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giovedì 10 luglio 2025

Recensione: Donnaregina, di Teresa Ciabatti

|Donnaregina, di Teresa Ciabatti. Mondadori, € 19, pp. 228 |

Chi è Giuseppe Misso, detto 'O Nasone? Ex camorrista, ha quasi ottant'anni e vive in una località segreta, lontano dalla sua amata Napoli. Carismatico, colto, bugiardo, descrive al “Corriere della Sera” un'esistenza dai toni picareschi, fatta di lussi sfacciati (gli orologi costosi e le Jaguar), hobby peculiari (l'allevamento di colombi) e relazioni improbabili (la presunta parentela con Leonardo DiCaprio; l'antagonismo con Lovigino, amico divenuto rivale; gli amori per Antonietta, Adele, Teresa, da cui sono nati due figli). Ormai invecchiato, si racconta all'alter-ego di Teresa Ciabatti.

Uno non ci pensa mai che i cattivi hanno una normalità, e a forza di pensarli lontani, a forza di relegarli in una dimensione remota, oltre a semplificare, proteggiamo noi stessi, credo.

Cos'hanno in comune un superboss e una scrittrice al centro di una dolorosa crisi familiare e creativa? La narratrice ne sa poco di cronaca, e soprattutto non è napoletana. Più interessata a raccontare l'uomo che il mostro, più concentrata sul privato che sui delitti, instaura con Misso un dialogo tenero e peculiare — è presente perfino all'ultimo matrimonio di lui, intrappolata in un discutibile tailleur arancione. Intanto, però, è costretta a fare i conti con le resistenze dell'editore, con un gemello litigioso e una migliore amica morente, ma soprattutto con Camilla: la figlia tredicenne, nella quale scorge il riverbero delle sofferenza di Bruna, la primogenita transgender di Misso.

Chiunque è un'invenzione di qualcun altro.

Come mai ho letto Donnaregina, lettura a metà tra l'inchiesta e l'autofiction, io che solitamente prediligo la narrativa? Merito della voce di Ciabatti. Empatica ed egocentrica, sprezzante e fragilissima — un'autrice, insomma, che c'entra tutto e niente con le doglianze del camorrista che si credeva Robin Hood. Benché sia lei stessa intrusa nel rione Sanità, mi ha condotto tra i vicoli e le contraddizioni di una storia che esce spesso fuori traccia e proprio per questo risulta irresistibile. Tra lunghi audio su WhatsApp e appuntamenti alla Rinascente, Misso tenta di soggiogare la protagonista per veicolarne le opinioni. Ma, in un lungo braccio di ferro, è lei a imporre la sua personale versione dei fatti — umana e incoerente, surreale a tratti, ma assolutamente vincente. È più temibile fronteggiare un criminale, d'altronde, o convivere con una figlia iscritta in seconda media? Il mistero dell'adolescenza: più impenetrabile della camorra.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Nada – Amore Disperato

giovedì 13 giugno 2024

Recensione: Triste tigre, di Neige Sinno

| Triste tigre, di Neige Sinno. Neri Pozza, € 18, pp. 240 |

C'era una volta una bambina con il nome di una principessa delle fiabe. Prima di quattro figli, Neige vive un'infanzia avventurosa in una famiglia di alpinisti un po' hippy. La sua innocenza finisce a sette anni: il nuovo marito della madre, un giovane uomo vigoroso e imprevedibile, comincia ad abusare ripetutamente di lei. Neige lo denuncerà soltanto negli anni dell'università: troppo grande la paura che una parola senza ritorno, “stupro”, possa sconvolgere l'idillio. Costretta al silenzio, allevata nella menzogna, rifiuta la psicoterapia e la saggistica: si rifugia in un'appassionata vita interiore; nei mondi della narrativa. Triste tigre, autobiografia di un abuso, è la storia di una bambina che non c'è più. Agghiacciante ma illuminato da una scrittura di radiosa bellezza, vario e metaletterario, il testo vincitore del Premio Strega Europeo affronta un argomento scabroso da innumerevoli prospettive. Abilissima nel dire l'indicibile, l'autrice rinuncia a qualsivoglia pietismo e indaga con audacia, ferocia e lirismo l'intimità improvvisa fra padri e figli, vittime e carnefici; le zone di grigio in cui si impantanano i pensieri intrusivi, la malagiustizia, l'ironia del destino.

Ho una vita interiore. Una grande, un'infinita vita segreta e interiore e totalmente mia. Ricordo me da piccola, mentre mi dico che, con quello che vivevo, avrei potuto essere rinchiusa dentro una cassa per anni e riuscire comunque a vivere all'interno dei miei pensieri. Io posso vivere qualsiasi cosa e riuscire comunque a prendere un momento per me, a portarmi a passeggio nel mio mondo, quello di dentro.

