari da qualche sporadico servizio al TG, senza cinefili della domenica (ME PER PRIMA, eh) pronti a sprecare paroloni oppure fanboy/girl che guai a toccare l'attore/regista/sceneggiatore preferito pena un lapidario "te di cinema non capisci un ca**o" o ancor peggio l'inizio di interminabili flame dove si sente il rumore di arrampicata sugli specchi lontano un chilometro. Perché questa mia amara considerazione? Per il semplice fatto che a me Christopher Nolan è sempre piaciuto moltissimo, prima ancora che i suoi film venissero salutati con un "è uscito un film di CHRISTOPHERNOLAN (rigorosamente tutto attaccato e a caratteri cubitali come quando esce una pellicola di WESANDERSON!!) sarà sicuramente IL capolavoro del millennio, senza se e senza ma". Porco schifo, ho guardato Memento in televisione e mi è piaciuto tantissimo. E' uscito Insomnia, sono andata a vederlo senza neppure sapere che l'avesse diretto lo stesso regista e mi è piaciuto. Batman Begins l'avevo visto solo per Christian Bale e MEH, ma all'epoca non mi ero curata della mia opinione perché nel 2005 non avevo né un Blog ne Facebook a dirmi che stavo sbagliando tutto. Dimenticato Batman Begins mi sono innamorata di The Prestige e pur avendo saltato a piè pari Il cavaliere oscuro (recuperato in seguito, un enorme "e quindi?" anche se qui più che di Capolavoro di Nolan laGGente parlano di MIGLIORINTERPRETAZIONEDIHEATHLEDGER) in virtù del poco entusiasmo provato davanti al film precedente mi sono re-innamorata di Inception e ho persino adorato Il Cavaliere Oscuro - Il ritorno. Lì la situazione ha cominciato a farsi pesante perché era già il periodo in cui non si andava più a vedere un film su Batman ma una pellicola DICHRISTOPHERNOLAN, quindi un capolavoro annunciato: Interstellar è il più grande ROTFL della storia del Cinema fantascientifico eppure guai a dire che t'ha fatto due marroni così, logorroico, pesante e presuntuoso com'è. Immaginate quindi con che stato d'animo sono andata a vedere Dunkirk. Ansia da Lalaland combinata a rottura di coglio*ni pregressa, alle quali dovete aggiungere il nervoso per essere arrivata a trovare estremamente antipatico un regista che a me, poverino, non ha mai fatto nulla, anzi, a cui volevo molto ma molto bene. Insomma, una pessima combinazione che però mi ha portata ad essere incredibilmente obiettiva sul suo ultimo lavoro. Segue breve "recensione".


Iniziamo col dire che, per una volta, hanno ragione quelli che consigliano di vedere Dunkirk in una sala adeguata, in una di quelle attrezzate per il 70 mm e l'IMAX, perché l'ultimo film di Nolan avvolge interamente lo spettatore inglobandolo nell'azione e stordendolo con un "rumore di fondo" praticamente ininterrotto (secondo il principio della Scala Shepard, che a quanto pare offre l'illusione di un suono che sale costantemente di altezza e correggetemi se ho capito male), tra la colonna sonora di Zimmer, il sonoro potentissimo e un irritante ticchettio di orologio che è poi il METAFORONE che amano tutti quelli pronti a considerare Dunkirk non un film di guerra ma un film sul tempo. Personalmente, ho accolto il silenzio finale con una gioia palpabile e se l'intero film fosse stato muto, interamente sorretto dalla splendida interpretazione degli attori (a Kenneth Branagh e Mark Rylance non serve la parola e il primo offre la migliore performance da anni), senza che questi ultimi fossero costretti di tanto in tanto a vomitare sullo spettatore incredibili banalità retorico-patriottiche tra un ticchettio, un'esplosione e una nota di colonna sonora, probabilmente Dunkirk sarebbe stato davvero un capolavoro. Allo stesso modo, non mi capacito del perché Nolan si sia infognato in questo trito esercizio di stile che è l'utilizzo della non consequenzialità. Cristoforo, santo Cielo, sei un regista coi controca**i: le riprese aeree sono splendide e realistiche, quelle sulla spiaggia di Dunkerque, con quei colori deprimenti e freddi, lo sono forse anche di più, riesci a creare delle sequenze d'azione durante le quali pare di annegare assieme ai poveri soldati intrappolati nelle imbarcazioni, coi primi piani ci vai a nozze e riesci a creare tensione con un semplice gioco di sguardi, quindi perché devi raffreddare l'atmosfera bullandoti del fatto che gli incastri temporali ti vengono bene? E cheppalle! Gli ultimi quindici minuti di film sono pesantini, figlio mio, abbiamo capito che alla fine SPOILER le varie linee temporali convergeranno FINE SPOILER, non mi serve vederlo ribadito due o tre volte. Ti faccio lo stesso appunto mosso alla fine del post di Interstellar: perché non torni a coinvolgere lo spettatore non solo visivamente ma anche emotivamente? Qui qualcosa si è effettivamente smosso a livello emotivo, soprattutto, come ho detto, durante le lunghe riprese senza nemmeno un dialogo e grazie ad un paio di personaggi, per il resto... boh, mi sono emozionata di più davanti a La battaglia di Hacksaw Ridge. Anche perché cominciare a guardare un film a tema bellico coi soldati che vengono colpiti dalle bombe senza spillare nemmeno una goccia di sangue è un po' una ca**ata (soprattutto in quanto Dunkirk è uno dei pochi film in cui persino il carburante delle navi diventa "vivo", parte di un'attentissima cura per il dettaglio. E manca il sangue? Mah). Va bene il film sul tempo, l'attesa, la fratellanza, la disperazione, il barlume di speranza, l'eroismo, ecc. ma ho trovato che mancasse qualcosa. Parere mio, ovviamente. Quindi, confermo la bellezza di Dunkirk ma non l'entusiasmo eccessivo che lo ha accompagnato: è un film bellissimo, non il migliore dell'anno, non il migliore di Nolan, non il migliore film di guerra di tutti i tempi ma comunque meritevole di una visione, assolutamente. Al cinema, ribadisco. In un ottimo cinema.


