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venerdì 25 luglio 2025

I mai recensiti di metà 2025: Queer | Sinners | La città proibita | L'amore che non muore | Io sono ancora qui

Guadagnino torna a filmare l'infilmabile. Non mancano certamente i corpi, in quest'odissea tra le bettole di Città del Messico. Corpi in vetrina, che entrano ed escono nella routine di Lee: ebreo di mezza età che, dietro il fare predatorio, nasconde una sessualità mai metabolizzata. Sappiamo poco del suo passato — plasmato sulla vita di William Burroughs —, che lo perseguita in incubi e visioni. Non si accontenta più del sesso, non con Eugene: il suo ultimo amante è un'ossessione. Può un allucinogeno svelarci i pensieri più inaccessibili del partner? Dietro la patina untuosa e impolverata, al di là dei simbolismi e delle stranezze, Queer è un film di un romanticismo decadente e disperatissimo che racconta — anzi: mostra — la frustrante, compulsiva, struggente tensione verso l'altro. Craig vorrebbe soltanto fondersi con Starkey, formando uno splendido mostro a due teste. Ma non gli resta, invece, che tendere una mano verso la sua schiena nuda e immaginare di carezzargli le costole, di intrecciare le gambe alle sue. Per fortuna, Guadagnino si conferma un maestro indiscusso in materia di desiderio, e perfino quello di questo povero diavolo, inappagato, prende corpo in un cinema dove l'impossibile diventa visibile. Nella solitudine siderale dei dipinti di Hopper, così, puoi affondarci le mani come nel marmo del Bernini. (8)

Sul delta del Mississipi, negli anni Trenta, si mescolano razzismo, superstizione e musica. Influenzato dal cinema di Peele, Ryan Coogler fa dell'horror lo strumento per uno spaccato sociale vivo e palpitante. E ci regala il piano sequenza più memorabile dell'anno, dove passato, presente e futuro si mescolano sulle note di un blues. Ambientato nell'arco di una notte come Dal tramonto all'alba, mostra un gruppo di afroamericani sotto assedio — tra di loro un doppio Michael B. Jordan e un giovane diviso tra fede e chitarra. Fuori: i vampiri capeggiati da Jack O'Connell. Spietati, ma meno del Ku Klux Klan, promettono che la morte sarà il termine di ogni persecuzione. Una festa senza fine. Dolente e scatenato, Coogler commette qualche passo falso. Ma perfino quando inciampa, il suo bel mappazzone — futuro protagonista ai prossimi Oscar — si rialza e balla. La musica è un ponte con l'aldilà e l'invidia dei non-morti, che vorrebbero attardarsi per assistere allo spettacolo dell'alba. Il cinema ha lo stesso potere. E allora ben vengano diavoli e vampiri: che si accomodino in platea, assetati di vite e storie — Sinners ne offre a fiotti. (7,5)

Mainetti fa centro. Di nuovo a Roma, sempre in equilibrio tra comicità e violenza, confeziona uno spettacolo che ha il respiro del cinema internazionale e il sapore della favola. Lungo e ambizioso, mette troppa carne al fuoco. Più che presunzione, però, dietro sembra esserci la stessa generosità che animava Lo chiamavano Jeeg Robot. Quali traffici si nascondono dietro il ristorante cinese del titolo? Cos'hanno in comune un cuoco e un'immigrata che domanda vendetta? A metà tra Kill Bill e Borotalco, tra la Cina del figlio unico e l'Italia multietnica dove i ristoranti stranieri scalzano le trattorie, Mainetti racconta una tenera storia d'amore e l'eterno scontro genitori-figli. Qui, però, ogni conflitto è una coreografia esaltante in cui Yaxi Liu picchia come Jackie Chan. Accanto a lei il dolce Borello, schiavo dell'attività di famiglia, e la coppia Ferilli-Giallini, alle prese con un microcosmo da salvaguardare con mezzi leciti e non. Strabordante e delizioso, La città proibita è un mix che fa tesoro delle differenze culturali e faville con gli ingredienti del suo cast. Chi immaginava che gli spaghetti all'amatriciana potessero mangiarsi anche con le bacchette? Noi, fan della prima ora, sì. (7,5)

