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venerdì 3 dicembre 2021

Le serie sulla bocca di tutti: Strappare lungo i bordi | Maid | Scenes from a Marriage | The White Lotus | Only Murders in the Building

Zero, artista aspirante, maestro dell'inazione e degli amori inespressi, è un analfabeta sentimentale con un armadillo per grillo parlante e un biglietto per Brescia. Nel tempo libero si stordisce di seghe, plumcake e autocommiserazione. Dove sta andando accompagnato dagli amici di sempre, Sara e Secco? Per ingannare l'angoscia, durante questo viaggio della vita – e della morte –, darà avvio a un flusso di coscienza brillante, verboso, coloratissimo, capace di raccontare a suon di citazioni nerd il precariato, l'indecisione cronica, l'istruzione scolastica, le relazioni tossiche, gli aneddoti belli e quelli brutti. Già conosciuto attraverso la trasposizione di La profezia dell'armadillo, Zero mi ha fatto prima bene e poi male. Zero non mi piace. Zero mi somiglia così tanto da mettermi in imbarazzo. Alter-ego di un famoso fumettista romano, che questa volta scrive, dirige e doppia per Netflix, è la voce dolente di una generazione vicinissima alla mia tanto nella pazza gioia quanto nella disperazione. Perché essere giovani, oggi, significa sentirsi degli eterni fogli accartocciati. Non abbiamo linee tratteggiate da seguire, né forbici per realizzare un bel lavoro di precisione. Strappiamo alla cazzo di cane, e ci strappiamo. Siamo stracci, coriandoli. Siamo tagli. Nel ricordarcelo, nichilista con ironia, Zerocalcare firma una delle migliori novità dell'anno corrente. (8)

In fuga da una relazione tossica insieme alla figlioletta, Alex sbarca il lunario come domestica. Pulisce le case dei ricchi, e ne carpisce le storie, i segreti, le felicità apparenti. Alex smacchia, sgrassa e lucida in silenzio. Ma a dispetto degli sforzi titanici non riesce a cancellare i dolori della propria famiglia disastrata, composta da una madre bipolare, un padre assente e un partner tenero ma imprevedibile negli sbalzi d'umore. Attraverso i viavai giornalieri della protagonista, questa miniserie – ispirata a una storia vera – racconta con sguardo partecipe i figli di un Dio minore. Quelli dei sussidi statali, delle case-famiglia, del buoni pasti: i novelli miserabili. Prodotta dagli autori di Shameless e Promising Young Woman, Maid descrive in maniera simile il disagio sociale e la solidarietà femminile senza però mai propendere per il grottesco. Realistica, introspettiva, ma all'occorrenza sognante, è un'ordinaria storia d'ispirazione e coraggio sorretta da un cast straordinario. Benché stupisca il Nick Robinson dell'adolescenziale Tuo, Simon, giganteggiano Margaret Qualley e Andie MacDowell. Mamma e figlia anche nella vita reale – la prima una definitiva consacrazione, l'altra un insperato ritorno di fiamma: le rivedremo entrambe ai Golden Globe – minacciano di andare in pezzi in continuazione. Ma, miracolose fino all'ultimo, non si rompono. (7,5)

Oscar Isaac e Jessica Chastain – quanta bellezza, quanta bravura: ne saranno ben felici i nostri ormoni – si amano e si odiano alla follia nella miniserie ispirata a Bergman. Seppure a ruoli inversi rispetto al film originale, discutono di monogamia, sesso e tradimenti nell'arco di cinque puntate. Lui, insegnante di filosofia, è caloroso e accomodante. Lei, manager ambiziosa, appare più disincantata. Nonostante la sceneggiatura e le performance, di altissimo livello, siano state acclamate all'unisono al Festival di Venezia, il piglio freddo e cerebrale del tutto non è riuscito mai a emozionarmi. Anzi: lo script sembra fare il possibile per renderli insopportabili, con Isaac ridotto a uno zerbino e Chastain trasformata in un'aguzzina capricciosa. Alle “scene” di Hagai Levi – sbrodolate sedute psicoanalitiche mascherate da schermaglie coniugali – manca qualsiasi spontaneità. Possibile che fosse più dolorosa una lite di pochi minuti nell'ultimo Baumbach rispetto a questo profluvio di recriminazioni e pavoneggiamenti stellari? Per riprendersi dall'eventuale delusione, consiglio la terza stagione di Master of None altro tributo al maestro svedese – o Chiamami ancora amore, un Kramer VS Kramer all'italiana prodotto dall'insospettabile mamma Rai. (6)

Una famiglia con detestabili figli adolescenti al seguito. Una coppia di neosposi minacciata dalla tristezza di lei, insofferente verso quel marito capriccioso. Un'appariscente donna di mezza età con un'urna da spargere nell'oceano. E un resort esclusivo, nelle sognanti Hawaii, che per qualche tempo ne accoglie le storie, gli strepiti e i disastri tragicomici, mentre il suo impettito direttore rischia di perdere il suo buon nome. Le esistenze dei villeggiantisi intrecceranno con risultati imprevedibili a quelle dei dipendenti. Grottesca, acidissima, scritta in stato di grazia, The White Lotus fa ridere a denti stretti a proposito di white privilege, patriarcato e perbenismo. Come nella migliore tradizione della satira sociale, la sceneggiatura – perfetta nei primi episodi – bacchetta i vizi di questi riccastri vuoti e superficiali. I toni sono corrosivi, la colonna sonora tribale, il cast strabiliante – l'iconica Jennifer Coolidge su tutti, ma occhio anche ai sorprendenti Murray Bartlett e Alexandra Daddario. Peccato per l'epilogo, agrodolce ma senza coraggio: un ritorno alla normalità (con omicidio) che non convince completamente. Bella, ma non quanto si leggeva in giro ai tempi della messa in onda su Sky, resta la versione riuscita della pessima Nine Perfect Strangers ma non il capolavoro annunciato. (7)

Un attore sul viale del tramonto, un regista in bancarotta e una ventiseienne dal passato enigmatico fanno squadra per indagare su un omicidio avvenuto nel loro condominio. Che la morte di un solitario uomo d'affari sia correlata a quella di una giovane di buona famiglia, caduta dall'ultimo piano qualche anno prima? I sospettati, di tutto rispetto, comprendono anche Nathan Lane e la rockstar Sting. Giocando a fare i detective, i tre protagonisti contribuiscono a creare un un podcast dal successo istantaneo e questa deliziosa comedy d'ambientazione newyorese, che nei suoi momenti più felici ricorda proprio il Woody Allen di Misterioso omicidio a Manhattan. Peccato che, nonostante qualche trovata particolarmente brillante – il settimo episodio, un prodigio tecnico girato dal punto di vista di un inquilino non udente – e colpi di scena in quantità, il risultato sia tanto piacevole quanto innocuo. Già confermato per una seconda stagione, Only Murders in the Building resta in ogni caso l'intrattenimento ideale per gli amanti di Agatha Christie e per spettatori arzilli anche se in là con gli anni. I suoi pregi maggiori? Aver riporto sugli schermi Steve Martin e Martin Short, irresistibili mattatori, che ammiccano alle nuove generazioni – da qui il coinvolgimento di Selena Gomez – e brindano alla vita scherzando a lungo con la morte; la sigla animata, tra le più belle dell'anno corrente; il format vincente, purtroppo supportato da un intreccio poliziesco tutt'altro che indimenticabile. (6,5)

