Visualizzazione post con etichetta CBS. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta CBS. Mostra tutti i post

sabato 30 luglio 2022

Addii e arrivederci: This is Us s06 | Stranger Things s04

Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Da adolescente ho letto questa da frase da qualche parte e ho finito per farla mia. Non sapevo niente di Anna Karenina, ma sapevo dove appartenevo. E in preda alla supponenza della gioventù, fiero perfino dei miei dolori, mi mostravo sprezzante verso l'armonia degli altri. Noi eravamo infelici, ma unici. Quando sei anni fa la mia famiglia è finita – almeno per come l'avevo conosciuta fino ad allora –, il distacco ha fatto male comunque e tuttora, sotto i vestiti, nascondo i bordi frastagliati di quel primo strappo. È stato allora che ho conosciuto i Pearson. Con loro, per sei anni e 106 episodi, è stato Natale tutti i giorni. E oggi, un po' più solo di quanto non fossi ieri, voglio ringraziarli per i sorrisi tra le lacrime e la compagnia. Tra alti e bassi, hanno compiuto un miracolo della serialità americana: fidelizzarci tutti mettendo in scena l'ordinario. Chiamala ordinaria, poi, una famiglia che resiste alla morte improvvisa del patriarca (Ventimiglia, l'uomo perfetto); una mamma che, divorata dall'Alzheimer, conserva gentilezza e dignità (Mandy Moore, da Emmy); una squadra di fratelli, nuore e genere, figli biologici e adottivi, radunata per un addio che si trasforma in una festa. I “Big Three” sono cresciuti e, stretti sotto un portico, nella baita che hanno costruito, si aggrappano gli uni agli altri temendo di andare alla deriva: Randall presta i suoi discorsi solenni alla vita politica; Kevin, padre di due gemelli, scende a compromessi; Kate, sempre mal sopportata, stupisce mostrandosi controcorrente tanto nelle scelte sentimentali quanto nei testa a testa coi fratelli. Le perle di saggezza, però, spettano ai personaggi secondari: da Beth, la mia preferita, che definisce un dono e un fardello l'incontro con una famiglia tanto ingombrante, fino a giungere a William: in uno struggente dialogo tra la vita e la morte, guida Rebecca lungo il treno dei ricordi e rassicura lo spettatore inconsolabile. Se la fine di una cosa ci rattrista, insegna, è perché era particolarmente bella mentre accadeva. Tutto era già scritto nella fine dei Pearson: ce lo avevano anticipato i flashforward. Ma quando l'inevitabile succede le lacrime scorrono in ogni caso. Tolstoj aveva ragione? Tutte le famiglie felici si somigliano? Felicissimi a modo loro, i Pearson hanno addolcito nei giorni peggiori la malinconia per come eravamo e aiutato a scendere a patti con le contraddizioni che, per autoindulgenza, mi gonfiavano il petto: mi sognavo felicissimo anch'io. (8)

Per alcuni è la migliore delle quattro stagioni. Per me è troppo frammentaria e sconnessa per rivaleggiare con la commovente coralità della prima, troppo seriosa per concorrere con lo spassoso bagno di sangue che fu la terza. I protagonisti, al centro di storyline separate, non si incrociano quasi mai. Qualche trama (vedasi quella di Joyce in Russia sulle tracce di Hopper) appare improbabile perfino per una serie horror-fantasy. Le soddisfazioni arrivano dal trio composto da Steve, Nancy e Robin, riuniti nuovamente dall'irresistibile Dustin; dall'approfondimento psicologico dedicato alla fragile Max, al centro di una scena subito cult sulle note di Kate Bush; da Eleven, mai troppo apprezzata, protagonista di flashback sorprendenti in un covo sotterraneo degno degli X-Men. Servivano episodi di un'ora e trenta? Serviva introdurre personaggi su personaggi – fatta eccezione per l'iconico Eddie, ingiustamente accusato di omicidio –, con il rischio di perdere di vista i vecchi? Nonostante si applauda la new entry Jamie Campbell Bower, serafico e misteriosissimo nella sua divisa bianca, si ha a lungo l'impressione che la storia avanzi di poco. Piacevolissima e derivativa, forse più che mai, stavolta vanta i toni più sanguinosi del cinema di James Wan (non scomoderei la saga di Nightmare, a dispetto del cameo di Robert Englund). Questo discorso, almeno, valeva per i sette episodi, rilasciati dalla piattaforma streaming a fine maggio. Gli ultimi due, disponibili dal primo luglio e prolissi quanto blockbuster, sono invece talmente elettrizzanti, ambiziosi e caotici da spazzare via ogni scetticismo: le linee narrative finalmente si intrecciano e i personaggi, anche se ancora distanti, organizzano uno strepitoso attacco combinato contro un nemico che si nutre d'inquietudini adolescenziali. Ci si commuove? Sì, anche se non per la fantomatica conta dei morti. Ma si scoppia più spesso a ridere, entusiasti, per i montaggio forsennato; per uno sfortunato outsider che improvvisa un concerto metal assediato dai pipistrelli; per quel camioncino della pizza che, tra le dune del deserto, a sorpresa conduce Stranger Things alle origini della sua magia. (7,5)

venerdì 8 ottobre 2021

Stagione che vieni, serie TV che vai: Sex Education 3 | Modern Love 2 | Atypical 4 | This is us 5 | Dickinson 2

All'inizio l'avevo sottovalutata, scambiandola per una specie di American Pie. Ma capace com'è di alternare i momenti goderecci alle riflessioni, a sorpresa, Sex Education è una serie che cresce di stagione in stagione. E la terza, per me, è la più bella finora prodotta. Matura e inclusiva come non mai, oltre a seguire l'evoluzione di personaggi ormai amatissimi, ha un occhio di riguardo verso il mondo queer. E l'amore platonico tra l'atleta popolare e il nuovo personaggio non binario, insieme a una scena che affronta la tematica tabù di sesso e disabilità, è di una delicatezza commovente. Di mezzo ci si mette anche la preside Jemina Kirke, cattiva ma non troppo, che per riportare ordine impone divise inamidate e etichette. Nell'impossibilità di esprimere sé stessi, i personaggi sentiranno nostalgia delle lezioni impartite da Otis e Maeve: ormai ai ferri corti – lui in una relazione segreta con Ruby, lei presissima da Isaac –, per un po' si sfiorano a malapena ma faranno scintille in gita. Come può Aimee superare il trauma delle molestie? Con chi possono confessare Eric e Adam, dopo un clamoroso coming out, le prime titubanze? C'è qualcosa di sbagliato nelle fantasie di Lily, che si eccita soltanto con racconti sugli alieni? Mentre gli adulti spiazzano tutti con una gravidanza imprevista – è fiocco roso per Gillian Anderson –, gli sceneggiatori non dimenticano di approfondire i comprimari né di stare al passo. La serie elogia il sesso, in qualunque sua forma, ma condanna il sessismo. Dà voce a ogni identità di genere, mette in mostra ogni corpo. È empatica e formativa, senza mai scadere nel didascalismo: la farei vedere a scuola, vorrei viverci dentro. Perché insegna stare meglio al mondo, e con più leggerezza. (8)

