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lunedì 12 dicembre 2022

I bellissimi dell'ultimo periodo: Pinocchio | Blonde | Everything Everywhere All at Once | Cha Cha Real Smooth | The Batman

Nella prima edizione della storia, Pinocchio moriva impiccato e irredento: Italo Calvino lo considerava il protagonista dell'unico romanzo horror italiano. Al centro di innumerevoli trasposizioni (questa è la terza in tre anni), il piccolo bugiardo di Collodi trova finalmente la sua dimensione ideale nelle mani di Del Toro. E diventa inquietante, politico, dolcissimo, proprio come ci si aspetterebbe dal regista del Labirinto del fauno. Ambientata in un borgo dell'Italia in guerra e destinata a concludersi tra le acque insidiose dello Stretto, la trasposizione Netflix è una riscrittura brillante e personalissima in cui manca Mangiafuoco, la fata turchina ha una spaventosa gemella che veglia sui vivi e i morti, il Paese dei balocchi è un casermone dove plasmare la gioventù fascista. Lucignolo è il figlio del podestà, Geppetto intaglia crocifissi e piange il figlio perso nei bombardamenti, l'immortale Pinocchio fa gola tanto agli impresari senza scrupoli quanto al regime. Mussolini in persona non si divertirebbe forse a vederlo cantare e ballare? Ma questo burattino senza i fili e con un cuore grandissimo (nell'incavo del suo petto dorme il Grillo parlante) sfida il Duce e il mare pieno di bombe, insegnando che i genitori nutrono talora aspettative da smentire e che le bugie possono salvare la vita. Per il resto: sappiamo tutti come va a... O forse no? In lacrime, mi sono scoperto turbato per lo struggimento scorto sui volti in stop motion dei protagonisti e per la (non) morale di questo capolavoro della buonanotte. Una fiaba inedita, per bambini ribelli. E antifascisti. (8,5)


«Non sono una stella, sono soltanto una bionda». È abituata a sminuirsi, anche se legge Dostoevskij e Cechov; a nascondersi dietro un cliché, cosicché il mondo non la bracchi. Norma Jeane lo affronta con gli occhi di un cerbiatto abbagliato dai fari. E con gli stessi occhi si guarda da fuori con lucidità spaventosa. Si scolla da sé e allo specchio, sullo schermo, vede materializzarsi Marilyn: a volte alleata, altre nemica, è reclamata come un supereroe. Dove comincia una e finisce l'altra? Quale delle due ammortizza al meglio le violenze fisiche e psicologiche, gli aborti e i voltafaccia di quattro uomini tutti uguali ma tutti diversi? Dominik adatta Oates, e trasforma un flusso di coscienza in un'opera d'arte destinata a farsi amare e odiare su una piattaforma di consumo. Divisivo, Blonde metterà d'accordo per l'audacia del comparto tecnico e per la scommessa vinta da Ana De Armas, splendida e vulnerabile; scontenterà per tutto il resto. Ma questa via crucis lunga tre ore resta uno degli esempi di cinema più fulgidi di quest'anno accanto a Spencer: ancora una volta, un horror psicologico con un'icona tormentata dai ghigni dei paparazzi. Diana, però, si riappropriava perfino del suo cognome originario. Marilyn, invece, resta “la bionda”: è una prigionia senza fine, la sua, raccontata da un falso biopic terribile e bellissimo al contempo. A disagio, ho chiesto scusa a un fantasma vergognandomi di me stesso: mia Norma (anzi, al bando i possessivi: non “mia”, ma finalmente di te stessa), se puoi, per favore, perdonaci tutti. L'unico difetto di questo film è renderci complici, di nuovo, dalla sua autodistruzione, grazie a (o a causa di) un cinema che è voyeurismo e requiem solenne. Sono in difetto, poiché inerme e maschio. E, per questo e altro, sono colpevole anch'io. Perdonaci. Perdonami. (8,5)

Evelyn è la direttrice di una lavanderia a gettoni. Sull'orlo del divorzio, sommersa dalle richieste dei creditori, amareggiata per i dissapori con il padre anziano e la figlia omosessuale, rischia di perdere la testa. E di trascinarci tutti nel suo caos interiore, in un film pazzo e irresistibile che la vede protagonista di un'avventura senza precedenti: proteggere gli equilibri del multiverso, minacciato da una forza maligna di cui lei stessa è artefice. Ci sono innumerevoli Evelyn, con innumerevoli abilità a carico: ogni Evelyn ha imboccato, però, una direzione diversa. Quella che abita il nostro universo farà davvero da ago della bilancia in un conflitto millenario? Siamo nel nuovo film dei Daniels. Reduci dai fasti del sottovalutato Swiss Army Man, questa volta puntano agli Oscar con un piccolo film destinato a grandi incassi. Se lo stanno amando tutti, in lungo e in largo, c'è un perché. Nella sceneggiatura, geniale, ci sono: arti marziali, sassi parlanti, procioni da salvare, dita a forma di hot dog, marsupi che diventano nunchaku e butt plug che diventano trofei. Nel corso della visione i corpi esplodono in cascate di coriandoli e la bravissima Michelle Yeoh, qui al centro di un tripudio di colori e metamorfosi, è una padrona di casa cazzuta e perfetta. Al centro di un cast un po' cinese e un po' americano, incarna le faticose contraddizioni di una madre straniera in terra straniera: questo, infatti, è un film che parla di conflitti fisici e conflitti generazionali; di migrazioni concrete e metaforiche, al termine delle quali le identità dei protagonisti si scoprono in bilico. Chi saremmo senza i nostri errori e i nostri rimpianti, senza i nostri viaggi? La pazienza, la gentilezza e l'amore, all'ultimo, ci salveranno. Sempre. Ogni giorno, e in ogni universo parallelo, anche quando un gigantesco buco nero a forma di bagel minaccerà di divorarci tutti. Ho riso tra le lacrime per due ore e dieci. Viva le famiglie infelici a modo loro. Viva i Daniels. (9)

Lui, ventidue anni, ha appena finito l'università ed è tornato a casa dai genitori con la coda tra le gambe. Ha mamma e fratello minore per migliori amici e vive una doppia vita: di giorno commesso in un fast food, di notte animatore di feste per bambini ebrei. Lei, di una decina d'anni più grande, è madre di un'adolescente autistica e si sforza a tutti i costi di impegnarsi come genitrice e compagna. Ma, tra crisi di pianto e flirt, non riesce a rispettare il buon proposito di crescere. Chi vorrebbe diventare un'adulta responsabile, infatti, con accanto qualcuno come Cooper Raiff? Classe 1997, attore, sceneggiatore e regista, presta il suo sorriso pieno di candore a un Peter Pan infantile e straordinariamente maturo insieme. Goffo, dolcissimo e fuori luogo, è il cuore di una commedia romantica in stile Sundance nonché l'insospettabile interesse amoroso di Dakota Johnson. A fuoco come mai prima, la star di Cinquanta sfumature di grigio è un incanto con quelle smorfie un po' ironiche, un po' sensuali: nel cinema indie ha definitivamente trovato la sua isola felice. Uniti da un'alchimia palpabile e dalle perle di una sceneggiatura brillante nella sua semplicità, i due regalano un nuovo e prezioso spaccato di quella “quarter-life crisis” che tanto mi fa penare. Per fortuna ci sono film così, piccoli ma dal grande cuore, che ci fanno sentire tutti meno incompresi. Per fortuna, combattuti a giorni alterni tra gioia infantile e struggimento post-adolescenziale, possiamo fare come Cooper e Dakota: ballare, sbagliare, ricominciare. E, ancora e ancora, ballare. (8)

Mentre una Kristen Stewart da Oscar ha dato corpo alla “principessa triste”, Robert Pattinson ha prestato la sua mascella scolpita al “cavaliere oscuro”. Stranamente simmetrici, gli ex protagonisti di Twilight sono cresciuti. Bellissimi, arrabbiati e nevrotici, si confermano icone generazionali: negli occhi hanno l'inquietudine dei trentenni di oggi. In una Gotham derelitta e pericolosa, Batman semina il terrore: basta la sola apparizione del suo simbolo per far tremare i criminali. Isolato nella sua torre d'avorio, raramente getta via la maschera e mai, soprattutto, si lascia andare a gesti di gentilezza: cerca vendetta. È proprio questa stessa sete, inappagata, a legarlo a Catwoman (Zoe Kravitz: da infarto) e ai tranelli dell'Enigmista (Paul Dano, uno dei giovani attori più straordinari su piazza): come lui, i comprimari sono orfani alle prese con le promesse della generazione precedente. I figli erediteranno le colpe dei padri. E quante storture abbiamo ereditato noi? Quanti debiti, quante macerie, quanta immondizia? The Batman è un neo-noir denso e fluviale, alla David Fincher. È un una riflessione sul potere, che in ogni epoca e in ogni dove gronda sangue e bile come in Machiavelli. È la storia di un lutto mai elaborato. Oltre al mantello, Pattinson si trascina dietro una tristezza atavica e contemporanea al tempo stesso. Gli invidiamo l'armatura scintillante: nasconde quel disagio esistenziale in virtù del quale, per la prima volta, è stato possibile identificarsi con un supereroe del grande schermo. (7,5)

giovedì 31 ottobre 2019

Mr. Ciak: Scary Stories to Tell in the Dark, Crawl, Eli, Wounds e altri horror per il tuo Halloween