sabato 20 giugno 2020

Tre novità tutte da (sor)ridere: Upload | Never Have I Ever | Run

Su carta sembrava non promettere niente di buono. Una storia sull’aldilà vista e rivista, sin troppo familiare ai fan di The Good Place e Black Mirror. Contro ogni pronostico, però, Upload sorprende. Ed è pronta a diventare una delle serie più irresistibili dell’anno, con il suo mix di fantascienza e buoni sentimenti; con una storia d’amore e morte ironica ma dolcissima, che qualche volta fa sospirare. Siamo nel solito futuro non troppo lontano in cui la tecnologia sta prendendo il sopravvento. Il protagonista è il solito bellimbusto che per il solito guasto alla macchina fa il solito incidente autostradale e finisce nel solito paradiso personalizzato. La sua anima, infatti, viene caricata in un aldilà per ricchi – tutto vedute mozzafiato e comfort –, ma anche la perfezione nasconde immancabili lati oscuri. Anche da morti, infatti, sussistono le iniquità. Nell’Upload vigono infinite disparità sociali. Alcuni hanno una corsia preferenziale, altri no. E soprattutto, per soggiornare lì, sono necessari i finanziamenti di una persona esterna: nello specifico, quelli di una fidanzata ricca e superficiale a cui, nonostante tutto, restare vincolati vita natural durante. Si può sopravvivere alle difficoltà, se già defunti? Robbie Amell, bello che balla, può fare affidamento sui consigli di Nora: addetta al servizio clienti, vivissima e per questo lontana da lui, con la quale è in contatto h24. Si innamoreranno, a dispetto di una barriera insormontabile. Scrive lo sceneggiatore dell’iconica The Office. I toni, sapientemente indovinati, sono deliziosi. I colpi di scena, con tanto di inseguimenti ed esplosioni sanguinose, non si contano. Il cast è un vero piacere per gli occhi. Insomma, ci sono guai anche in paradiso. Perfino le tecnologie avveniristiche hanno delle falle, dei difetti. Ma Upload – semplice, e per questo semplicemente adorabile – non presenta bug imperdonabili. (7+)

Devi, caustica e spigliata, vorrebbe essere un’adolescente come tante. Mimetizzarsi senza sforzi nella fauna della scuola pubblica. Ma è difficile essere invisibili quando si è involontariamente al centro dell’attenzione. Dopo la morte del padre durante il saggio di fine anno, qualcosa ha fatto crack  nella mente della ragazza e le gambe, di conseguenza, si sono rifiutate di camminare. Bollata come malata immaginaria, ora che è finalmente tornata a camminare non può però guarire dal disagio peggiore: la sua “grossa grassa” famiglia indiana. Vi avverto: a dispetto di qualche cliché di troppo nel finale, la conoscenza di Devi sarà una delle rivelazioni dell’anno corrente. Ha una parlantina a raffica, la risposta sempre pronta, e diverte e intenerisce con una storia di formazione che parla sì di amori impossibili, sì di maturazione, ma soprattutto di origini e accettazione. Qui la giovane è chiamata a fronteggiare le proprie usanze indiane, che le sembrano tanto bigotte, e soprattutto gli agguati del lutto: di tanto in tanto, nel corso degli episodi, qualche flashback struggente minaccerà di strappare lacrime impreviste agli spettatori dal cuore tenero. Consigliata a chi ha voglia di leggerezza ma non solo, Never Have I Ever piace per la rappresentazione spassionata delle minoranze etniche – che meraviglia, ho pensato tra me e me, incrociare tutti quei nomi esotici nei titoli di testa – e per la scrittura al fulmicotone della prezzemolina Mindy Kaling, che fra autobiografismo e invenzione riesce a spiccare in mezzo alle teen comedy rivali: il colpo di genio è la voce narrante del tennista McEnroe, che mi ha fatto pensare con nostalgia a Jane The Virgin. Never Have I Ever, insomma, non è un’altra stupida commedia americana. Soprattutto perché, sia da parte di madre che di padre, è fieramente indiana. (7)

Un messaggio di testo da parte di un’ex fiamma spinge una moglie insoddisfatta ad abbandonare la famiglia per salire sul primo treno. Dice: corri. E una donna sull’orlo di una crisi di nervi, così, segue il fidanzato dei tempi dell’università – nel frattempo diventato life coach – nell’avventura di una notte. Giunti al capolinea, decideranno se tornare insieme o lasciarsi per sempre. Ma il viaggio, ovviamente, presenterà contrattempi tragicomici. Scritta da Vicky Jones e prodotta da Phoebe Waller-Bridge – anche impegnata in un piccolo ruolo bislacco –, Run è una commedia romantica sui generis con ritmi vertiginosi e risvolti degni di un thriller. Un appuntamento appassionato nel segno della nostalgia e del pericolo su due personaggi perennemente braccati, che fuggono dalle responsabilità e dai rimpianti. Il formato, pratico e scorrevole, è insolito per le serie HBO: sette episodi di trenta minuti ciascuno. Perché non realizzarne un ottavo regalando alla serie una conclusione? Impossibile pensare altrimenti davanti a una storia che non ha le carte in regola per una seconda stagione. Lo suggeriscono a malincuore le svolte rocambolesche e irrealistiche della seconda metà, dove i due fanno il passo più lungo della gamba e rischiano di restare intrappolati in una vicenda che senza un prosieguo apparirebbe purtroppo inconcludente. I primi episodi, a metà tra Prima dell’alba e Intrigo internazionale, lasciavano ben sperare. I restanti, purtroppo, si poggiano su un delitto evitabile e sulla tensione erotica tra Merritt Wever e Domhall Gleeson: un duo lontano dai classici canoni di bellezza che a sorpresa sprizza sesso e scintille, oltretutto con performance di peso. Perché, al giorno d’oggi, fare una serie TV su ogni soggetto? Questa volta, per raccontare il rendez-vous degli eterni Peter Pan, sarebbe bastato un semplice film di un’ora e trenta. Fuggiamo via, a gambe levate, ma dalla moda della serialità a tutti i costi. (6)

lunedì 1 giugno 2020

Recensione: Bunny, di Mona Awad

Bunny, di Mona Awad. Fandango, € 18,50, pp. 350 |

Quando vai alle feste, fai attenzione a quello che ti mettono nel bicchiere: le mamme si raccomandano così, indipendentemente dalla tua età. A mia discolpa, ho abbassato la guardia. Ma questa non era una festa qualsiasi, bensì l’open day della Warren University: potevo forse immaginare che in un ambiente tanto prestigioso – l’università, infatti, ospita un pionieristico corso di scrittura –, qualcuno potesse drogarmi? Le sensazioni sono inequivocabili. La mollezza degli arti, la pesantezza della testa e delle palpebre, in bocca un sapore dolciastro. Le percezioni falsate che, tutt’intorno, trasformano il mondo o in un incubo o in un luna park. Perfetto titolo di punta per inaugurare la collana Weird Young – è decisamente strano, ma niente affatto adolescenziale: le riflessioni metaletterarie piaceranno infatti più agli adulti –, ciò che segue è un delizioso groviglio di merletti, catene, esplosioni splatter e asce affilate. Caratterizzato da dettagli curiosi che lo renderebbero stilosissimo anche in un’eventuale trasposizione – i guizzi artistici dell’autrice si notano anche nelle descrizioni meticolose degli oggetti d’arredo o dei guardaroba delle protagoniste –, risulta esilarante, visionario, profondo. Un rituale con leggi tutte da scoprire, con uno stile talmente suadente da sembrare una stregoneria.

Perché scappavamo sempre, io e la mia immaginazione. Ci tenevamo per mano sul margine della scogliera sul Mare del Nord, salivamo sempre più in alto tra i rami di una sequoia, viaggiavamo su un treno per Parigi, guadavamo il fiume con le labbra blu per cercare di raggiungere l’India a nuoto. Oppure correvamo e basta, cazzo. Giù per il pendio ripido di una collina che non finiva mai, lei e io, mano nella mano. Lei era una grande foresta a forma di ragazza. Era qualcosa che andava a fuoco. La sua mano era foglie e fumo e neve e carne tutto in una volta. […] Ero eccitata. La mia vita poteva cambiare. E non ero più sola.
La trama – un mix tra Suspiria e Schegge di follia – segue l’iniziazione di Samantha durante un seminario di arti narrative. Legata a un’unica buona amica, Ava, la protagonista nutre pretese da outsider in una città popolata da brutti ceffi e aspiranti Virginia Woolf. Profumate di zucchero filato, vestite di rosa, con una perenne aria zen, le Bunny sono il suo esatto opposto: quattro venticinquenni dedite ai pigiama party e alle sedute spiritiche che le aprono le porte della loro cerchia elitaria. Uniformarsi alle Bunny o farle scoppiare dall’interno? 
Gli artisti vivono in un mondo impenetrabile. Quelli di Mona Awad, la Isabella Santacroce statunitense, un po’ di più. Con ironia corrosiva, l’autrice stupisce per lo stile arzigogolato e per la sua satira pungente: vengono messe alla berlina le pratiche new wave; gli intellettuali pretenziosi; le giovani femministe che, magari dopo la lettura dei Monologhi della vagina, si vantano di essere novelle suffragette.