Era la coccola di cui avevo bisogno, soprattutto per riprendermi dai postumi dell'estate appena passata. Ma dopo quel debutto dolce e brillante, finito nel meglio della sua annata, questa volta Modern Love non propone né sensazionali parate di stelle (gli attori più famosi sono Minnie Driver, Anna Paquin e Kit Harrington: pochi e televisivi) né lacrime durature. Di otto episodi ne ho apprezzato fino in fondo soltanto tre. Il primo (la macchina del defunto marito Tom Burke da dare via: preparate i fazzoletti), il sesto (due anime tradite si incontrano e fraternizzano in fila da un terapista: dirige il regista del bellissimo Brooklyn), il settimo (dopo un'isolata notte di passione, due ragazzi gay si incrociano lungo le strade di New York con un espediente narrativo a metà tra Closer e The Affair). Godibili il secondo e il terzo (piccole commedie indie che azzeccano i ritmi e le tematiche, ma sbagliano purtroppo il cast: peccato), di una noia inenarrabile il quarto e il quinto (il primo amore di una stand-up comedian e la scoperta di sé di un'adolescente, forse lesbica, forse asessuale), stucchevole ma guardabile il conclusivo (troppa carne al fuoco, tra ritorni di fiamma e malattia, per non scontentare gli inguaribili sentimentali). Tutt'altro che moderna, romantica a tratti, a questo giro non vi farà innamorare. (6)

D'un fiato, anche se in ritardo sulla tabella di marcia, ho recuperato anche la quinta stagione di This is us. Nonostante i momenti di commozione non si siano negati, complice i ritmi del binge watching, per me è forse la stagione più discontinua e frammentaria del ciclo: soprattutto dopo i fasti impensati della precedente, di una magia pari a quella dell'esordio. Trovo saggia perciò, come annunciato da cast e produttori, la scelta di salutare per sempre la famiglia Pearson il prossimo anno: la sesta stagione sarà l'ultima. I flashback e i flashforward sono introdotti disordinatamente, con flebili fili conduttori a unirli. La costante presenza del Jack di Milo Ventimiglia, a malincuore, appare sempre più forzata. Ma se un Kevin neopapà si conferma il mio preferito dei tre fratelli e Kate, invece, la più insopportabile, sorprende constatare quanto a tenere banco siano quei comprimari un tempo in secondo piano: l'adorabile zio Nicky, la madre biologica di Randall, Beth, Toby, Miguel e soprattutto Madison, futura sposa di Kevin. L'emergenza sanitaria ancora in atto avrà fatto sicuramente la sua parte, guastando i piani di gloria degli sceneggiatori. E per la prima volta, così, viene messo in scena in TV il dramma delle mascherine antisettiche, degli abbracci centellinati, della degenza. Il pregio? Benché dimenticabili, questi quindici episodi sono la campagna vaccinale più efficace su piazza. Per questo e per l'affetto che ormai ci lega, gli perdoniamo qualche sbadiglio qui e lì. (7)

Comedy su un adolescente autistico alle prese con le gioie e i dolori della crescita, è la serie che più mi ha tenuto compagnia negli anni. Giunta alla quarta stagione, non senza qualche tempo morto nel mezzo, Atypical ci dice addio senza grandi sensi di colpa. Il protagonista, Sam, è cresciuto: ha ormai una fidanzata di lunga data, convive con il migliore amico e, a dispetto della sua diagnosi, punta con energia a ottenere l'indipendenza economica e affettiva. Punta a un viaggio in Antartide, soprattutto, per andare a vedere finalmente di persona i suoi animali preferiti: i pinguini, che guarda incantato allo zoo e di cui conosce le caratteristiche a menadito. Ma questa non è più soltanto la sua storia. Nel corso del tempo Atypical ha riservato sempre più attenzione ai personaggi secondari, al punto da seguire nel dettaglio tutti gli altri membri della famiglia Gardner. Mentre i genitori si riavvicinano, dopo il tetro pensiero di divorziare, la sorella maggiore – Casey, il personaggio più in divenire – esplora con consapevolezza i propri limiti e la propria sessualità. Non tutto fila come dovrebbe. Anzi, questa volta dieci episodi sembrano troppi e troppo tirati per le lunghe: trascinandoci, lasciano percepire la pochezza di una trama ormai giunta alle battute conclusive. Al pari di The Kominsky Method (vista, ma senza Alan Arkin nel cast perché scriverne?), Atypical si conclude a malincuore con la stagione più debole e dimenticabile. Ma il finale, dolce e conciliante, compiuto, ripaga comunque le attese. (6,5)

La poetessa americana Emily Dickinson raccontata in versione post-moderna. Non soltanto una trascinante colonna sonora contemporanea e un linguaggio colorito, ma anche: la scrittura febbrile, la speranza e il terrore di essere pubblicata, il sempiterno flirtare con i mostri e i fantasmi della mente umana, la bisessualità. Dopo un esordio folgorante, finito a pieno diritto nel meglio della sua annata, la serie Apple non rinnova il colpo di fulmine ma nemmeno delude. Fresca e godibile, benché sottotono rispetto ai fasti del debutto, non può contare più sul precedente effetto sorpresa e patisce la concorrenza della recente The Great – altro period drama maleducato e dissacrante, ma dalla sceneggiatura più graffiante: recuperatelo! Gli episodi belli per fortuna non mancano – vedasi l'ottavo –, insieme ai comprimari adorabili. Qualcuno ha citato Austin e Lavinia, il fratello e la sorella di Emily? La definizione, invece, mal si addice ahimè a Sue: l'interesse amoroso della protagonista, al centro di un inossidabile triangolo sentimentale, è uno dei personaggi più insopportabili del piccolo schermo. L'ex bambina prodigio Hailee Steinfeld, ribelle e appassionata, sin troppo in un epilogo che non convince per via del suo telefonato ritorno di fiamma, si conferma una magnetica padrona di casa. La sua storia troverà conclusione a novembre, sempre su questi schermi: la terza stagione, per la giovane Emily, sarà l'ultima poesia. Il prossimo mese lecito confidare nel proverbiale canto del cigno? (7)

mercoledì 1 maggio 2019

I ♥ Telefilm: Special | Bonding | This is us S03 | Santa Clarita Diet S03

La routine di un ragazzo fuori dall'ordinario. Il lavoro, gli amici, l'amore. Cos'è successo: il ritorno di Atypical è forse giunto in anticipo? La domanda sarebbe lecita davanti a una produzione, originale soltanto in teoria, che ricorda un po' la comedy sulla sindrome di Asperger, un po' Please Like Me. Qui, però, si parla di un altro disturbo: il protagonista ha una paralisi cerebrale sin dalla nascita. Qui, soprattutto, si parla senza filtri di troppo: il protagonista, realmente disabile, è eccezionalmente anche l'autore del tutto. Otto episodi brevissimi nell'arco dei quali Ryan O'Connell trova il coraggio di intenerirci e infastidirci, fra momenti di debolezza e gesti di egoismo. Ventotto anni, senza un impiego, convive con una mamma single che si è annullata in nome del troppo affetto e con un dramma niente affatto trascurabile: benché dichiaratamente omosessuale, spigliato e carino com'è, Ryan non è mai stato a letto con nessuno. Dall'avvio di uno stage presso una testata online alla perdita della verginità, galeotti i consigli di una strabordante migliore amica, non passerà molto. Il protagonista, in barba al politicamente corretto, minimizza sulla propria condizione: la zoppia di cui al lavoro tutti chiacchierano, colpa di un fantomatico incidente stradale. Si affida all'esperienza di un gigolò che, in una sequenza esplicita ma dolcissima, gli svela i segreti del contatto fisico infischiandosene dell'arrivo del principe azzurro. Ha la schiettezza di mostrarsi odioso, bisognoso, nel rapporto di co-dipendenza con la bravissima Karen Hayes, combattuta fra il ruolo di mamma a tempo pieno e i bisogni di cinquantenne ancora libera e piacente. Storia dal taglio classico e dai temi quanto mai consolidati, la serie Netflix mostra i lati amabili e quelli più spigolosi di un ragazzo egocentrico e autosufficiente soltanto in teoria. Forse osa poco, se non in quella prima volta sotto lauto compenso, ma il tocco di O'Connell – che con il beneplacito dei produttori sceneggia e interpreta, raccontando senza ipocrisie quel che ruota attorno alla disabilità -, appare speciale come da titolo. (7)