Corrono gli anni dei film di Romero e del Vietnam. È la notte del trentuno e tre amici inseparabili, in compagnia dell’ultimo arrivato, l’hanno fatta grossa. In fuga dai bulli, si rifugiano dove nessuno andrebbe a fare dolcetto o scherzetto: una casa infestata. C’entrano una bambina prigioniera nello scantinato e il classico libro scritto con sangue umano, che pagina dopo pagina svela nuove vittime fra i giovani protagonisti. Si animano gli spaventapasseri nei campi di grano. I ragni sbucano sottopelle. Corpi disarticolati attentano dietro le sbarre e, nei lunghi corridoi degli ospedali, aspettano i mostri. Perfetto per Halloween, Scary Stories to Tell in the Dark attirerà in sala il pubblico più rumoroso – gli adolescenti – e gli spettatori affezionati al culto di Stranger Things. Pensato per intrattenere i Millennial, il ritorno al cinema del regista diThe Autopsy of Jane Doe segue la moda delle antologie a tema e della retromania dilagante. Il risultato, leggerissimo e con un sottotesto politico dal retrogusto agrodolce, somiglia a un’indagine vecchio stile della Misteri e affini. Prodotte da Guillermo Del Toro, le più popolari storie da falò prendono vita per raccontarcene infine una non così inedita. Di quelle da sussurrare al buio, ma da vedere senza il bisogno della luce accesa. Non spaventeranno, infatti, neppure i giovanissimi. (6)

Cose da non fare in caso d’uragano: passare a casa di tuo padre per chiedergli se è tutto bene su consiglio della sorella maggiore. E scoprire che è ferito in cantina, in balia di onde anomale e di rettili primordiali – con tanto di dolce cagnolina da salvare. Per quanto non sia un amante di questi horror acquatici nello stile di Paradise Beach, Crawl sa come diventare un’appassionantissima declinazione del genere home invasion. Può vantare un’invidiabile gestione dell’alta tensione, senza esagerare con arti mutilati, effetti splatter e sobbalzi; effetti visivi di gran livello; una prova convincente da parte della protagonista, la sfortunata Kaya Scodelario. Il merito maggiore, però, spetta alla regia di Alexandre Aja: nonostante qualche passo falso commesso in passato, finalmente sotto l’egida del produttore Sam Raimi, il francese torna a ricordarci di saperci fare in fatto di morti ammazzati e nefandezze a fantasia. C’è poco altro sotto la superficie, a parte il classico rapporto conflittuale padre-figlia, ma Crawl – umido e claustrofobico, senza tregua – fa il suo dovere. Prima di comprare una casa accanto alla palude, da oggi ci penseremo su due volte. E consulteremo più attentamente il bollettino meteorologico. (7)

Una coppia di genitori disperati si affida a un farmaco sperimentale per salvare il loro bambino, allergico al mondo esterno. L’ultima spiaggia, una clinica privata perduta nelle nebbie, somiglia proprio a una casa stregata. E ben presto il paziente inizia a mostrare segni di debolezza fisica e psicologica, stranezze. Sono le controindicazioni della terapia, o c’è dell’altro? Protagonista della versione horror di Noi siamo tutto, Eli sarà messo in allerta da una coetanea: dall’istituto, infatti, sono passati bambini simili a lui – senza mai uscirne. Atipica ghost story coprodotta dalla Paramount, può contare su un’ottima atmosfera, buone interpretazioni femminili – Kelly Reilly e Lili Taylor, sempre piacevoli da ritrovare –, piccoli grandi indizi all’insegna di un finale che fa fuoco e fiamme. L’effetto sorpresa è assicurato in molti casi, ma personalmente avevo indovinato il colpo di scena in anticipo. La visione, per fortuna, non ne perde affatto in gradevolezza, risultando un intrattenimento molto più godibile della media. Una variazione sul tema forse abusata ma affrontata da una prospettiva opposta, in cui i bambini in pericolo hanno nomi in assonanza con la parola “lie” e per sopravvivere al mondo servono bugie e anticorpi. (6,5)

Non ci si poteva aspettare altro da Babak Anvari, regista iraniano già amato-odiato ai tempi di Under The Shadow. Tornato al Sundance con il suo primo film statunitense, lascia l’Oriente per New Orleans ma non rinuncia alla suggestione. Horror di difficile comprensione, Wounds racconta delle ferite metaforiche di Armie Hammer: perdigiorno alcolista e traditore, diviso tra Dakota Johnson e Zezie Beetz. In ordine sparso lo affliggono: un’invasione di scarafaggi, escoriazioni di natura misteriosa, messaggi di morte recapitati da sconosciuti. Che lo si voglia leggere come un ordinario racconto di possessione soprannaturale o allegoria di qualcos’altro – un disagio che serpeggia nel profondo della coppia, la dipendenza da alcol –, Wounds si rivela un interessantissimo prodotto festivaliero. Spiazzante e audace, a metà fra Kafka e Bukowski, garantisce un delirio acustico e visivo capace di dividere il pubblico. Il protagonista, immerso totalmente nelle sue ricerche pur di dare un senso a un’esistenza vuota, troverà l’illuminazione o la disfatta? Restano più domande che risposte. Tante interpretazioni: tutte valide e tutte sbagliate. Troppo impenetrabile, l’ho seguito spinto da una fascinazione morbosa. L’ho compreso a sprazzi e con il senno di poi. Ma mi è piaciuto, sì, o almeno credo. (7)

Costretta a ritirarsi per la decenza della madre, una violoncellista di talento si rimbocca le maniche pur di riprendersi il posto che le spetta. In un territorio ostile, la protagonista scopre di avere una rivale: entra in competizione con lei, ma ne è attratta. Possibile frenare le scene bollenti se si parla delle bellissime Allison Williams e Logan Browning? Sexy e ributtante, sconsigliato agli ipocondriaci, The Perfection parte con un sofisticato prologo a Shangai e ci conduce poi verso l’ultima frontiera della competizione. Impossibile comprendere in anticipo dove andrà a parare. Altrettanto frenare le domande e il raccapriccio davanti agli efferati cambi di scenario, rotta e protagonista – chi è la buona e chi la cattiva, e dalla scuola di cui sono entrambe le stelle sarebbe meglio far di tutto per entrare oppure uscire? Mix febbricitante ma irresistibile, The Perfection fa il suo sporco lavoro con colpi di scena a raffica, un montaggio pazzo, sequenze di disfacimento fisico e morale. Il thriller di Shepard prende le mosse sulla scia del Cigno nero, per poi trasformarsi in un bagno di emoglobina a tinte trash, su cui pattinano personaggi chiamati alle vendette trasversali e ai duetti folli. Voi saprete contenere succhi gastrici, divertimento e orrore? (7,5)

Dopo Shining soltanto Stephen King, qui in collaborazione con il figlio Joe Hill, poteva immaginare un labirinto tanto singolare. Dopo The Cube soltanto il sottovalutato Natali, abilissimo ma a corto di progetti, poteva renderlo così claustrofobico. Partito sotto i migliori auspici, infatti, Nell’erba alta contava su uno spunto originalissimo e un regista a proprio agio con ambienti asfittici e relazioni torbide. Cosa ci fanno la famiglia dell’inquietante agente immobiliare Patrick Wilson e una ragazza incinta di sei mesi, in viaggio con il fratello, in un singolare dedalo verde dove il tempo e lo spazio hanno leggi imperscrutabili? Se al centro del labirinto c’è anche un misterioso monolite, le battute sull’erba – quanta ne hanno fumata per inventare questo guazzabuglio indigeribile? – potrebbero sprecarsi durante la visione. Trip senza fine, sontuoso dal punto di vista visivo, il racconto del Re diventa un horror psicologico dal pollice verde e dagli spunti oscuri. Servivano francamente qualche chiarimento in più e qualche sacrificio stucchevole in meno. Impossibile uscirne sani e salvi. E venirne a capo? Nel dubbio, cambiate strada all’ultimo minuto e, sul tema riti pagani e natura, guardate Apostle. (5)