Come molte parole della nostra lingua, anche “cinema” ha un'etimologia greca: significa “movimento”. E il secondo film di Lellouche — incompreso a Cannes, ma protagonista di uno straordinario successo in Francia — non arresta mai la sua corsa. Convulso, sanguinoso, romanticissimo, segue il rincorrersi di due protagonisti belli e maledetti. Si conoscono al liceo, ma il loro amore viene interrotto da dieci anni di carcere. Al pari di The Brutalist, L'amore che non muore non soltanto ci ricorda in ogni fotogramma l'energia dell'arte, ma è soprattutto l'ennesimo grande romanzo popolare. Di una generosità strabordante, parte come commedia romantica, sfocia nell'heist movie e sconfina nel musical: merito di una trascinante colonna sonora anni Ottanta e di movimenti di macchina così coreografici da trasformare l'euforia di Exarchopoulos e Civil — questa volta, meno memorabili delle loro controparti giovanili — in danza. A sorpresa, Lellouche trova armonia tra gli opposti e, come il suo protagonista taciturno, si impegna a combinare le parole più belle del dizionario per dichiarare il suo amore a un cinema di nostalgie e pallottole. (8)

Cinque figli, un cane, una domestica, una casa vista mare. I Paiva sono fortunati, e lo sanno. Colti, affiatati, un po' chiassosi, vivono in una Rio de Janeiro dall'aria cosmopolita in cui i cinema danno i capolavori del nostro Antonioni e i giradischi cantano i Beatles. L'idillio, duraturo nonostante la dittatura, finisce quando il capofamiglia viene arrestato: l'ex deputato diventa l'ennesimo desaparecido. Per ottenere il certificato di morte ci vorranno quarant'anni. Nominato a tre Oscar, Io sono ancora qui avrebbe dovuto vincerne il più possibile. Perché quello di Walter Salles è un atto d'accusa dal valore universale. Ma è soprattutto il dramma classico, accorato, magnifico, di una famiglia in cerca di un nuovo ménage domestico mentre l'età dell'innocenza giunge al capolinea. Peggio dei blitz armati, peggio degli interrogatori, c'è soltanto l'attesa di notizie — perfino brutte. Magico il ruolo della matriarca. Fernanda Torres ha la forza di tutte le madri del mondo e, a differenza dello spettatore, non versa mai una lacrima. Aggiusta le bambole delle figlie, cucina perfino per gli aguzzini di suo marito, bandisce la tristezza dalle foto. Mamma-coraggio, fino all'ultimo conserverà la ricetta del perfetto soufflé, i denti da latte dell'ultimogenita e i segreti fondanti dell'esistenza, della resistenza e della gioia. Le famiglie felici si somigliano: chi lo dice? (9)

venerdì 26 marzo 2021

Cosa c'era ai Golden Globe: Fino all'ultimo indizio | I Care a Lot | Music | Deux

Due poliziotti di generazioni diverse, inizialmente ai ferri corti, uniscono le loro forze in cerca di un serial killer di donne ancora a piede libero. Il primo è il coriaceo Denzel Washington, rimasto bruciato da un vecchio caso del passato; il secondo è Rami Male, al contrario giovane e fiducioso. Nella sala degli interrogatori, sotto torchio, siete invece Jared Leto: un villain dalla pancia posticcia e dai capelli unti, inquietante e mellifluo come pochi. Capita raramente di vedere tre attori premi Oscar radunati nello stesso film. Un thriller dichiaratamente anni Novanta, che nel titolo italiano promette a torto una caccia all'uomo e all'indizio. Dopo una buonissima prima parte, il film di Hancock – poco più che un mestierante hollywoodiano – tradisce premesse e promesse in un proseguo più da buddy movie esistenzialista che da poliziesco, dove vengono messi in scena i caratteri inquieti dei personaggi maschili e soprattutto i loro metodi poco ortodossi. Mentre i due protagonisti parlano per cliché e frasi fatte, ben interpretati ma noiosamente già visti altrove, sorprende la performace di un Jared Leto che ha gioco facile per brillare: reduce da una meritata nomination ai Golden Globe, gigioneggia, seduce e spiazza. Il resto? Una mancata stagione di True Detective che ammicca all'ambiguità sottile di Seven, fa rimpiangere la potenza del coreano Memorie di un assassino e parla dell'importanza sostanziale dei piccoli dettagli, pur mancando di una grande trama portante. (5,5)