Lui è un aspirante comico gay, con scarsa esperienza tanto in materia di palcoscenici quanto di uomini. Lei è una studentessa di psicologia che a lezione non dà grandi confidenze ai compagni ma, sotto il cappotto, nasconde stivali al ginocchio, bustini e gatti a nove code. Migliori amici ai tempi del liceo, quando costituivano ben più che un'elettiva coppia di perdenti, si ritrovano non senza imbarazzo, non senza secondi fini, dopo essersi salutati di fretta durante la notte del ballo. Se la fatale Zoe Levin è una dominatrice con una fitta schiera di clienti sulla busta paga, lo spiantato Brendan Scannell gli fa da assistente improvvisato pur di sbarcare il lunario. Il sesso paga: soprattutto se lo si ama strano. Il sesso ha spettatori affezionati: soprattutto se lo manda in onda Netflix, in episodi di quindici minuti a cui è impossibile resistere. Nel solco di Sex Education, educazione sentimentale da bollino rosso, arriva così anche Bonding: la commedia nera contro il tabù, che promette di fustigare e scandalizzare gli spettatori, senza mai dimenticare una generosa dose di cuore. Goderecci eppure raramente volgari, espliciti ma senza scene di nudo, gli episodi godono di una scrittura degna delle produzioni britanniche: a tratti siamo nei territori di The End of the fucking world, ma è l'America odierna quella che si staglia oltre le stanze rosse della Levin. Pelle lucida, legacci, catene. Fiotti d'urina, fantasie di percosse e rapimenti, giochi di ruolo. Il coinquilino falsamente macho è attratto dall'idea della stimolazione prostatica, una coppia borghese cerca consulenti d'urgenza – il capofamiglia, infatti, si eccita soltanto con il solletico –, qualcuno considera pornografiche le marce dei pinguini. Come da copione, non mancano le richieste assurde, i clienti sopra le righe e i dialoghi sboccati, ma neanche approfondimenti psicologici degni d'attenzione: i protagonisti, infatti, aiutano gli altri a sentirsi liberi, ma sono i primi a vivere nell'anonimato di una doppia vita; a nascondersi nel non detto. Vicenda di solitudini siderali, di gente che ferisce per non essere ferita, Bonding è una terapia per combattere la prigionia delle inibizioni. Come gestire un'identità alternativa con il rischio che le strade della studentessa e quelle della dominatrice si incrocino? Come operare nel settore del sesso quando il contatto umano terrorizza? Gettato il frustino, bisogna imparare a farsi dominare. Per costruirsi un amore su misura. Per mantenere salda un'amicizia decennale. (7+)

Ogni famiglia, perfino la più unita, conosce momenti di crisi. È successo anche a quella di This is us. Se la seconda stagione era riuscita a sorpresa a difendersi – il rischio: quello di non replicare le emozioni della precedente –, la terza non ha ripetuto il piccolo miracolo. Non potendo più contare né sullo svelamento della tragica dipartita di Milo Ventimiglia né sull'elaborazione di una Mandy Moore inspiegabilmente tagliata fuori dalla stagione dei premi, i nuovi episodi si trascinano un po' – nonostante gli approfondimenti e gli ingressi dell'ultimo minuto, per fortuna, non manchino. Degni di nota, in particolare, i flashback ambientati in Vietnam: quando Jack, il capofamiglia, aveva un misterioso fratello al fronte interpretato da un ottimo Michael Angarano. Mentre Kevin indaga sulla scomparsa dello zio, i fratelli Randall e Kate si danno il cambio alternando gioie e dolori. Il primo, improvvisatosi politico, rischia di mandare all'aria il matrimonio con la fedele Beth. L'altra, invece, si è resa protagonista di una gravidanza a rischio. Jack e Rebecca, al centro di linee narrative che ormai cominciano a incastrarsi a fatica con le storie delle generazioni successive, regalano qualche sospiro garantito (ma scontato) con vecchi appuntamenti, parole non dette, acciacchi della terza età. Il ritmo, poco incalzante, ne risente. Gli episodi, per la prima volta da quando la serie va in onda, si sono accumulati in una cartella del mio portatile. Da quando l'appuntamento con This is us non è più un'urgenza? Da quando inizia a girare in tondo, attorno al cuore di una questione già bella che sbrogliata. Da quando questa famiglia americana si è fatta più conflittuale e incostante, più vicina alla mia nel bene e nel male, privandomi del sogno impossibile di farne parte. La crisi è giunta prima del settimo anno. Finirà, magari grazie a sceneggiatori meno adagiati sugli allori e ai benefici della terapia? (6,5)

A proposito di famiglie in crisi. A proposito di serie al centro di piccole grandi battute d'arresto. Come dimenticare le tragicomiche degli Hammond? Lui umano, lei non-morta. Ufficialmente: agenti immobiliari in quel di Santa Clarita. Un ridente sobborgo in cui niente è come sembra e i vicini, a dispetto delle apparenze, nei momenti giusti sanno voltarsi dall'altra parte. Abbastanza da credere alle bugie dei protagonisti, di glissare sulle loro stranezze. Abbastanza da non accorgersi che Drew Barrymore è assetata di sangue, mentre il servile Timothy Olyphant le fa da braccio destro giacché innamoratissimo. Anche in questo caso, dopo un prosieguo di buon livello, la commedia splatter targata Netflix ha rischiato di annoiarmi. Di trascinarsi con svolte poco convincenti, in una terza stagione copia-incolla delle precedenti. Spiace dirlo, ma l'arrivo di dieci episodi aggiuntivi non regala nuovi spunti. Spiace dirlo ma, benché appunto dispiaccia, la cancellazione non mi ha stupito. Santa Clarita Diet non scade, non peggiora, non delude. Resta sempre lo stesso, e purtroppo non è un pregio, come quella zombie che mangiando esseri umani si mette in salvo dalla decomposizione. La figlia si rende utile, ma l'FBI la torchia e il migliore amico trema per l'ansia da prestazione. Il marito tenta di proteggerla entrando a pieno diritto nella schiera dei Cavalieri di Serbia. E lei, al solito, semina in giro corpi smembrati e guai: ben propensa a trasformare gli altri, si immusonisce davanti ai tentennamenti di Joel, un Olyphant pur sempre irresistibile. Chi non vorrebbe essere immortale? A che prezzo, però, se tocca darsi al massacro – anche se di alcuni loschi neonazisti – per mantenersi giovani per sempre? Sempre macabro e scoppiettante, il mix di generi non può contare più sull'effetto sorpresa delle prime volte né sull'alchimia indiscutibile fra i due padroni di casa. La sceneggiatura, a proposito di autori pigri, non fa passi avanti. Quanto poteva durare restando sempre sopra le righe, sempre la fotocopia di un successo sì meritato ma mai bissato? Davanti a quel finale spiazzante, eppure, la curiosità c'era. Resterà sempre il dispiacere per l'avvenire degli Hammond, che probabilmente non conosceremo. Le colpe, questa volta, non sono imputabili soltanto ai tagli di Netflix. Ma a una commedia cannibale che ha il pane – temi originalissimi, grandi mattatori, ironia e sangue in quantità – e non i denti. (6)

