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lunedì 25 marzo 2024

Piccolo schermo, grandi star: Supersex | True Detective S04 | Expats | Lezioni di chimica

Quando insegnavo a Ortona, si percepiva l'eco della sua notorietà. Rocco Siffredi era un supereroe. Piace, dunque, la scelta di raccontarlo come il personaggio di un fumetto: il suo potere lo porterà lontano. Lo interpreta Alessandro Borghi, bravissimo nel catturarne l'accento e la risata nasale; impavido, e a giusta ragione, nel nudo. Sentimentale e animalesco, provinciale e cosmopolita, raccoglie le confessioni dell'uomo dietro il pornodivo: Siffredi è stato un funambolo sospeso tra eros e thanatos; uno degli ultimi testimoni di una generazione folle e trasgressiva, cannibalizzata dall'ignoranza verso la malattia (ruba la scena l'amica storica Moana Pozzi, dagli occhi tristi e dalle parole sibilline). Ottimamente recitata, ma didascalica e discontinua, la serie Netflix si affida troppo al talento dei protagonisti. Delude la sceneggiatura, che parla poco di sessualità; molto di famiglie disfunzionali; troppo di piccola criminalità (il fratellastro Giannini ha una storyline inutilmente ampia). Pop ma seriosi, gli episodi non hanno né la malinconia decadente di Shame, né la verità di Pleasure. Risultano superflui nelle tinte crime e frettolosi nell'epilogo. Affascinanti, invece, i personaggi femminili: donne fittizie (fatta eccezione per la moglie Rosa), che incarnano nei corpi e negli sguardi diverse facce del desiderio, dell'amore, dell'intimità. Se la modella Linda Caridi si conferma incantevole, a restare impressa è la cognata Jasmine Trinca: irraggiungibile, è l'occasione mancata, il chiodo fisso, una vittima del maschilismo che ne ha fatto una prostituta anziché una diva. In una storia di “cazzi e pistole”, insomma, hanno la meglio gli occhi delle donne. Bramati, pretesi, mai compresi (a partire da quelli, inflessibili, di una madre in lutto), fotteranno perfino colui che voleva fottere il mondo. (7)

È in Alaska, in un periodo dell'anno in cui la notte si confonde col giorno e il gelo è perpetuo, che prende le mosse la quarta stagione di True Detective. Questa volta è tutta al femminile e le tinte, con tanto di citazione al classico di John Carpenter in apertura, sono ineditamente horror. È pur sempre un poliziesco classico, solido: non aspettatevi il paranormale. I fantasmi sono quelli della solitudine e della malattia mentale. La suggestione è legata al folklore della comunità Inuit. Il caso, spaventoso, ruota attorno alla morte per congelamento di un gruppo di scienziati: analizzavano i ghiacci in cerca di un miracoloso microrganismo. Chi o cosa hanno scomodato con le loro ricerche? Come sono legati all'omicidio irrisolto di una giovane attivista in lotta contro la miniera locale? Indagano la rediviva Foster e la rivelazione Reis: la prima ex mangiatrice di uomini segnata dalla tragedia, l'altra sbirra spirituale e anticonformista, hanno età e metodi agli antipodi. Le uniranno un segreto scomodo, la solidarietà tra donne e una giovane leva da guidare, interpretata da un bravissimo Finn Bennett che, seppure in sordina, ruba spesso la scena alle due giganti. Più lineare e meno prolissa delle stagioni precedenti, si imbastardisce un po'. Accetta le contaminazioni, il femminismo hollywoodiano, le riflessioni ecologiste. I fan coi paraocchi, uomini in maggioranza, la stroncano. Ma, pur non essendo memorabile, si difende benissimo schierando un duo affiatato, ambientazioni affascinanti e, soprattutto, una dimensione familiare e umana che, a dispetto delle temperature artiche, la rendono la stagione più calorosa delle quattro. (7)