Il medico Gleeson, la matriarca Rampling, i figli Ruth Wilson e Will Poulter. Dirige Lenny Abrahmson. Alla base: un gotico firmato da Sarah Waters, di recente portata anche a Cannes da  Park Chan-wook. Possibile, date le premesse, che L’ospite sia stato destinato in Italia direttamente allo streaming? Il perché, dato un film senza grandi demeriti, resta un mistero. Tragedia familiare dalle atmosfere angoscianti, racconta della fascinazione del protagonista verso una casa in rovina: anziché fuggire, ne è attratto – galeotti l’amore verso la primogenita da trarre in salvo e i ricordi di un’infanzia trascorsa, al contrario, in completa povertà. Immerso in scenari che ricordano il soggiorno a Hill House, il film britannico fa proprie psicosi, malanni ereditari, stanze anguste. Il paranormale ci metterà lo zampino soltanto nell’ultima mezz’ora, con porte sbattute all’improvviso, scampanellate notturne, scritte sui muri. Austero sotto ogni punto di vista, dal cast superbo alle scenografia, ha ritmi lentissimi e una regia ora incantevole, ora asfissiante. Non meritava l’oblio, però, nonostante una chiusa frettolosa. Somiglia proprio, infatti, a una di quelle magioni in rovina che conservano a sorpresa il loro fascino polveroso. (7)

Cresciuto dalla mamma single, James è un piccolo lord, pettinato con la riga di lato e sempre ben vestito. Senza amici, ha paura de ragni e di ricominciare altrove dopo un trasferimento improvviso. E non deve assolutamente giocare nei pressi della voragine che si apre al centro del bosco dietro casa. Disobbedisce, ovvio, e niente sarà più lo stesso. Ma le stranezze, crescenti giorno dopo giorno, le percepisce soltanto una mamma sull’orlo di una crisi nervosa o sono forse reali? Forte dei paragoni ingannevoli con The Babadook e della notevole somiglianza tra il bambino e Haley Joel Osment, The Hole è un horror a basso budget che raggiunge il massimo risultato con il minimo sforzo. Discreta macchina di tensione, con un’ottima interprete nel ruolo di protagonista, a ben vedere ha però un’introspezione psicologica appena accennata – il difetto maggiore è che manca di qualsiasi doppiezza o ambiguità – e una trama, con tanto di finale mordi e fuggi nelle grotte di The Descents, che rimesta alla cieca nel mito dei changeling e nei classici horror di ragazzini maligni e madri al limite. Non gli si vuol male, ma avremmo tutti fatti a meno della distribuzione in sala o dei confronti con una regista, Jennifer Kent, contro i cliché. (5,5)

Un’altra mamma single, un altro bambino con amici che stanno sulle dita di una mano. L’evasione non avviene grazie alle scorribande nei boschi, bensì con un giocattolo che già conosciamo tutti: l’iconico Chucky, incubo di generazioni vicine e lontane. Ritornato in un remake non richiesto, il rimodernamento della bambola infernale preferisce concentrarsi sulla dimensione infantile anziché su quella orrorifica. Il rinnovo generazionale, per fortuna, chiama comunque all’appello omicidi sanguinosissimi e un doppiatore d’eccezione, Mark Hamill, ad animare un villain per il resto non troppo convincente dal punto di vista estetico. Al tempo di Stranger Things e Black Mirror, i bambini sono ricettivi e gli adulti appaiono ciechi davanti all’evidenza; la crudeltà di Chucky non dipende da una possessione demoniaca, bensì da un malfunzionamento tecnologico. Preceduta da un geniale battage pubblicitario che faceva a pezzi i personaggi di Toy Story, la nuova Bambola assassina è una commedia nera scoppiettante ma prevedibile dall’inizio alla fine. Ben recita, capace di indovinare target ed equilibri, resta poco incisiva ma tanto è bastato a far gridare all’eccezione alla regola pubblico e critica, al cospetto di un remake al passo con i tempi. Ma se il gioco cambia estetica, le regole restano le stesse. (6)

Nell’era segnata dall’influenza dei cinecomic, ne sa qualcosa il caro Martin Scorsese, quanto poteva essere geniale un’idea del genere: prendere un eroe dei fumetti, amato da grandi e piccini, e trasformarlo questa volta nell’antagonista della storia. Il coraggioso Clark Kent, così, sbarcato da un pianeta lontano e adottato da una famiglia di amorevoli campagnoli, si trasforma in un bambino sfrenato e dispotico: respinto da una coetanea, irritato dalle bugie dei genitori, minaccia di usare i suoi poteri per i fini peggiori. Esisterà anche qui l’equivalente della kryptonite? Tipica storia sulle origini di un atipico supereroe, a Brightburn si chiedeva poco. Amaramente, il film prodotto da James Gunn osa dare perfino meno del previsto. Di scarsissime pretese, con un svolgimento indegno dell’assunto di base, ha un cast non di primo taglio – fa eccezione giusto Elizabeth Banks – e un Omen dotato di raggi laser negli occhi, meno carismatico e più caciarone dell’infante diabolico del classico di Richard Donner. Inutile accanirsi ulteriormente: questo volo nel lato oscuro lo abbiamo già scordato. (4)

giovedì 17 ottobre 2019

Mr. Ciak: Joker | It - Capitolo due

Dichiararsi confuso davanti al film su cui tutti hanno le idee chiarissime. Succede quando diventa impossibile elaborare una recensione dal taglio tradizionale. Per l’ultimo vincitore del Festival di Venezia, infatti, servirebbe uno di quegli articoli monografici a cura di Gianni Canova: la lente d’ingrandimento puntata su un aspetto in particolare – la recitazione di Joaquin Phoenix –, con il resto lasciato in secondo piano. Come parlare altrimenti di un film che esiste esclusivamente in funzione dell’istrionismo del primo attore? Secondari l’intreccio, la morale di fondo, il comparto tecnico. Tanto è già stato scritto a priori: il cinecomic d’autore farà storia per il suo trionfo nel tempio della critica impegnata, il passaggio di Phillips dalla commedia demenziale alle atmosfere scorsesiane, le rappresaglie all’uscita delle sale statunitensi. Ma, a ben vedere, il ritorno della nemesi di Batman è un dramma di rivalsa tanto solido quando convenzionale, prevedibile nello svolgimento e meno coraggioso del previsto. Indegno delle assurde controversie in patria, e della vittoria in Laguna? Tutto va come da programma, nella metamorfosi del giullare che voleva diventare re. Messo ai margini, costretto a prendersi cura di una madre che non sempre la conta giusta, il protagonista sta a cuore con poco: capitano tutte a lui, è il capro espiatorio per eccellenza, e quando inizia a seminare morte miete vittime fra personaggi sgradevoli o sacrificabili. Lancia il sasso ma nasconde la mano. Senza fare spoiler, per esempio, perché non mostrare l’esito della relazione fra lui e la vicina di casa: paura di gettare ulteriori ombre su un cattivo che risultasse tale ma non troppo? Seguendo Arthur nel suo sogno irrealizzabile – quello di un mondo gentile –, ci lasciamo turbare dal rantolio sofferto della sua risata e guidare da una scena madre all’altra. Quant’è incredibile Phoenix mentre si concede una danza liberatoria in bagno o, leggero come non mai, quando affronta saltellando una scalinata all’inizio spossante: probabilmente è una delle migliori performance di cui abbia memoria. Ma se molto fanno le danze e gli alterchi improvvisati sul set, il corpo scarnificato per i venti chili persi, quali meriti spettano invece alla sceneggiatura? Se il film fosse pari alla complessità della sua prova, sarebbe lecito gridare al capolavoro. Invece resta un buon compromesso, per me distante dalla potenza del nostro Dogman – altra fiaba nera di perdenti al limite, altro anti-eroe struggente –, che funziona alla stregua di un’esibizione di stand-up comedy. Un palco vuoto, un canovaccio appena abbozzato, le luci della ribalta. Ma non sorprendono né le battute del mattatore, che tiene banco con riflessioni didascaliche, né le reazioni del pubblico. Phoenix è più spettacolare dello spettacolo – un’arma a doppio taglio. Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante. Allora il suo Joker è un planetario; una cazzo di discoteca itinerante. (7)