Del regista e sceneggiatore Christopher Nolan ho già parlato QUI. Mark Rylance (Mr. Dawson), Tom Hardy (Farrier), Kenneth Branagh (Comandante Bolton), James D'Arcy (Colonnello Winnant), Cillian Murphy (Soldato tremante) e Michael Caine (non accreditato, è la voce "del comando" che si sente nella cabina dei piloti) li trovate invece ai rispettivi link.


Barry Keoghan, che interpreta George, aveva già partecipato al film Codice criminale mentre Harry Styles degli One Direction è il soldatino che punta il fucile contro l'"infiltrato" francese all'interno del peschereccio olandese; tra gli attori ci sono anche un paio di parenti del regista, come la cugina Miranda Nolan, che compare nei panni di un'infermiera, e lo zio John Nolan, ovvero l'uomo cieco sul finale. La battaglia di Dunkerque è stata già portata al cinema nel 1958 col film Dunkerque, pellicola che vede tra i protagonisti Richard Attenborough, il cui nipote Will Attenborough è nel cast del film di Nolan. Detto questo, se Dunkirk vi fosse piaciuto recuperate La sottile linea rossa. ENJOY!


domenica 18 settembre 2016

RocknRolla (2008)

Questa è l’ultima del 2016, prometto. Intendo l’ultima volta che scrivo un brevissimo post dopo praticamente un mese dalla visione del film, cosa che mi porta inevitabilmente ad affidarmi ad una memoria sempre più scarsa e ad emozioni ormai raffreddatesi. Ciò accade, soprattutto, quando si parla di film come RoknRolla, diretto nel 2008 dal regista Guy Ritchie, la tipica sagra del malvivente inglese tanto cara all’autore.


Trama: uno speculatore edilizio senza scrupoli cerca di concludere un grosso affare con un magnate russo ma la commercialista di quest’ultimo è in combutta con un paio di piccoli malviventi e lo deruba sistematicamente di ogni investimento. A complicare un affare che già sta in piedi per miracolo si aggiungono i capricci di un giovane cantante rock fattosi passare per morto…



Ammetto pubblicamente di essere un’estimatrice di Guy Ritchie, del suo stile caciarone e videoclipparo, del montaggio rapido quanto i giri di giostra tra personaggi che si susseguono continuamente sullo schermo, del sottobosco criminale che mette in scena con abbondanti dosi di umorismo nero e anche di un certo modo ruffiano di accattivarsi il pubblico. Tutti questi elementi si ritrovano in RockNRolla eppure, nonostante il mio amore per il regista inglese, la visione del film si è rivelata lievemente pesante, come se avessi davanti uno scherzo tirato per le lunghe; la trama della pellicola fila e tutto torna perfettamente sul finale, nel quale ogni tessera apparentemente stonata riesce nonostante tutto a comporre un mosaico perfetto, però credo che la parte centrale del film venga appesantita troppo da ripetizioni inutili e personaggi superflui. In aggiunta, bisogna dire che il RockNRolla del titolo è uno dei protagonisti più fastidiosi e meno carismatici mai creati da Guy Ritchie. Non so se imputare la colpa all’attore Toby Kebbell, che sembrerebbe un giovane Sacha Baron-Coen molto meno divertente (e già di suo non che Baron-Coen mi faccia impazzire...), sta di fatto che dal momento in cui compare il fantomatico Johnny Quid il film subisce una frenata che non molla neppure con la presenza del fantastico “gangster” di Tom Wilkinson e del sempre valido Mark Strong, punte di diamante di un cast che contempla anche due figoni del calibro di Idris Elba e Gerard Butler, tra gli altri. Ecco, forse RockNRolla mi ha un po’ delusa perché pensavo che il fulcro della storia fosse questa coppia di pregevoli attori, invece la trama a un certo punto si discosta dalle loro disavventure, focalizzandosi su furti di quadri, rockstar drogate, segretucci nascosti e russi psicopatici, questi ultimi protagonisti delle sequenze più genuinamente folli e divertenti di tutta la pellicola. Nonostante questo, quando durante i titoli di coda ho letto che i protagonisti di RockNRolla sarebbero tornati per un secondo film non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa aspetti Ritchie a riprendere le fila del discorso, magari con qualche aggiustatina qui e là: o sono completamente psicopatica e mi sbaglio di grosso, oppure potrebbe venire fuori un sequel molto migliore della pellicola originale!


Del regista e sceneggiatore Guy Ritchie ho già parlato QUI. Gerard Butler (One Two), Tom Wilkinson (Lenny Cole), Mark Strong (Archy), Idris Elba (Mumbles), Tom Hardy (Bob il bello), Toby Kebbel (Johnny Quid), Karel Roden (Uri Omovich), Jeremy Piven (Roman), Gemma Arterton (June) e Jamie Campbell Bower (Rocker) li trovate invece ai rispettivi link.

Thandie Newton interpreta Stella. Inglese, ha partecipato a film come Intervista col vampiro, Gridlock'd, Mission: Impossible 2, The Chronicles of Riddick e a serie come E.R. Medici in prima linea, inoltre ha doppiato un episodio di American Dad!. Ha 44 anni e due film in uscita.