Con quanta ferocia quei corpi bianchi e rosa si stringono in un piccolo, caldo cerchio di amore frantuma-costole, e ogni volta rendendomene conto rimango senza fiato. E quando strofinano quei nasi all’insù che sembrano trampolini da sci, e le guance coperte da pelle di pesca. Tempia contro tempia mi fanno pensare al modo in cui strusciano le labbra degli scimpanzé, o alla telepatia dei bambini bellissimi e sanguinari nei film horror. Tutti e otto i loro occhi chiusi, come se quest’asfissia collettiva fosse una sorta di estasi religiosa. E le loro quattro bocche dalle labbra lucide emettono squittii che parlano di un amore mostruoso che è quasi un pugno in faccia. 
La seconda parte, almeno all’apparenza, gira più a vuoto della prima. I personaggi delle Bunny sono a lungo assenti dalla scena e le riflessioni della protagonista abbondano dopo la comparsa di Max, un tenebroso sconosciuto dagli occhi di fumo. Per fortuna Samantha è un personaggio affascinante. Mossa da pulsioni segrete, fa ragionare i lettori sul lato oscuro dell’immaginazione; sugli angeli e i demoni del processo creativo; sull’ansia da prestazione che ci assale quando tocca condividere la nostra opera – dunque, un pezzo di cuore – col resto del mondo. Adeguarsi, tanto nell’editoria quanto nelle amicizie, significa vendere l’anima? Bunny, ambientato nella città che ispirò il genio di Lovecraft, sembra scritto sotto oppiacei e leggerlo provoca uno stordimento simile. Scriverne, poi, significherebbe essersi finalmente ripresi dai postumi. Io, lo ammetto, ne sono ancora vittima.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Britney Spears – I’m a Slave 4 U

martedì 5 maggio 2020

I congiunti e gli affetti stabili nelle graphic novel: Residenza Arcadia | Basilicò | Freezer

|Residenza Arcadia, di Daniel Cuello. € 20, pp. 167, ★★★★|

Chiusi in casa, spiano le mosse del vicinato. Aguzzano l’udito per origliare. Denunciano. La routine degli abitanti di Residenza Arcadia, satira quanto mai attuale, potrebbe ricordarvi qualcosa. I giorni della nostra quarantena. Terrorizzati dal cambiamento – un po’ come noi davanti alla fase due –, gli anziani protagonisti tutelano le loro proprietà con il pugno di ferro. Benché vengano nominati Don Matteo e Turisti per caso, siamo in una società distopica imprecisata: pare che ci sarà una guerra imminente, che il Partito e la Gendarmeria vadano temuti, e che presto ci sarà una parata per celebrare la Nazione. Gli stessi conflitti si respirano anche nel condominio: colpa dei nuovi inquilini – terroristi – da far sloggiare. Raffigurata come un idillio sin dal nome, la Residenza è un covo di scaramucce, pettegolezzi e voltafaccia mortali. Badate ai disegni, inquietanti come nel miglior Burton, e diffidate da quei protagonisti che sembrano adorabili: la solitaria Mirta con il suo canarino; Emilio e Dirce, con ospite il nipote metallaro; i temutissimi Ester e Dimitri, dai modi affabili ma con un passato insospettabile – quello di lui vi commuoverà. Daniel Cuello, originario di un Paese che ha avuto una lunga e infelice relazione con le dittature, scuote per crudeltà e dolcezza. E condanna il conservatorismo di una certa generazione, sempre in prima linea per apostrofare il lassismo dei tempi correnti. Oasi da proteggere, il condominio diventa un microcosmo in cui legge e morale viaggiano su binari diversi. Perché difendere con le unghie e con i denti una casa destinata comunque alla polvere del tempo? Perché mantenere lo status quo, se è un incubo che ricorda i fascismi?

| Basilicò, di Giulio Macaione. € 16, pp. 153, ★★★½|

Alcune famiglie sono un’associazione a delinquere. A mettere sotto processo la propria è Maria, matriarca sputasentenze con cinque figli  grandi e un marito scappato con la domestica Nancy. Come in American Beauty, la narrazione prende avvio da un luogo particolare: l’oltretomba. La protagonista, nel giorno del suo stesso funerale, racconta il suo albero genealogico e gli eventi che hanno portato alla sua morte. Risposta politicamente scorretta alle saghe familiari tanto in voga, Basilicò sarà apprezzato dai fan di Carnage o I segreti di Osage County. Complessati, sguaiati e inviperiti, i membri della famiglia Morreale credono nei valori tradizionali, nel senso del decoro, nell’omertà. I capitoli, illustrati da una penna che incanta, sono ora in bianco e nero, ora in un nostalgico color seppia. Introdotti dalle ricette della migliori ricette della tradizione – dalla parmigiana al pesto, dal cous cous al ragù – inoltre assumono di volta in volta il punto di vista dei figli: Giovanni, un prof bistrattato; Agata, artista povera in canna; Diego Maria, omosessuale sfortunato in amore; Rosalia, moglie e amante; infine Santo, ultimogenito dall’esistenza girovaga. Riuniti per il compleanno di Maria, si troveranno a celebrarne le esequie. La mamma si è portata nella tomba trucchi e consigli? Se il segreto della sua cucina era il basilico, il segreto del basilico invece qual era? I colpi di scena del finale assicureranno anche qualche tavola horror. La graphic novel di Giulio Macaione è un omaggio a Palermo, alle gioie della tavola, ai dolori delle famiglie infelici a modo loro.

|Freezer, di Veronica “Veci” Carratello. € 18, pp. 137, ★★|

Un’altra famiglia disfunzionali da cui fuggire, un’altra lettura grottesca. Questa volta si parla dei Robinson: sì, proprio come quelli della serie TV. Mina, in attesa dello sviluppo ormonale, sognerebbe per sé il potere dell’invisibilità. Difficile se primogenita in una casa dov’è impossibile non essere immischiati nelle tragicomiche dei parenti . Tocca citarne qualcuno: il padre, attore della pubblicità della carta igienica; lo zio Ernesto, che in una chat trova l’anima gemella; il gatto Kafka, aspirante suicida; una nonnina chiusa nel silenzio impenetrabile della vedovanza. A metà tra Little Miss Sunshine e Metti la nonna in freezer, la graphic novel ha protagonisti già visti altrove e un umorismo che purtroppo non mi ha divertito. Il pregio più grande è l’irresistibile estetica vintage, con un tripudio di colori terrosi, citazioni musicali anni Settanta e un tratto degno della sfrontatezza dei prodotti di Cartoon Network. Peccato che Freezer somigli più a un insieme di strisce comiche che a un racconto, più a un puzzle di sketch che a una storia fatta e finita. I (nuovi) Robinson potrebbero essere i personaggi di una sitcom strampalata e scorretta che ci dispiacerebbe vedere in poltrona. Questo volume, un breve assaggio delle stranezze di cui sono capaci, è  però un episodio pilota nemmeno troppo soddisfacente.