La paura c’era, ma per le ragioni sbagliate. Già stroncato dalla critica, il ritorno di Pennywise partiva svantaggiato: non sarebbe stato superiore al primo capitolo, e lo sapevano a prescindere dal minutaggio eccessivo – quasi tre ore – o da una computer grafica tremendamente kitsch. Nella lista dei difetti: la mancanza dei magici anni Ottanta e la consapevolezza che King e i finali non vadano d’accordo. Lo fanno notare anche al personaggio di Bill, suo alter-ego alle prese con l’adattamento di un besteller: saprà architettare una chiusa decorosa? Si fa dell’autoironia e, in cerca dell’epilogo perfetto, ci si mette in viaggio: direzione Derry. Sono passati ventisette anni dalla promessa di rimanere amici per sempre: il pagliaccio è tornato a colpire e i Perdenti si riuniscono così come si sono divisi. Allegra rimpatriata di morte, il secondo capitolo di It funziona proprio come reunion commossa e godereccia: nel ristorante cinese del romanzo, scopriamo quanto sono belli la Chastain e MacAvoy – ma occhio a Jay Ryan, non più bambino in sovrappeso –, quant’è esilarante Hader, quanto sia stato ridimensionato il personaggio del bibliotecario Mike. Bowers evade, ma la sua fuga costituisce un pericolo passeggero; di ritorno all’ovile, Beverly e Bill non sono seguiti né da un marito manesco né da una moglie avventata. La resa dei conti – esemplificata, esclusiva – conta i personaggi superstiti e Pennywise, bullo sopra le righe a digiuno di scene madri – a parte l’adescamento allo stadio o nella casa degli specchi, il resto sono apparizioni di fantocci grotteschi in una pessima CGI – ma non di carne fresca. Chiamato a un compito arduo, Muschietti s’impegna: gestisce al meglio le tempistiche e le stelle del suo cast, nella prima metà pretende miracoli dal direttore della fotografia e dal tecnico del montaggio, ma la seconda frana poi goffamente fra riti e trappole per ragni. Pessimo come la miniserie originale non lo diventa mai, ma il problema è uno: perché l’accento esagerato su battute sarcastiche e sfottò in contrapposizione alla totale mancanza di tensione? Salti in poltrona a parte, le bizze di Skarsgard non suscitano più spavento; il conflitto finale celebra sì un’unione che fa la forza, ma resta la copia sbiadita del film precedente. Da bravo fan, tuttavia, conosco bene il mondo interiore di King – qui impegnato anche in un cameo –, e non vive soltanto di spauracchi da multisala. Ci illumina la Chastain, in parte, ricordandoci che un attizzatoio potrebbe diventare anche un’arma letale: basta crederci. Quando si uniscono passato e presente e la solita nostalgia canaglia s’intromette a gamba tesa, così, l’incanto di un’estate sul filo del rasoio risulta per fortuna sano e salvo. (6,5)

lunedì 12 agosto 2019

I ♥ Telefilm: The Boys | Catch 22

Indossano calzamaglie attillate. Sfoggiano mantelli svolazzanti, mute e diademi gemmati. Ispirano il piccolo e il grande schermo, fra produzioni cinematografiche e reality show. Hanno superpoteri di tutto rispetto, vero, ma li usano soprattutto per esigenze di marketing. Salvare il mondo non è una loro priorità: tutt’al più, conquistarlo. Le immagini promozionali potrebbero ingannarci. A colpo d’occhio, i protagonisti sembrano proprio i personaggi iconici dei fumetti. Ma questa Wonder Woman nasconde la propria omosessualità con una relazione di facciata, Aquaman non sa tenerselo nei pantaloni, Flash travolge i passanti fino a spappolarli, Superman è un depravato megalomane con qualche problema con mamma. A ogni azione commettono tremendi gesti collaterali. E i civili, muti, subiscono. Questa è la storia di un gruppo di persone qualunque. Ai Sette, vigilanti mascherati che vegliano incontrastati sulla città di New York, si contrappongono i ragazzacci del titolo: una squadriglia arrangiata che raccoglie scarti e relitti umani, disposti a tutto per vendetta. Nello spirito di Deadpool e Kick-Ass, la nuova serie targata Amazon – ispirata agli eccessi del fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson – è una satira ironica e violentissima che polemizza contro l’America più guerrafondaia, il trattamento subito dalle donne ai vertici, l’insopportabile patriottismo delle creazioni Marvel e DC. Guai a fidarsi di questi supereroi, perché il più buono fra loro ha comunque la rogna. Guardateli: nascondono attentamente perversioni sessuali, bugie, segreti sconcertanti. Contemporaneamente, fanno da vigilanti e da antagonisti. Sotto il giogo della scaltra Elisabeth Shue e di Antony Starr, leader carismatico sull’orlo di una crisi d’identità, fa il suo ingresso nel team anche Starlight: ragazza prodigio di sanissimi principi, che illusoriamente crede ancora nel bene. Frustrata da un ambiente manipolatorio e sessista, si avvicinerà suo malgrado al lato oscuro: come resistere alla compagnia degli sterminatori di supereroi se, accanto al solito Karl Urban che non deve chiedere mai, c’è un ventenne dal cuore infranto con il sorriso impacciato dell’adorabile Jack Quaid – figlio di Dennis e Meg Ryan, che a ben vedere ricorda un po’ il compianto Anton Yelchin? Gli effetti speciali sono ben dosati. Gli schiamazzi e gli scoppi fini a sé stessi si contano sulle dita di una mano. L’intelligenza della scrittura punta tutto sulla caratterizzazione perfetta dei protagonisti – chi non “shippa”, per esempio, il parigino Frenchie e una selvaggia new entry dagli occhi a mandorla? La serie, già confermata per una seconda stagione, è consigliata a chi il genere lo segue e, soprattutto, a chi lo evita. C’è qualcosa di losco dietro il buonismo dei Sette. C’è qualcosa di strano dietro i loro poteri: forse dono di natura, forse semplice doping. The Boys potrebbe farteli amare, eppure fa molto meglio: li demolisce. (7+)

È ispirato a un romanzo di Joseph Heller pubblicato per la prima volta sessant’anni fa. Catch 22, trasposto in una miserie Sky composta da sei episodi, stupisce anche oggi per la sua sconcertante modernità. La guerra, mostrata letteralmente a tutto tondo, non è mai stata così grottesca: vista dall’alto, dal punto di vista di un bombardiere; vista dall’interno, dal punto di vista di un giovane in stanza sull’isola di Pianosa. Un paradiso di scogliere a picco e acqua cristallina nelle poche ore d’aria, ma un inferno per il resto del tempo. Yossaran – interpretato da un sorprendente Christopher Abbott, che per la sua bellezza anni Cinquanta e una bravura misteriosamente sottovalutata agli Emmy ruba spesso la scena ai figurati illustri: George Clooney, Hugh Laurie, Kyle Chandler – vorrebbe tornare a casa. Finge fitte all’appendice, al fegato, ai testicoli; simula la pazzia. Fa uno spasmodico conto alla rovescia delle missioni rimaste per non gettare la spugna, tanto grande è lo sconforto. Ma l’obbiettivo si allontana sempre più, e le missioni sembrano allungarsi e moltiplicarsi per dispetto. Baciato dalla fortuna, mentre intanto i compagni muoiono come mosche, Yossarian si strugge per la vita brevissima dei novellini, la crudeltà di un’era dove ogni cattiveria è diventata norma, il destino passivo dei militari e dei civili. Qualcuno di loro si innamora di una prostituta. Qualcuno se la passa di lusso, addetto alla mensa. Qualcuno altro, per uno stupido qui pro quo causato dal nome di battesimo, si trova Maggiore suo malgrado. Un esercito di analfabeti funzionali, così, distribuisce cariche a destra e a manca pur di non ammettere errori e strafalcioni; pur di prendere sul serio il compito di proteggere e servire. Catch 22 spara a vista. Pallottole di umorismo caustico, nerissimo, che disgustano per gli schizzi di sangue diffusi e per i bislacchi paradossi logici, scritti con un’intelligenza dalla levatura quasi teatrale. Tragicommedia breve e scorrevole, ha la colonna sonora jazz del cinema di Woody Allen e i toni falsamente scanzonati dei Coen – ora da ridere, ora da prendere sul serio. Come raccontare le assurdità del conflitto, infatti, senza sfociare nel nonsense? Non si può. Senza eroismo, senza patriottismo a stelle e strisce, in poltrona assistiamo alle disavventure di un insolito anti-eroe e alla sconfitta dei valori tradizionali, di Dio, degli idealisti più inguaribili. Tutti vorrebbero essere gli eroi della propria storia. Ma quanti, piuttosto, hanno il coraggio di dichiararsi codardi e spaventati come Yoyo: mandati avanti non tanto dalla furia bellica, quanto da una fortuna sfacciata? (7)

domenica 24 febbraio 2019

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Copia originale | At Eternity's Gate | Spider-Man: Un nuovo universo | Gli Incredibili 2