Il cantante Ludacris (col vero nome di Chris Bridges) interpreta Mickey, uno dei due manager di Johnny Quid. Apparentemente, quella di RocknRolla avrebbe dovuto essere una trilogia, di fatto nei titoli di coda viene scritto "The Wild Bunch will return in The Real RockNRolla", tuttavia nel frattempo Ritchie ha girato altri quattro film e di un eventuale sequel non c'è ancora traccia. Detto questo, se RocknRolla vi fosse piaciuto recuperate Lock & Stock - Pazzi scatenati e Snatch - Lo strappo. ENJOY!

domenica 24 aprile 2016

Legend (2015)

Un altro film che avrei voluto vedere ma che ovviamente non è arrivato dalle mie parti è Legend, diretto e sceneggiato nel 2015 dal regista Brian Helgeland e tratto dal libro The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins dello scrittore John Pearson.


Trama: alla fine degli anni '50 i gemelli Kray, Reggie e Ron, raggiungono i vertici della malavita londinese, almeno finché la follia di Ron non comincia ad attirare morte, guai e polizia...



Nonostante adori i film "di gangster" e sia abbastanza interessata a quei media che gravitano attorno al mondo della malavita più o meno internazionale (no, non sono come il protagonista di The Wannabe, tranquilli), ammetto di non avere mai sentito nominare i gemelli Kray, sebbene Legend non sia il primo film che ne parli. Ben venga dunque la pellicola di Brian Helgeland, che getta luce sul mondo oscuro della criminalità dell'east end londinese focalizzandosi su questi due gemelli (dimenticandosi un fratello per strada, ahimé) di cui viene descritta la parabola prima ascendente poi discendente attraverso il punto di vista della prima moglie di Reggie, Frances Shea. Come spesso accade in questo genere di film, la narrazione passa dal tono ammirato e speranzoso dell'inizio, che pur lascia presagire la direzione disastrosa che avrebbero preso le vite dei coinvolti, al sentimento tragico e rancoroso di una giovane ragazza che è stata incantata dai modi affascinanti di quello che sarebbe diventato il suo futuro marito e si è ritrovata coinvolta in una vita di criminalità, follia, violenze ed abusi. La diversità tra i due gemelli viene esplicata fin dalle prime battute del film: Reggie era quello apparentemente "normale", almeno dal punto di vista della sanità mentale, mentre Ron era quello dichiaratamente pazzo, probabilmente affetto da schizofrenia paranoide e quant'altro. Legend si premura di sottolineare spesso e volentieri il saldo legame di sangue che legava i due nonostante le mattane di Ron, atti di pura follia che sono arrivati a costare il "regno" ad entrambi, e l'impossibilità per Reggie di tranciare quel cordone ombelicale che, di fatto, lo condannava a tenere in vita Ron e dargli anche modo di prosperare negli affari. La "rettitudine" di Reggie e la follia di Ron diventano quindi il fulcro di ogni avvenimento presente nel film, il punto da cui si dipanano gioie e dolori per Frances e per tutti quelli che hanno avuto la sventura di incrociare i due gemelli, che fossero poliziotti come Nipper Read o biechi uomini d'affari come Leslie Payne.


A portare interamente sulle spalle questa dicotomia nonché la bellezza della sceneggiatura di Brian Helgeland è stato chiamato Tom Hardy, che interpreta ovviamente sia Reggie che Ron. Vedere recitare Hardy in questo film è una gioia non tanto per gli occhi, quanto per le orecchie, visto che la differenza tra i due personaggi risiede più nel loro modo di parlare che in quello di vestire, portare gli occhiali o pettinarsi: accanto alla parlata sicura di Reggie, affabulatore ed affascinante guascone dall'accento cockney, c'è quella strascicata e lagnosa di Ron, il "brutto anatroccolo" della famiglia nonché l'unico gangster che abbia mai visto al cinema pronto a dichiararsi orgogliosamente gay (o, meglio, bisessuale, come raccontano le cronache dell'epoca). Accanto a Hardy c'è uno stuolo di ottimi caratteristi che paiono essere stati tirati fuori dritti dalla mala londinese di quell'epoca e sono anche abbastanza viscidi da rafforzare il senso di istintivo disgusto provato da Frances davanti a Ron (vedere i suoi due lacché/amanti per credere), oltre a due attori come Emily Browning e David Thewlis, ingaggiati per interpretare due ruoli molto importanti. La Browning mi è sempre molto piaciuta come attrice ma ultimamente veniva chiamata solo per parti da mollusco addormentato, mentre in Legend riesce a tirare fuori tutta la sua bravura e a reggere il confronto con le adorabili, sfortunate mogli di gangster scorsesiani, condannate ad un tristissimo destino; David Thewlis invece, dopo essersi fissato nella mia memoria come dolce professor Lupin, si è fortunatamente riciclato come favoloso interprete di personaggi dalla dubbia moralità e sta diventando uno degli attori che più apprezzo sul grande schermo. Legend è anche curatissimo dal punto di vista della colonna sonora, che inanella una serie di brani d'epoca che riprendono furbescamente il tema di ogni sequenza che accompagnano, rendendo così le immagini ancora più piene di significato. Detto questo, se vi piace il genere non potete assolutamente perdere Legend: vi consiglio solo di recuperarlo in lingua originale, anche perché i dialoghi portano un paio di commoventi esempi di "rhyming slang" inglese che rischiano di perdersi nell'edizione italiana.


Di Tom Hardy (Reggie e Ron Kray), Christopher Eccleston (Nipper Read), Emily Browning (Frances Shea), David Thewlis (Leslie Payne), Chazz Palminteri (Angelo Bruno) e Paul Bettany (Charlie Richardson) ho già parlato ai rispettivi link.