Le esistenze di tre donne si intrecciano a Hong Kong. In Cina c'è aria di rivolta. I giovani, barricati sotto gli ombrelli, condividono slogan e canzoni. Sono in rivolta anche le protagoniste (una americana, una indiana, una coreana), che mettono tutto in discussione all'indomani di una tragedia. Meglio tornare indietro o restare? Antipatiche, privilegiate, talmente umane da apparire sgradevoli, sono pessime nei rapporti interpersonali: le colf, viste ora come confidenti e ora come rivali, gestiscono case e famiglie al posto loro. Il quinto episodio, quasi un film a sé stante, si apre ai ritornelli dei manifestanti, alle nostalgie delle domestiche, ai comprimari nell'ombra. I restanti, meravigliosamente diretti da Lulu Wang, costituiscono un reticolo di femminilità a confronto. In questa miniserie, destinata a restare tra le migliori dell'anno, c'è chi ha perduto un figlio, chi non lo vuole, chi lo aspetta ma da un amante occasionale. Dolorosamente bello, il dramma di Expats mostra le risate isteriche in obitorio, gli incantesimi del make-up per nascondere i lividi della violenza domestica, i pianti catartici che spezzano le maledizioni. Amiche per affinità, nemiche per caso, le attrici protagoniste fanno a gara di intensità. E Nicole Kidman, qui struggente mater dolorosa, è così solidale da permettere alle sorprendenti Serayu Rao e Ji-young Yoo di brillare. Inscenato su uno sfondo esotico, il loro ritorno alla vita si interroga sul significato della parola “casa”; riempie i silenzi con le canzoni di Blondie, Adele e degli Abba; insegna che il dolore e il senso di smarrimento, così come certi misteri, non saranno mai archiviati. Ci si può convivere: a patto di non tremare quando non vedremo più la terraferma all'orizzonte. È lungo, il viaggio dell'elaborazione. Ma, costrette insieme a bordo, Nicole e le altre si scopriranno non più straniere a loro stesse. (8)

Cosa ci fa una scienziata alla conduzione di un programma di cucina per casalinghe disperate? Cos'è accaduto affinché una donna solitaria, fredda e razionale si trovasse (autentico scandalo, nei rigidissimi anni Cinquanta) con una figlia a carico e senza un marito? Scopritelo in una serie dolcissima e di buoni sentimenti, di cui invidierete gli outfit dai colori pastello e gli appassionati monologhi sul female empowerment. Certo, a volte la carne al fuoco risulta troppa: femminismo, questione razziale, origini familiari; all'appello c'è perfino un episodio raccontato dal punto di vista di un cagnalone divorato dai sensi di colpa. Ma in Lezione di chimica, dramedy ispirata all'omonimo bestseller edito Rizzoli prontamente finita fra le mie preferite del 2023, l'attrice Premio Oscar Brie Larson si rivela essere una padrona di casa arguta e volitiva, a cui vorrete in fretta un gran bene, e il romantico collega Lewis Pullman una rivelazione ingiustamente snobbata nella stagione dei premi maggiori. La scienza non ha tutte le risposte. In una reazione chimica contano anche l'inevitabile, l'inatteso. E in un incontro, in un amore, conta sempre la predestinazione. La miniserie Apple TV è un chicca per gli spettatori nostalgici di The Marvelous Mrs Maisel, ma anche anche gli orfani inconsolabili di This is us. Ci troverete la stessa energia, la stessa magia. (7,5)

mercoledì 8 maggio 2019

Mr. Ciak: Dumbo, Benvenuti a Marwen, Instant Family, Unicorn Store

Ci si aspettava poco. Dalla riproposizione di un cartone niente affatto apprezzato da bambino. Dall'ennesimo live action di cui in fondo non si sentiva il bisogno, con Aladdin e Il re leone già attesi al varco nei prossimi mesi. Dal ritorno al cinema di Tim Burton, mio regista del cuore, che purtroppo non indovina il film giusto dai tempi del sentito Frankenweenie. Si è andati in sala senza grandi pretese, con il biglietto pagato tre euro in promozione e un pubblico misto di pargoli e nostalgici. La sorpresa, se di sorpresa si può parlare, è che Dumbo risulti efficace nel suo niente di indispensabile. La fiaba animalista, debitamente aggiornata alla luce di una morale necessaria, più che a un adattamento somiglia a un seguito non dichiarato. Cos'è stato dell'elefante bullizzato per le orecchie a sventola, dopo le sue magiche lezioni di volo? La prima parte, a metà fra omaggio e ammodernamento, è il cartone originale: qualcosa resta, come la toccante Bimbo mio o la famosa sequenza degli elefanti rosa; qualcosa si perde, come il topolino per aiutante qui rimpiazzato dal reduce Farrell e dalla terribile bambina protagonista, scelta più per mamma Thandie Newton che per un'espressività che lascia molto a desiderare. Nella seconda, da emarginato a stella, il protagonista attira le attenzioni di Keaton, cattivo bidimensionale con al seguito l'incantevole e ribelle Eva Green: la scalcagnata compagnia di De Vito, già circense nell'insuperato Big Fish, viene inglobata da una multinazionale da sogno. O da incubo? La bestialità degli uomini e l'umanità degli animali emergerann, come da copione, in una chiusa che è la parte debole: un trionfo di fuochi e fiamme, d'ingombrante CGI, che perdeo amaramente il confronto con la riuscita animazione dell'elefantino. Perché il nuovo Dumbo è sempre lo stesso: imbranato e tenerissimo, cerca la mamma tenuta in cattività e minaccia di commuoverci spesso da dietro i suoi grandi occhi azzurri. Perché Burton, nel bene e nel male, è Burton: scolastico ma in discreta forma, nonostante il lavoro alla buona degli sceneggiatori, ripropone con trasporto la classica parabola dell'emarginato: la poetica del freak, che perde d'originalità in casa Disney, ma lascia spunti di riflessione ai giovanissimi. È il compito di un film per famiglie tanto godibile quanto convenzionale, che condanna la barbarie fuori moda del circo, omaggia la tecnologia e la creatività degli artisti tutti e, nel suo piccolo, sa farti volare a mezz'aria grazie alle orecchie di un'attrazione principali davanti cui è impossibile non sospirare, inteneriti. (6) 