È più facile ammettere di essere state vittime di un tiranno o di un patetico uomo medio? Ha senso parlare di consenso o piacere, quando a essere oggetto di attenzioni è un bambino? È possibile mettersi nei panni del nostro aguzzino? Sinno, contraria alle narrazioni che umanizzano gli stupratori e rendono astratti i dolori delle vittime, si muove tra attrazione e repulsione in un regno di tenebre: legge avidamente Nabokov; ama uomini di trent'anni più grandi e il sesso orale; accarezza sua figlia e pensa, per una frazione di secondo, a quanto sarebbe semplice lasciare scivolare poco più giù la mano. Tigre e agnello, citando Blake, condividono il medesimo creatore. Chi, potendo scegliere, non si preferirebbe predatore? Neige Sinno è una scrittrice di razza: non una vittima che scrive libri. Offesa dai personaggi letterari sublimati dal sacrificio, rivendica in queste pagine la sua unicità: il diritto di essere vittima. L'autofiction, così, diventa una scelta etica ed estetica che potrebbe spiazzare lettori abituati a narrazioni, e dolori, più lineari. Equilibrista sull'abisso, Sinno veste una camicia di ortica e, a dispetto delle vertigini, non cade mai. Non per questo, però, è incolume. La letteratura non ti salva dal passato: nulla lo fa. Ma può rievocare, oltre al buio viscoso di uno scantinato, la libertà della pioggia in estate. È allora, in un tempo sorprendente perché ciclico, che la nostra piccola principessa può inseguire lucertole e bagnarsi, libera, sotto un acquazzone che lavi via l'afa. E il sangue.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tracy Chapman - Behind the Wall

lunedì 6 novembre 2023

Recensione: Le schegge, di Bret Easton Ellis

| Le schegge, di Bret Easton Ellis. Einaudi, € 23, pp. 752 |

Un telefono a disco squilla nel salotto di una villa con piscina. Scatta la segreteria. Dall'altra parte, qualcuno sospira. Il suo silenzio vibra di minacce. Lo hanno preceduto effrazioni, regali misteriosi, animali domestici sottratti. L'obiettivo finale sono i giovani padroni di casa. Il serial killer, soprannominato Il Pescatore a strascico, comporrà un mostruoso patchwork con i corpi smembrati. L'inizio è degno di uno slasher di Wes Craven. Il prosieguo, a metà tra teen drama e satira sociale, è un'indagine antropologica della “peggio gioventù” di Los Angeles. Correvano gli anni Ottanta. Una volta ottenuta la patente, gli adolescenti sgommavano lontani dai rigidi regolamenti delle loro scuole private e dai confini sicuri dell'infanzia. Meta: la perdizione. Quelli cantati nel girone dei dannati di Bret Easton Ellis sembrano sbucati da un dipinto di David Hockney. Dediti a edonismo e oppiacei, belli e ricchissimi, appaiono disinteressati a tutto. Non li sfiorano le nozze di Carlo e Diana, l'omicidio di John Lennon, la setta dei Cavalieri dell'oltretomba, le avance sessuali degli adulti. A turbarli, piuttosto, è l'arrivo di Robert Mallory. Chi cambierebbe mai scuola l'ultimo anno di liceo? Da dove viene quell'adone al contempo sensuale e candido, che minaccia di far scoppiare coppie storiche – Susan e Thom, il re e la reginetta della Buckley –, ma cela un passato di disturbi mentali?

Molti anni fa mi resi conto che un libro, un romanzo, è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s'innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c'è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso – in cui qualcuno probabilmente si farà male.

Da sopra gli occhiali da sole lo studia lo stesso Ellis; gli occhi appannati per la brama e il Valium. Segretamente omosessuale, benché fidanzato con la figlia di un famoso produttore cinematografico, l'autore sperimenta una dolorosa attrazione verso l'ultimo arrivato in città. E ne fa, presto, la sua ossessione. Il trasferimento di Robert coinciderà con un'ondata di follia lunga l'intero anno scolastico. È realmente lui il responsabile della rete di delitti che si stringe sempre più intorno agli amici di Bret? O la sua colpa più imperdonabile è quella di aver infranto il sogno di illusoria perfezione dei protagonisti, ponendo freno a un'estate creduta, a torto, senza fine? Tutti hanno un segreto. Tutti stalkerizzano tutti. In settecento pagine, a momenti alterni, tutti saranno vittime e carnefici; intrusi e perseguitati. A quarant'anni di distanza dai tragici eventi del 1981, l'autore sfida il disturbo post-traumatico da stress e sfoglia a ritroso un annuario dalla nutrita sezione in memoriam. Questa è una storia vera. O quasi.