Marla Grayson è un tutore legale. Ha un bel sorriso, è affidabile, si prende cura degli anziani senza parenti. In realtà, truffatrice senza scrupoli insieme alla sexy compagnia Eiza Gonzàlez, è disposta a tutto pur di abbandonare i malati in una casa di cura e arricchirsi coi loro risparmi. Fino al giorno in un cui non raggira una Dianne Wiest in forma smagliante, la vecchina sbagliata... Come si realizza il sogno americano? Bisogna essere prede o predatori per vivere ricchi e felici? Commedia nera dell'umorismo cattivissimo, I Care a Lot vanta un incipit strepitoso, un epilogo generoso di colpi di scena, ma un epilogo rocambolesco mai realmente sorprendente. Anzi, si ha l'impressione che a questa protagonista fuori di testa e sopra le righe fili tutto un po' troppo liscio, nonostante abbia alle calcagna il boss russo di un carismatico Peter Dinklage. Divertentissima e divertitissima, Rosamund Pike – premiata come miglior attrice agli scorsi Golden Globe – torna finalmente ai fasti di Gone Girl: malvagia come nessuno, sfoggia un caschetto biondo, fuma la sigaretta elettronica, indossa tubini colorati impeccabili, fa monologhi fortemente femministi contro un mondo lavorativo misogino e sessista. E testimonia, soprattutto, come oggi, per fortuna, il cinema si stia mettendo all'opera per scrivere ruoli non convenzionali. Nel bene e nel male potreste prenderlo come un assaggio in attesa del ben più riuscito Promising Young Woman, in uscita ad aprile in sala. È compreso nell'abbonamento Amazon Prime Video. (7)

Nominato a due Golden Globe nell'insorgere della critica d'oltreoceano, Music è destinato a restare il film più contestato della stagione dei premi. Sabotato dagli americani, politicamente corretti come nessuno, si è procurato critiche su critiche per la presenza di un'attrice neurotipica nei panni di un'adolescente autistica. Evitabili polemiche a parte – ricordiamolo sempre: il mestiere dell'attore in fondo è proprio recitare –, com'è l'esordio alla regia della popstar Sia? Benché lo abbia affrontato senza pregiudizi, mi sono trovato mio malgrado davanti a un melodramma di buonissimi sentimenti visto e rivisto, con la solita sorellastra scapestrata costretta a prendersi cura della solita ragazzina fragile. Per fortuna, in questo caso la loro convivenza è vivacizzata da visioni musical: più che numeri musicali bene amalgamati con il resto della vicenda, purtroppo, questi momenti dai colori abbaglianti sono piccoli videoclip a sé dove emergono la creatività della popstar – impegnata anche in un ironico cameo – e la bravura della sottovalutata Kate Hudson, qui eccelsa anche come cantante e ballerina. La giovane Maddie Ziegler ci prova, pur risultando involontariamente sopra le righe. Altrettanto la stella in ascesa Leslie Odom Jr, vittima del personaggio di un vicino di casa assurdamente buono e improbabile. La colpa non è del cast, né di un argomento molto delicato per essere affrontato in un'acerba opera prima, ma di una scrittura troppo vecchia per risultare pop. (5,5)

Sono madri e nonne, dirimpettaie. Quando nessuno può osservarle, si intrufolano l'una in casa dell'altra. E si amano di nascosto. Il loro amore – omosessuale, anziano – scontenterebbe più di qualcuno. Nonostante l'età, le due fanno progetti: vorrebbero vender casa, ricominciare. Ma per paura di confrontarsi coi figli non si dichiarano. Fino a quando un ictus non le separa e una delle due, immobilizzata, viene affidata prima a una badante, poi ai figli egoisti, infine alle case di riposo; l'altra, trattata alla stregua di un'estranea, si limita allora a elemosinare momenti insieme. A spiare la vita dallo spioncino. Se stare insieme è un crimine, un'irruzione, ci sarà mai un posto per entrambe? Tagliato ingiustamente fuori dalla cinquina degli Oscar, ai Golden Globe rappresentava il cinema francese. Diretto dall'esordiente italiano Filippo Meneghetti, Deux è un dramma devastante e viscerale, la cui tematica spaventa soltanto a pensarci. Benché durante la visione scorrano copiosamente lacrime di tenerezza e di rabbia, il film stupisce per il suo approccio da thriller: fatto di attimi mancati e di piccoli presagi, di sparizioni, indaga i corpi rattrappiti, i misteri della vecchiaia e della memoria. Spaventosamente plausibile eppure pieno di bellezza, Deux ti sale con le ginocchia sul petto. Ti conduce in un turbinio di emozioni. E ora, ti chiedi? Cosa succederà? Cosa faranno? Caracollanti, Barbara Sukowa e Martine Chevallier – straordinarie – ti prendono per mano nell'epilogo. E sulle note di una canzone italiana, e dei colpi dei loro battiti malandati, ti stringono forte nel romanticissimo delirio di un lento. (7,5)