Ci sono biopic e biopic. Quelli sui personaggi da santificare inutilmente e quelli su mine vaganti da assolvere. Copia originale, forse l'unica sorpresa nella piattezza di questi Oscar, è parte della seconda categoria. Chi era Lee Israel? Biografa misantropa, idealista e gattara, non credeva né nel proprio talento né nell'amore. Rispondeva a tono, si vestiva male, non meritava ingaggi o buoni amici. Finché non sono state le soluzioni, gli altri, a trovare lei: prima una lettera d'autore rinvenuta in un volume della biblioteca, e da lì la folle idea di falsificare epistole in serie sfruttando il proprio sapere enciclopedico; poi l'affinità istantanea con un inglese eccentrico e irresponsabile, l'istrione Richard E. Grant, che non sa prendersi cura degli animali domestici, proteggersi dai rischi dell'Aids o dalle domande dei federali, eppure risulta un'indispensabile spalla comica. In un mondo di sedicenti Tom Clancy, autori svenduti alla logica del bestseller, Lee era la pecora nera: costretta infine a esporsi, a metterci la faccia, ma in maniera impensata. A restituirci l'orgoglio, l'umanità e le storture di una truffatrice sui generis con una coscienza tutta sua, è la rivelazione Melissa McCarthy: senza mai strafare, l'attrice comica sposa il cinema impegnato in un passaggio naturalissimo, portando con sé una fisicità irresistibile e quello sguardo già insospettabilmente comunicativo nei film più goderecci. In una New York alleniana, colta e piena di note jazz, c'era una storia che la falsaria non ci aveva ancora spifferato: la sua. Ne viene fuori una commedia dall'impalcatura esile, ma con una scrittura elegante, sardonica e perfino commovente: Copia originale non conosce redenzione, e quello è il bello. Marielle Heller tocca con un crime che sfugge alle definizioni, spiritoso e ritmato com'è, e consacra una grande interprete. Mette in luce uno dei tanti caratteristi a corto di ruoli memorabili. Ci regala abili duetti attoriali e scorci sui sordidi meccanismi editoriali, a cui in particolare i lettori non potranno restare indifferenti. Alcune emozioni, alcune simpatie, non si simulano a comando. Alcune criminali vanno perdonate a occhi chiusi. Alcune copie, come in questo caso, sono migliori dell'originale. (7,5)

Film belli come un quadro. Come un quadro di Van Gogh, nello specifico. Un arista irrequieto, dannato e intrigante, che non poteva non meritarsi un biopic errabondo, malinconico e criptico come questo: non necessario, forse, ma all'altezza dell'omaggio. Il pittore è ad Arles: in cerca dell'essenza della natura, alza il gomito, scaccia i bambini molesti e attende visite per scacciare la solitudine che ha nel cuore. Non sono abbastanza frequenti gli incontri con il fratello, un commovente Rupert Friend. Non è abbastanza lunga l'amicizia con Gaugin, di ritorno dal Madagascar. La fine dell'Impressionismo ha portato gli artisti a rielaborare il rapporto fra pittura e realtà, e Van Gogh sognerebbe di creare un movimento intellettuale, di circondarsi di ospiti pur di non patire la sindrome d'abbandono. Sappiamo che in un raptus si taglierà via l'orecchio e lo offrirà in dono al collega Oscar Isaac. Sappiamo che fine farà: merito dell'irripetibile Loving Vincent. Sulle soglie dell'eternità non aggiunge niente di rilevante al mito dell'uomo, non fa chiarezza sulle modalità della sua dipartita, ma coglie lo spirito di un personaggio che affascina ancora: benché indagato a più riprese, proposto e riproposto. Pensavo che il film perdesse in partenza la sfida di eguagliare la bellezza del capolavoro d'animazione, e invece ammalia e rattrista con le sue lunghe passeggiate nel verde e i suoi colloqui ancora più lunghi, dal gusto teatrale. Julian Schnabel ci mette una regia da maestro, che fra soggettive, primissimi piani e un uso marcato della macchina a mano permette una totale immersione sensoriale: i veri coprotagonisti, perciò, saranno gli steli d'erba, le nuvole, il vento e la luce. Un invasamento panico, insomma, retto da un Dafoe gigantesco e dolente, con attimi di impagabile spensieratezza e monologhi struggenti. Intenso, al punto che a volte si fa fatica a reggerne gli occhi grandi e spiritati; le farneticazioni dai toni messianici. Infarcita di riflessioni estetiche e filosofiche non per tutti, con una seconda parte un po' didascalica, la visione è lenta, perturbante, istruttiva. Per guardare attraverso gli occhi di Vincent i demoni, i desideri, i parti creativi, e condividere con lui un fardello pesante. Per sbirciare, dalla soglia del cinema, uno spiraglio d'eterno. (7)

Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. Lo cantava Max Pezzali e alla fine è successo davvero: il supereroe è morto. Questo, almeno, accade nella Brooklyn di Miles Morales: adolescente goffo e adorabile, con il pallino dei graffiti, un padre poliziotto e un affezionato zio pigmalione. Al risveglio, un giorno, si accorge che c'è qualcosa che non va: colpa dei misteriosi terremoti che fanno tremare l'intera città, oppure del morso di un ragno nei tunnel della metropolitana? Il protagonista pensa sia l'arrivo della pubertà, invece sono i superpoteri. È finito in un fumetto. In una dimensione in cui il famoso Peter Parker non ce l'ha fatta, morto sotto i colpi di un Kingpin al solito violento e sentimentale, Miles ha l'onere di sostituirlo: il compito, distruggere la creazione di un villain che scherza con i piani temporali e il destino. Al punto che, contemporaneamente, si daranno appuntamento nella cameretta di Miles gli Spider-Man di tutti i multiversi immaginabili: le conseguenze sapranno come entusiasmare, attraverso quest'apprendistato spassosissimo. Un trio di ottimi registi, utilizzando il meglio di cui l'animazione è capace, ha proposto sotto Natale un'irresistibile variazione sul tema; una curiosa storia delle origini che, in nome di uno spirito malinconico e giocoso insieme, fa faville con gli stili e le teorie quantistiche. Vengono rivoluzionate le identità e i connotati di comprimari e antagonisti – su tutti zia May, armatrice bad-ass, e un Peter fresco di divorzio – e ci si prende gioco con originalità di sequel, remake e reboot, pasticciando a fantasia con intelligenza e colore. Nonostante un epilogo eccessivamente caotico, che conferma il mio scarso feeling con un genere fatto di esplosioni, onde d'urto e laseroni, Un nuovo universo convince appassionati e profani con un'orgia di citazioni nerd e grandi poteri, da cui puntualmente derivano grandi responsabilità: colpi di scena ben dosati, una tecnica all'avanguardia, un cuore eccezionale. Grazie a un eroe vulnerabile e alla mano, che mi piaceva già interpretato da Maguire, Garfield e Holland. E che qui torna a conquistare in tutte le salse, in ogni universo possibile. (7,5)

Avevo dieci anni, amavo già poco i supereroi e l'animazione digitale, e il soggiorno presso la famiglia Parr mi era piaciuto ma non troppo. Avrò collezionato ai tempi qualche gadget dalle merendine, adesivi o calamite a tema, eppure la tentazione di vederlo una seconda volta non mi ha mai tentato. Sono passati quindici anni dagli Incredibili, e perché aspettare tanto per un sequel fuori tempo massimo? Per insindacabile volontà degli sceneggiatori, i protagonisti non sono cresciuti nel mentre. Non si sono allontanati di un passo degli eventi del film introduttivo. È cambiato il target, tuttavia; sono cambiati gli spettatori, all'epoca bambini e adesso pressoché adulti. Gli aggiornamenti, presenti a piccole dosi, non sono dei più felici: la dimensione corale scarseggia, purtroppo, e l'arrivo di una nuova ondata di femminismo ha fatto sì che questa volta sia Mrs Fantastic a ricoprire un ruolo di potere, mentre per il consorte in fermo ci sono i pannolini di Jack-Jack, i compiti di matematica di Flash, i sospiri d'amore di Violetta. Visivamente accattivante, offre due ore che non pesano, nonostante la sensazione di assistere a semplici scenette giustapposte, e un discreto intrattenimento ad alto budget. Ci si è presi del tempo, però, senza una giustificazione valida. Mi ripeto: quindici anni, e per cosa? Verrebbe da chiederselo ancora e ancora, sì, davanti a una trama semplice e prevedibilissima e alle aspettative dei fan, sostanzialmente mal riposte. E io, che fan non ero né lo sono diventato? Gli Incredibili 2 non sorprende, non volta pagina, non matura, e cerca invano di tenere a freno un potere e un potenziale – mi ha illuminato la mostra Pixar a cui ho assistito a Roma lo scorso gennaio – che neppure il bravissimo Brad Bird, alla regia, sa padroneggiare. (5,5)