Voi tutti non fate altro che proteggervi a vicenda. Da cosa? Dalla realtà.

Irresistibile nella sua inattendibilità, Ellis è ammicca furbamente ai temi caldi dei social: la retromania, l'autofiction, il true crime, il queerbaiting. Prende i tormentoni contemporanei e, all'apparenza, li sconsacra. Ma, a dispetto del cinismo diffuso – la dedica del romanzo recita proprio: A nessuno –, ci restituisce la rievocazione più verosimile e accorata di una generazione, di un mondo, a un passo dall'annientamento. Le schegge è un elettrizzante incubo vestito Ralph Lauren in cui il sangue e lo sperma, le paranoie e le prurigini occultano la nostalgia per un inconfessato primo amore. Lettore e cinefilo instancabile, il giovane Bret guardava il mondo con il voyeurismo compulsivo tipico degli scrittori. La sua futura professione lo rendeva attento già allora. Lo rendeva già bugiardo. Fermo al tempo dei suoi sconsiderati sedici anni, firma un thriller tanto spaventoso quanto eccitante – di quelli da leggere con la luce accesa, e con un'erezione prepotente nei boxer. Ma anche un sorprendente amarcord sull'impossibilità di risolvere il giallo di Robert Mallory, quando si è ancora intimamente irrisolti come adulti. Cosa resterà di quegli anni Ottanta? La voglia di vivere, amplificata a dismisura dalla paura di morire. Le schegge di un trip stupefacente, da cui sarà amaro svegliarsi soltanto per poi scoprirsi casti, invecchiati, sobri.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Ultravox – Vienna

mercoledì 7 dicembre 2022

Recensione: Tasmania, di Paolo Giordano

| Tasmania, di Paolo Giordano. Einaudi, € 19,50, pp. 258 |

Ai miei studenti, nell'ora di epica e mitologia, ho rivolto una domanda: cosa portereste con voi in caso di giudizio universale? A casa, qualche giorno dopo, correggendo a penna rossa i loro temi, mi sono trovato a sorridere della banalità di alcune risposte: cellulari, trucchi, profumi... Forse, però, sorridevo soltanto di me stesso. Cosa avrei scritto al posto loro? Cosa mi affannerei a salvare? Cambierei forse hobby e priorità in prossimità dell'apocalisse? La fine del mondo è già qui, ci rivela l'ultimo libro di Paolo Giordano. Tasmania, a metà tra il saggio e l'autofiction, è un decalogo minuzioso del peggio che ci è capitato in questi folli anni: gli attentati terroristici, il Covid-19, il riscaldamento climatico, gli scandali sessuali. Il narratore, presumibilmente lo stesso Giordano, è un uomo di scienza prestato alla letteratura.

Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere.

Ha compiuto da poco quarant'anni, è in crisi esistenziale e, in un pianeta in crisi, fa ricerche su ricerche per il suo prossimo successo: un libro sulla bomba atomica. Esorcizza la paura con la paura. Con un software online simula l'esplosione di un ordigno sul tetto della propria casa e fa una conta approssimativa dei danni. Sempre online, non visto, cerca video di decapitazioni. Nell'altra stanza c'è Lorenza, la compagna di qualche anno più grande, già madre di un adolescente in partenza per gli Stati Uniti, che vorrebbe un altro figlio prima dell'arrivo della menopausa. E altrove, sparsi in giro per il mondo, ci sono amici e conoscenti che si innamorano, si tradiscono, flirtano, sabotano la loro carriera per una parola di troppo, premettono il sesso alla vocazione, si prendono, si mollano e infine si ripigliano.

Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere?

Viviamo, smarriti, in un tempo pre-traumatico. Patiamo l'ansia sociale, la sindrome di Cassandra, i notiziari. Siamo spacciati. Allora perché, come i miei studenti – superficiali o forse soltanto pragmatici –, continuiamo a badare al superfluo? Perché, come Paolo e i suoi amici accademici, nutriamo quest'insensata ossessione per il futuro? Perché la vita, nonostante tutto? Di recente anche al cinema con il bel Siccità, di cui è stato sceneggiatore accanto a Paolo Virzì, l'autore piemontese continua il suo viaggio fra le ansie della nostra generazione. Ne viene fuori una lettura dal taglio divulgativo, all'apparenza distante da quelle che solitamente preferisco intraprendere, ma capace di toccare corde tutte sue – e tutte nostre. In caso di giudizio universale, mi porterei dietro beni di prima necessità e un libro così: un manualetto dotto, poetico e autoironico, sull'arte del reinventarsi e sul vizio della speranza. È possibile trovare scampo dal presente, dagli altri esseri umani, dalle responsabili della vita adulta? Giordano ci fornisce indicazioni preziose sulle vie di fuga. I più ricchi si stanno già procurando stanze antipanico superaccessoriate e navicelle spaziali. A noi non restano che le coordinate per raggiungere la Tasmania, novella terra dell'oro in cui Nick Cave ospitò il suo primo concerto all'indomani della straziante perdita del figlio. E gli abbracci spaccaossa delle persone che amiamo: che sono bunker antiaerei; che son casa.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Levante – Andrà tutto bene