Marwen è un villaggio fittizio in Belgio, assiepato dai nazisti e difeso da un esercito di donne armate fino ai denti. Marwen, ancora, è un mondo in miniatura che si rivela essere ben presto lo specchio consolatorio della realtà: l'elaborazione di un uomo sofferente, con la testa spaccata da una gang di teppisti, mentre si perde appresso agli amori platonici e a missioni di salvataggio degne di una spy story. Disegnatore e miniaturista, divorziato, Mark Hogan nutre una venerazione per il gentil sesso e il pallino per le scarpe con il tacco. Un'ossessione mai chiarita, che suo malgrado l'ha reso protagonista di un tragico attacco omofobico. Traumatizzato, adesso vive attraverso i suoi giocattoli. Lì è un soldato valente e fascinoso, che porta con orgoglio le cicatrici di guerra. Lì la sua vicina di casa, una deliziosa Leslie Mann, accetterebbe di sposarlo su due piedi. Apologo per grandi e piccini, a sorpresa flop al botteghino, Benvenuti a Marwen ha la regia di un Zemeckis in forma smagliante benché sottovalutato, effetti visivi ineccepibili – con loro, scenografie e costumi –, un attore protagonista che fa la differenza. Steve Carrell, senza scimmiottare il ben più famoso Forrest Gump, è come Carrey: un attore comico che, cosa ormai assodata, fa faville nei drammi, grazie a un sorriso svagato che riesce ad essere tenero e struggente insieme. Peccato che la sceneggiatura fatichi a decollare. Se l'idea di girare un biopic a confine fra animazione e live action appare brillante, sfortunatamente non segue a ruota una scrittura senza guizzi che lascia fare tutto al comparto tecnico; all'espressività del mattatore Carrell, colto nel divenire di un viaggio che racconta i meccanismi di difesa, la dipendenza da antidolorifici, il velo di Maya dei filosofi moderni. Quello che ottunde i sensi, ammortizza e c'inganna. Insieme a Mark, un superstite, dovremmo perciò imparare a discernere: la vita, infatti, non è una casa di bambole. (6,5)

Chiunque abbia avuto la sfortuna di sedere in un'aula di tribunale ricorderà le sedie sbrindellate, le attese estenuanti, le domande degli avvocati che scavano come vanghe. La sensazione di disagio, la ferrea volontà di non rimetterci mai più piede. Ma una sera, per caso, ho scoperto che i tribunali non servono soltanto alla caccia alle streghe; alle famiglie che finiscono. Realizzarlo, durante la visione dell'inatteso Instant Family, mi ha commosso in poltrona. Questa è la storia di una coppia senza figli, liberamente ispirata alle vicissitudini dello stesso regista, che si sobbarca un'impresa difficile il triplo: adottare, sì, ma un'orfana ormai adolescente. E i suoi due fratelli minori. Con la loro età malsicura, con i loro traumi, con la voglia di riabbracciare ancora la mamma spacciatrice. Sulle orme di Una scatenata dozzina e This is us, a metà fra l'intrattenimento godereccio e i mèlo dai buoni sentimenti, Sean Anders indovina gli equilibri vincenti di una commedia affatto originale, ma a modo suo sorprendente. Un film vecchio stile che è proprio quello che appare, ma anche l'esatto contrario. Ben scritto, recitato con contagiosa armonia – accanto a Wahlberg e Byrne, occhio alle esilaranti caratteriste Spencer, Cusack, Martindale –, in una serata leggerissima mi ha strappato lacrime e risate in quantità. Rischiava di passare inosservato, eppure, per via del solito poster, per colpa del solito cast. Un tema lodevole è affrontato con realismo inatteso, invece, e note scorrette che non guastano. Perché genitori si diventa, si diventa una famiglia. Basta imparare: insieme. (7+)