venerdì 20 aprile 2018

Zapping: Killing Eve, Here and Now, Rise

Si guardano con un sorriso curioso, di sfida, da un lato all'altro di un caffè viennese. Una bambina che mangia un gelato e una giovane donna dal viso di bambola. Da copione, sappiamo che l'adorabile Jodie Comer – già protagonista della miniserie Thirteen, e di una mia cotta mostruosa – è una spietata assassina. La tensione è nell'aria. Si alza. Fa per uscire e avvicinandosi alla bimba... Le rovescia semplicemente la coppetta addosso, per dispetto. Una detective di mezza età si sveglia invece urlando a squarciagola: un incubo, forse un brutto presentimento di ciò che verrà? A far soffrire Sandra Oh, in cerca di un ruolo da protagonista dai tempi di Grey's Anatomy, è in realtà quel fastidioso formicolio alle braccia che ci assale quando ci addormentiamo di traverso. La descrizione di una doppia beffa, di un doppio incipit, per raccontarvi com'è, una sorpresa intitolata Killing Eve. Ironico, seducente, leggero e insospettabilmente violento. Per una volta, nessun poliziotto vizioso e dannato (anche se sappiamo che la Oh, la notte prima, ha fatto fuore al karaoke cantando Il mondo è mio); nessuna sociopatica giramondo così ligia al dovere da non godersi la bellezza delle sue missioni (in Italia deve uccidere il nostro Remo Girone) o il divertimento per i mille travestimenti. Tratto da una serie di romanzi di Luke Jennings, Killing Eve è un Imposters serio ma non serioso; un The Fall vestito di normalità, di rosa. Cosa accadrà quando la protagonista, facendo due più due, seguirà in giro per l'Europa le tracce di sangue e gelato della sadica Comer? Se l'alternarsi dei toni stranisce e spiazza, se adatta Phoebe Waller Bridge – protagonista e autrice dell'irresistibile Fleabag, di cui aspetto ormai da anni il ritorno su Amazon –, difficile dire cosa aspettarsi. Si spera cose altrettanto assurde, in senso buono. Si spera cose belle. (Sì.)

Lui professore di Filosofia con il vizietto delle prostitute d'alto bordo. Lei analista che ha presto abbandonato la professione, in nome di un matrimonio lungo trent'anni e di una famiglia popolosissima. Un colombiano omosessuale, una stilista africana e un vietnamita psicologo – aggiungeteci anche la più anonima e irrequieta delle diciassettenni, sola figlia naturale – sono i tesori di mamma e papà. Riunirsi per il compleanno del patriarca, che spegne sessanta candeline. Assoldare camerieri ispanici e, per principio, scegliersi l'amante orientale. Gli hippie e progressisti Boatwright osteggiano Trump, parlano liberamente di sesso e allucinogeni, sono il frutto concreto – e aspro, asprissimo – di una America che crede ancora nel sogno dell'integrazione razziale. Non è una versione nera, politicamente scorretta, dei drammi domestici di This is us. O forse sì? Gli episodi sono lunghi un'ora, i corpi e i cuori esposti e le prime crepe, al momento del brindisi, iniziano a mostrarsi in quel paradiso multirazziale. Il figlio prediletto ha un nuovo fidanzato hipster e visioni deliranti. Perseguitato dal numero undici, dagli incubi, è indeciso fra la schizofrenia (ereditaria, anche se i geni non son quelli) e il profetismo (siamo pur sempre nell'ultima crezione dell'autore di True Blood, perciò mai dire mai). Il formato, i protagonisti snob e prolissi, annoieranno o diventeranno guide familiari alla scoperta delle contraddizioni di un nido – e di un paese, soprattutto – in pericolo? Per ora, al sicuro sotto il tetto dei premi Oscar Holly Hunter e Tim Robbins, la curiosità verso i segreti retroscena dei Boatwright – antipatici ma simpatici a modo loro, come nella commedia generazionale di John Wells – fanno sperare in un altro invito a cena. (Nì.)

Una scuola di provincia. Un professore illuminato, alle prese con il compito che tutti rifiutano. Un gruppo di ragazzi che non hanno niente in comune, se non il canto. A volte un sogno nel cassetto, altre un segreto da nascondere con un po' di vergogna. I preparativi per uno spettacolo teatrale che fa chiacchierare il corpo docenti – lo scantaloso Spring Awakening, che parla agli adolescenti del risveglio della primavera e del sesso – farà incrociare esistenze e voci diverse fra loro. No, non è un trucco: non è Glee, ma la sua versione indie, d'autore, a confine con L'attimo fuggente. Protagonista, Josh Radnor: il Ted di How I Met Your Mother, con tre figli a carico, il cuore gentile e la speranza di cambiare lo status quo. Lui e Mike Cahill, regista nelle mie grazie sin dai tempi del fantascientifico Another Earth, dirigono un coro di ragazzi diversi, ai margini, che molto probabilmente non hanno però nulla di nuovo da cantare. Con le minoranze e i drammi stipati fino al parossismo in quaranta minuti di pilot in cui omosessualità, immigrazione e sindrome di Down sono vittime del pregiudizio (ma, per forza di cose, anche dei contro del politicamente corretto). Con un utilizzo della telecamera a mano che annoia e appesantisce. Trattandosi di un teen drama – per di più a tinte musical, con arie da Sundance: tutte cose che mi piacciono, insomma – potrei dare a Rise, eppure partito disastrosamente, una seconda occhiata. Nonostante gli sbadigli, la delusione per le stonature e un inizio già col piede in fallo. (No.)

martedì 7 febbraio 2017

Zapping: Taboo, Riverdale, Sneaky Pete, Z - The Beginning of everything, Emerald City

Tom Hardy mi piace moltissimo. Intenso e attento nelle scelte, versatile nonostante quell'aria severissima, è diventato presto uno dei miei preferiti. Complici personaggi ipercaratterizzati ma, soprattutto, quel Locke in cui c'erano lui, un'auto, una lunga notte per schiarirsi le idee. Un Tom Hardy a puntate all'inizio dell'anno, con lo stesso Knight a sceneggiare e Ridley Scott a produrre: cosa chiedere di meglio? Taboo, pur essendo all'altezza dei livelli cinematografici a cui la concorrenza ci ha abituato, è una serie che non mi aspettavo. Fatta di ritmi lentissimi, episodi lunghi, un protagonista che mette nell'ombra gli altri. Quando non è in scena, così, calano l'attenzione e la palpebra. La trama, eppure, che vede un losco figuro tornare a Londra per la morte del padre, ha del potenziale. Sembra un contenitore di storie gotiche e avventurose, come lo sfortunato Penny Dreadful. Il protagonista, uomo dalla pessima reputazione, ha ereditato un'isola sperduta in America. Ci sono interessi, intrighi e cospirazioni in ballo, compreso un amore impossibile verso la sorellastra. Qui e lì, sprazzi orrorifici. Hardy, confermo, mi piace moltissimo sì. I prodotti storici e i loro ritmi stranchi, purtroppo, per niente. Si compenseranno le due cose, mi domando, mentre gli episodi si accumulano e quei sessanta minuti a puntata, moltiplicati per sette, potrebbero pesarmi ancora di più? (Nì.)

Scorgi il marchio The CW, leggi Riverdale, e immagini da te un teen drama di provincia, pieno di intrighi e gente schifosamente attraente. Qualcosa di giovane, misterioso e trash, ora che Pretty Little Liars sta per finire ma tu l'hai mollato anni fa senza rimpianti. Qualcosa che, nel bel mezzo della settimana, serve sempre se di serietà ne hai abbastanza. Riverdale, essenzialmente, è ciò che sembra. Attori belli e televisivi all'appello – c'è anche Cole Sprouse, da Zack e Cody -, un omicidio che turba alcuni e fa felici altri, studenti che hanno relazioni sconvenienti con le insegnanti di musica e allieve provetto frenate dalla regola dell'amico. Nel pilot, due gemelli fanno una gita al lago: lui annega, pur essendo un nuotatore provetto; lei appare affranta, ma solidifica intanto la propria posizione di ape regina. Arriva a scuola una ragazza nuova, la cui ricca famiglia è caduta in disgrazia, e durante l'estate il ragazzo della porta accanto, diviso tra football e cantautorato, ha messo su muscoli che lo rendono corteggiatissimo. Si respira aria di drammi adolescenziali di un paio di generazioni fa (90210, Dawson's Creek). Il titolo, dedicato a una città turbolenta e sfortunata, strizza l'occhio agli enigmi di Twin Peaks. Alla base, un fumetto storico che ovviamente non ho mai sentito nominare. La serie arriva in ritardo, troppo, e ricorda altro per forza di cose. Annoierà, o avrà la meglio l'effetto nostalgia? Al momento, complice la foggia stranamente curata e il sapore rétro, quasi anni Cinquanta, questo Riverdale giocoso e nebbioso mi piace. (Sì.)