Brian Helgeland è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Payback - La rivincita di Porter, Il destino di un cavaliere e un episodio della serie Racconti di mezzanotte. Anche produttore e attore, ha 55 anni e nel 1998 ha vinto un'Oscar per la sceneggiatura di L.A. Confidential.


Se Legend vi fosse piaciuto recuperate Quei bravi ragazzi, Black Mass - L'ultimo gangster, Lock & Stock -  Pazzi scatenati, Snatch - Lo strappo e The Krays - I corvi (anche se non l'ho mai visto è comunque una biografia dei fratelli Kray). ENJOY!

venerdì 22 gennaio 2016

Revenant - Redivivo (2015)

Dopo mesi di hype devastante (ma mai quanto quello per The Hateful Eight, sappiatelo) martedì sono andata a vedere Revenant - Redivivo (The Revenant), diretto e co-sceneggiato nel 2015 dal regista Alejandro González Iñárritu e tratto dal romanzo omonimo di Michael Punke, nonché candidato a 12 premi Oscar. Quello che segue è il post più sincero che io abbia mai scritto, mi spiace.


Trama: dopo essere stato ridotto in fin di vita da un orso, l'avventuriero Hugh Glass viene costretto a testimoniare impotente all'omicidio del figlio e in seguito viene abbandonato dai suoi compagni, semi-sepolto nella terra. Riuscito miracolosamente a sopravvivere, Glass giura vendetta...



Se io dichiarassi su questo infimo blog che Revenant è un film brutto meriterei di venire lapidata. Revenant è un film bellissimo, anzi, splendido, tecnicamente parlando. Credo che solo un sasso potrebbe rimanere indifferente davanti alla tecnica registica di Iñarritu, la cui cinepresa riesce a danzare sulle acque limpide di un fiume prima di risalire fluida a mostrare le fronde di imponenti alberi tanto da darmi l'illusione di trovarmi davvero in un bosco e sentirne il profumo e l'aria fresca sul viso. Il freddo delle nevi semi-perenni, la durezza della terra brulla, la disperazione e il senso di oppressione di spietati paesaggi immersi in un bianco abbacinante, l'odore disgustoso delle carcasse in putrefazione, la sensazione della vita che scivola via col sangue e la violenza, il sollievo doloroso dei ricordi e quello illusorio dei sogni, tutto viene portato sul grande schermo con perizia mirabile dal buon Iñarritu, coadiuvato dalla splendida fotografia di Emmanuel Lubezki. 'sti due cristiani hanno filmato solo pochissime ore al giorno, hanno volutamente ricercato la luce naturale per non venire meno al realismo tanto desiderato, hanno dovuto spostare il set dal Canada all'Argentina meridionale quando i venti balzani hanno fatto alzare le temperature a livelli primaverili, come farei a disprezzare anche solo UNA sequenza di Revenant o a liquidarla come mera esibizione di bravura? E vogliamo parlare di Leonardo Di Caprio? La sofferenza, il sudore, il sangue, l'incapacità di parlare, l'essere costretto a mangiare bisonte crudo, a strisciare come la più vile delle creature, la fredda determinazione di vendicarsi in quegli occhi di ghiaccio segnati dal dolore, l'onere di portare sulle spalle praticamente tutto il film... oddio, è vero che Tom Hardy col suo bastardissimo Fitzgerald se lo mangia a colazione, soprattutto per la malvagità da "non ho nulla da perdere" che gli schiaffa in faccia sul finale, ed è ancor più vero che i miei occhi erano tutti per un Domhnall Gleeson mai così bello e consapevole della sua presenza scenica, ma Di Caprio è bravo, anzi, bravissimo. Certo, non bravo ai livelli "perchéCCristianimentonongliavetedatounOscar?" di The Wolf of Wall Street e Django Unchained ma è molto bravo. Ma. Però.


Ma. Ma come Malick. Perché se Malick mi mostra i dinosauri e gira un film di tre ore con cinque minuti totali di dialogo piango come un vitello ringraziando ogni Divinità per la Bellezza commovente che scorre sullo schermo e se Iñarritu riprende gli alberi che si muovono o un meteorite che solca il cielo mi ritrovo ad alzare così tanto le sopracciglia da temere di rimanere paralizzata, pur riconoscendone la bravura? Malick, Malick ho pensato, Buñuel, Dalì e le loro formiche, Kubrick e il terrore serpeggiante in un labirinto di ghiaccio e neve, Han Solo che usa per la prima ed unica volta la spada laser, Tarantino che balla Don't Let Me Be Misunderstood mentre La Sposa e O-Ren si affrontano nel giardino innevato della House of Blue Leaves; ho pensato a tutto questo e mi è venuto da piangere sì, ma per il diludendo. Vedere Revenant è come guardare una puntata di Man vs. Nature diretta da tutti i registi che ho nominato sopra, con Di Caprio nei panni di Bear Grylls e nelle mani degli sceneggiatori il Manuale delle giovani marmotte da una parte e il bignami del dramma di frontiera nell'altra. Hugh Glass affronta tutto con dolore e sofferenza ma prendendosi anche il tempo di mostrare allo spettatore tutti i vari step della sua resurrezione, ogni cosa di cui si è cibato, tutti i rimedi casalinghi per suturare ferite mortali, cosa fare in caso di tempesta di neve/ghiaccio/vento (se il cavallo si sfrocia giù da un dirupo e voi no, usate il cavallo come un Pisolone, ricordate!), ecc. ecc., senza un minimo di sentimento. Le immagini oniriche servono solo per far capire allo spettatore l'impotenza dell'uomo in balia della Natura o della Divinità, il contrasto tra un Di Caprio spirituale e un Tom Hardy col padre che identifica Dio in uno scoiattolo grasso e poi se lo mangia sono da bignami della sceneggiatura quasi quanto il fastidioso binomio "protagonista bianco ma buono perché favorevole al meltin'pot razziale/altri bianchi cattivi perché odiano gli indiani", insomma, tutto va avanti come ci si aspetterebbe da una pellicola di questo genere. Dov'è la nevrotica disperazione che tanto mi aveva fatto amare Birdman, l'originalità di visioni che si fondono con la realtà senza confini né limiti? Qui non ho percepito nulla di tutto questo e la bellezza si è fermata agli occhi senza arrivare al cuore, tanto che le lacrime e la rabbia che avrebbero dovuto farmi soffrire con Di Caprio sono state sostituite da risate (troppe) e un po' di dispiacere per il destino toccato ad alcuni personaggi secondari. Le due ore e mezza di film scorrono ma le uniche cose che mi rimarranno in mente da qui alla fatidica notte degli Oscar saranno l'interpretazione di Domhnall Gleeson, la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto e il violentissimo scontro finale tra Di Caprio e Hardy quindi mi spiace ma quest'anno il mio tifo andrà ad altri!