E se un invito anonimo promettesse di renderti finalmente felice? Succede a una trentenne in crisi, con una carriera fallimentare in campo artistico e una convivenza forzata sotto il tetto di mamma e papà. Si improvvisa a malincuore segretaria, benché nel frattempo punti ai mondi impossibili del proprio inconscio grazie a un pigmalione dai completi variopinti: un Samuel L. Jackson istrionico ai limiti dell'irritazione, che alla protagonista con la testa fra le nuvole spalanca all'improvviso le porte del sogno. Invitandola a prestare fede all'immaginazione. Ma quando è un bene, quando un male, quando alienazione pura? I bontemponi sono definiti eterni Peter Pan, ma le donne si figurano segretamente addestratrici di unicorni. Store Unicorn, commedia strampalate dalle scenografie arcobaleno e le luci iridescenti, ricorre al bagaglio di uno spirito fanciullesco come antidoto a un'infanzia solitaria e a una giovinezza interrotta. In questo bailamme di personaggi dolci e surreali, dotati di un umorismo talmente particolare che potrebbe non piacere a tutti, spicca il “capitano” Brie Larson: qui impegnata in una doppia veste. Che piacere rivederla alle prese con i pregi e i difetti del cinema indie, momentaneamente in pausa dai blockbuster Marvel! Che piacere rivederla alle origini, nei panni di un'infaticabile sognatrice, mentre mette in scena i mostri e le fate negli armadi del suo passato, in una fiaba sui generis tutt'altro che memorabile ma comunque molto sentita! Mentre si prepara ad accogliere l'amico mitologico allestendo una mangiatoia, per la prima volta torna a vivere. Si guarda intorno, e non è da sola. Un po', la aspettavamo noi. (6)

sabato 31 dicembre 2016

[2016] Top 10: Mr. Ciak



10. Il piccolo principe: L'essenziale è invisibile agli occhi, ma qui si vede chiaro e tondo; l'immagine di un'aspirapolvere che risucchia via gli acari e le stelle mi tormenta ancora.
9. Blue Jay: I grigi limpidi e i sorrisi rubati per un soffio a Blue Jay stracciano il cuore. E, davanti a Sarah Paulson e Mark Duplass che si pestano le scarpe ballando in cucina, senti nostalgia perfino delle persone che non hai ancora amato.
8. Animali Notturni: Quando ti innamori di uno scrittore, dicono, vivi per sempre. E quando gli spezzi il cuore? La risposta, nell'opera seconda di un regista con il cognome western e lo sguardo dell'esteta.
7. Sing Street: Se crescendo ci si è scordati di com'erano teneri ed esilaranti i quindici anni, ci si rinfresca la memoria fischiettando la colonna sonora più bella del mondo.
6. Swiss Army Man: L'opera prima di un assortito duo di nicchia smuove qualcosa, nel profondo di te. Non sono solo i succhi gastrici: c'entra un po' anche l'anima
5. La pazza gioia: Non si scappa davanti a un’ilarità esagerata e alla commozione. Con il mare al mattino, l’intramontabile Paoli, tutta la speranza che c'è.
4. Lo chiamavano Jeeg Robot: Ha un cuore d'acciaio, nessuna paura e tutti noi, che gli restiamo accanto: perché lui, che corre e va per la terra, che vola e va tra le stelle, è il Jeeg che aspettavi ma non ti aspettavi.
3. Captain Fantastic: Si fuggiva dalla cella di Room per scoprirsi più prigionieri all'esterno.Qui, invece, si fa breve ritorno al conformismo, agli orizzonti industriali, e mancano il completo da funerale e il pudore. Questi Gallagher naturisti si mettono in discussione, scoprono la bellezza delle mezze misure, non si trasformano in ciò che odiavano. Dicono addio e cambiano aria.
2. Perfetti sconosciuti: I panni sporchi si lavano tutti insieme, sotto una luna strana. La tensione si può tagliare – da servire a fette al posto del dolce – e le riflessioni, se avanzano, le si porta a casa per il giorno successivo. Sempre che una risata che si colora d'amarezza non ci seppellisca tutti prima dell'arrivederci.
1. Room: Per vivere in questo mondo ci vogliono gli occhiali scuri, la crema solare, un cappello a forma di orso per ripararsi da una pioggia scrosciante che no, non ci affogherà. Bisogna farsi gli anticorpi, contro l'insensata crudeltà del prossimo. Allo spettatore, per sopportarla, basta invece guardare gli occhi blu dello straordinario Jacob Tremblay: grandi e stupiti, mentre contempla un cielo sconosciuto.

Migliore attore protagonista:
Room – Jacob Tremblay
The Danish Girl – Eddie Redmayne
Steve Jobs – Michael Fassbender
Migliore attrice protagonista:
La pazza gioia – Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti
Room – Brie Larson
Blue Jay – Sarah Paulson
Migliore attore non protagonista:
Swiss Army Man – Daniel Radcliffe
Lo chiamavano Jeeg Robot – Luca Marinelli
Creed – Sylvester Stallone 
Migliore attrice non protagonista:
The Danish Girl – Alicia Vikander
Other People – Molly Shannon
Lo chiamavano Jeeg Robot – Ilenia Pastorelli 