Un furfante, finito in prigione per la lingua troppo lunga e amicizie poco raccomandabili, torna in libertà. Il suo compagno di cella gli ha raccontato di una nonna che non vede da vent'anni, di una famiglia benestante e felice: vivere sotto falsa identità è facilissimo. Quanto durerà la farsa? Due anni fa, Sneaky Pete era un pilot Amazon in forse. Come con Mozart in the Jungle e Red Oaks, ci è voluto un po' per decretarne le sorti. Serie in dieci episodi prodotta tra gli altri da Bryan Cranston – che compare in veste di antagonista, nel finale – risulterà più leggera e scontata del previsto, se i nomi promettenti e i pareri calorosi ci avevano fatto immaginare un crime serissimo. I toni sono divertiti, invece, e il pilot ha l'aria di un family drama a tinte gialle. C'è che la trama, a primo impatto, ricorda un Impastor meno becero e un Feed the Beast lontano dai fornelli. C'è che Giovanni Ribisi, scaltro e con un'invidiabile faccia tosta, ha finalmente un ruolo alla sua altezza – l'ho sempre trovato bravissimo e sprecato, non so voi – e che l'apparizione di Cranston, qui in veste boss mafioso, fomenta. Acquisirà sostanza, magari, strada facendo. O magari no. Ma ironico, ben recitato, efficace, probabilmente finirà per farsi guardare ugualmente. (Sì.)

Dietro grandi uomini, sempre, ci sono grandi donne. E la grandezza di Zelda Fitzgerald mi è giunta spesso all'orecchio. Cos'ha reso la moglie dello scrittore del Grande Gatsby, con il senno di poi, forse più amata del partner? Ci sono molti romanzi biografici sul tema, dall'improponibile Signorini di turno a quello di Therese A. Fowler a cui Amazon si è ispirata. Si parla di un futuro film di Ron Howard, con Jennifer Lawrence a bordo. Intanto, dopo averla intravista anche in Midnight in Paris, Zelda arriva sul piccolo schermo. Una serie elegante, breve, in dieci puntate. Chi era davvero? The Beginning of everything, nei primi due episodi almeno, è un dramma in costume sentimentale e poco nelle mie corde. La nascita di una storia d'amore tra lei, capricciosa ragazza di buona famiglia, e un Fitzgerald in partenza per il fronte. Christina Ricci, attrice per la quale una vecchia cotta, presta quel viso particolarissimo e l'aria da eterna adolescente a una debuttante che, nei primi anni Dieci, non seguiva le regole. Romantica e spregiudicata, eroina del più classico dei melodrammi, non mi ha fatto simpatia. E, a prima impressione, l'ho trovata forzata. Sarà che la Ricci va verso i quaranta, anche se non si vede, e che il suo personaggio dovrebbe essere quello di una ragazzina o poco più. Il period drama non mi piace, e The Beginning of everything sembra non fare eccezione. Ma quei trenta minuti a puntata, pratici e insoliti, mi tentano. Insieme alla voglia di sapere, forse non necessariamente con questa serie TV, come Z è diventata poi quel che è diventata. (Nì.)

Dorothy, la bambina con le scarpe da ballo che percorreva un sentiero di mattoni gialli con il fidato cane Toto al trotto, è un'infermiera di vent'anni nell'ultima rivisitazione non richiesta del Mago di Oz: fiaba celebre che, purtroppo, non mi ha mai incantato. Gli scenari sono moderni e non è una casetta del Kansas ad essere portata da un uragano in un mondo surreale, bensì una volante della polizia con a bordo una protagonista svenuta e un pastore tedesco. Atterrando, la macchina ha schiacciato la malvagia Strega dell'Est. Ma le streghe sono immortali, solo la magia può ucciderle: e lì, a Oz, la magia è proibita. Chi è Dorothy? Se lo domandano Glinda, una Joely Richardson dalla parte dei buoni; la Strega dell'Ovest, tenutaria di un postribolo; il Mago, ciarlatano senza arte con una schiera di ancelle adoranti. Si riconoscono gli elementi classici, si apprezza a tratti la riscrittura di situazioni e personaggi. Sulla carta, Emerald City non sembra disastroso. E invece sì: girato con quattro soldi, kitsch, trashissimo. Peggio di Once Upon a Time, che però mi aveva lasciato il beneficio del dubbio per ben due stagioni; peggio degli insopportabili film tutti fiocchi e ghirigori di Tarsem Singh, che qui produce e dirige ma con costumisti che hanno agghindato gli attori con gli ultimi rimasugli dello scorso carnevale. Emerald City è una triste mascherata, recitata male – perfino da Vincent D'Onofrio – e scritta peggio. Cosa sarà mai, si domanda una strega di colore preoccupantemente simile alla cantante Skin, maneggiando una pistola? Vi dico solo che si spara in fronte. E niente, io ho riso. E, nonostante il mio gusto per l'orrido, ho spento ancora prima che l'episodio finisse. (No.)

mercoledì 5 ottobre 2016

Zapping #1: This is Us, Luke Cage, L'allieva

Amici lettori, ciao a voi! Toccata e fuga, oggi, perché alle prese con lo studio matto e disperatissimo e letture che procedono, sì, ma piano e tra tanti alti e bassi. 
Cos'è questo Zapping? Una nuova, minuscola rubrica a cadenza casuale, in cui – nella stagione per eccellenza dei debutti e delle novità – vi lascio le mie impressioni, in breve e a caldo, sulle serie TV a cui ho dato fiducia. E una seconda possibilità? Se si parla di un lentissimo cinecomic e di una abominevole riduzione televisiva, questa volta, non allarghiamoci, per favore. 

A legare le persone venute al mondo lo stesso giorno, un filo sottilissimo e magico di telepatia, o così pare. Questa è la teoria a cui si ispira This is us, straordinario e impensato successo di pubblico targato CBS. Il taglio è televisivo; il cast è di volti noti – un Milo Ventimiglia che fa parlare per il suo sedere al vento nella scena d'apertura, l'intensa Mandy Moore - a chi non disdegna le indiscrete gioie del piccolo schermo; la struttura rimanda a un Lost versione dramedy, a un Sense8 senza fantascienza o provocazioni. Semplicemente, ci sono quattro esistenze che si sfiorano: in luoghi, e perfino tempi, diversi. Una coppia di sposini in attesa di tre gemelli che, dopo i dolori del parto, ricevono una notizia che li porta sull'orlo delle lacrime. Un attore di sitcom, bello e sottovalutato, che decide di licenziarsi e ricominciare, e la sua gemella diversa, con un corpo che che le dà imbarazzi e vergogna. Infine, un afroamericano – ricco e con una famiglia numerosa al seguito, emblema del “self made man” – che decide di rintracciare quel padre che, quand'era un neonato appena, l'ha abbandonato davanti alla stazione dei pompieri senza uno stralcio di spiegazione. Negli ultimi secondi del pilot, emozionantissimo tra brividi onesti e risate, un delizioso colpo di scena che ci porta a inquadrarli tutti e quattro in modo diverso; a unire ancora più stretti i loro nodi. Non so come si evolverà. Non so quanto durerà. Potrebbe diventare troppo ripetitivo; peggio, potrebbe diventare stucchevole. Però mi ha commosso. A testimonianza che semplice, a volte, è bello per davvero. (Sì)