Del regista e co-sceneggiatore Alejandro González Iñárritu ho già parlato QUI. Leonardo Di Caprio (Hugh Glass), Tom Hardy (John Fitzgerald), Domhnall Gleeson (Capitano Andrew Henry) e Lukas Haas (Jones) li trovate invece ai rispettivi link.


Will Poulter, che interpreta Bridger, avrebbe dovuto interpretare Pennywise il clown nel nuovo adattamento cinematografico di It ma siccome il progetto è in stallo credo che l'ingaggio sia ormai saltato. Revenant - Redivivo è candidato a 12 Oscar tra cui, ovviamente, quello di miglior attore protagonista; per partecipare, Leonardo Di Caprio ha rinunciato a interpretare il ruolo di protagonista in Steve Jobs e si troverà quindi a gareggiare proprio contro Michael Fassbender la notte degli Oscar. Sean Penn è stato invece il primo attore scelto per il ruolo di Fitzgerald ma ha dovuto rinunciare a causa di altri impegni mentre il "rimpiazzo" Tom Hardy ha dovuto abbandonare Suicide Squad a causa dell'immensa mole di lavoro richiesta dalle riprese di Revenant. Il film di Iñárritu è liberamente tratto dal romanzo Revenant di Michael Punke, basato sulla vera storia dell'avventuriero Hugh Glass che già aveva ispirato nel 1971 il film Uomo bianco va' col tuo Dio. Personalmente, credo proprio che recupererò questa pellicola per pura curiosità; a voi, se Revenant fosse piaciuto consiglio di guardare La sottile linea rossa, Oldboy, Kill Bill e Il gladiatore. ENJOY!

martedì 19 maggio 2015

Mad Max: Fury Road (2015)

"MAD MAX FURY ROAD è una meraviglia, 
una sinfonia di carne e metallo che suona meglio di qualunque cosa possa capitarvi.
 Se non dovesse piacervi saprete che è perché la vostra anima è sorda."
(Cit. Andrea Lupia)

Sabato sera sono andata a vedere Mad Max: Fury Road, diretto e co-sceneggiato da George Miller. Mi aspettavo una figata, invece sono solo uscita dal cinema convinta di avere visto il film più bello dell'anno. Segue post colmo d'aMMore e soprattutto PRIVO DI SPOILER.


Trama: in un futuro post-apocalittico, il taciturno e rude Max deve sopravvivere allo spietato dominio del crudele e mostruoso Immortan Joe, all'inseguimento dell'Imperatrice Furiosa..



George Miller potrà anche non essere considerato dalla cVitica cinefila "che conta" come un Autore degno di questo nome ma per me con la saga Mad Max è riuscito a conquistarsi di diritto un posto nella storia del Cinema. Nel giro di tre decadi il buon George ha girato un cult, SI E' SUPERATO col secondo capitolo, ha sbagliato metà del terzo ma solo per problemi di produzione e a causa della dipartita dell'amico Byron Kennedy e ha girato, trent'anni dopo, un reboot in grado di superare e lasciarsi alle spalle tutti i suoi pregevoli fratelloni. Mad Max: Fury Road dovrebbe essere preso ad esempio da qualunque regista che decida di dare in pasto al pubblico moderno la sua creatura più famosa e riuscita: se l'entusiasmo rimane intatto, se la professionalità non è mai calata, se il film in questione può essere rivisitato ma non snaturato, se il budget è più alto e la tecnologia ci permette di realizzare tutto quello che negli anni '80 poteva essere solo immaginato, ecco che basta mettercisi di buona lena e arriva il capolavoro. E' lapalissiano. Altro che Raimi, Craven e compagnia cantante, che hanno lasciato i loro cult in mano a dei fighetti, a dei ragazzini smanettoni e a degli sceneggiatori faciloni; a settant'anni suonati George Miller ha ripreso la SUA creatura e ha dimostrato di sapere ancora spaccare culi. Per citare Immortan Joe e soci, noi lo ammiriamo e non lo troviamo mediocre. Anzi. Mad Max: Fury Road è un trionfo, non saprei come altro descriverlo. E' una sfrenata corsa in mezzo al deserto dove quella tamarreide che gli Expendables possono solo sognarsi viene elevata ad Arte. E' un'epica battaglia non tra bene e male ma tra vita e morte: come già accadeva ai tempi in cui lo interpretava Mel Gibson, Max non vive, sopravvive. E' nulla più di un animale braccato, una bestia feroce perseguitata dai fantasmi del passato e dai sensi di colpa che, per evitare di "deludere" ancora chi dovesse riporre la propria fiducia in lui, sceglie l'ignavia e l'autoconservazione. Max si ritrova così a fare da spartiacque tra l'Imperatrice Furiosa, donna decisa a proteggere la Vita per il bene dell'umanità intera, e il tiranno Immortan Joe, deciso invece a compiere un massacro per proteggere la SUA vita, la certezza di poter avere il potere assoluto contando su una discendenza sana tradotta in guerrieri pronti a morire per un suo sguardo: acqua, latte, sangue, verde, bellezza, fertilità, tutti i sinonimi di Vita sono concentrati nelle mani di un mostro che di vitale e umano ha davvero molto poco e che si bea della sofferenza e della stupidità di tutti quelli che lo circondano.