mercoledì 4 dicembre 2019

Recensione: Gli altri, di Aisha Cerami

Gli altri, di Aisha Cerami. Rizzoli, € 18, pp. 288 |

Alle porte di una città imprecisata, protetto da una cortina di siepi che ne fanno una fortezza inespugnabile, sorge il condominio in cui ognuno di noi spenderebbe volentieri i propri giorni. Quattro piani, tredici abitanti di diversa estrazione sociale, porte sempre aperte, tutti che possiedono la chiave di scorta di tutti. Il Roseto è un microcosmo gaudente e lieto, destinato a un’eterna fioritura indipendentemente dalle stagioni meteorologiche. C’è un ricco fondo cassa, e ogni scusa è buona per attingervi e organizzare serate per pochi eletti – dal primo ciclo mestruale di una ragazzina al compleanno di un’ottuagenaria, da un funerale a una festa di benvenuto. La morte di un’abitante del Roseto, allo stesso modo, è una tragedia condivisa all’unanimità. Ci si fa forza insieme, soprattutto se l’infarto fulminante dell’anziana Dora significa far fronte a un altro dispiacere: rapportarsi da zero con nuovi inquilini. Qual è l’identità degli ultimi arrivati, che escono all’alba e rientrano al tramonto? Perché rifuggono i momenti di aggregazione e non si adeguano ai ritmi del resto del palazzo? Lo teorizzava già J. G. Ballard, nel classico della distopia da tempo immemore nella mia lista dei libri da recuperare: i condomini sono delle macchine perfette, i cui abitanti – sottoposti alla dittatura del quieto vivere – costituiscono un coro armonico e intonato ai limiti della spersonalizzazione. Lo ha ribadito il regista Roman Polanski, nella trilogia da brivido inaugurata con Repulsione. Gli ha fatto infine eco Alex de la Iglesia, con l’hitchockiano La Comunidad. Ultima ma non ultima, si concede un soggiorno malsicuro anche l’esordiente Aisha Cerami: il suo romanzo di debutto è una sorpresa inaspettata. Non lasciatevi ingannare dalla deliziosa copertina color pastello. Benché frizzante e leggerissimo, scritto in maniera svelta e puntuale, Gli altri non è assolutamente una storia consolatoria in cui l’ultimo rigo regala al lettore un messaggio di concordia. Ogni personaggio, infatti, ha una vita pubblica, una privata e un’altra segreta.

Anni e anni prima, in quel condominio, c’era stato un uomo che aveva stilato una legge uguale per tutti. Una legge indiscutibile e fondamentale perché quel posto restasse per sempre un luogo felice. Il regolamento veniva firmato alla prima riunione di condominio. Una firma senza valore legale, ma sacra. Un patto di sangue, senza tagli o giuramenti sotto la luna piena. E il regolamento diceva più o meno così: rispetta il prossimo tuo come te stesso; non usare violenza; non minacciare; non fare la spia; non avere segreti.
Ci sono Romana e Stevi, protagonisti di un matrimonio sadomasochistico da cui fuggire soltanto attraverso la fantasticheria di un tradimento coniugale; Rachele, sull’orlo di una crisi di nervi e madre di due gemelli pestiferi, con un volto devastato dalla psoriasi; le outsider Libia e Marilyn, la prima ex tossicodipendente e l’altra travestito di buon cuore; il Conte, prigioniero di una genitrice dispotica e dei disturbi ossessivo-compulsivi; il Vedovo e Maria, insegnanti in pensione, che talora mettono pace con parole assennate. E soprattutto c’è la quattordicenne Arina, figlia dell’umile Olga, che contro ogni pronostico si affeziona al figlio della famiglia appena giunta lì e l’ama di un amore quasi shakespeariano: Antonio è gentile, vorrebbe diventare un autore di horror, e regala all’adolescente sogni alternativi e uno sguardo più lucido sugli intrighi dei vicini. Il Roseto è lo specchio fedele delle contraddizioni della nostra società, nonché della cronaca. È fonte di protezione, è un vincolo; discrezione e omertà sono in rima baciata. Al centro di un isolamento perfetto, i personaggi della Cerami hanno buone maniere e animi oscuri: vedono pericoli dappertutto, specialmente nelle novità. Fanno spallucce davanti all’evidenza della violenza domestica, fiutano il marcio nella bellezza delle relazioni nascenti, vietano il sesso occasionale, seminano l’odio. Radunati in cortile, farneticano di suicidi e malocchio, somigliando ai membri di una setta grottesca. Il condominio li protegge, o forse li costringe in gabbia? Meglio porgere l’altra guancia, oppure battagliare?

Era lì, incastrato tra le fauci della morte, a tendere i muscoli verso l’alto, sperando di farsi nascere le ali. «Prima o poi capirà che non ha scampo» disse Rachele, pregustando il momento della resa. «Prima o poi morirà e noi ci illuderemo, per un momento, di aver ucciso tutti i topi del mondo» bisbigliò il Conte col fiato sospeso.
 La puzza persistente d’immondizia, un topo che scorrazza in giardino, l’avanzata di una macchia d’umidità sulla facciata, l’arrivo di un randagio che oltrepassa il cancello e squarcia le buste della spazzatura: la colpa, sancisce l’ennesima riunione, è proprio degli altri. Ricchissimo di dialoghi e caratterizzato da ambientazioni circoscritte, il romanzo ha pregi e difetti che derivano da un impianto sin troppo teatrale: le entrate e le uscite di scena sono scandite con l’orchestrazione un po’ meccanica del palcoscenico; i capitoli, alla stregua di atti, a volte danno l’impressione di essere appena giustapposti; non tutti i personaggi, per via di una divisione diseguale dei copioni, sono caratterizzati per forza di cose con la stessa perizia. Croce e delizia, comunque, di una commedia all’italiana nello stile di Perfetti sconosciuti e L’ultimo Capodanno, sorretta da un’ironia pungente e da un caos francamente irresistibile. Di una cattiveria che non dà tregua, Gli altri apre le gabbie ai matti e ai sentimenti più bestiali. Ti prende per sfinimento, e alla fine smaschera la vera indole di ciascuno di noi: sotto la maschera, in borghese, chi più e chi meno, siamo tutti mostri. Quanti patti abbiamo sottoscritto a cuor leggero, ignari di stringere accordi con Mefistofele? Quante volte abbiamo indicato la pagliuzza nell’occhio di qualcun altro?
La colpa è della trave che intanto sbuca dal nostro. Ci acceca. E se abbastanza acuminata, puntata verso il prossimo, qualche volta ferisce a morte.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Francesco Gabbani – Amen 

martedì 15 ottobre 2019

I ♥ Telefilm: The Politician | Big Mouth S03 | Jane The Virgin S05

L’instancabile Ryan Murphy ci riprova. Con l’inizio dell’anno scolastico torna al liceo: mancava dai tempi di Glee. Riecco perciò i colori sgargianti, le faide grandi e piccole, le strategie per primeggiare e sì, perfino le canzoni, se il protagonista – la rivelazione Ben Platt, venticinquenne dal talento sorprendente – ha il pallino segreto del pianobar. Intelligente, affabulatore, bisessuale, al contrario degli allievi di Will Schuester non sogna il musical bensì la presidenza americana: essendo ancora una matricola, gli tocca prima diventare rappresentante degli studenti. Dalla sua ha una parlantina naturale, unita a un abbigliamento che gli ho invidiato per tutte le puntate, e la ricca ma infelice Gwyneth Paltrow come mamma adottiva. Quello che gli manca, a parte l’amore della sua vita – il suo maestro privato di mandarino, morto suicida nel pilot –, è un braccio destro all’altezza: perché non Zoey Deutch, presumibilmente malata di leucemia, a cui la sempre subdola Jessica Lange nasconde informazioni sulle sue reali condizioni? La scalata al potere del protagonista, vittima presto della sua stessa ambizione, prevede un tentato omicidio, tante parole di miele misto a veleno, il trash del Murphy che più ci piace. Commedia nera nello stile di Election, The Politician si difende dagli eccessi con una palette degna di Wes Anderson, un cast divertitissimo e il salto avanti di un epilogo alla Scandal, con in campo altre mattatrici – Judith Leight e Bette Midler – e lo skyline della spietata New York sullo sfondo. La politica annoia. La politica non è un gioco da ragazzi. Non ditelo a Platt e ai suoi simpatici scagnozzi, sopravvissuti agli avvelenamenti più folli e ai luoghi comuni più ostinati, anche se non completamente in salvo dal già visto. L’ape regina di Lucy Boynton, ad esempio, somiglia tanto, troppo alla cheerleader Quinn Febray – ve la ricordate? La serie, in sintesi, non è forse la versione d’autore del guilty pleasure Insatiable? Pur senza plebiscito, comunque, confido che le simmetrie perfette della regia e la doppiezza del candidato rampante bastino per un altro mandato. Il mio voto, intanto, lo ha. (7)