venerdì 15 aprile 2022

Recensione: Qualcosa nella nebbia, di Roberto Camurri

| Qualcosa nella nebbia, di Roberto Camurri. NN Editore, € 17, pp. 170 |

Torno di nuovo a Fabbrico, fra le pagine del terzo romanzo di Roberto Camurri. A sorpresa scopro la città profondamente cambiata. Lo scenario quieto e riposante dell'esordio è stato smarginato dalla foschia. L'arrivo della sera, ora, getta ombre lunghe su luoghi un tempo rassicuranti; le montagne intorno, incombenti, generano un senso di claustrofobia; le porte dei fienili, murate, raccontano storie di morte e sopraffazione. Vuota e spettrale, sviluppatasi all'ombra di un pastificio invaso dai topi, Fabbrico funge da scenario per un gioco metanarrativo tanto torbido quanto affascinante, pieno di sesso e disagio.

Scrivevo e mai mi sarei fermato. Ero in preda a qualcosa di mistico, sconosciuto. Non avevo sentito la campanella suonare, la maestra alzarsi, il rumore delle sedie trascinate sul pavimento per allontanarsi dai banchi, il vociare tipico della fine delle lezioni. Non avevo visto la maestra avvicinarsi, le sue dita prendere il foglio. Qualcosa era scattato, irrazionale. Mi ero alzato dal banco, con le lacrime e il fiato corto, la pelle rossa, gli occhi spalancati, mi ero gettato addosso a quella supplente, le avevo strappato il foglio di mano, lo avevo stretto a me, non volevo lasciarlo andare. Era la cosa più bella del mondo, inventare e raccontare una storia.

Alla maniera dell'ultimo Donaera, Camurri abbandona l'intimismo dei suoi lavori precedenti per un intreccio a metà tra l'autofiction e l'horror. Qualcosa nella nebbia parla di uno scrittore di successo di nome Roberto, marito e padre di famiglia, che lavora a tempo pieno con i matti e ogni tanto, vittima di pensieri meschini, perde le staffe. Ma questa, no, non è un'autobiografia. Benché abbia ambientato laggiù tutti i suoi romanzi, il protagonista non ha mai messo piede in quel di Fabbrico: o così crede. Perseguitato dal richiamo dell'anonima cittadina di provincia – braccato, ispirato, condannato –, vi sembra legato da un misterioso patto mefistofelico. Impegnato in un tour in Olanda e alle prese con la stesura di un nuovo libro, sarà costretto ad affrontare i propri demoni per non perdere il filo della storia più importante: quella della sua vita.

Avevo racchiuso delle vite in una gabbia di vetro, l'avevo chiamata Fabbrico, l'avevo esposta nuda e fragile sotto gli occhi di tutti. Ero arrabbiato con loro perché avevo creduto alle loro parole, ero sicuro sarebbero bastate, non era così. Il buco tra lo stomaco e lo sterno si faceva di nuovo sentire, era ancora lì, c'era sempre stato. Non era la scrittura a riempirlo. Non erano gli applausi, il successo. Ero sconvolto, pensavo di essergli sfuggito.

Come se avessero vita propria, intanto, i personaggi di cui scrive vendono l'anima alla pulsioni peggiori. In questo spietato romanzo nel romanzo leggiamo così di Alice, soubrette ritornata all'ovile affamata di sadomasochismo; di Andrea, detto Jack, che annega i propri traumi infantili nel whisky; di Giuseppe, pazzo di Alice, che qualche volta si intrattiene a conversare con il fantasma del padre suicida. Sarebbe imperdonabile raccontarvi altro. All'apparenza confuso, Qualcosa nella nebbia è in realtà un loop pirandelliano abitato da personaggi legati dal filo di medesimo dolore e sciolti, infine, dall'incantesimo di una fattucchiera impermeabile alla pioggia. La costruzione della propria identità, nel coraggiosissimo Camurri, è una questione collettiva. E per mettere un punto alla seconda storia, in questo complesso sistema di scatole cinesi, è necessario prima assicurare una degna conclusione alla prima. Mi aspettavo una passeggiata nella Holt di Kent Haruf: ho trovato ad attendermi al barco, con un brivido di piacere, la Derry di Stephen King.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Promise - Silent Hill's Theme 