Alla fredda, rozza follia di Immortan Joe si contrappone la feroce grazia dell'Imperatrice Furiosa, il personaggio più bello (in senso letterale e figurato) di tutta la saga e quello che è riuscito a fare compiere a questo reboot il salto di qualità. Uno sguardo della bravissima Charlize Theron esprime la sofferenza, la disperazione e la determinazione più di quanto non possano fare mille inseguimenti al cardiopalma (che pur ci sono e sono meravigliosi!) e questa preponderante presenza femminile consente a Miller di sviscerare interamente il dramma umano dei pittoreschi personaggi post-apocalittici che popolano la pellicola, spezzando il cuore allo spettatore senza essere né retorico né banale. La Theron si offre completamente al regista, sporcandosi di sangue, sudore e olio per motori, diventando così la personificazione di tutto il meraviglioso bailamme che sta al cuore di Mad Max: Fury Road, ovvero due ore piene di inseguimenti mozzafiato, mezzi motorizzati usciti dalla mente di un pazzo, stunt talmente violenti e arditi da lasciare a bocca aperta e, ovviamente, personaggi totalmente fuori dalle righe. Miller non ha perso smalto e si vede: se già nel 1985 con Mad Max oltre la sfera del tuono aveva mostrato quello che era in grado di fare con un budget gonfiato, qui si consacra paladino dell'artigianalità (la CGI è stata usata solo per modificare alcuni scorci del deserto in Namibia, eliminare dei cavi e consentire alla Theron di mostrarsi senza un braccio) ed esagera sereno con delle scenografie e delle sequenze in grado di fare piangere di gioia lo spettatore, in primis la meravigliosa cittadella di Immortan e poi il devastante inseguimento all'interno di una tempesta di sabbia. La cinepresa di Miller è instancabile e non sta ferma un minuto, agevolata da un montaggio dinamico ma fluido, passa dai primi piani dei personaggi a quelli dei motori dei mezzi che guidano, dagli sterminati deserti alle cabine di pilotaggio, dalle esplosioni roboanti agli sguardi e gesti appena accennati; le soluzioni visive e coreografiche inoltre non si contano (gli assassini sulle aste flessibili sono favolosi ma personalmente mi alzavo per applaudire ad ogni inquadratura del chitarrista fiammeggiante, vero ed indiscusso mito del film), la colonna sonora è semplicemente galvanizzante, la fotografia coloratissima e nitida, i costumi e il make-up delineano alla perfezione tutti i personaggi, da quelli importantissimi a quelli "secondari" e c'è persino spazio per qualche citazione dedicata ai fan della saga. A tal proposito, se non avete mai visto un Mad Max non preoccupatevi: potete gustarvi quello che ad oggi è il miglior film del 2015 senza nessun problema, godendo di una bellezza e una tecnica talmente grandi che non potrei mai descriverle con le mie limitate capacità. Mi limito solo a ringraziare Miller, che mi ha ridato fiducia nel Cinema e nell'umanità.


Del regista e co-sceneggiatore George Miller ho già parlato QUI. Tom Hardy (Max Rockatansky), Charlize Theron (Imperatrice Furiosa) e Nicholas Hoult (Nux) li trovate invece ai rispettivi link.

Hugh Keays-Byrne, che interpreta Immortan Joe, era stato il primo avversario di Max, Toecutter, nell'ormai storico Interceptor; tra le attrici spiccano invece Megan Gale nei panni della Valchiria e Zoë Kravitz, figlia di Lenny Kravitz e Lisa Bonet, che interpreta Toast. Mel Gibson avrebbe dovuto tornare come Max già nel 2003 ma per problemi di location e la sua decisione di girare La passione di Cristo, alla fine non se n'è fatto nulla, così come non c'è stato nulla da fare per Heath Ledger (per ovvie ragioni) e Jeremy Renner, entrambi possibili candidati per il ruolo di Max. Detto questo, nell'attesa di un'altra probabile trilogia il cui secondo film dovrebbe chiamarsi Mad Max: Furiosa, se Mad Max: Fury Road vi fosse piaciuto recuperate l'intera saga di Mad Max! ENJOY!


Altre pregevolissime recensioni del film dell'anno:

Book and Negative
Bara Volante 
I 400 calci
Antro Atomico


martedì 31 marzo 2015

Chi è senza colpa (2014)

Visto l'amore che nutrivo (e ancora nutro) per il meraviglioso e prematuramente scomparso James Gandolfini, era scontato che recuperassi la sua ultima pellicola, Chi è senza colpa (The Drop), diretto nel 2014 dal regista Michaël R. Roska.


Trama: Bob lavora come barista nel locale del cugino Marv, paravento per le attività illegali della mafia cecena. Un giorno il bar viene rapinato e il crimine scatena una serie di altri eventi strettamente legati a una tragedia avvenuta dieci anni prima...