Seguitissime, le lezioni di anatomia di Big Mouth sono arrivate alla terza stagione. I giovani protagonisti stanno per tagliare un traguardo importante, la terza media. E ormai tutti, nessuno escluso, hanno con sé un Mostro degli ormoni, una cotta inespressa, una prurigine da grattare. A scuola si fanno sfilate contro il sessismo. Qualcuno alimenta un rapporto tossico con lo smartphone, qualcuno esplora il vasto spettro della sessualità, qualcun altro assume pasticche per combattere il deficit dell’attenzione. Le migliori amiche si masturbano? La bisessualità è vista con simpatia soltanto fra ragazze? Come reagire alle mani lunghe di un prof? Inferiore alla prima stagione, superiore alla seconda, la serie torna a regalarci trovate memorabili – il musical scolastico ispirato al thriller erotico Rivelazioni, l’episodio monografico dedicato al fantasma di Duke Ellington – e spunti nonsense – la Florida rasa al suolo da un terremoto da Antico Testamento –, con tanto di amichevoli cameo: riusciranno le fate turchine di Queer Eye a rivoluzionare l’esistenza di quel coach Steve in stato d’abbandono? Restano una certa antipatia verso Nick, l’adorazione purissima per il personaggio di Lola e una tenera curiosità verso la vicinanza fra Jay e Missy, gli outsider agli antipodi che trovano rifugio in un mondo di fantasie oscene e fanfiction.  Il difetto? Una formula consolidata, a cui manca da un po’ l’effetto sorpresa, che comunque non rinuncia a piccoli colpi di genio per risultare spassosa, schietta, al passo con i nostri tempi: a ben vedere, perfino istruttiva. Prontamente rinnovata, sembra proprio che la famigerata boccaccia della serie animata Netflix non la smetterà presto di fare allusioni sporche. Riuscirà a inventarsene anche di nuove? (7)

Bisognerebbe partire dalla fine. Affidarsi al diciannovesimo episodio – l’ultimo: un nostalgico backstage con interviste e retroscena –, per lasciar parlare le lacrime del cast e le parole degli sceneggiatori. Dura dirsi addio, soprattutto se significa rinunciare al guilty pleasure per antonomasia: quello che piace alla critica e, a sorpresa, in passato, perfino alla stagione dei premi. Giungono così a conclusione le disavventure di Jane Gloriana Villanueva: protagonista di un’esilarante immacolata concezione e di una serie TV che prima ancora del movimento metoo, del politicamente corretto in risposta a Trump, includeva a bordo donne resistenti agli urti e minoranze latine. Perché potrebbe diventare un classico della commedia sentimentale? Gli ingredienti sono una scrittura scoppiettante; un’irresistibile mescolanza linguistica che a volte preferisce lo spagnolo, altre l’inglese; i toni da fiaba profana, fra momenti di classico realismo magico e bislacche sequenze musicali, che hanno conquistato anche gli ospiti Bruno Mars, Britney Spears, Rosario Dawson. Bisognerebbe partire dalla fine, si diceva allora, perché non basta l’affetto a nascondere i difetti di una stagione conclusiva con pochi spunti e troppi episodi. Scritta su misura dei fan, Jane The Virgin mira al traguardo della centesima puntata – trascurabile il fatto che ormai manchi pochissimo per arrivare all’ovvio lieto fine – e al compleanno della protagonista, qui trentenne. Se l’unico elemento degno di meraviglia è l’amicizia nascente fra Jane e Petra, all’inizio sua storica nemesi, il resto ruota attorno a tre temi lungamente diluiti: la carriera da scrittrice della nostra eroina, in cerca della formula del perfetto romanzo rosa; la cattura della trafficante Sin Rostro; la risoluzione di uno dei triangoli romantici più sentiti del mondo delle serie TV, con un innamorato tornato dall’oltretomba e l’altro diventato nel frattempo povero in canna. Lunga la strada verso la conclusione, senz’altro inutilmente. Ma si è ben contenti di arrivare a una cascata di fiori d’arancio, accanto alla persona giusta – Jane no, non delude –, facendo lo slalom fra saltuari rischi di cancellazione e pregiudizi di sorta. (6,5)

mercoledì 22 maggio 2019

I ♥ Telefilm: Dead to me | Chambers

Si dice che la sincerità sia il fondamento di ogni relazione che si rispetti. Che si parli d'amore o d'amicizia, non importa. I rapporti interpersonali, davanti al non detto, scricchiolano. Senza bugie di mezzo, però, che divertimento ci sarebbe al cospetto di una commedia nera che di amori – bugiardi – e amicizie – insincere – parla? Alle prese con le migliori prove delle loro carriere, sempre in bilico fra ilarità e disperazione, Christina Applegate e Linda Cardellini sono agguerrite per farsi strada durante la stagione dei premi. Hanno personaggi finalmente sfaccettati e il supporto di una sceneggiatura brillante che, nel segno della solidarietà femminile, celebra la rivincita delle mogli nell'ombra e di attrici ridotte troppo a lungo a ruoli di supporto – anche se, nel caso della Cardellini, il 2019 può dirsi un anno davvero fortunato: compagna prima di Viggo Mortensen in Green Book, poi di Jeremy Renner in Avengers: Endgame, ha preso parte ai maggiori successi del botteghino. Una agente immobiliare con due figli a carico, l'altra pittrice stremata per l'ennesimo aborto, si conoscono in un gruppo di supporto dove servono pessimo caffè. Passano presto al vino rosso, alla maggiore confidenza del tu, in una splendida villa con piscina. Ma c'è poco da invidiarle: la Applegate, ossessionata dal senso di colpa, cerca infatti giustizia per il marito falciato da un pirata della strada. Chi guidava a velocità folle un'introvabile auto d'epoca? Perché, soprattutto, un padre di famiglia dovrebbe uscire a correre all'una del mattino? Ritmi esilaranti, dialoghi al vetriolo e toni indovinati sono i trucchi segreti di una novità Netflix che misteriosamente sa come non eccedere né sul versante del grottesco, né su quello delle leggerezza. Tutt'altro che innovativo ma d'alti livelli, Dead to me schiera sin dall'episodio introduttivo colpi di scena a raffica e mezze verità, anche a rischio di andare incontro a un finale più telefonato del resto. La commedia con qualcosa in più eccede, diverte, ma si lascia prendere assolutamente sul serio: il merito spetta all'impegno del cast, che poco ha a che spartire con il trash di Desperate Housewives, e alla premiata accoppiata Ferrell-McKay fra i produttori esecutivi. Non meritava la nostra fiducia, su carta, eppure si classifica in silenzio come la vera sorpresa della prima parte dell'anno: per soffrire meno la fervente attesa di Big Little Lies, così, ecco a voi un rimedio in pillole già pronto all'uso. (7+)

I primi due episodi, diretti dalla mano eccezionale di Alfonso Gomez-Rejon, erano così stilosi da lasciare ben sperare. Con le sue immagini curatissime e tanta attenzione nella descrizione di una comunità indiana ai margini degli Stati Uniti, Chambers univa le visioni di David Lynch alle atmosfere indie del cinema di Andrea Arnold. O così, a torto, sembrava. La storia è quella rivista e corretta di The Eye. In seguito a un trapianto d'urgenza – questa volta di cuore –, un'adolescente irrequieta eredita segreti e lati oscuri della ragazza che, morendo, le ha salvato la vita. L'opportunità le regala presto l'iscrizione a una scuola di lusso e la frequentazione di una famiglia in lutto. Cos'è successo alla sfortunata Becky? Cosa cercano di rivelarle il suo spettro, e il suo cuore? Dieci episodi di un'ora son tanti. Se i primi affascinano, gli altri – con un'antipatica nemesi femminile a metà fra Hannah Baker e Alison DiLaurentis – si trasformano in un monotono teen drama che tradisce il brivido per le schermaglie fra liceali; la possessione demoniaca per un'abusata setta di santoni new age, con una schiera di adepti più o meno sospettabili fra le proprie fila. La serie, con a carico spunti interessanti e ambientazioni originali, è vittima del troppo. Troppi nodi mai sciolti, oltre che troppe puntate. Troppa carne al fuoco. La scarsità di buone idee viene mascherata con la ridondanza, con la confusione. E il finale, aperto in vista di un prosieguo che vedo quanto mai difficile, nega soluzioni, offrendo soltanto stranezze aggiunte. Restano impressi il viso insolito di Sivan Alyra Rose, protagonista esordiente su cui scommetterei i miei soldi; il glamour di una coppia di cinquantenni bellissimi e bravissimi, composta da Tony Goldwyn e Uma Thurman – quest'ultima particolarmente intensa nel ruolo di una mamma inconsapevole, sull'orlo del collasso. A fine visione resta la sensazione delle occasioni perse, simili per frustrazione a un trapianto non andato a buon fine. Di Chambers, infatti, mi è venuto il rigetto strada facendo. E sul petto, nell'agenda delle serie spuntate, spunta una cicatrice a forma di delusione. (5,5)