mercoledì 2 febbraio 2022

Recensione: Niente di vero, di Veronica Raimo

| Niente di vero, di Veronica Raimo. Einaudi, € 18, pp. 163 |

Ci sono copertine, buffe e dolenti, che sembrano raccontare di per sé una storia. Quella di Niente di vero, in libreria dal 1° febbraio, sfoggia una smorfia irresistibile. Cosa increspa il viso della ragazza in primo piano: una risata incipiente, un dolore soffocato oppure un sentimento sfuggente, a metà tra la pazza gioia e lo struggimento? Perfetta sintesi delle contraddizioni di Veronica Raimo, questa fotografia in bianco e nero è il lasciapassare per il mondo segreto dell'autrice: una donna cresciuta in una famiglia non più disfunzionale di tante altre, che qui racconta a cuore aperto un lutto (mai elaborato), la maternità (indesiderata), il sesso (una scoperta sconcertante), l'editoria (una favola a cui prestare scarsa fede).

Possono toglierci tutto tranne i ricordi, si dice. Ma chi mai sarebbe interessato a questa espropriazione? La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo. La memoria per me è come il gioco dei dadi che facevo da piccola, si tratta solo di decidere se sia inutile o truccato.

Romanziera, sceneggiatrice e traduttrice, non sognava di fare la scrittrice: da bambina voleva diventare una rockstar. Peccato che non abbia mai imparato a leggere l'orologio analogico, ad andare in bicicletta, a nuotare: figurarsi, dunque, a suonare il basso. Tutta colpa della pigrizia, che sin dall'adolescenza ha trasformato in fugaci pensieri astratti qualsiasi speranza di fuga. Tutta colpa della famiglia, che ha educato lei e il fratello Christian – a sua volta scrittore – all'hobby della noia. Cresciuta in un appartamento romano mutevole quanto una scenografia teatrale, senza privacy né bidet, Veronica si allontana presto dal nido, ma non c'è città abbastanza remota per sfuggire alle telefonate di mamma Francesca: una vedova pressante e un po' offensiva, strenuamente legata ai ricordi idealizzati del marito defunto, di cui cito en passant le ipocondrie legate al disastro di Cernobyl' e il pallino per lo scatolame. Veronica soffre d'insonnia. Veronica soffre di stitichezza. Veronica ha il seno piccolo, ma tutti le regalano reggiseni. Veronica non vuole bambini, ma tutti le rifilano anzitempo tutine per neonati. Tagliata fuori dal mondo degli adulti responsabili, proprio come da bambina le succedeva con i passatempi dei coetanei, firma il suo personale romanzo di formazione a quarantaquattro anni. D'altra parte, c'è forse una scadenza?

Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall'alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi.

Brutale senza risultare respingente, brilla per la nonchalance con cui ricorre al turpiloquio e per la leggerezza con cui riduce le tragedie in freddure. Accusata da un anonimo collega di essere una narratrice troppo algida, si reinventa grazie a questo spassoso flusso di coscienza in grado ora di intenerire, ora di amareggiare. Dimenticate la prosa intricata e oscura di Ciabatti: quando si racconta, benché senza un filo logico, Raimo è una boccata d'aria fresca. Un'amica scherzosa e linguacciuta che elenca il male di cui è stata capace – atti mancati, bugie, sbagli, lacune – inconsapevole del bene ispirato, nel frattempo, nell'interlocutore. Perennemente inadeguata, preferisce farsi fotografare di spalle e, alla maniera dei camaleonti, cambia colori per non farsi riconoscere nemmeno dai parenti. Ma nella sua voce, bella anche se tormentata, risuona la pace di chi è venuto a patti con sé stesso. Una storia è un concetto ambiguo, dice a un certo punto uno dei personaggi secondari. Ambigua lo è soprattutto questa – piena zeppa di ricordi falsificati, di finali alternativi e abbellimenti di sorta, di amanti immaginari. La nostra memoria è un quadro contraffatto, un gioco truccato. La vita, dunque, non è che una bugia che raccontiamo a beneficio del prossimo. Troveremo, prima o poi, il coraggio di diventare le persone che fingiamo di essere agli occhi altrui?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: La rappresentante di Lista - Resistere