Direi di cominciare a parlare di Chi è senza colpa partendo dall'incredibile gioco dei titoli a cui è andata incontro la pellicola. Il film è tratto dal racconto Animal Rescue di Dennis Lehane, il cui titolo fa riferimento ad un evento che, in apparenza, non avrebbe nulla a che vedere con il filo principale della trama: il protagonista, Bob, trova in un bidone della spazzatura un cucciolo di pitbull e, dopo l'iniziale titubanza, decide di tenerlo con sé e allevarlo. Questo "salvataggio" (Animal Rescue) gli consente di conoscere Nadia e di avere a che fare con il violento padrone del cucciolo, un criminale da quattro soldi che, anni prima, aveva ucciso un buon amico di Bob. Cosa c'entra tutto questo con il titolo originale del film, The Drop? Beh, c'entra nella misura in cui la storia parallela di questo sfortunato cagnolino che è stato lasciato "cadere" nel cestino si intreccia con i soldi sporchi che vengono "consegnati" (sempre to drop) di nascosto all'interno del bar un tempo di proprietà di cugino Marv, creando un tourbillon di situazioni che riveleranno il marcio nascosto nell'animo di tutti i coinvolti, anche quelli in apparenza più irreprensibili. Chi è senza colpa è, come al solito, un titolo italiano imbecille oltre ogni dire perché, al massimo, avrebbe potuto assecondare sia l'ambiguità della trama sia l'aria vagamente bigotta che si respira all'interno di alcune sequenze con un "Chi è senza peccato", richiamando alla mente dello spettatore la famosa citazione evangelica, invece così abbiamo l'ennesimo titolo loffio che poco invoglia ad andare in sala a guardare il film di Roskam. Ed è un peccato perché The Drop è un cupo dramma di stampo classico, popolato da personaggi incapaci di venire a patti con il loro passato, i loro fallimenti e i loro rimpianti, che brancolano goffamente nel tentativo di dare un senso alla propria vita e andare oltre la solitudine e le etichette che si sono affibbiati da soli.


La regia di Michaël R. Roskam, al suo primo film anglofono, non è particolarmente esaltante e rischia di appiattire un po' l'opera in generale ma The Drop è comunque meritevole di una visione sia per la trama interessante che per gli attori coinvolti, che donano spessore a personaggi già comunque ben caratterizzati. Ammetto che, guardando il film, mi è salito un magone gigantesco a vedere Gandolfini recitare con la consueta ed umile professionalità in un ruolo sicuramente non fondamentale per la sua carriera ma riuscendo comunque a dare vita ad un personaggio più complesso di quello che appare; il grande James era una garanzia e l'idea che non potrà più partecipare a nessun altro film è fonte di immensa tristezza. Molto ma molto bravo anche Tom Hardy, attore con cui solitamente non ho un gran feeling, impegnato in un'interpretazione misurata e calibrata al millimetro, alle prese con un protagonista che all'inizio non colpisce e fatica a conquistarsi la totale attenzione dello spettatore ma che, andando avanti, diventa sempre più convincente ed interessante. Stranamente, l'unica a non avermi convinta appieno è Noomi Rapace, non tanto per la sua performance quanto per la fondamentale irrazionalità della sua Nadia; ovviamente non posso fare spoiler ma diciamo che la sceneggiatura qui perde qualche colpo, presentandoci prima una ragazza giustamente insicura e diffidente, poi una pazza che addirittura chiede lavoro ad un tizio che conosce da due giorni, infine una sconvolta che accetta di sorvolare sull'evento più brutale a cui abbia mai testimoniato. Il tutto nel giro di un paio di mesi a giudicare da come cresce il cagnolino. Detto questo, The Drop è comunque un bel film che consiglio in particolare a chi ama un tipo di cinema "attoriale" e ha nostalgia dei bei tempi in cui De Niro regalava allo spettatore dei personaggi duri e pericolosi ma anche incredibilmente fragili. E, ovviamente, a tutti quelli che, come me, già sentono la mancanza di James Gandolfini.


Di Tom Hardy (Bob), Noomi Rapace (Nadia) e James Gandolfini (cugino Marv) ho già parlato ai rispettivi link.

Michaël R. Roskam è il regista della pellicola. Belga, è al suo secondo lungometraggio. Anche sceneggiatore e attore, ha 43 anni.


Se Chi è senza colpa vi fosse piaciuto recuperate il meraviglioso Mystic River, sempre sceneggiato da Dennis Lehane. ENJOY!

mercoledì 22 agosto 2012

Il Cavaliere oscuro - Il ritorno (2012)

Ieri sera sono andata con un paio di amici a vedere l’anteprima de Il Cavaliere oscuro – Il ritorno (The Dark Knight Rises), attesissimo capitolo finale della trilogia di Christopher Nolan. La recensione che segue, per rispetto di chi attenderà l’uscita ufficiale per andarlo a vedere, è rigorosamente spoiler free.


Trama: alla fine de Il cavaliere oscuro Batman era stato dichiarato nemico pubblico di Gotham City mentre Harvey Dent, alias Due Facce, era stato praticamente fatto santo. A seguito di questo, Bruce Wayne si è ritirato in una sorta di clausura e la città sta attraversando un periodo di pace che dura da otto anni, ma ci penserà il terrorista Bane a cambiare lo status quo…


Non mi vergogno a dire che i primi due Batman diretti da Nolan mi avevano lasciata come mi avevano trovata. Del primo non ricordo praticamente nulla, mentre il secondo, osannatissimo capitolo mi aveva abbattuta per la noia, salvo per le sporadiche apparizioni di Heath Ledger nei panni di Joker. Ero partita dunque con le peggiori aspettative riguardo questo Il cavaliere oscuro – Il ritorno… invece, e per fortuna, mi sono unita agli applausi a scena aperta che sono scattati automatici alla fine della pellicola. Per la prima volta, infatti, mi è parso che regista e sceneggiatori si siano impegnati a raccontare una storia di Batman, senza limitarsi a girare delle specie di pesantissimi action con un tizio in tenuta da pipistrello e perennemente complessato: qui c’è sì la disperazione, c’è la rinuncia, c’è finalmente un cattivo con le palle in grado di costituire una vera minaccia, sia fisica che psicologica, per l’uomo pipistrello e per Gotham, c’è la consapevolezza che Bruce Wayne è solo un uomo privo di superpoteri costretto ad affrontare problemi più grandi di lui, c'è un riferimento neppure troppo velato alla crisi mondiale e all'incredibile disparità tra troppo ricchi e troppo poveri… e ci sono, soprattutto, dei comprimari della madonna.