lunedì 24 dicembre 2018

I ♥ Telefilm: L'amica geniale | Kidding | Daredevil S03

Le abbiamo lette, le abbiamo supportate, le abbiamo immaginate. Perfino io, fermo per ragioni sconosciute al primo romanzo. E le abbiamo riconosciute a colpo d'occhio con commozione nella serie che doveva farcele conoscere in carne e ossa e che, tiriamo un sospiro di sollievo, non ha deluso le attese. Sono nate in un rione alle porte di Napoli. Non parlavano italiano fluentemente, solo dialetto stretto. Erano scapigliate, vestite di poco e ambizione: a volte amiche del cuore, altre nemiche giurate. Quanta strada hanno fatto. Prima nelle librerie di tutto il mondo, poi in anteprima a Venezia: ora sul piccolo schermo di casa nostra, e con cifre record, nell'evento televisivo che ha compiuto il miracolo. Dare loro un volto, un passo spedito, riuscendo a rendere giustizia tanto alla nostra immaginazione quanto alla loro grandezza. Siamo nella Napoli del secondo dopoguerra, la stessa di De Filippo: i Solara e i Carracci si fanno guerra; le donne abbandonate lanciano stoviglie come la sceneggiata comanda; i padri padroni picchiano, i giovani sparano, le ragazze accettano a malincuore il destino di angeli del focolare. In queste atmosfere violente, rischiarate a sprazzi dai bagliori di una striscia blu all'orizzonte o dalle ripetizioni di Latino sui gradini polverosi, si muovono tra l'infanzia e l'adolescenza Lenù e Lila: la prima contemplatrice che poco si sbottona, ma che eppure ha uno sguardo talmente parlante da rendere superflua la voce narrante di Alba Rohrwacher; l'altra, invece, coetanea sfortunata ma prodigiosa – nell'impossibilità di diventare la nuova Jo March si reinventa infatti imprenditrice – che da piccola prende a sassate i maschi, da adulta li fa capitombolare con lo sguardo di chi non dà soddisfazioni. Dirige Costanzo, producono Rai e HBO, e l'ardimento è di casa. Al pari dell'ultimo Cuaròn, la serie è un tranche de vie senza apparenti guizzi che, con la scusa di un'amicizia da rivangare, racconta uno spaccato di Italia a metà tra i coming of age e le cronache agrodolci delle nostre nonne. Abbonderanno dunque i silenzi, gli sguardi profondi – le esordienti Margherita Mazzucco e Gaia Girace, senza scordarci delle controparti infantili Elisa del Genio e Ludovica Nasti, sono meravigliose –, assieme a sequenze censurate poiché di una franchezza scomoda e di una poesia a cui il pubblico generalista è disabituato. Il dialetto regala immediatezza, la colonna sonora di Max Richter i brividi consueti, e la messa in scena – con tanto di citazioni a Rossellini o ai languori di Guadagnino – presenta gli scorci spigolosi di una tela di De Chirico. Si parla di ruoli: quanto contano il genere, l'istruzione e la buona sorte? A volte il talento non basta. Serve fortuna, e conquistarla richiede compromessi inammissibili per uno spirito orgoglioso. A volte non basta nemmeno la fama, se vivere di rendita non aggrada. Elena Ferrante ha tutto: la fiducia dei migliori addetti ai lavori e una schiera fittissima di affezionati. Già al cinema grazie a Martone, Faenza e prossimamente Maggie Gyllenhaal, la scrittrice del mistero conferma in otto episodi la sua energia vitale e il fascino di un microcosmo che voleva farsi costruire tassello per tassello, filmare da un regista d'eccezione, per renderci prigionieri di un quartiere – di una dipendenza nuova – senza vie di fuga. Storia del nuovo cognome è già sul mio comodino. (8)

Ogni mito d'infanzia nasconde degli scheletri nell'armadio. Pensate ad esempio a Michael Jackson o Bill Cosby. Ai sospetti, alle accuse, alla fine del sogno. Purtroppo o per fortuna sulla reputazione di Mr. Pickles – Tonio Cartonio, ma con marionette annesse – non c'è la macchia dello scandalo. È stato vittima di un incidente nemmeno dipeso da lui, che era perfettamente presente a sé stesso, ancorato alla cintura di sicurezza, in regola col bollo e l'assicurazione: chi gli viaggiava accanto, però, non ce l'ha fatta. Suo figlio è morto. Come sentirsi ancora il papà d'America senza? Come fingere l'allegria quando i brutti pensieri abbondano? Jeff ha un altro figlio, finito nel tunnel della dipendenza a soli dodici anni; una Judy Greer fedifraga che d'un tratto vuole andare a convivere con l'amante; la sorella artista Catherine Keener con un marito omosessuale in odore di outing; il papà-socio Frank Langella con programmi alternativi per il loro show. Nel momento del bisogno, così, tutti si reinventano per dimenticare; tutti vogliono rimpiazzare un conduttore sprovvisto della verve di un tempo. Non sarebbe l'ora di aprire gli occhi ai bambini sulle delusioni in agguato, i miracoli dell'ascolto, i qui pro quo del sesso? Se lo chiede disperatamente un Jim Carrey di nuovo in forma smagliante: torna sulle scene in un ruolo che ha tanto di autobiografico, buffo e vulnerabile come solo lui sa, e rinnova su Showtime il vincente sodalizio con Michel Gondry. Il regista francese, qui principalmente impegnato come produttore, ci mette l'intensità del cinema indie, un po' di stop-motion, la malinconia degli ultimi sognatori. Le leggi della messa in onda vogliono rubare al protagonista i sentimenti, perfino l'identità: spersonalizzato, trasformato ora in un videogioco, ora in un giocattolo parlante, Carrey è sull'orlo del collasso. Innamorarsi nel mentre di una malata terminale, nutrire un'amicizia epistolare con un condannato a morte, elargire consigli e donazioni anche all'automobilista incrimianto non sono un'idea troppo brillante. La furia omicida o la rivalsa di chi infine riprende in mano le redini sono nell'aria. Il precipizio è lì, a un passo, ma Mr. Pickles insegna che giù dalla cascata si apre spesso un miracoloso paracadute. Quanto deve durare l'illusione? Soprattutto, quand'è che lo spettacolo deve continuare? Non sono tematiche queste, non sono serie TV – per qualità e impegno –, con cui scherzare. (7)

Troppo con i piedi per terra per prestar fede ai supereroi, mi piace però credere nelle eccezioni alla regola e nelle buone intenzioni. Nell'arco di un paio di stagioni ho creduto al trionfo e alla caduta di un giustiziere con il mondo contro: folle – anzi, cieco –, e per quello amatissimo da pubblico e critica. Meno da Netflix, che dall'oggi al domani ha deciso di non rinnovarlo nelle proteste generali. Riapprocciarlo allora in ritardo, con parsimonia, e a sorpresa trovarsi davanti una stagione senza sbavature né parentesi da sciogliere. Che fine ha fatto Matt Murdock, avvocato di giorno e paladino di notte? Non è in un'aula di tribunale né nel suo appartamento sfitto. Il suo studio ha chiuso i battenti e, in tredici episodi, non indosserà mai la tuta rossa. Prima creduto morto, poi etichettato come nemico pubblico, si conferma un vigilante atipico perché dolente e umano: l'eroe che piace a chi non apprezza l'universo Marvel. In crisi d'identità, si muove nel sospetto come il Cavaliere di Nolan. Ci sono cose della sua infanzia che non sospetta. Ci sono torti, crimini, che vanno scontati ammazzando e non davanti a un giudice. La fede nel Diritto lo ha tradito, lo ha tradito anche Dio. Mentre il collega Foggy ambisce alla carica di procuratore e Karen fa i conti con mani macchiate di sangue, il potente Fisk ha trovato l'ennesima scappatoia dalla galera. Agli arresti domiciliari in una safe house che ha tutta l'aria di un hotel a cinque stelle, tiene in scacco a suon di ricatti e vendette perfino l'FBI: tutti sono corruttibili – soprattutto Nadeem, agente con famiglia a carico, e Bullseye, nemesi dalla mira perfetta. Sfiduciato, ateo all'improvviso, Daredevil frequenza le chiese – a curarlo è una suora con un segreto scomodo – e si interroga sui passi fatti, su quelli da fare. Uccidere per la prima volta un uomo, o rimetterlo in manette con il rischio che di lì a poco s'imbatta in un altro secondino da assoldare? La serie di Goddard conferma di non avere né effetti speciali né prodigi mirabolanti. Non ha i superpoteri – sanguina, sfoggia i lividi e i punti di sutura –, ma è super. Una granitica crime story che lascia da parte la lentezza della stagione introduttiva, gli affollamenti della seconda, e trova con successo una dimensione noir assolutamente atipica per il genere. Così come atipiche continuano a essere le scazzottate in piano sequenza, l'intensità di Cox e D'Onofrio nei ruoli della vita – sorprendente il villain di Wilson Bethel, bello che non ballava in Hearts of Dixie –, le polemiche per la cancellazione immerita. Sì, perché Daredevil purtroppo si chiude qui. Con il numero perfetto, il tre, e il migliore dei congedi: giù la maschera, fino a svelarci il suo volto più tormentato. E per questo più autentico. (8)

sabato 16 giugno 2018

Mr. Ciak: Come un gatto in tangenziale, A casa tutti bene, Metti la nonna in freezer, Amori che non sanno stare al mondo, Il ragazzo invisibile II