sabato 12 settembre 2020

Recensione: Il grande me, di Anna Giurickovic Dato

Il grande me, di Anna Giurickovic Dato. Fazi, € 18, pp. 220 |

In un esordio dagli echi nabokoviani aveva raccontato l’ignominia di un padre che amava troppo la figlia femmina. Questa volta Anna Giurickovic Dato, classe 1989, sceglie la tenerezza per raccontare invece una storia dai ruoli invertiti: è una figlia ad amare troppo il suo papà, al punto da volerlo proteggere con candide bugie e mille cerimonie dalla realtà dei fatti. Il genitore va consumandosi come lo stoppino di una candela, presto si spegnerà. È cancro al pancreas, il peggiore. Ci sono metastasi dappertutto. Non si sfugge. 
Tra Catania, Roma e Milano, la famiglia Capace – a pezzi, ma disposta a rinsaldarsi nel nome del padre e di un bene maggiore – si riunisce al capezzale. Si è mai pronti a morire? Si è mai preparati a diventare orfani? Mossa da un viscerale senso del dovere, la giovane Carla torna a casa: si unisce ai fratelli, rinuncia alle feste in compagnia, rinuncia a sé stessa. Mentre il primogenito sembra essersi trasformato nell’epigono del padre, in quanto a stazza fisica e saggezza, e l’ultimogenita ricerca cure impossibili affidandosi alla medicina alternativa, la figlia di mezzo s’interroga su quale sarà la propria missione. Magari venire a capo di un rebus familiare confessato in pieno delirio?

È un ridere a metà, uno stare insieme a metà, separati da una morte che è già seduta tra di noi e la sentiamo. Fate presto, ci dice, vi ho lasciato il tempo giusto per conoscervi, scambiatevi le ultime parole; voi figli imparate da lui tutto ciò che ha da insegnarvi, prendete appunti, registrate ogni momento, così poi potrete moltiplicarlo, non siate tristi, non ce n’è il tempo, condividete le vostre ultime risa, accarezzatevi, toccatevi perché non vi siete mai toccati, allontanate la timidezza, l’imbarazzo non c’entra con questi ultimi mesi, questo periodo è la cerniera delle vostre vite, apritela con delicatezza, lasciate che i vostri lembi si separino come ci si separa da un abito pesante tra l’inverno e la primavera, raccogliete tutto di vostro padre, così potrete contenerlo.
Il grande me è la cronaca di una morte annunciata. È un piccolo giallo irrisolto. È una raccolta di aneddoti dove il signor Simone – teatrale, egocentrico, brillante, volitivo – viene descritto ora come un musicista raffinato, ora come un fascinoso Omar Sharif, ora come un integerrimo politico di sinistra. La voce narrante ce lo ritrae con la tipica vanteria tipica delle mamme chiocce, benché a parlare sia la figlia. Ma Simone è stato forse così perfetto? Non ha mai covato rimpianti o delusioni? Nel dubbio, Carla finisce per mettersi da parte: sconosciuta perfino al lettore – fatta eccezione per un capitolo di grande erotismo dove rivela le contraddizioni di una sensualità folle e vendicativa –, si mostra in rari sprazzi e sempre in relazione alla tragedia. Nell’ultima parte, inevitabilmente, la malattia diventerà sempre più preponderante. Una primadonna crudele che non ammette diretti concorrenti. Una mantide religiosa che fagocita sia il corpo del povero Simone, sia una dimensione corale prima abbozzata e infine sacrificata.

Non è il mestiere dei figli essere padri.

Dopo un bestseller di risonanza internazionale, l’autrice catanese torna in libreria con un romanzo all’apparenza convenzionale ma in realtà ancora più struggente. Alcune emozioni non si possono simulare. Anna deve averle sperimentate tutte sulla propria pelle e intuisco quanto Il grande me, in realtà, sia la tappa di un’intima elaborazione che suscita nel lettore rispetto ed empatia immediati. Nonostante tutto, confesso qualche dubbio relativo alla struttura; alla presenza di un intreccio romanzesco superfluo che orna una storia già forte di per sé, perché in parte autobiografica. Impaziente, ho divorato pagine su pagine caratterizzate da uno stile poetico e solenne. E ho letto con ammirazione le apostrofi, le domande retoriche, le invocazioni e le preghiere, che rendono lo stile di Anna un moderno coro da tragedia greca. Cerebrale, difficile, implosiva più che esplosiva, questa sua seconda prova non convince totalmente per via della troppa carne al fuoco a fronte delle sole duecento pagine – abbiamo il segreto di Simone, le pulsioni autodistruttive di Carla, il logorante stillicidio del cancro –, ma riesce lì dove pareva impossibile. Ossia trovare parole per sfidare la «dislessia della morte»: e, senza sorprese, son parole bellissime.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Mia Martini – Gli uomini non cambiano


lunedì 31 agosto 2020

Recensione: Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli

|Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli. Mondadori, € 19, pp. 193 |