Muchacha sexy:
The Dressmaker – Kate Winslet
Suicide Squad – Margot Robbie
Cafè Society – Kristen Stewart
Bello e impossibile:
Nonno scatenato, Mike & Dave – Zac Efron
The Legend of Tarzan – Alexander Skarsgard
La ragazza del treno – Evans, Theroux, Ramirez
Nice to meet you:
Veloce come il vento – Matilda De Angelis
Other People – Jesse Plemons
Sing Street – Ferdia Walsh-Peelo
La coppia più bella del mondo:
Lo chiamavano Jeeg Robot – Santamaria, Pastorelli
Macbeth – Fassbender, Cotillard
Blue Jay – Paulson, Duplass

Sing!:
Lo chiamavano Jeeg Robot – Un'emozione da poco
Captain Fantastic – Sweet Child O'Mine
Blue Jay - No more I love you's
Psycho Killer!:
Hateful Eight – Gli otto assassini
Lo chiamavano Jeeg Robot – Luca Marinelli
The Neon Demon – Jena Malone
Will you recognize me?:
The Danish Girl – Eddie Redmayne
Veloce come il vento – Stefano Accorsi 
Suicide Squad – Jared Leto
Let's talk about sex:
Sausage Party – L'orgia finale
Anomalisa – Michael e Lisa
The Neon Demon - Necrofilia 
Cry me a river:
Miss you already – Il finale
The Danish Girl - “I want my husband”
Il drago invisibile – Il finale
The A-Team:
Perfetti sconosciuti
Florence Foster Jenkins
Spotlight

mercoledì 4 maggio 2016

Dear Old Mr. Ciak: Short Term 12, Broken, La vità è facile ad occhi chiusi, And While We Were Here

[2013] Short Term 12. Si chiama così una struttura di periferia che accoglie bambini grandi e piccoli, e così si chiama il bellissimo dramma indie di Destin Daniel Cretton. Se sei tra i suoi giovani ospiti, non hai avuto un'infanzia felice. Se sei tra i suoi volontari, ragazzi tra i venti e i trent'anni con la vocazione al bene, sei stato anche tu un bambino triste – ma lo ammetti solo adesso, con un figlio in arrivo che forse non vuoi veda la luce – o, semplicemente, riponi grande speranza nella gioventù. Se sei un degente, ti hanno maltrattato o abbandonato. Se sei un operatore, ha le scarpe da ginnastica, i nervi saldi, il passo svelto: ci sono ragazzini che tentano la fuga quotidianamente; chi ti risponde per le rime; chi, chiuso nella sua afasia, non ti risponde affatto. Una famiglia di adolescenti disastrati ma poco disastrosi, e a capo ci sono Grace e Mason: a malapena trentenni, adulti da poco. Abbastanza per avere, adesso, una famiglia tutta loro? Non molto tempo fa, infatti, sono stati entrambi come le anime perdute a cui fanno da mentore. Lei ha scoperto di essere in dolce attesa, ha preso appuntamento per sbarazzarsi del bambino e si domanda – reduce da un'infanzia di abusi indicibili – che mamma sarà, un giorno. Lui, rimbalzato da una casa-famiglia all'altra, e infine adottato da una coppia di coniugi amorevoli, si rapporta alla vita con la fiducia che alla sua compagna, che ha nel cuore un dramma ancora irrisolto, purtroppo manca. E chi aiuta loro? A preoccuparli, il pensiero di un bambino che soffre di depressione che, a giorni alterni, tenta la grande fuga dal centro; un diciottenne che, con il raggiungimento della maggiore età, deve andare via, ma dove, esattamente?; un'adolescente che, in mezzo a tanti orfani, un padre lo ha, ma non è il genitore che merita. Se fossimo in presenza di un film hollywoodiano, la ragazza ribelle si innamorerebbe del ragazzo ribelle; il dolce presente combatterebbe l'amaro passato. E invece no, ma non per questo il film è meno dolce; non per questo è meno delicato o commovente. Ne guadagna in schiettezza. Ne guadagna in verosimiglianza. Una fiaba neoralista, quasi, che parla di ragazzini abusati, trascurati, problematici e ci mostra una sconosciuta Brie Larson, che straordinaria, ma sottovoce, lo era ben prima del trionfale Room. Short Term 12 è un film di nicchia, raro, onesto, magnanimo, che ti dà fiducia nel prossimo e che, se senti che il mondo ti è avverso, ha il miracoloso potere di insegnarti a conviverci ugualmente. Per curare tutte le cicatrici che nascondi gelosamente. Visibili o invisibili che siano. (8)