lunedì 23 settembre 2019

I ♥ Telefilm: Undone | Marianne | Élite S02

Nel primo autunno a corto di BoJack Horseman – a quando, Netflix, la sesta stagione? –, gli sceneggiatori Kate Purdy e Raphael Bob-Waksberg hanno unito le forze per una nuova serie animata. Lontani dai retroscena di Holliwoo, con Amazon a produrre, passano al tema fin troppo abusato dei viaggi nel tempo; dall’animazione tradizionale alla tecnica del rotoscope, già sdoganata da Richard Linklater. Inutile dire, non ci si aspettava semplicemente un bell’esordio: carico di aspettative, alla luce dell’entusiasmo letto in rete, confidavo in una delle serie dell’anno. Così non è stato, senza grandi rimpianti, e spiego subito il perché. Undone racconta del tracollo psicologico di Alma all’indomani di un incidente stradale: risvegliatasi dal coma, la maestra d’asilo scopre di poter parlare con il padre – scienziato morto in circostanze misteriose – e di essere in grado di cambiare il corso degli eventi. Ma la protagonista, interpretata dall’ottima Rosa Salazar, ha una nonna schizofrenica, cicatrici sui polsi, medicinali che a un certo punto sceglie di non prendere. La sua è una missione degna di un supereroe, o un’avvisaglia della malattia mentale? Nel frattempo la sorella sta per convolare a nozze, la mamma iperprotettiva per scoperchiare un vaso di Pandora colmo di rancore verso il compagno defunto – un insopportabile Bob Odenkirk – e il dolcissimo fidanzato Sam, come lei reduce da un’infanzia difficile, tenta di assecondarla nonostante il dubbio che stia delirando.  Vicina all’estetica della coppia Kaufman-Gondry, ma anche al romanticismo del nostro Valerio Mieli, la prima stagione di Undone è tanto brillante dal punto di vista umano quanto derivativa sotto l’aspetto fantascientifico. Le si riconoscono un’animazione all’avanguardia, la solita grande scrittura – qui non lineare –, quei personaggi adorabili e dolenti che funzionano soprattutto nelle situazioni di tutti i giorni, lontani dallo sperimentalismo della trama. Paradossalmente, è proprio la componente sci-fi – per quanto vicina al cinema che piace a me, quello minimalista del Sundance – a non far gridare al miracolo davanti a questa ricerca proustiana a metà fra l’irrestistibile Fleabag e il dimenticato Maniac. Per alcuni imperdibile, dal poco che si è visto appare sicuramente una visione stimolante. Ma, per il momento, con lo stesso senso d’irrisolto del titolo. (7)