Delle produzioni Netflix ci si fida incondizionatamente, anche quando sulla carta non ci piacciono. Doveroso, però, lasciarsi il beneficio del pilot – e del dubbio. Luke Cage, superoe di nuova generazione che passa dalla carta stampata al piccolo schermo, lo avevamo intravisto anche nel sopravvalutato Jessica Jones: serie inutile ma piacevole, a mio dire, in cui il forzuto afroamericano rappresentava l'interesse amoroso per eccellenza della detective privata, incline alla persuasione di un magistrale e luciferino Tennant, nonché alle storie di una notte e via. Nel barista che non doveva chiedere mai, interpretato da un impassibile Mike Colter, aveva trovato non solo un amico di letto, ma un alleato: come lei, aveva assi nella manica e poteri soprannaturali. Serviva saperne di più di lui, sondarne la personalità e indagarne le origini? Per me, che lo avevo trovato trascurabile e poco interessante anche lì, no. Eppure, altrove, se ne parla bene. Eppure Luke Cage sembra un nuovo trionfo. La Netflix, che mi ha conquistato per due anni consecutivi con le disavventure di un vulnerabile Daredevil, questa volta mescola in un concentrato che mi dà allergia ingredienti a me non congeniali: il cinecomic più serioso – e solo il Diavolo di Hell's Kitchen fa eccezione – e i cliché, i locali col jazz e i gangster dal grilletto facile delle serie all black di ogni dove – se neanche il chiassoso esperimento di Luhrmann mi ha conquistato, direi che è quasi vano ritentare. Al suo debutto, la serie sembra un cupo ma rumoroso, lento ma commerciale, incrocio tra un The Get Down e un fumetto minore. Senza l'incentivo della bella musica e, almeno qui, senza tripudi di effetti speciali: tutt'attorno si sparano, trafficano e cantano l'R&B, ma Cage fa lavori umili, seduce le poliziotte sotto copertura e, giusto in chiusura, fa sfoggio della sua pelle indistruttibile. In seguito, sfoggerà anche qualche pregio abbastanza convincente per proseguire con la visione? A una prima impressione, l'unione tra generi indigesti potrebbe andarmi di traverso; risultare fatale. (Nì)

Cinque libri fa, alle prese per la prima volta con una specializzanda goffa e originale, eroina di romanzi po' gialli e un po' rosa, L'allieva già me lo figuravo serie TV. Leggerissimo, intelligente, ironico, si prestava a farci compagnia una volta a settimana: cosa chiedere di meglio, poi, se un libro ogni inverno non sembra essere abbastanza? Ci voleva una Alice Allevi in pillole, a puntate. Certo, tra me e me la immaginavo tale e quale a Zoey Deschanel, ma neanche Alessandra Mastronardi – per cui avevo una discreta cotta dai tempi dei Cesaroni, e attrice in gamba, al cinema, in Life e L'ultima ruota del carro – era male. Certo, le produzioni Rai mi vogliono snob, ipercritico e con il telecomando alla mano, pronto a cambiare canale alla velocità del suono. Ho dimenticato il pregiudizio, ho aspettato settembre. Per la prima volta, forse non gettavo alle ortiche i soldi del canone? Seppure coi miei “ma” - ma il cast è troppo televisivo, ma che brutta impressione le clip rilasciate sul web, ma che barba e che noia, che noia e che barba –, sono stato fin troppo speranzoso. Il primo episodio dell'Allieva, per filo e per segno, riprende il caso e i languori del prequel, Sindrome da cuore in sospeso. La trama resta in piedi: peccato manchino il ritmo, il buon gusto, le intenzioni. In un'ora e trenta, quanto di peggio, nel consolidatissimo e fondato luogo comune, la televisione italiana ha da proporre. Con Bridget Jones di nuovo in sala, come la nostra Alice al centro di poligoni amorosi e continui qui pro quo, la Rai sceglie di puntare, invece, a chi da generazioni e generazioni segue fedelmente Don MatteoUn medico in famiglia e altre amenità. Ne viene fuori un personaggio femminile forzato, irriconoscibile, che si atteggia a simpatica mattatrice ma suscita invece una profonda irritazione: nipote dell'eterno Terrence Hill, ospite abusiva a casa di Nonno Libero. La regia dozzinale, l'urticante leitmotiv finto indie e i commenti della voce narrante rendono antipatica la Mastronardi, qui bella e di legno; sorprendente giusto l'abruzzese Lino Guanciale, a me sconosciuto, che è l'incarnazione perfetta del Conforti affascinante e sornione che conosciamo. Il difetto sta nella confezione; nella foggia dell'intero pacchetto. Da prendere e buttare via, arrivederci e grazie. Ovviamente, è un successo. Dei disastri delle nostre riduzioni televisive e dei cattivi gusti degli spettatori, stupirsi ancora? (No)

giovedì 22 settembre 2016

I ♥ Telefilm: Scandal V, Barracuda, American Gothic

Quattro stagioni fatte fuori in un'estate. E io, che eppure non amo né le maratone ser(i)ali né i recuperi in grande, con Scandal mi ero fissato. Con i gladiatori in doppiopetto della bellissima e spietata Olivia Pope, dopo aver fatto l'errore di ignorarli per anni e anni, avevo fatto pace, infatti, consacrandogli i mesi fatidici in cui il sole batte, la televisione è spenta, i cinema chiudono. Nonostante il gran parlarne, nonostante i “guardalo, guardalo”, che sorpresa: me lo aspettavo più serio o forse l'esatto opposto, trash e senza redenzione. Invece, tra comprimari iconici, dialoghi brillanti e loschi intrighi alla Casa Bianca, ero rimasto conquistato dalla Rhimes amata dai più. Una furiosa carrellata, giusto in tempo per la quinta stagione. Sono in pari: guardo un episodio, un altro... arrivo al decimo. E poi? C'è che, poi, di Scandal ho fatto indigestione. Gli ho detto arrivederci durante la pausa invernale e solo mesi dopo, a stagione conclusa e già doppiata, ho prosegito. Ma sempre perché la concorrenza scarseggiava, in sala così come sui palinsesti, e nelle sere a casa non sapevo come impiegare il tempo. Indigestione, a ripensarci, o delusione? La quinta, probabilmente, è la stagione meno riuscita. E gli episodi introduttivi, lenti, disinformativi e patinati come una puntata speciale di Verissimo, erano l'equivalente dei rotocalchi che leggi – e scordi – nelle sale d'attesa. Dopo lunghi tira e molla e infinite chiamate notturne, il Presidente e il suo braccio destro, quella Olivia suscettibile e sentimentale che non mi è mai stata troppo simpatica, hanno l'occasione di essere felici. Ma le cene di gala, le mani sventolate e i compiti di una first lady non si addicono alla Pope, che trascura il suo team e, momentaneamente, la sua anima battagliera. La squadra, così, rischia il disfacimento: manca il collante, che indossa abiti color avorio e procura succulenti ingaggi. Scandal si perde fino a metà. Poi, è tempo di presidenziali: il mandato di Fitz sta scadendo, lui e lei si accorgono che si amavano di più se lontani e ostacolati, il magnifico Commando muove le fila – e, a sorpresa, trova una moglie per Jake, l'altro lato del triangolo. Ritorna Mellie, in gran spolvero, reduce dalla tragica morte del figlio e dal chiacchierato divorzio: sa cosa vuole, e vuole essere la prima donna al potere. Olivia, da sua nemica giurata, sposerà la sua causa. Mi è mancato Cyrus (protagonista di una grottesca relazione con la sua guardia del corpo, mentre il marito, affascinante gigolò affrancato, rode per la gelosia) e qualche episodio in surplus – dieci, diciamolo pure – mi hanno traviato, in accordo con la mia incostanza. Però Scandal rimonta in sella, si rialza senza graffi sanguinanti, e torna lo stesso di sempre o quasi. A ricordarti che nel profondo del suo essere è una soap opera, sì, ma che un cast straordinario – guidato dall'affidabilissima Kerry Washington – e una scrittura che si va man mano rinvigorendo e raffinando fanno miracoli contro la catastrofe delle prime impressioni. (7)