[2012] Le tre case formano una figura geometrica. Il quartiere è periferico, il vicinato rumoroso. Nella provincia londinese, in una periferia senza connotati precisi, vivono – e, spesso, si urtano – tre famiglie diverse nello stile di vita, ma che hanno scelto la stessa borgata per mettere radici. Ci sono piccole donne al limite, che crescono senza madre; due coniugi di mezza età, genitori di un ragazzo fuori dalla norma, che parla pochissimo ma osserva tutto; soprattutto, ci sono Skunk e suo fratello, che giocano come se potesse essere estate per sempre, interessati alle cause del papà avvocato e ai misfatti sentimentali di una tata che, per un periodo, è stata la fidanzata del loro prof. Nella prima scena, dal nulla, l'introverso e fragile Rick, accusato di violenza carnale, viene aggredito dal vicino iracondo. Ma Skunk, bambina diabetica e intelligente, sa distinguere il vero dal falso, al di là del pregiudizio e dei dubbi. I suoi hobby e il suo primo amore, in un'ora e mezza che lì per lì non ha peso ma che, sul finale fortemente tragico, annienta e cattura, mentre passava, l'infanzia che confluisce nell'età della ragione; la perdita dell'innocenza. Broken, tratto da un romanzo di Daniel Clay che ho sempre voluto leggere, è una libera riscrittura dell'intramontabile Il buio oltre la siepe. Contempla la spensieratezza, gli atti di prepotenza quotidiani, la discesa inevitabile di una povera anima che, accusata, si trasforma in colpevole per davvero. Skunk, odierna Scout, si rapporterà al dolore di un moderno Boo Radley in balìa del destino – a unire le due protagoniste, una governante onnipresente, un altro giudizioso Atticus Finch, la bontà – in una società che, vista così, anche se meno accogliente, anche se meno patinata, ricorda un po' American Beauty. Non mancano i nomi noti – Tim Roth, Cillian Murphy – ma a rubare attenzioni è il talento folgorante di Eloise Laurence: un'esordiente i cui primi passi risultano indimenticabili come quelli della collega Saoirse Ronan, in Espiazione. La scenografia è scarna, la fotografia sporcata e la colonna sonora – fanciullesca, eterea – dà alla periferia quel tocco di fascino che solo il cinema inglese. Con la sua naturale indipendenza, un'emozione trattenuta e, questa volta, isolato difetto, un epilogo scioccante che sfugge di mano; dove a spezzarsi, checché ne dica il sottotitolo italiano, è più di qualcosa. Più di un'esistenza. Si perde l'equilibrio, passando da un estremo all'altro. Ma così è la vita: che va, viene, e non ama avvertire. (7)

[2013] Antonio è un maestro che insegna l'inglese attraverso i pezzi dei Beatles. Amichevole e dal cuore grande, anche troppo, crede in canzoni che cambiano la vita e nel potere dei sogni. Perciò, nella Spagna di Franco, sale in macchina per raggiungere, attraverso strade tutte curve a strapiombo sul mare e incontaminate campagne, il set spagnolo del film che John Lennon sta girando. In un alberghetto su cui brilla sempre il sole, in campi di contadini gradassi e fragole dolcissime, si consolida imprevedibilmente il rapporto con Belén e Juan, due giovani fuggiaschi a cui ha dato un passaggio: la prima, ragazza alla deriva; il secondo, sedicenne ribelle di cui il padre non approva il capello lungo e la musica che ascolta. Si narra che in quegli stessi anni, tra l'altro, Lennon abbia scritto Stawberry Fields Forever e che, proprio dal colloquio con un insegnante, sia nata l'idea di accompagnare i dischi con i testi delle canzoni. La vita è facile ad occhi chiusi – riconoscete, nel titolo, la frase cardine del loro brano più bello? - è una commedia dai toni pastello, arrivata con due anni di ritardo da noi, dopo il successo ai Goya, che trasferisce nella Madrid sotto dittatura i principi del sogno americano e, insieme, una Beat Generation in corso di traduzione. Fedeli a Kerouac si vive perciò “on the road”, ma senza trasgredire, e il fantasma di Lennon diventa, magicamente, personificazione di un miraggio fanciullesco ma necessario. La regia non osa guizzi, la trama è semplice e un po' buonista, ma vuoi l'ottimo cast, vuoi la straordinaria voglia di leggerezza che sprizza, il film di David Trueba è di buoni sentimenti e di immediato impatto: emozionante e solare. Contenitore di storie autentiche, collaboratore attivo del buon umore. Perché La vita è facile ad occhi chiusi, ma ad occhi aperti – soprattutto in questa sgarciante foto d'epoca – è più dolce rispetto alla norma. (6,5)