Piazzalo non troppo strategicamente sotto Natale, in mezzo a commedie tra le quali è difficile distinguerlo. Metti sul poster due attori di richiamo – i soliti, i migliori, che con il loro essere onnipresenti eppure a te non chiamano, no – e aspetta senza curiosità. Per vedere i successi al botteghino, a fine anno, e di lì a poco qualche candidatura a sorpresa. Come un gatto in tangenziale, allora, non era così stupido come sembrava? I protagonisti, agli antipodi per stile di vita e professione, sono i genitori di due tredicenni pazzamente innamorati. Lui pagato per pensare, con la ex Sonia Bergamasco che inventa profumi in Provenza. Lei inserviente in un ospizio, con l'ex Claudio Amendola appena uscito di galera. Vogliono le stesse cose, hanno gli stessi difetti, ma da una parte e dall'altra manca il desiderio di deporre l'ascia da guerra. Per il signorile Albanese, il quartiere della consuocera è un covo di criminalità e spaccio. Per la coatta Cortellesi, invece, la borghesia è tutta una magna-magna. Ci si crogiola nel cliché, perché dà sicurezza, ma la verità siede nel mezzo. La periferia, caotica e multiculturale, ha il mare sporco, i modi rozzi, ma un cuore immenso. E la stessa cosa, in parte, succede con l'ultima commedia di Riccardo Milani: un Fortunata da ridere ma mica troppo, con una regia imperdonabilmente televisiva che inquadra, eppure, una moderna storia di orgoglio e pregiudizio che fa riflettere ed emozionare. Merito di una scrittura ponderata e intelligente, di personaggi vincenti – menzione d'onore alle sorellastre gemelle e cleptomani della protagonista, esilaranti – e di una retorica di quelle a fin di bene. In tangenziale, a Roma, si rischia grosso. Ma i gatti, i preconcetti e qualche commedia nostrana, per fortuna, hanno le proverbiali sette vite. (7)

Una famiglia di ristoratori si dà appuntamento al porto. Prendere il largo a bordo di un traghetto per raggiungere Sandrelli e Marescotti, capostipiti pronti alle nozze d'oro, su un'isola del Mar Tirreno. Prepararsi a pranzi e cene senza fine e agli immancabili schiamazzi, se s'incrociano ex, cugini arrivisti, amanti mancati. Insomma, tutte cose che apprezzo: i meccanismi del dramma da camera, i conflitti fra attori impeccabili, la regie energiche per sfuggire alla piattezza del teatro fotografato. Dirige Muccino nel ruolo di Muccino. Tornato in Italia, alle crisi di mezza età, ai suoi cari film a voce alta, a un genere consolidato ai cui cliché mancherebbero giusto le nevrosi della Buy. E senz'altro sa emulare sé stesso, ripetersi, con un piglio che fa la differenza. Una commedia all'italiana di vecchio stampo, così, acquisisce personalità, stizza, grazie a una macchina da presa che non sta mai ferma, al montaggio fluidissimo e ai membri di un cast strapieno, da cui saltare qui e lì a tracolli coniugali alterni. Le bellezze di Ischia e la colonna sonora di Piovani incantano, appaiono sottotono Accorsi e Favino e, accanto a un'urticante Crescentini, risultano bravissimi Ghini e la Gerini, intensa coppia minata dall'Alzheimer galoppante di lui, e quella Sabrina Impacciatore tragicomica. Il difetto sta nella sceneggiatura: tradimenti, ripicche, segreti scomodi, su uno sfondo azzurro mare che è la gioia dei turisti, all'indomani di una tempesta che costringe il cast a una convivenza arrangiata. Le nuvole nere invadono anche la villa con piscina in cui vigono i sorrisi di facciata, l'ipocrisia, le mezze parole. Inevitabilmente, per quanto piacevoli, le vicende risultano troppe, e troppo abbozzate. Le situazioni già viste, con guizzi di autorialità che non contemplano stavolta la novità, di un cinema che intrattiene al solito, ma forse non sta bene come il titolo annuncia. Eppure si accontenta, eppure ci accontenta. (6,5)

De Luigi stana frodi e truffatori. Un po' per gioco, un po' per ripicca, i colleghi preoccupati lo spingono fra le braccia di Miriam Leone, sfortunata artista con un curriculum da miss. Restauratrice in una Italia che si vanta della sua arte ma non le dà valore, la giovane va avanti con la pensione di nonna Bouchet: un giorno morta nel suo letto, però, e con il rischio di lasciara in mezzo a una strada. La soluzione, spregevole: non denunciarne la scomparsa pur di avere l'assegno assicurato. De Luigi, alle sue calcagna per questione di cuore in primis, è disposto a scoprirsi corruttibile per amore? La vita del malaffare è dura, ma remunerativa e piuttosto divertente, all'interno di una storia non così originale, con sketch comici che vengono praticamente da sé. Non troppo nera, in verità, ma coerente nello scherzare con lo status di giovani spiantati e vecchi da tenersi stretti; con il fuoco – anzi, il ghiaccio – di una dipartita su cui lucrare. Metti la nonna in freezer, che intreccia a lunga andare la sua strada con una caccia al latitante (e al malinteso) e un arzillo amante tornato a reclamare una lontana passione, piace al pubblico e alla critica per il cast convincente e la vivacità dello stile; per la regia e il montaggio che fanno la corte alla frenesia da action movie del sopravvalutato Smetto quando voglio. Per una volta più lodevole per lo stile pop che per la sostanza, strano ma vero, allieta con la sua freschezza artificiale una serata in cui i primi caldi fanno togliere i calzini, a letto, e scegliere i pigiami corti. Tra provviste di tortelline, lasagne surgelate, e cadaveri sotto ghiaccio. (6)

Mascino e Trabacchi, cinquantenni bellissimi, si innamorano con l'intensità degli adolescenti. Ma come si sopravvivere alla fine di un sentimento così forte? Si sono amati moltissimo senza mai piacersi, gli inconciliabi protagonisti dell'ultimo film di Francesca Comencini. Prende spunto da un suo stesso romanzo, qui, e Amori che non sanno stare al mondo – titolo lungo e bellissimo, di quelli che piacciono a me – diventa la commedia dal piglio femminista e dalla struttura letteraria, quasi, di una Gamberale arrivata già alla mezza età. Eccole lì, le voci off che raccontano tutta la verità. Le fotografie incantevoli a un passo dal Tevere e le sequenze di nudo che mostrano la peluria dei corpi e la scompostezza dello struggimento. Eccola, ancora, una protagonista logorroica e sull'orlo di una crisi  – la Mascino, splendida –, che s'illude fino a rendersi ridicola e si affida alle prescrizioni dello Xanax. Per superare la rottura o, nel bel mezzo dei giorni d'oro della relazione, per viverla senza idiosincrasie. Per accettare che Trabacchi, scapolo storico, ha detto sì a una ragazza con la metà dei loro anni. Per non darti pace notte e giorno, ma infine trovarla, la felicità: accanto a chi meno t'aspetti. Vagamente morettiana, la Comencini sorprende per l'insolito target a cui parlare di prime volte e seconde possibilità. Quegli amori incapaci di tante cose, così, sanno amareggiare e divertire per la franchezza e la verve della loro voce. Sanno insegnare a stare al mondo te, che sei ancora giovane e, purtroppo o per fortuna, poco ne sai: di com'è o come non è. (7)

I supereroi italiani esistevano, e non si chiamavano solo Jeeg. Qualcuno, un regista premio Oscar, aveva aperto le acque e a un bambino dalla doppia infanzia dato il mio stesso nome. Michele è cresciuto. Adolescente, orfano all'improvviso di mamma Golino, scopre il liceo, una sorella gemella e i piani di una sempre brava Rappoport, genitrice in cerca di eroi da reclutare. Il primo, fantasy tanto candido da infondere un po' di meraviglia anche negli adulti, era delicato e naïf: un'avventura intessuta di citazioni alte e basse che non si prendeva sul serio e nel suo piccolo, a sorpresa, intratteneva e divertiva prima che Mainetti ci mostrasse meglio la retta via. Nella Seconda generazione i protagonisti crescono, e si cimentano con i drammi dell'età: devono staccarsi, devono prendere decisioni di vita o di morte, devono crescere. Il sangue ribolle, la famiglia chiama. Con più effetti speciali che cuore, scritto con sufficienza e un'estetica che non troppo convince, l'ultimo Salvatore si avvicina al gusto degli USA, ma sbaglia mira e la fa fuori dal vaso. Questo capitolo, senza superpoteri, ha una recitazione piatta; una regia sempre padrona del gioco (vedasi la festa da ballo o il cameo da incubo della defunta Golino), a cui tocca fare i conti con i pasticci del montaggio e di una sceneggiatura tagliata con l'accetta; il solito villain, il solito pozzo da fare esplodere, il solito colpo di scena finale che poco coglie impreparati. Un autore e un attore affatto a proprio agio, l'approccio degli studenti svogliati allultimo banco: i difetti imperdonabili di quei sequel, più che brutti, proprio invisibili. (5)