Benvenuti a Elden, sinistra ma bellissima città portuale sulle coste francesi. L’unica attrazione turistica, all’inizio, era il vecchio faro. Ma dopo la fama raggiunta da una delle sue abitanti, l’attenzione si è spostata al mondo dei libri: quegli scenari sono stati d’ispirazione alle creazioni dell’amata-odiata Emma, scrittrice horror di fama mondiale di ritorno all’ovile in seguito a un evento preoccupante: l’antagonista della sua storia, una strega in cerca di vendetta, sembra essere sbucata fuori dalle pagine per ricattarla tirando in ballo la famiglia, gli ex compagni di scuola, un lutto passato. La colpa di Emma: aver messo un punto fermo alla saga di Lizzie Lark, quando il mostro – Marianne, sposa di Satana condannata ai tempi dell’Inquisizione – non voleva ancora essere dimenticata. In un villaggio in cui male e mare fanno rima, quattro amici d’infanzia si danno appuntamento per riabbracciare la ragazza e aiutarla. Ma lei, tipino sarcastico e scontroso dotata della bellezza rockettara di Victoire DuBois, è un buco nero che porta con sé sfortune e tragedie. Fra vecchi amori e nuovi incubi, la serie d’oltralpe non si lascia sfuggire elementi di sicuro raccapriccio: voci mostruose o cantilenanti, figure nell’ombra, risate di bambini spettrali, cani rabbiosi e denti strappati, anche se a ispirare l’inquietudine maggiore è la performance di una strepitosa Mireille Herbstmeyer. Non mancano gli inserti ironici, garantiti da un detective un po’ sopra le righe, né l’effetto nostalgia quando si entra in territori kinghiani: lo spunto è quello di un Misery in chiave soprannaturale, infatti, ma la rimpatriata ricorda proprio quella dei Perdenti di It. Tanto l’ultimo film di Muschietti è fallimentare nella componente orrorifica, però, quanto questo Marianne è riuscito. La serie, cosa rara, fa genuinamente paura. Una paura generata dagli innumerevoli jumpscare alla James Wan, ma anche dal fascino macabro delle tematiche e delle ambientazioni. Di grande atmosfera, piena di citazioni letterarie e sobbalzi, è consigliata a chi come me ha apprezzato l’ultimo Laugier. Un carrozzone del terrore sì ammiccante e già visto, ma comunque invidiabile per cura e gestione della suspance: perfetto per entrare nel mood di Halloween. (7+)

Erano giovani, carini e bugiardi. Erano, a mani basse, il guilty pleasure dello scorso anno. Sfacciatamente trash, un po’ Gossip Girl e un po’ Le regole del delitto perfetto, Elite mi aveva divertito da morire con il suo vortice di intrighi adolescenziali, sangue e sesso spinto. Chi aveva ucciso Marina? Era il grande dubbio della prima stagione. Quest’anno l’interrogativo cambia: cos’è successo al povero Samuel, l’outsider sulla bocca di tutti per via della sua borsa di studio e della parentela con l’accusato? Le variazioni sul tema sono minime: i nuovi ingressi sono un’arrampicatrice sociale, con una mamma pagata per fare le pulizie fra i corridoi della scuola privata; una presunta vincitrice della lotteria, in realtà coinvolta in un traffico di stupefacenti; il fratellastro della subdola Lola, ovviamente legato a lei da un’attrazione incestuosa alla Cruel Intentions. Scompaiono i volti più noti – Jaime Lorente e Miguel Herràn, forse impegnati sul set della Casa di carta – e la sorpresa è tutta per l’evoluzione del personaggio di Guzmàn, il fratello della ragazza assassinata, al centro di un cammino di vendetta e redenzione. Per fortuna sempre incensurati e recidivi, i giovani spagnoli sono meno divertenti e coinvolgenti che in passato, ma più maturi. La seconda stagione ha un andamento maggiormente lineare e conserva, per far presa garantita sui buoni amanti del trash, la sua natura di mancata soap opera. Innumerevoli le relazioni proibite, le coppie che ora scoppiano o si consolidano, le amicizie storiche messe in pericolo dal sospetto. Le tinte torbide, eppure, in teoria sono quelle di una moderna tragedia shakespeariana. Si parla nemmeno troppo fra le righe di quanto logorino la corruzione, il senso di colpa, il potere. Ma ci si distrae, se in un prodotto leggerissimo, alla maniera dei ricchi: fste grandi e rumorose, alcol a fiumi, cocaina sniffata nei bagni di lusso. Il non detto li rende tutti spensierati, ma anche complici e assassini. Il non detto ci renderà tutti curiosi, davanti all'idea di un rinnovo già annunciato. (6,5)