Danny Kelly, diciassette anni, viene ammesso in una prestigiosa scuola privata in cui appare subito fuori posto. Ha una famiglia d'immigrati, che gli dà tanto supporto e anche un po' di vergogna, e un solo talento. Il nuoto è e sarà il suo lasciapassare. "Pariah" tra i coetanei, in piscina si muove come un delfino. Anzi, come un pesce cane. Le bracciate precise, il corpo perfetto e i tempi folgoranti lo porteranno a essere ben visto nella squadra, a guadagnarsi un soprannome su misura. Forse, alle Olimpiadi. Tratto da un romanzo dell'autore di Lo schiaffo e liberamente ispirato alle imprese in vasca di Ian Thorpe, Barracuda è una miniserie che ho visto per caso. Ed è così che spuntano le belle sorprese. Partita come un teen drama, canonica ma coinvolgente già a prima vista, la serie australiana sul liceale con la stoffa del campione si evolve in fretta: la popolarità, infatti, fa sì che il timido Danny venga ammesso nei salotti, e nella casa delle vacanze, di una famiglia in vista. Corteggiato dalla primogenita, in segreto pensa però al fratello di lei, Martin: nuotatore che il protagonista ha scalzato, e che a volte sembra assecondare il suo sentimento, altre respingerlo. Barracuda, tra le righe, parla del tabù dell'omosessualità nel mondo dello sport, ma con assoluta discrezione. Parla di quei giovani dati per sconfitti che invece ce la fanno. Ancora, di quant'è difficile rialzarsi dopo una caduta: se si atterra in acqua, c'è il serio rischio di morirne. Nella seconda parte, emozioni intense e notevoli picchi di struggimento. La serie punta sul viso pulito dell'esordiente Elias Anton, fisicamente e emotivamente provato; sugli sguardi con Ben Kindon, viziato e impenetrabile; su una calorosissima dimensione familiare e sulla sinergia con l'ottimo Matt Nable, allenatore saggio e fragile quanto Stallone nell'ultimo CreedBarracuda punta al cuore. Un cuore grande e sciupato – per l'oro olimpico, per l'amore -, che ricorda un Veloce come il vento. Come lì, coinvolgimento assicurato anche per i non appassionati; solo, più amarezza. Il greco Christos Tsiolkas cura la biografia immaginaria di una meteora degli anni Novanta: un atleta che un giorno emerge, l'altro sprofonda nell'oblio. La notorietà, in un mondo di competizione e sacrificio, dura un niente: quattro episodi appena. E se si annega e poi si torna a respirare, come in quelle storie di rivincita che mi emozionano sempre, qui ci si concentra più sullo scivolone, sulla caduta, sul piede messo in fallo. Quanto è umiliante deludere le attese? Quanto fa male reinventarsi, anche se a soli vent'anni? (7,5)

La famiglia Hawthorne è sinonimo di denaro e potere. Costruttori da generazioni, lavano i panni sporchi lontani da occhi indiscreti e custodiscono gelosamente i loro misteri. In seguito a un crollo, viene trovata la prova schiacciante che il Killer delle Campanelle, assassino che strangolava le proprie vittime con una cintura di pelle e lasciava una campanella d'argento sulla scena del crimine, ha mietuto un'altra preda prima di scomparire nel nulla. Forse, è uno di loro: al di sopra di ogni sospetto, con tutto da perdere. Quel patriarca, magari, che è morto portandosi nella tomba il suo ultimo segreto? American Gothic, libero rifacimento di una serie degli anni Novanta a me sconosciuta, ha un titolo che rimanda al dipinto a olio di Grant Wood e a un celebre romanzo del Robert Bloch di Psycho. Giallo in tredici episodi, patinatissimo ma dal decoroso taglio stilistico, è in realtà una soap – da quel che leggevo, già in onda su Rai Due – ambientata tra passato e presente, dei cui misteri si viene a capo solo alla fine. Semiserio intrattenimento estivo, trash ma non così tanto, è una partita a Cluedo giocata dai membri della famiglia protagonista: chi perde muore. Eredità e delitti svelati portano gli Hawthorne a riunirsi, sotto i flash e le domande dei giornalisti d'assalto. Una buona Virginia Madsen, mamma chioccia senza scrupoli, accoglie in salotto la figlia maggiore, che si è data alla politica; la piccola di casa, che ha poco intuito e un marito poliziotto; il tenebroso Antony Starr di Banshee – incrocio tra Fassbender e Ian Somerhalder –, che torna suo malgrado all'ovile, dopo una gioventù ribelle; da Shameless, un Justin Chatwin fumettista e tossicodipendente, padre di un bambino inquietantissimo e compagno di un'artista che salta da una clinica all'altra. Cinque pedine, ognuna con le proprie sottotrame da portare avanti, la giusta quantità di curiosità e qualcosa che non torna, anche se sei stato un fedelissimo perfino delle discutibili vendette di Revenge. Lo seguivo a tempo perso, ma American Gothic mi piaceva oppure no? Un epilogo non all'altezza – il season finale è forse la parte peggiore -, infine, mi ha suggerito di no. Quello, non del tutto scontato, ma raffazzonato e strascinato, ha fatto più danni di un cast che recitava senza crederci davvero e di un intrattenimento discreto, tutto sommato, nonostante i buchi narrativi e le leggere noie in mezzo. La metà esatta degli episodi avrebbe fatto a metà del patimento. Richiesta esagerata, se parliamo a tu per tu con un irredento guilty pleasure? (5,5)