venerdì 4 agosto 2017

Mr. Ciak: Spider-Man: Homecoming, Slam, Covenant, Una, 2:22

Non inizierò nella solita maniera. Quando mi hanno proposto Homecoming non ho protestato. Spider-Man, infatti, fa eccezione in tutte le salse. Sentivo come mie le sfortune, la timidezza e le porte in faccia di Peter Parker ancora prima di incrociare, crescendo, avversità, musi lunghi e sonori no. Certo, da buon nostalgico, il Peter che intendo io è quello della trilogia di Raimi – checché se ne dica, però, ho sempre trovato generosissima dal punto di vista emotivo la serie tronca con Andrew Garfield. Fa eccezione, a modo suo, anche l'adolescente di Jon Watts: meno me, meno solitario, ma tre lustri e cinque film dopo non chiedevamo altri copia-incolla. Il nostro eroe di quartiere, sprovveduto e pasticcione, si mette sulla strada di un contrabbandiere di armi iper-tecnologiche. In ballo meno del solito, in questo reboot umoristico e ben scritto, a confine con il teen movie – da cui prende in prestito gli amori non corrisposti, i buffi amici nerd e, purtroppo, quell'esagerazione tutta americana di inserire minoranze etniche a sproposito in nome del politicamente corretto (che passi Zendaya nei panni dell'amata, ma non un Flash Thompson guatemalteco e sprovvisto del physique du role). La gara di decathlon o acciuffare i cattivi? Il prom o sventare un piano criminale? Homecoming ti precede, sa dove andrai a parare, e si difende con autoironia: i commenti a proposito della bella zia Marisa Tomei non si contano; il protagonista, per molti troppo giovane, è ribattezzato “Bimbo ragno”; Keaton ritrova le ali dopo Birdman ma coglie in contropiede, sul finale, con un gustoso colpo di scena. Riuscito apprendistato per entrare tra gli Avengers e nelle grazie di spettatori scettici, l'ennesimo Spider-Man sceglie la spensieratezza dell'adolescenza e tutto l'entusiasmo di cui Tom Holland è capace. Da grandi poteri, questa volta, piccole responsabilità. Ma, a quindici anni, sarebbe un peccato bruciare le tappe. (7)

Samuele crede nello skateboard e nell'amore. Quando conosce Alice, capisce che è quella giusta. Ancora al liceo e con un futuro che spaventa, fa i conti con il diventare genitore. Questione di disattenzione. Questione di genetica: i suoi, infatti, l'hanno avuto alla stessa età. Darsi alla fuga, come suggerisce l'esilarante papà Marinelli? Provarci, come consiglia mamma Trinca? L'esordiente Ludovico Tersigni, con una spontaneità che non si insegna, resiste: non vuole che anche quel bambino, come lui, si senta un errore di gioventù. Ispirato all'omonimo romanzo di Nick Hornby, Slam è una commedia adolescenziale ma non troppo; un altro volto felice di un cinema che desidera dedicarsi a progetti nuovi. Le gravidanze indesiderate, un protagonista dubbioso, Roma: stessi temi del recente Piuma. Cos'ha Slam che il teen movie di Johnson non aveva? Una scrittura fresca e intelligente, che conserva la voce narrante di Tony Hawk e si diverte un mondo a giocare con i salti temporali della struttura (Sam si sveglia, a volte, e sono passati mesi o anni: deve rimettersi al passo e scoprire, in fondo, che non ha nessun rimpianto); un cast perfetto, di giovani leve e promesse mantenute; i toni semiseri, i dilemmi realistici, che rendono gli esiti non così scontati. Dirige con energia Andrea Molaioli, braccio destro di Moretti e autore del celebrato La ragazza del lago, e si vede. Produce Netflix. Certo: avremmo voluto più Marinelli e meno finali su finali; una durata più contenuta. Certo: sorridenti e leggeri, spensierati ancora per poco, ci si getta a colpo sicuro lungo una rampa. Si salta in alto, magari si vola. E si atterra in piedi, in un rumore familiare di ruote e risate. (6,5)

La serie di Alien è cara a una generazione che non è la mia. Negli anni mi sono dedicato al recupero di capitoli originali, sequel e spin-off, senza però mai farne miei personali oggetti di culto. Covenant, a voler essere precisi, è il sequel di Prometheus: un Ridley Scott non al suo meglio, una mitologia confusa e poco accattivante ma, con il senno di poi, non il disastro annunciato. Lo stesso, purtroppo, non vale per la regata fantascientifica arrivata in sala la scorsa primavera. Di Convenant dicevano il peggio e io non ci credevo. La solita critica, poco convinta in partenza. I fan dell'indimenticabile Ripley, difficili da rabbonire. Avevano ragione loro: Covenant è brutto. Perché girarci attorno? In due ore che si avvertono tutte nella loro pesantezza, i soliti astronauti risvegliati prima del tempo cercano tracce di vita umana sul pianeta in cui i personaggi del film passato, ovviamente già belli che rimossi, hanno lasciato lo scalpo. Un team anonimo e senza leader carismatici rischia di portare a bordo la solita piaga contagiosa. Alla piattezza della prima mezz'ora, rispondono qualche sprazzo di violenza e un doppio Fassbender – e per quanto sia bravo, per quanto faccia comunque piacere vederlo all'opera, dispiace quest'anno la scelta di progetti inutili quanto o più di questo. Covenant annoia e irrita. In giro, ha trovato le cattive parole che merita: il blockbuster che si atteggia a cinema d'autore e non riesce a essere né una cosa né l'altra, infatti, è un mostro della peggior specie. Freddarlo al mio "via". (4)

Una. Non come l'articolo indeterminativo, ma come il nome di battesimo di una donna che, un giorno qualsiasi, guida fino a una fabbrica in cui si trema per i tagli al personale. Deve incontrare un uomo, mostra una foto. Lui ha cambiato identità, è sposato, ma il destino l'ha rintracciato ugualmente. I due hanno una questione in sospeso. Un tempo sono stati al centro di un amore sconveniente, di un'ossessione che perdura. Quando lei aveva tredici anni e lui, adulto, era il suo vicino di casa. Di cosa parliamo quando parliamo di pedofilia? La bambina ingenua e l'orco cattivo, con la cronologia del computer piena di brutture. Ci figuriamo la manipolazione, lo stupro. E se quel vicino, condannato a quattro anni di carcere, non avesse mai guardato un altro innocente con malizia? E se la bambina, infatuata ma lucida, avesse voluto seguirlo in una fuga volontaria oltre la Manica? In Una, dramma fedelissimo alla propria natura teatrale, il presunto aguzzino incontra la presunta vittima. L'aggettivo, per dire che sfugge ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per dire che agli occhi della giustizia c'è un colpevole ma non un cattivo, e che il faccia a faccia tra questi strani amanti intriga e destabilizza. Camminano come animali in gabbia, lungo un confine impercettibile. Non si sa cosa vogliano. Soprattutto, non si sa con chi schierarsi. Il tema, spinoso, è discusso con ambiguità. Così tanta che si resta in piedi, confusi, all'insegna di un finale sospeso di quelli che piacciono a me. Parlano fuori dai denti di sesso, e arrivano a un passo così dal farlo. Si rimproverano di essersi rovinati la vita. Tentano di andare avanti, di confrontarsi, perché non si sono mai mossi di un passo dal giorno del processo – lei sopraffatta da una mamma chioccia, lui sempre sul chi va là. Chi dei due ha avuto la peggio? Di cosa la fragile e seducente Rooney Mara, per molti in odore di nomination, accusa un contrito Ben Mendelson: mi hai rubato l'adolescenza, o perché mi hai lasciato sola? (7)

New York. Dove le luci dei grattacieli sono più numerose delle stelle. Dylan crede di poterle leggere. Vede schemi ovunque. Portano a Grand Central; a un balletto in cui conosce Sarah, gallerista nata il suo stesso giorno. A cosa vogliono condurlo le simmetrie? Cosa succede quando l'orologio fa il suo giro e, sulla città, una stella muore? Thriller romantico dagli spunti suggestivi, 2:22 crea una piacevole suspance che si rivela disattesa solo in parte. Più modesto nell'architettura che nella resa, il film sembra poggiarsi su quei paradossi temporali, su quella fantascienza discreta di viaggi nel tempo e amori a scorrimento veloce, che da queste parti trovano sempre un angolino tutto loro. Più Storia d'inverno che Premonition, più sospiri passeggeri che sceneggiature a orologeria, il boy meets girl a incastro ha protagonisti belli in modo assurdo e un triangolo sentimentale che non convince, per l'improponibile taglio di capelli del terz'uomo e l'andare a puntare tanto, se non tutto, su un melodramma in rewind. In 2:22, il ticchettio e le scie chimiche portano su scene del crimine passate, teorie di eterni ritorni, coincidenze che fan parlare di reincarnazioni. Credi che il colpo di fumine sia una storia già scritta? Credi che il destino abbia un piano alternativo per te e per lei, o che il futuro sia tabula rasa? Poco accattivanti ma sufficienti le risposte. Scontato, infatti, che due come Huisman e la Palmer, ora e per sempre, si somiglino e si piglino. Senza additare i déjà vu della sceneggiatura: semplicemente, è selezione naturale. (6)