[2012] Jane e Leonard si sono sposati, giovanissimi e dubbiosi, perché c'era un bambino in arrivo. Quel bambino è andato perso – insieme a altri, in altri dolorosi aborti spontanei – e i due sposi si sono trovati tristi e più soli di prima all'interno di un matrimonio vittima della routine. Finché Leonard, di professione violinista, non è invitato a Napoli per lavoro e Jane, scrittrice in cerca di ispirazione, non lo segue, per capire cosa va e cosa non va coi loro sentimenti infreddoliti. Durante una solitaria gita a Ischia, la protagonista incontra Caleb, un ragazzo più leggero di lei per i dieci anni di differenza e tante preoccupazioni in meno. Iniziandolo al primo amore, una Jane traditrice ma senza colpe scoprirà con lui, diciannovenne solare e immaturo, che ne sarà delle sue relazioni: alla deriva, nell'azzurro Mar Tirreno. And While We Were Here, delicato dramma indipendente con le vaghe suggestioni del Sundance e i meccanismi dei film diversamente sentimentali che tanto mi piacciono, è un altro titolo da aggiungere alla lista a cui ho dato il via la scorsa estate in cui un lui incontra una lei (o viceversa) in un luogo da cartolina. Preparatevi ai lunghi dialoghi per conoscersi meglio, a attori spontanei e rilassati e a candidi cliché sull'Italia e gli italiani. La città sporca e chiassosa contro l'isola paradisiaca, gli scenari ideali in cui parlarsi senza annoiarsi neanche un po'. L'occhio che scivola dal quieto corteggiamento dei bei Kate Bosworth e Jamie Blackley – lei ormai nota, lui visto recentemente in Resta anche domani – alle meraviglie della costiera, con una colonna sonora raramente folcloristica. Poteva essere meglio, poteva essere peggio: più introspettivo, meno lieve. Comunque, non dispiace. Grazie a un finale, anche, in cui fino alla fine non si sa se Jane seguirà le sue responsabilità di moglie, il suo ritorno alla gioventù, o solo se stessa. (6)

mercoledì 17 febbraio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Room, Il caso Spotlight

Miglior film, Regia, Attrice, Sceneggiatura non originale
Una mamma prigioniera, un figlio che non ha mai visto l'esterno. Dopo la fuga, il miracolo impensato di una seconda infanzia per il piccolo Jack - tra i narratori più dolci in cui mi sia mai imbattuto – e anche per noi lettori. A volte, troppo presi dal resto per accorgerci di quanto sia azzurro il cielo e di quanto grande, ma spaventoso sia invece il mondo. Là fuori, piccoli principi - sui loro pianeti a forma di capanno degli attrezzi - e orchi famelici. Mi era piaciuto raccontarvelo come una fiaba, a parole mie. Un ricordo per un ricordo, scambio equo, e una panoramica personalissima su undici metri che racchiudevano tutto l'amore e tutta la speranza di questa nostra folle umanità. Nella Stanza, c'è però chi ci ritorna. Ho letto il bestseller di Emma Donoghue a dicembre e l'ho incoronato senza doverci pensare su romanzo dell'anno; dalla mia palla di vetro, da petto e stomaco che scalpitavano all'unisono, vi avevo anticipato la sua necessaria presenza alla notte degli Oscar, dopo la calorosa accoglienza a Roma e il premio alla migliore attrice protagonista ai Golden Globes. Lo avevo letto in cerca del meglio – sull'innocente Jack, così minuto eppure così forte, il fardello di un triste inizio e delle mie aspettative astronomiche – e, di lì a poco, avrei visto la trasposizione cinematografica a cura di Lenny Abrahmson, già autore del dissacrante Frank, con simile ansia. Se Revenant era un'americanata senza fantasia e Brooklyn una commedia retrò dallo scarso mordente, in Room cercavo la potenza e l'originalità di cui il cinema indie è naturalmente capace. Il miglior film della competizione, o almeno il mio - amante, al contrario dell'Academy, del cinema di nicchia, più della sostanza che della forma e di emozioni che, nel tempo, non ti tradiranno. Room, rimaneggiato, è altrettanto struggente e trasognato. Una trasposizione rispettosa e calzante di un racconto che si articola in due parti: la vita dentro, sotto chiave, e l'avventuosa conquista del fuori. Ma dove si sta meglio e dov'è più facile volersi bene? Per vivere in questo mondo, ci vogliono gli occhiali scuri, la crema solare, un cappello a forma di orso per ripararsi da una pioggia scrosciante che no, non ci affogherà. Bisogna farsi gli anticorpi, contro l'insensata crudeltà del prossimo. Allo spettatore, invece, per sopportarla – la vicenda infatti sconvolge, ma i toni sono quelli delicatissimi in cui confidavo sin dall'inizio - basta guardare gli occhi blu dello straordinario Jacob Tremblay, grandi e stupiti, mentre contempla un cielo di un colore sconosciuto, ritagliato tra i fili del telefono, i rami secchi, la ruggine del pick up del padre assassino. Ancora in cattività, ma presto libera, una intensa Brie Larson: la notevole somiglianza fisica, la confidenza e l'intimità di un piccolo set, di una piccola stanza, rendono i due attori metà combacianti e parenti di sangue. Lui, ancora più di lei, è un ometto da applausi: inspiegabile la sua mancata candidatura. E Leo, al posto tuo, avrei avuto paura del prodigioso Jacob. Si sorride, inteneriti. Si piangono fiumi di lacrime, ma sono sincere, e scorrono più per le cose belle che per quelle brutte. E nel dramma madre-figlio di Abrahmson, nonostante la rabbia e il disgusto, c'è davvero tanto per cui gioire: l'amore non ha confini, la stanza è un buco arredato alla bell'e meglio, ma il film del regista irlandese sa essere immenso. Ciao Ma', sii forte, e ciao Jack, di mezza spanna già più alto. Sapete che in sala sta per passare una perla tutta schegge e speranze che parla niente meno che di voi? Arriverci Letto, arrivederci Armadio, arrivederci Specchio; a tutti, addio. Anche a te, cuore, che ormai dici di voler restartene lì, per un altro po'. (8,5)