mercoledì 1 maggio 2019

I ♥ Telefilm: Special | Bonding | This is us S03 | Santa Clarita Diet S03

La routine di un ragazzo fuori dall'ordinario. Il lavoro, gli amici, l'amore. Cos'è successo: il ritorno di Atypical è forse giunto in anticipo? La domanda sarebbe lecita davanti a una produzione, originale soltanto in teoria, che ricorda un po' la comedy sulla sindrome di Asperger, un po' Please Like Me. Qui, però, si parla di un altro disturbo: il protagonista ha una paralisi cerebrale sin dalla nascita. Qui, soprattutto, si parla senza filtri di troppo: il protagonista, realmente disabile, è eccezionalmente anche l'autore del tutto. Otto episodi brevissimi nell'arco dei quali Ryan O'Connell trova il coraggio di intenerirci e infastidirci, fra momenti di debolezza e gesti di egoismo. Ventotto anni, senza un impiego, convive con una mamma single che si è annullata in nome del troppo affetto e con un dramma niente affatto trascurabile: benché dichiaratamente omosessuale, spigliato e carino com'è, Ryan non è mai stato a letto con nessuno. Dall'avvio di uno stage presso una testata online alla perdita della verginità, galeotti i consigli di una strabordante migliore amica, non passerà molto. Il protagonista, in barba al politicamente corretto, minimizza sulla propria condizione: la zoppia di cui al lavoro tutti chiacchierano, colpa di un fantomatico incidente stradale. Si affida all'esperienza di un gigolò che, in una sequenza esplicita ma dolcissima, gli svela i segreti del contatto fisico infischiandosene dell'arrivo del principe azzurro. Ha la schiettezza di mostrarsi odioso, bisognoso, nel rapporto di co-dipendenza con la bravissima Karen Hayes, combattuta fra il ruolo di mamma a tempo pieno e i bisogni di cinquantenne ancora libera e piacente. Storia dal taglio classico e dai temi quanto mai consolidati, la serie Netflix mostra i lati amabili e quelli più spigolosi di un ragazzo egocentrico e autosufficiente soltanto in teoria. Forse osa poco, se non in quella prima volta sotto lauto compenso, ma il tocco di O'Connell – che con il beneplacito dei produttori sceneggia e interpreta, raccontando senza ipocrisie quel che ruota attorno alla disabilità -, appare speciale come da titolo. (7)

Lui è un aspirante comico gay, con scarsa esperienza tanto in materia di palcoscenici quanto di uomini. Lei è una studentessa di psicologia che a lezione non dà grandi confidenze ai compagni ma, sotto il cappotto, nasconde stivali al ginocchio, bustini e gatti a nove code. Migliori amici ai tempi del liceo, quando costituivano ben più che un'elettiva coppia di perdenti, si ritrovano non senza imbarazzo, non senza secondi fini, dopo essersi salutati di fretta durante la notte del ballo. Se la fatale Zoe Levin è una dominatrice con una fitta schiera di clienti sulla busta paga, lo spiantato Brendan Scannell gli fa da assistente improvvisato pur di sbarcare il lunario. Il sesso paga: soprattutto se lo si ama strano. Il sesso ha spettatori affezionati: soprattutto se lo manda in onda Netflix, in episodi di quindici minuti a cui è impossibile resistere. Nel solco di Sex Education, educazione sentimentale da bollino rosso, arriva così anche Bonding: la commedia nera contro il tabù, che promette di fustigare e scandalizzare gli spettatori, senza mai dimenticare una generosa dose di cuore. Goderecci eppure raramente volgari, espliciti ma senza scene di nudo, gli episodi godono di una scrittura degna delle produzioni britanniche: a tratti siamo nei territori di The End of the fucking world, ma è l'America odierna quella che si staglia oltre le stanze rosse della Levin. Pelle lucida, legacci, catene. Fiotti d'urina, fantasie di percosse e rapimenti, giochi di ruolo. Il coinquilino falsamente macho è attratto dall'idea della stimolazione prostatica, una coppia borghese cerca consulenti d'urgenza – il capofamiglia, infatti, si eccita soltanto con il solletico –, qualcuno considera pornografiche le marce dei pinguini. Come da copione, non mancano le richieste assurde, i clienti sopra le righe e i dialoghi sboccati, ma neanche approfondimenti psicologici degni d'attenzione: i protagonisti, infatti, aiutano gli altri a sentirsi liberi, ma sono i primi a vivere nell'anonimato di una doppia vita; a nascondersi nel non detto. Vicenda di solitudini siderali, di gente che ferisce per non essere ferita, Bonding è una terapia per combattere la prigionia delle inibizioni. Come gestire un'identità alternativa con il rischio che le strade della studentessa e quelle della dominatrice si incrocino? Come operare nel settore del sesso quando il contatto umano terrorizza? Gettato il frustino, bisogna imparare a farsi dominare. Per costruirsi un amore su misura. Per mantenere salda un'amicizia decennale. (7+)

Ogni famiglia, perfino la più unita, conosce momenti di crisi. È successo anche a quella di This is us. Se la seconda stagione era riuscita a sorpresa a difendersi – il rischio: quello di non replicare le emozioni della precedente –, la terza non ha ripetuto il piccolo miracolo. Non potendo più contare né sullo svelamento della tragica dipartita di Milo Ventimiglia né sull'elaborazione di una Mandy Moore inspiegabilmente tagliata fuori dalla stagione dei premi, i nuovi episodi si trascinano un po' – nonostante gli approfondimenti e gli ingressi dell'ultimo minuto, per fortuna, non manchino. Degni di nota, in particolare, i flashback ambientati in Vietnam: quando Jack, il capofamiglia, aveva un misterioso fratello al fronte interpretato da un ottimo Michael Angarano. Mentre Kevin indaga sulla scomparsa dello zio, i fratelli Randall e Kate si danno il cambio alternando gioie e dolori. Il primo, improvvisatosi politico, rischia di mandare all'aria il matrimonio con la fedele Beth. L'altra, invece, si è resa protagonista di una gravidanza a rischio. Jack e Rebecca, al centro di linee narrative che ormai cominciano a incastrarsi a fatica con le storie delle generazioni successive, regalano qualche sospiro garantito (ma scontato) con vecchi appuntamenti, parole non dette, acciacchi della terza età. Il ritmo, poco incalzante, ne risente. Gli episodi, per la prima volta da quando la serie va in onda, si sono accumulati in una cartella del mio portatile. Da quando l'appuntamento con This is us non è più un'urgenza? Da quando inizia a girare in tondo, attorno al cuore di una questione già bella che sbrogliata. Da quando questa famiglia americana si è fatta più conflittuale e incostante, più vicina alla mia nel bene e nel male, privandomi del sogno impossibile di farne parte. La crisi è giunta prima del settimo anno. Finirà, magari grazie a sceneggiatori meno adagiati sugli allori e ai benefici della terapia? (6,5)