mercoledì 6 maggio 2015

I ♥ Telefilm: Daredevil, The Last Man On Earth, Mom

Daredevil
Stagione I
Sono intollerante al cinecomic. La mia presa di posizione non è dettata da un particolare snobismo – perché guardo la peggiore immondizia, e me la faccio anche piacere – ma dal fatto che due ore e venti in compagnia di robot, inseguimenti di macchine volanti, eroi che giocano a farsi i simpatici a tutti i costi io non le passo. Il nuovo The Avengers, tipo, non l'ho visto e non lo voglio vedere. Ma ci ho provato. Ho provato invano a guardare le serie CW – con Arrow che posta più foto a petto nudo di Mariano Di Vaio, professione fashion blogger – e anche Gotham, che avevo atteso eppure avevo mollato dopo poco, per colpa di attori cani e svolte senza mordente. O il supereroe si copre di ridicolo, recitando – anzi, volando – sopra tutte le righe del pentagramma, o si veste di serietà annoiandomi, se possibile, anche di più. Perché la trilogia di Nolan ha fatto storia, ma io l'ho vista in comode rade mensili e non la rivedrei a cuor leggero. Non è colpa mia, sono i fumetti al cinema a non riuscire a trovare una via di mezzo, un compromesso. Come ogni bambino felice, infatti, anch'io ho avuto i costumi di carnevale di Batman e Spiderman ai miei tempi e, quando in videoteca era arrivato il dimenticabilissimo Daredevil, tanto avevo fatto, tanto avevo detto, ero riuscito a farmi regalare il cartonato dell'eroe dalla proprietaria. A nove anni, nonostante capissi che non era un granché, il film di Johnson mi piaciucchiava; da allora non oso riguardarlo, ma il cartonato in cima al letto a castello guai a chi lo dà via! Ampia premessa per dirvi che la storia Marvel più coinvolgente arriva dalla tv, targata Netflix, e a sorpresa si candida a essere una delle rivelazioni dell'anno. La vita di Matt Murdock – cieco, avvocato, uomo dai mille segreti – diventa un tostissimo crime in tredici puntate, in cui non mancano le implicazioni politiche e le guerriglie urbane del Cavaliere Oscuro, né leggeri tocchi di comicità. Impegnato in tribunale e gentile nei modi, Murdock crede in Dio e nella Giustizia: non uccide, difende solo gli innocenti. Ma ha il nome di un diavolo e, quando è notte, scende in strada a rimediare agli sbagli dei giudici, nella Hell's Kitchen che l'ha visto crescere – quando lui, invece, non vedeva che il nero – e che ospita, incurante delle vittime, una cruenta faida tra russi e giapponesi, mentre nell'ombra qualcuno trama. Il convincente Charlie Cox – attore britannico visto in Stardust e nella Teoria del tutto – ha la faccia da bravo ragazzo, il sorriso gentile e trasmette fiducia ineguagliabile: lotta come un boxeur (e quante ne prende?) e, quando non sfida la malavita, probabilmente salva gatti sugli alberi e aiuta le nonnine con la spesa. Come a Peter Parker, gli si vuole subito bene. Al suo fianco, il fedele Elden Henson – un Foggy che strappa qualche risata senza diventare macchietta –; una Deborah Ann Woll bella in modo assurdo, nelle vesti della spregiudicata segretaria che, contro i luoghi comuni e le canzonette di Venditti, non si innamora degli avvocati; una Rosario Dawson, nome di grido e ruolo piccolo, en passant. E' però il Kingpin del solidissimo Vincent D'Onofrio, caratterista impareggiabile, a stupire, in un serial atipico perché gli eroi sanguinano, i comprimari smuovono acque torbide e i cattivi s'innamorano: dicono sia il villain meglio scritto nelle trasposizioni della Marvel, e non stento a crederci. E non dovrei stupirmi di come la televisione, ancora una volta, metta al tappeto il cinema. Daredevil è un film lungo tredici ore: alta qualità, dialoghi corposi, momenti spettacolari che non vivono di soli effetti speciali. Quella New York criminale è spaventosa e il superpotere vero lo detiene chi è alla macchina da presa, insieme agli sceneggiatori: tra le scene memorabili, il magistrale piano sequenza del secondo episodio, cinque minuti in puro stile Old Boy; una delle ultime sequenze, coi rallenty d'effetto e Nessun Dorma. I produttori dei premiati House of Cards e Orange is the new black mi sbattono in faccia flashback appaganti, sottotrame realistiche, attori davvero capaci e non per forza allergici alle loro T-Shirt, ritmi intensi e copioni intelligenti che danno serietà a un genere su cui, di solito, sparo a zero. Daredevil ha però un'armatura resistente, l'agilità per schivare proiettili di sarcasmo, la possibilità di difendersi – e di convincere – soprattutto a suon di parole. Anche se i calci rotanti, okay, hanno sempre la loro importanza. (8)

The Last Man On Earth
Stagione I
Il mondo è finito, completamente annientato da un misterioso virus che ha reso le strade deserte, le fonti di sostentamento scarse e Phil Miller, solitario nullafacente a tempo pieno, l'ultimo uomo sulla terra. Come ammazzare il tempo, se non si hanno contatti con un'altra persona e intorno non c'è che il deserto? Si vive passo dopo passo, e di piccole cose. Saccheggiare le case dei personaggi famosi, cambiare villa una volta a settimana, prendere ricchi regali presso musei blindati: ecco spiegati gli Oscar sul comodino, gli indirizzi instabili, i Van Gogh in salotto e i Monet nel bagno di servizio. Bella vita, la vita del superstite. Dopo quarant'anni da eterno subordinato, essere re del proprio mondo. Ma le refurtive non ti scaldano, di notte, e i palloni bucati, checché ne dica il Wilson di Cast Away, hanno la fissa delle conversazioni a senso unico. Il pensiero vaga. E se Adamo trovasse la sua Eva, per ripopolare il cosmo? E se Eva fosse più un incubo che un sogno erotico? The Last Man On Earth, tra le serie comedy più attese, arriva puntuale e non delude. Venti minuti originali, divertentissimi, leggeri, ma legati – episodio dopo episodio – dal filo doppio che alle altre sitcom manca. Bisogna procedere nell'ordine corretto, non bisogna saltare nessun appuntamento e, soprattutto, è consigliabile non perdersi il finale che, dopo qualche piccolo momento no, ti congeda con un gran bell'arrivederci e un'immagine significativa. Parte col botto, patisce un po' il fattore monotonia, ma occhio che trova la sua straa. Pensato e interpretato dall'ottimo Will Forte di Nebraska, è la parodia per eccellenza del genere survival, con colpi di scena annessi e un cast in fase di ampliamento. Da one man show, come da premessa, The Last Man On Earth si fa poi surreale e popoloso, in una Tucson caput mundi e in un mondo, piccolo come dicono i proverbi, in cui gira e rigira si rivedono vecchie facce. Tutte le strade portano a Phil Miller. E la convivenza sognata, in mezzo ai miraggi della solitudine, diventa un mezzo inferno. Troppo tardi, allora, per rimangiarsi il desiderio espresso durante l'apocalisse e fare scomparire in uno schiocco di dita compagni di avventura inopportuni, triangoli amorosi, rivalità e gelosie da reality show? Si stava meglio quando si stava peggio... Ce lo chiediamo anche noi, insieme a quello sfortunato antieroe passato velocemente da leggenda ad appestato, in tredici puntate che hanno l'umorismo giusto, personaggi dinamici e un'insolita marcia in più. (7)

Mom
Stagione II
Difficili i rapporti madre-figlia. Dove sta scritto che sia necessario per forza volersi bene? Duro, soprattutto, essere membro della strampalata famiglia di Christy: cameriera di mezz'età che avevamo conosciuto – l'anno scorso – mentre condivideva un piccolo appartamento con la figlia, adolescente in dolce (ma mica tanto) attesa; il figlio, bambino invadente e geniale; soprattutto, la mamma Bonnie. Mela marcia che saltella da una clinica di recupero a un'altra e, tra un saltello e l'altro, arriva alla porta di casa tua e risulta impossibile schiodarla dal sofà. In mezzo a sitcom simpatiche e disimpegnate, che erano durate giusto Natale e Santo Stefano, Mom aveva avuto la meglio. Nell'arco dei soliti ventidue episodi – molti, che però spezzettati e mandati in onda una volta sì e cento no, a causa di pause continue, rendono poco – la piccola serie della CBS si conferma un onesto intrattenimento: divertente, nonostante le tragiche risate registrate in sottondo, e quotidiano. Perché si ride, ma ci sono note aspre che in una produzione così rilassata fanno entrare, a periodi alterni, la riflessione. Vite che non sono rose e fiori, una crisi dell'economia e dei sentimenti assai familiare, l'instabilità di due donne di generazioni diverse che non sempre riescono in quello che fanno, ma almeno ci provano. Alle loro spalle, una famiglia che è piaga e benedizione insieme. Cambia poco – i toni sono quelli che già conosciamo – ma cambia, allo stesso tempo, tutto. La ricerca di un nuovo posto in cui vivere, una promozione per la figlia e una professione onesta per una mamma disonesta, qualche personaggio che muore e qualcuno che guarisce, dipendenze in cui ricadere con umana imperfezione, su uno sfondo che cambia insieme a un cast che si allarga. Nuovo ingresso Jaimie Pressly, ricca e svampita ereditiera da spremere come un limore, e un Gesù “da allucinazioni” che non alza la tavoletta quando va in bagno. Grandissime padrone di casa Anna Faris e Allison Janney: la prima, vincente superstite dallo scatafascio dell'un tempo mitico Scary Movie; l'altra, caratterista che – a cinquantacinque anni – si reinventa da zero e finalmente si fa ricordare, con la sua fisicità prorompente e tempi comici strepitosi. (6+)