6 Nominations 
Siamo negli anni ottanta e, in una commissariato di Boston, c'è una mamma interrogata, insieme al figlio. Il bambino è stato molestato - e da chi, all'epoca, non ti saresti aspettato mai. Il suo aguzzino indossava l'abito talare. Ma il crimine non poteva essere denunciato: si seppelliva la verità sotto mucchi e mucchi di sabbia, se poteva creare scandali mediatici. Per il sacerdote, il minimo indispensabile della pena: il trasferimento presso un'altra parrocchia. E lì, come riveleranno i coraggiosi giornalisti del Globe, altre vittime innocenti, altri occhi chiusi, altre menzogne. Sono trascorsi quasi vent'anni e siamo precisamente agli inizi del nuovo millennio, quando nella redazione di un quotidiano locale arrivano un nuovo direttore e, dal passato, uno scoop. All'incirca, le statistiche dimostrano che il sei percento dei sacerdoti, almeno una volta, ha abusato di un loro piccolo parrocchiano: un chirichetto, il bambino più timido che frequenta il gruppo del catechismo, un fragile dodicenne che ha confessato al parroco gli ingenui sospetti sulla propria omosessualità... Fatte le debite proporzioni, nel capoluogo del Massachussets dovrebbero essere quasi novanta i preti tacciati di pedofilia. Invece, risultavano dieci scarsi quelli implicati in lunghi casi giudiziari che si erano conclusi o con l'omertà, o con un irrisorio risarcimento danni. E gli altri ottanta a piede libero, ma mai denunciati? Cos'era stato, soprattutto, di quei minori che per vergogna non avevano chiesto prima giustizia? Spotlight, presentato in anteprima a Venezia, premiatissimo e nominato nelle maggiori delle categorie, è un thriller che ruota intorno alle indagini di un manipolo di tenaci reporter statunitensi, invischiati in un caso che sfugge, disgusta, mette a dura prova i nervi. All'inizio, hanno pochi nomi e tanti nemici. L'indagine è circostritta e delicata. Da metà in poi, lo scandalo pedofilia supererà i confini nazionali e, nel mirino, il vicino di casa, il vecchio insegnante di religione, il Vaticano. E la Chiesa che, potente e corrotta associazione a delinquere, intima che si faccia al più presto silenzio. Tom McCarthy, ispirandosi a un'indagine Premio Pulitzer, scrive e dirige un film d'inchiesta che ha, dalla sua, insieme a una storia spinosa e quantomai attuale, un cast d'eccezione. Prevalgono la dimensione corale, la portata della notizia e la ricerca dei sopravvissuti al tocco ignobile di alcuni adulti, piuttosto che le singole storie dei giornalisti in azione. I riflettori saranno puntati, dunque, sui dati nudi e crudi e sui resoconti delle vittime, non su prove attoriali piene di discrezione, tatto e naturalezza – Keaton, Schreiber, Tucci e Crudup non sono meno soprendenti, infatti, del sempre grande Ruffalo e di un'anonima Rachel McAdams. Le vittime, bambini bisognosi e taciturni a cui un cattivo sacerdote, un orco, aveva rubato l'innocenza e, peggio, la Fede nel prossimo. Non ci sono religioni giuste o sbagliate, non c'è un Padreterno che vendica in questa vita – e nell'altra? - i torti subiti: la colpa, conferma il lucido e analitico McCarthy, è degli uomini. E lo fa con uno stile cronachistico, valido e incalzante, ma con il taglio di un documentario. Spotlight, percio, seppure fruibile e schietto, è un film d'inchiesta che ha riflessioni e dita puntate, ma non il guizzo. Incontrovertibile e ingiudicabile. Non la mia idea di miglior film, laddove l'attinenza ai fatti e il forte realismo lasciano da parte il piacere di una storia – vera o falsa che sia – raccontata con personalità, assieme ai non trascurabili benefici della quarta parete, qui assente. Ci perde Dio, sotto accusa. Ci perde l'essere umano, vile. E quando ci guadagna qualitativamente parlando il cinema, se trionfa la verità? (6,5)