A volte la mia testa è un brutto posto dove soggiornare. Dentro, proprio sotto questa zazzera di capelli rossiccia sfuggita al mio controllo, sento una polveriera. Basterebbe una scintilla per scoppiare in mille pezzi. Materia cerebrale dappertutto, pugni chiusi, denti serrati. Le mezzelune delle lune impresse sulla pelle tenera dei palmi e la mascella che, a ogni risveglio, scricchiola puntualmente di malessere. Perché a volte anche il corpo fa male di conseguenza, sta male: quando mi dico che non è giornata – anzi, non è vita – e mi trovo a rimpiangere la stasi della quarantena, quegli arresti domiciliari che mi ero fatto stare comodi. Per telefono lo nascondo. Devo proteggere mia madre. Ma a me, invece, chi mi protegge? Nella speranza di stare meglio, ho letto nel buio della mia mente e in quella di Daniele Mencarelli. Per venire a capo di certi pensieri di rabbia e sconforto; per ridimensionarli, senza il bisogno di una diagnosi.

Magari lo spiego male, ma lì ho capito che la scrittura non è un gioco, ‘na noia come me l’avevano sempre insegnata, ho capito a che serve veramente e che è l’unico mezzo che può racconta’ quello che vedo, che m’esplode dentro.
Nel torrido giugno del 1994, anno della mia nascita nonché dei mondiali di calcio, l’autore  viene sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio. Gli amici sono all’oscuro di tutto. Per una settimana Daniele semplicemente sparisce, ricoverato in mezzo ai reietti. A differenza degli altri degenti, lui ha vent’anni, una famiglia comprensiva, il tempo e la speranza di una pronta guarigione. Ma esiste forse una cura alla malinconia di cui si ammala ogni autunno per poi fiorire nuovamente in primavera? Hanno parlato di bipolarismo, di disturbo borderline, di depressione. È colpa della serotonina, che pare che in lui scarseggi. Stanco di star male, Daniele – studente di Giurisprudenza in pausa dagli studi, che intanto installa climatizzatori – ha cercato soluzioni tanto nelle droghe pesanti quanto nella terapia, con mezzi illeciti e leciti. Tutto pur di riuscire ad accettare la vita così com’è: fragile e imprevedibile, talora ingiusta. Perché siamo nati per morire? Dotato del forte sentire tipico delle anime belle, tenero e disperato, cerca salvezza negli antidepressivi e nella poesia. Plateale sia nella disperazione che nella gioia, con il TSO scoprirà la ricchezza dell’ascolto e della condivisione. Fortemente provato nel momento del ricovero, a sorpresa, lo sarà ancora di più in quello delle dimissioni.

Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?
Mario è un maestro in pensione ghiotto di mele cotte, imbabolato a guardare gli uccellini alla finestra. Alessandro è un manovale in stato catatonico. Giorgio è un grande gigante gentile, con le braccia percorse dalle cicatrici dell’autolesionismo, che di notte desidera soltanto che qualcuno gli stringa la mano. Madonnina prega e se la fa nel pannolone. Gianluca, sboccato e a corto d’amore, è una ragazza prigioniera in un corpo maschile. 
Sono questi i compagni d’avventura di Daniele Mencarelli. Sono i buoni, quelli meno pericolosi. Dall’altra parte del corridoio, invece, si levano le urla strazianti dei casi gravi: fanno venir voglia di coprirsi anche col caldo, alla ricerca vana di protezione. Dietro le sbarre e durante i viavai estenuanti i protagonisti sognano un ghiacciolo, una relazione peccaminosa, una nave da crociera sulla quale esibirsi come star d’eccezione. Mentre i medici si appisolano vergognosamente o confondo un paziente con l’altro, tra i matti – per sfidare l’insonnia comune a tutti – si sviluppa un dolcissimo senso di fratellanza. Parlano la stessa lingua dell’autore. La libertà è con loro, o fuori da lì?

Io credo che gli artisti, come certi matti, abbiano dentro di sé il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. È la bellezza la scintilla di tutto. Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che ha cambiato tutto.
Il vincitore del premio Strega Giovani ribalta prigionia e libertà, malattia e sanità. I folli sono i veri saggi? Qual è il discrimine tra la malattia mentale e una personalità sopra le righe? Guarire, se si può, significa uniformarsi agli altri? Per gusto personale, avrei preferito una cronaca più asciutta e immediata, meno didascalica. A tratti, non che sia un difetto, mi è sembrata la tipica lettura che un insegnante di religione o filosofia assegnerebbe ai suoi studenti per le vacanze. Commovente, delicato e soprattutto mai pesante, proprio come mi si assicurava, allevia però gli animi con una galleria di personaggi variopinti e con la simpatia contagiosa dell’accento romanesco. Ventisei anni di distanza dagli avvenimenti rievocati, inoltre, hanno permesso alla scrittura di filtrare i disagi grandi e piccoli – il magna dell’inquietudine di Daniele – per farne poesia. 
Tutto chiede salvezza è stato il romanzo giusto nel mio momento sbagliato. E sì, me ne ha data di salvezza, insieme alla speranza che tutto passerà; che perfino questa frustrazione che provo un giorno potrà tornarmi utile. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – En e Xanax