A proposito di famiglie in crisi. A proposito di serie al centro di piccole grandi battute d'arresto. Come dimenticare le tragicomiche degli Hammond? Lui umano, lei non-morta. Ufficialmente: agenti immobiliari in quel di Santa Clarita. Un ridente sobborgo in cui niente è come sembra e i vicini, a dispetto delle apparenze, nei momenti giusti sanno voltarsi dall'altra parte. Abbastanza da credere alle bugie dei protagonisti, di glissare sulle loro stranezze. Abbastanza da non accorgersi che Drew Barrymore è assetata di sangue, mentre il servile Timothy Olyphant le fa da braccio destro giacché innamoratissimo. Anche in questo caso, dopo un prosieguo di buon livello, la commedia splatter targata Netflix ha rischiato di annoiarmi. Di trascinarsi con svolte poco convincenti, in una terza stagione copia-incolla delle precedenti. Spiace dirlo, ma l'arrivo di dieci episodi aggiuntivi non regala nuovi spunti. Spiace dirlo ma, benché appunto dispiaccia, la cancellazione non mi ha stupito. Santa Clarita Diet non scade, non peggiora, non delude. Resta sempre lo stesso, e purtroppo non è un pregio, come quella zombie che mangiando esseri umani si mette in salvo dalla decomposizione. La figlia si rende utile, ma l'FBI la torchia e il migliore amico trema per l'ansia da prestazione. Il marito tenta di proteggerla entrando a pieno diritto nella schiera dei Cavalieri di Serbia. E lei, al solito, semina in giro corpi smembrati e guai: ben propensa a trasformare gli altri, si immusonisce davanti ai tentennamenti di Joel, un Olyphant pur sempre irresistibile. Chi non vorrebbe essere immortale? A che prezzo, però, se tocca darsi al massacro – anche se di alcuni loschi neonazisti – per mantenersi giovani per sempre? Sempre macabro e scoppiettante, il mix di generi non può contare più sull'effetto sorpresa delle prime volte né sull'alchimia indiscutibile fra i due padroni di casa. La sceneggiatura, a proposito di autori pigri, non fa passi avanti. Quanto poteva durare restando sempre sopra le righe, sempre la fotocopia di un successo sì meritato ma mai bissato? Davanti a quel finale spiazzante, eppure, la curiosità c'era. Resterà sempre il dispiacere per l'avvenire degli Hammond, che probabilmente non conosceremo. Le colpe, questa volta, non sono imputabili soltanto ai tagli di Netflix. Ma a una commedia cannibale che ha il pane – temi originalissimi, grandi mattatori, ironia e sangue in quantità – e non i denti. (6)

lunedì 1 aprile 2019

I ♥ Telefilm: After Life | Love, Death + Robots | Turn Up Charlie

Ci sono dolori che non si superano mai. Soprattutto se, come Tony, cinquantenne intrattabile, sai che nessuno ti amerà quanto o più di tua moglie: l'unica abbastanza ostinata da sopravvivere ai tuoi pessimi scherzi, al tuo crudo senso dell'umorismo, ma non al cancro. Come reagirebbe il perfetto Scrooge se non rifuggendo le parole di conforto degli altri, i morsi del dolore e, dunque, la vita? Permaloso e sarcastico, il protagonista nutre frequenti pensieri suicidi e a salvarlo in corner è l'inseparabile pastore tedesco che lo costringe ad alzarsi a fatica dal letto, a uscire per fare la spesa, a non affogare in un mare a volte fisico e altre figurato. Sulla strada dell'elaborazione incrocerà: spacciatori per consiglieri, prostitute dal cuore d'oro che gli si offrono gratuitamente come colf, vedove fisse al cimitero e nuovo appuntamenti romantici, assieme agli assurdi concittadini da intervistare per il giornale locale – una rivista gratuita dove vengono ospitate mamme che in cucina usano latte materno e lievito vaginale, suonatori di flauto (con il naso), chiazze di muffa sospette (che non somigliano a Gesù, però, ma a Kenneth Branagh). Eccezionalmente scrive recita e dirige un Ricky Gervais con il classico dente avvelenato ma, a sorpresa, tanto cuore in più. Quali speranze restano a un vedovo senza figli, reduce da venticinque anni d'amore? Un sorriso famelico, da squalo, e occhi in cui vedi baluginare qui e lì lacrime inaspettate. Dopo i colpi di fulmine con Catastrophe e Fleabag, gli inglesi consolidano il loro formato vincente con il beneplacito di Netflix: sei puntate di venticinque minuti ciascuna; una rassegna struggente di scuse futili e valide ragioni per continuare, nonostante tutto, a tirare avanti. After Life è un gioiello di commedia nera. Si cede alla retorica soltanto nel finale. Si parla, già in via di guarigione, dello straordinario egoismo del dolore. Il lutto, ribadisce un Gervais acido ma redento, non è una questione privata. Non lo è, in fondo, neppure la nostro vita. (7,5)

Dici animazione. Dici fantascienza. Mix potenzialmente fatale per me, che non ho mai amato né i cartoni animati né un genere che di per sé predilige mostri, esplosioni e voli intergalattici. L'ultima proposta Netflix, eppure, allettava con il suo tam-tam pubblicitario e i grandi nomi coinvolti: a produrre niente meno che Tim Miller e David Fincher. Diciotto storie mai più lunghe di venti minuti, diciotto cortometraggi, diciotto stili differenti: dalla computer grafica più roboante all'essenzialità degli anime, setacciando in ordine casuale i deliri dell'horror, gli orrori di guerre vicine e lontane, la satira e le leggende del lontano Oriente. Tanta bellezza, altrettanta carne al fuoco, anche se come accade nelle antologie qualcosa piace e qualcosa no; anche se non tutto funziona, fra sceneggiature poco approfondite e bozzetti incompiuti, e l'ordine degli episodi non sempre appare strategico. A conquistare il podio sono i miti folkloristici di Buona caccia reinterpretati in chiave steampunk, il femminismo battagliero del Vantaggio di Sonny, le atmosfere distorte della Testimone, senza dimenticare l'arte concettuale del filosofico Zima Blu, l'erotismo mostruoso di Oltre Aquila o i cieli vorticosi dello scenografico La notte dei pesci, rovinato a malincuore dall'ignorante deriva finale. Divertono gli esperimenti umoristici di Tre robot e Alternative storiche; soltanto in teoria il brioso nonsense del Dominio dello yogurt e L'era glaciale. Ma titoli come La discarica, Dare una mano e il Succhia-anime sanno purtroppo di già visto, e che noia, per favore, le sparatorie roboanti di Tute meccanizzate, Dolci 13 anni, Mutaforma, La guerra segreta! Dietro un esemplare sfoggio di mezzi e tecniche, oltre partecipazioni amichevoli che fungono da abile specchietto per le allodole, a ben vedere gli stili animati sono in numero minore rispetto al previsto; di incantare – con il mito, con personaggi femminili resistenti agli urti, con il grottesco – si ha intenzione giusto a tratti. Manca il fil rouge. Manca una cornice. Quelli di Love, Death + Robots, così, restano quadri splendidi ma fini a loro stessi, di piacevolezza e riuscita molto variabili, che non giustificano la natura antologia della serie evento e interessano per metà. Ma questa fantascienza per principianti ha frame da incorniciare e un formato tentatore, che con poco ha intrigato anche il sottoscritto: un dichiarato profano, come si diceva in apertura, allettato da amori e dipartite in pillole coloratissime, meno da automi con un cuore di latta e CGI. (6,5)

Stando a una nota rivista è l'uomo più sexy del mondo. Aspirante James Bond, serio e richiestissimo, Idris Elba mi è sempre parso un attore da film impegnati: anche troppo. Indiscutibilmente bello e bravo, anche sulle soglie dei cinquanta, mostra quanto gli doni anche una leggerezza inedita. Il sex symbol dall'inossidabile pelle scura e dal principesco accento inglese, per ragioni di copione, si trasforma qui nel suo esatto opposto: uno scapolo di origini africane trapiantato a Londra, con un appartamento in periferia da condividere con la zia ficcanaso e poche prospettive per il futuro. Musicista di discreto talento, sul finire degli anni Novanta era stato una meteora: uno da tormentone mordi e fuggi, insomma, incapace di mantenersi sulla cresta dell'onda oltre il minimo sindacale. Il ritorno all'ovile di una storica coppia di amici – lui aspirante attore teatrale, lei (interpretata da Piper Perabo, ex Ragazza del Coyote Ugly) deejay di fama internazionale – dà una spinta alla sua carriera in stallo, anche se sbarcare il lunario talora significa sapersi accontentare. Perfino dell'ingrato ruolo di babysitter per la figlia dei due forestieri, bambina sfacciata a metà fra il tenero e l'insopportabile. Per quanto poco originale, anche grazie all'alchimia con l'altezzosa e fragile coprotagonista, la prima parte in stile About a boy funziona senza guizzi e senza sbadigli. La seconda, in cui con un inspiegabile salto temporale si passa dall'Inghilterra alle lussuriose estati di Ibiza, stordisce con tanta musica ad alto volume, frammenti in scorrimento veloce di sesso occasionale e droghe, ma perde clamorosamente di vista il punto della situazione fino ad arrivare a una chiusa affatto appagante. Turn up Charlie ha pochissimo da raccontare, e per di più lo fa svogliatamente. Commedia dalla foggia modestissima, con una scrittura scontata e derivativa, si regge solo grazie allo status consolidato del protagonista che, in scena, ironizza sulla sua doppia professione di attore e musicista. Anche se ci si domanda, un po' preoccupati, perché il buon Elba figuri perfino fra i creatori. Non funzionano, infatti, la divisione a puntate e il grande investimento di energie. E la serie, nel suo complesso, non risulta all'altezza né della proposta Netflix né di un professionista che sfortunatamente non può essere la sola anima della festa. (5)

sabato 30 marzo 2019

Recensione: La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, di Krystal Sutherland

| La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, Krystal Sutherland. Rizzoli, € 17, pp. 412 |