Non vado troppo nel dettaglio per non rovinare la sorpresa a chi non ha ancora visto la pellicola, ma ho sempre pensato che il bello di Batman non fosse il protagonista in sé, quanto la varietà di personaggi che ne popolano l’universo. In questo caso, Christian Bale, per quanto bravissimo e in parte, potrebbe tranquillamente non comparire mai all’interno della pellicola, perché bastano gli altri protagonisti a formare da soli un film praticamente perfetto. Michael Caine e Gary Oldman sono assolutamente inarrivabili, soprattutto il primo regala degli incredibili momenti di umorismo british e pura commozione; il nuovo villain Bane mette ansia ad ogni apparizione, è di una spietatezza senza confini ed è un piacere vederlo mettere in atto i suoi folli progetti (l’unico neo è la sua orrenda voce metallica, inascoltabile come quella di Batman: durante il confronto tra i due mancava solo la vocetta posticcia dell'Enigmista che invitava entrambi a fare un gioco con lui, poi eravamo davvero a posto…); Anne Hathaway è, inaspettatamente, una Selina perfetta, nelle movenze, nel costume e nelle motivazioni del personaggio, quasi affascinante come Michelle Pfeiffer; Joseph Gordon – Levitt è la scelta vincente per un protagonista fondamentale che viene “svelato” con intelligenza e senza troppi sensazionalismi, tenendolo quasi nell’ombra per tutta la durata della pellicola ed approfondendone al meglio le motivazioni; infine, Marion Cotillard è la raffinatezza fatta a persona, e cos’altro si può dire ad un’attrice simile? Al solito, purtroppo, il Fox di Morgan Freeman non mi ha fatto né caldo né freddo, trovo che sia un personaggio simpatico e utile in senso pratico, ma per il resto tranquillamente sacrificabile. 


Per quanto riguarda l’aspetto tecnico della pellicola, anche i primi due capitoli rasentavano la perfezione, e Il cavaliere oscuro – Il ritorno non fa eccezione. La scena iniziale è mozzafiato, da pelle d’oca, così come l’attacco definitivo di Bane alla città di Gotham, punto focale del film (apro una parentesi sulla colonna sonora, bellissima, ma tante volte è molto più emozionante e carica di valore la delicata voce di un bambino che canta l'inno nazionale al momento giusto per far rimanere a bocca aperta...), inoltre i mezzi tecnologici dell’uomo pipistrello sono forse ancora più impressionanti delle altre volte e consentono sicuramente la realizzazione di efficacissime sequenze dove inseguimenti, sparatorie ed esplosioni la fanno da padrone. Sensazionali le scenografie: personalmente, ho amato molto l’immagine del tribunale “temporaneo” di Gotham City (e dovreste vedere il giudice che lo presiede…!), emblema di un caos mascherato da legge, e sono molto suggestivi anche il rifugio del villain e la prigione sotterranea nel bel mezzo del deserto. Non mi hanno fatta impazzire i costumi invece, con Bane che sembra uno zamarro appena caduto dall’aereo de I mercenari e con le solite, impersonalissime tutine che avvolgono le chiappe di Catwoman e Batman, né ho apprezzato i combattimenti tra protagonista e villain, lenti e rozzi incontri di pugilato tra monoliti di marmo. Ma a parte questi ultimi, trascurabili dettagli, è bello vedere come Nolan sia riuscito a tirare con maestria le fila del complesso discorso cominciato ormai sette anni fa, dando alla saga una degna e logica conclusione, che non lascia assolutamente l’amaro in bocca né una sensazione di incompletezza, come spesso accade in questi casi. Personalmente, confido che la cosa finisca qui e che non vengano fatti altri seguiti o reboot che saprebbero di fasullo lontano un miglio. Intanto, mi preparo a recuperare l’intera trilogia in DVD, chissà che il tempo non mi consenta di essere più indulgente con i primi due film e di dichiararli bellissimi come questo Il cavaliere oscuro – Il ritorno.


Del regista e cosceneggiatore Christopher Nolan ho già parlato qui. Di Christian Bale (Batman/Bruce Wayne),  Gary Oldman (Jim Gordon), Tom Hardy (Bane), Joseph Gordon – Levitt (Blake, ruolo per il quale erano stati considerati anche Leonardo Di Caprio, Ryan Gosling e Mark Ruffalo), Anne Hathaway (Selina, ruolo per cui erano "arrivate in finale" anche Keira Knightley e Jessica Biel), Marion Cotillard (Miranda), Morgan Freeman (Fox), Michael Caine (Alfred), Cillian Murphy (Jonathan Crane/Scarecrow), Liam Neeson (Ra's Al Ghul) e Nestor Carbonell (il sindaco), ho già parlato nei rispettivi link.

Matthew Modine interpreta Foley. Americano, lo ricordo per film come Full Metal Jacket (era il soldato Joker), America oggi, Corsari, Notting Hill, Ogni maledetta domenica, inoltre ha partecipato alla serie Weeds. Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 53 anni e due film in uscita.


Inutile dirlo, se il film vi è piaciuto vi consiglio il recupero di Batman Begins e di Il Cavaliere oscuro, oltre ovviamente a Batman e Batman Returns di Tim Burton. ENJOY!!



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