giovedì 27 agosto 2020

Recensione in anteprima: Un uomo a pezzi, di Francesco Muzzopappa

| Un uomo a pezzi, di Francesco Muzzopappa. Fazi, € 15, pp. 142 |

Arriva oggi in libreria l’ultima fatica di Francesco Muzzopappa. Scoperto qualche anno fa e da allora frequentato assiduamente, è riuscito a farmi sorridere in giorni in cui per risollevarmi l’umore sarebbe servita una gru. Nel segno dell’immediatezza e della sincerità, scegliendo una dimensione più intimista del solito, questa volta lascia da parte gli intrecci romanzeschi per mettersi in ballo in prima persona. Il risultato è una lettura personale, leggera, scacciapensieri, che diverte senza mai scadere nel triviale grazie a sketch su sketch: a volte riuscitissimi, altre meno. È un Muzzopappa a pezzi, in pillole: anzi, a puntate, perché i racconti che compongono questo libro dalla copertina pastello somigliano un po’ agli episodi di una sit-com. Come vive un pugliese trapiantato a Milano, per di più nell’ambiente radical chic della pubblicità? Com’è la convivenza con Carmen, libraia “Biancaneve” con il malaugurato pallino del cibo salutare? Tutto diventa aneddoto.

Quando tutti i ragazzi della mia età cominciavano a prendere confidenza con gli indumenti intimi del sesso opposto, io facevo selezione musicale. Quella radio era scalcagnata: non era insonorizzata, non aveva il riscaldamento e quando mi capitava di parlare al microfono vedevo la condensa del mio fiato spalmarsi sul vetro che separava la sala speaker dalla sala regia. Quello, per me, era il senso stesso dell’amore: dedicare il tuo tempo migliore a chi fa di tutto per mostrarti solo i suoi difetti.
I mercatini dell’usato, le mailing list, i ristoranti a chilometro zero, i tagli di capelli, i concorsi pubblici, una gioventù oscura schiacciata nel guscio di un busto ortopedico. Alcuni racconti, di stampo decisamente social, mi hanno fatto pensare ai modi di Matteo Bussola: non li ho preferiti.
Un uomo a pezzi trova infatti la sua dimensione perfetta nella rievocazione di un’infanzia anni Ottanta; di un amarcord caratterizzato da bottiglie di sugo fatto in casa, primi sospiri appresso alle forme procaci della bella Lamù, incontenibile euforia davanti all’arrivo delle giostre assemblate in onore del Santo Patrono.

Sapevo che L’incantevole Creamy era, forse, irraggiungibile, ma non quanto Lamù. Lamù io non avrei mai potuto averla. Lamù era inarrivabile, letteralmente di un altro pianeta. Ma Creamy non era un ripiego, anzi. La amavo sul serio anche se lei non ne era, ovviamente, al corrente. In verità da piccolo ho avuto migliaia di ragazze, quasi tutte inconsapevoli del fatto che le amassi. Molte di loro erano vere, altre disegnate, ma a me non importava. Il sentimento, quando è forte e autentico, basta per entrambi. Che l’altra partecipasse non era richiesto, anzi, a volte mi avrebbe anche dato fastidio.
Ho un problema con l’autofiction. Anche in questo caso, perciò, ho finito per preferire comunque le prove narrative precedenti. Ma è stata una buona occasione per conoscere meglio Francesco: dopo quattro romanzi umoristici, non era forse arrivata l’ora di capire meglio l’uomo dietro il personaggio? Nato sotto il segno dello scorpione, bonario e di sanissimi principi, l’autore mi somiglia un bel po’ nel look – campiamo col peggio di Zara e H&M –, abitudini alimentari – caffè al mattino e abbondante olio di palma nel resto della giornata –, negli inattesi attimi di malinconia in cui il famigerato sarcasmo se ne va a dormire. Dice di tramare vendette sotterranee. Di nutrire tra sé e sé una certa perfidia. Ma a ben vedere è come le friselle della sua terra: sembra tutto d’un pezzo, ma non lo è. Questa lettura è l’equivalente di una chiacchierata informale. Prima o poi, speriamo di farcela di persona! 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Francesco Gabbani – Viceversa