Mi dico che non ho l'età. Per avere paura. Per leggere young adult. Ma ci sono fobie – il futuro, le altezze, fidarsi di qualcuno, lasciarsi andare – che colgono in contropiede anche me, tutt'altro che stoico in verità, ma salvatore di ragni, lucertole e chiocciole dallo scalpiccio degli ospiti che calpestano il mio vialetto. E ci sono romanzi per ragazzi, soprattutto, che non hanno limiti: li si valuta con il cuore, così, organo notoriamente di manica larga, e nel mentre li si consiglia in lungo e in largo a lettori senza pregiudizio. Già colpito dalla bellezza dei Nostri cuori chimici, esordio brioso e struggente insieme, riscopro a due anni di distanza le magie di Krystal Sutherland. Pensavo fosse una meteora, lo ammetto, invece era la figlia segreta di Rainbow Rowell e John Green. Dalla sua: un'immaginazione sconfinata, temi difficilissimi sospesi fra favola e psicologia, un gruppo di personaggi memorabili sbucati da un romanzo gotico di Shirley Jackson. Ogni adolescenza, infatti, è una casa infestata: una storia di fantasmi. Esther, diciassette anni, non li teme. Come potrebbe, se a giorni alterni si abbiglia come Mercoledì Addams, ha amuleti appesi agli alberi in giardino e un piano della sua villa è chiuso al transito come l'ala di un fantomatico ospedale psichiatrico?

«La paura ti protegge. Devi sentirti spaventata fin nelle ossa» le sfiorò la clavicola con la punta delle dita, «perché l'audacia abbia un senso.»
Esther lo osservò. «E se muoio?»
«E se vivi?»

Casa Solar è un po' un castello degli orrori, un po' un bunker post-apocalittico: sui pavimenti scorrazzano liberamente galli e conigli (mamma, giocatrice d'azzardo, è convinta portino fortuna), gli interruttori della luce sono fissati con il nastro adesivo (il fratello gemello, Eugene, ha paura del buio e di sé stesso), in cantina è Natale in qualsiasi stagione (sei anni prima ci si è rifugiato il padre, veterinario agorafobico, devastato dagli ictus frequenti e dall'incomunicabilità). La nostra protagonista, all'apparenza normalissima, sembrerebbe lo strappo alla regola se non fosse per un dettaglio: alla maledizione di famiglia crede anche lei. I Solar, si tramanda, saranno uccisi dalle loro paure. Esther alterna bizzarri travestimenti per non farsi scovare, spaccia dolcetti a ricreazione con il sogno di risparmiare abbastanza per scappare via da lì e, complice il ragazzo giusto o forse sbagliato, accarezza l'idea impavida di salvare i suoi parenti. Il nonno, ex detective ossessionato da un assassino di bambini mai acciuffato, giura di aver conosciuto il Mietitore in Vietnam: un ventenne anonimo e butterato, che brindava con un bicchiere di latte e desiderava ritirarsi a vita privata a Santorini. Ammesso che esista, perché non sfidarlo a revocare la loro misteriosa iettatura? Basta affrontare la lista delle proprie paure di petto, punto per punto, inseguendo l'ombra della morte – e con essa, dunque, anche la vita. Ma affrontare aragoste, falene, luoghi angusti, scogliere e tempeste di fulmini è più facile in teoria che in pratica per qualcuno con le inibizioni di Esther: una ragazza che ha visto troppi film horror, infatti, ha disperatamente bisogno di qualcuno con la sfacciataggine di Jonah. Un coetaneo artistico e cleptomane, che alle scuole elementari la proteggeva dai bulli e al liceo, dopo anni di silenzio, le ha rubato prima il portafogli alla fermata dell'autobus, poi una promessa. Che vivrà pazzamente, testimone una GoPro.

Esther capitava la prima legge della termodinamica, secondo cui nulla si creava o si distruggeva: tutti i frammenti e i pezzi che costituivano un essere umano sarebbero stati redistribuiti altrove alla sua morte, ma dove andava la memoria? La gioia? Il talento? La sofferenza? L'amore.
Se la risposta era “da nessuna parte”, allora perché diavolo ci diamo da fare? Qual è il senso di quei grumi carnosi di consapevolezza che mangiano, bevono, amano e nascono da frammenti rabberciati dell'universo?

La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi conta quattrocento pagine, quaranta capitoli e cinquanta appuntamenti fissi: ogni domenica per un anno si sale sul motorino di Jonah e, aggrappati a lui, si flirta con i pericoli grandi e piccoli che erigono barriere intorno al mondo. Leggera soltanto all'apparenza, la lettura – figuratevi pure un mondo a metà fra Wes Anderson e Tim Burton – mi ha fatto ridere e piangere impunemente. Accanto alla Sutherland, un pigmalione australiano tutta citazioni nerd e ordinate liste per punti, è bellissimo scoprirsi codardi e vulnerabili. A cosa serve farsi in quattro per gli altri se a lungo sfugge l'essenziale, ossia salvare sé stessi?
A ben vedere questi Tenenbaum in chiave noir hanno tagli rattoppati sui polsi, conti in sospeso con mamma e papà e, con la scusa di una maledizione, mascherano da eccentricità malesseri più profondi. Si parla fra le righe di disturbi ossessivi, ansia sociale, depressione, e la lettura ispira inevitabilmente gli esami di coscienza: perché negli immancabili giorni storti io non avrò paura di schiocchi di chele e saette minacciose, no, ma della compagnia di me stesso. Il mio peggior nemico, mentre il Mietitore se ne sta in disparte: nelle corsie di un ospedale sfoglia un giornale con Kim Kardashian, annoiato, e lucida la propria falce.

«Be', sbagli su così tante cose che non so decidere da dove iniziare per dimostrartelo. E su cosa vuoi poi che ti dimostri che stai sbagliando?»
«La morte, soprattutto. E l'amore.»

Ho quasi venticinque anni e ormai acquisto young adult con il contagocce. Qualche volta sono troppo triste perfino per piangere e mia mamma, al telefono, si prende le colpe: siamo parte di una famiglia a pezzi, malinconici per natura, e a un bivio preferiamo guardarci l'ombelico – il passato è doloroso, il futuro incerto: allora dove rivolgersi, e a chi?
La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi è un romanzo speciale, che ti riconcilia con il mondo: di quelli di cui leggi da cima a fondo – compresi, insomma, ringraziamenti, fonti e note dell'autore – in cerca di un'altra iniezione di energia per endovena, degli indiscreti pregi dell'umorismo nero. Mi ha insegnato senza peli sulla lingua che i disturbi mentali non sono peggiori di una gamba rotta, che la terapia è il gesso per rinsaldare menti frantumate. E che di un uomo, quando scompare, restano in eredità la polvere, le storie e un'orchidea viola appoggiata sul cuscino.
Le paure ci obbligano a scomporci in compartimenti stagni, ma le navi non sono creazioni inaffondabili: lo sa bene il Titanic, che in acque gelide pagò il fio della propria presunzione. Cosa può Esther contro l'attrazione per Jonah: l'incubo degli incubi? Cosa possiamo noi contro l'iceberg? Krystel Sutherland firma un brillante avviso ai naviganti, nella speranza che le stazioni radio e le librerie diffondano il messaggio fino in capo al mondo: certi amori, certi urti, certi romanzi per fortuna ti obbligano a imparare a nuotare.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Bjork – It's Oh So Quiet