mercoledì 27 febbraio 2019

Recensione: Ritorna, di Samuel Benchetrit

| Ritorna, di Samuel Benchetrit. Neri Pozza, € 17, pp. 238 |

Il procrastinatore seriale si riconosce fra mille. Qualsiasi età abbia, ciondolerà per casa con i capelli scompigliati, la barba sfatta e le mutande un po' ingiallite sul davanti. Pigrissimo, rimanderà a domani quello che potrebbe sbrigare oggi; compilerà accurate liste per punti per poi fare carta straccia dei buoni propositi. Il protagonista di questo romanzo, allergico agli impegni a lungo termine e all'attività fisica, non è l'eccezione alla regola. Scrittore divorziato, al mattino fuma come una ciminiera e trinca caffè sulla tazza del water: gli arrivano nel mentre sgradite newsletter dall'Ikea, email di editor e creditori, messaggi spam presi talora troppo sul serio. E notizie del figlio, invece: nessuna speranza che in Groenlandia ci sia il segnale wi-fi? Hanno condiviso insieme quell'appartamento a soqquadro fino al diciottesimo compleanno del ragazzo: partito all'avventura sulla scia dei romanzi di London, Conrad e Kerouac, lasciandosi alle spalle quella vita per soli uomini – il ketchup sugli spaghetti, il formaggio scaduto in frigo, la regola sacrosanta del rutto libero. La sua assenza rende il genitore inconsolabile. Lo stesso può dirsi per l'ex moglie, in attesa accanto al telefono alle quattro del mattino: invano, e in vena di insolite gentilezze. Quant'era bello e sincero Cemento armato, il romanzo d'esordio del protagonista a cui, purtroppo, aveva fatto seguito l'oblio generale? Così tanto, a detta di alcuni produttori televisivi, da accarezzare l'idea di realizzare un trasposizione per il piccolo schermo: nell'era in cui ogni cosa diventa serie TV, infatti, meglio rispolverare quel discreto successo editoriale che ricercava il lato poetico dei famigerati banlieu parigini. Il procrastinatore un giorno muore di noia. Così tanto, a detta dell'irresistibile Samuel Benchetrit, da darsi a un pensiero sconsiderato: rimettersi a lavorare. Se in una commedia francese di quelle esilaranti, schiette, dolcissime, riprendere in mano la propria routine sarà un'impresa assolutamente rocambolesca.

Consideravo gli scrittori e i registi che ammiravo come dei familiari o degli amici intimi. Nabokov era uno zio russo. Fellini uno zio di Roma. Stesso discorso per John Fante e Vittorio De Sica. Duras era la mia cara zietta. Sagan la mia cugina adorata. Flannery O'Connor la cugina d'America. Avevo bevuto diversi whisky con Beckett. Avevo dormito tra Cohen e Yourcenar, che volevo riconciliare. Tutti insieme formavano la mia grande famiglia allargata, piena di meravigliosi parenti acquisiti che avevano fatto per me così tanto, e io così poco per loro... Eppure mi amavano, tutti loro amavano teneramente questo nipote non granché dotato, e anche un po' coglione.

Tutto parte dal romanzo da trasporre: i produttori ne vogliono una copia, peccato risulti introvabile. Quelle con dedica sono troppo preziose per sottrarle ai legittimi proprietari, i corrieri di Amazon all'ultimo danno forfait e non resta, allora, che rivolgersi a un'appassionata lettrice chiusa in una casa di riposo: forse l'unica a poterlo salvare dal macero e dall'ennesima disfatta. Nell'ospizio ci sono innumerevoli anziane di nome Raymonde, che pretendono la lettura a voce alta dei romanzi di Pierre Lamberti, storico rivale del nostro eroe; belle infermiere balbuzienti di cui conquistare il cuore con uno spietato corteggiamento vecchia scuola; uno stagno di anatre a corto di esemplari maschili, da salvare dall'estinzione spingendosi in una fattoria ai confini del mondo dove si consumano bislacchi triangoli sentimentali. Dappertutto, intanto, rimbomba una domanda da sottoporre ai passanti, all'ufficio delle entrate, al cielo aperto: dopo quindici anni di silenzio, cosa direbbe un padre inuit al figlio in partenza per terre selvagge?
Ho pensato a me e mio padre – ugualmente affini e laconici, poco aperti al dialogo eppure abilissimi a darci a raccomandazioni profuse e a sollecitudine in quantità, nel momento del bisogno –, alle opportunità perse e a quelle ritrovate invece per caso, leggendo la nuova fatica di Benchetrit. Già regista dell'altrettanto delizioso e malinconico Il condominio dei cuori infranti, l'autore firma una mezza autobiografia a tinte esistenzialiste sulla solitudine siderale e la sensibilità nascosta di noi uomini medi.

«Ma stia a... a... attento, perché ci sono delle so... solitudini che non vanno di... disturbate».
«Cosa intende dire?»
«Se inizia u... un libro, deve fi... finirlo. Altrimenti aspetteranno la fi... fine, e la solitudine sarà ancora più... ù... ù grande».

A suon di incubi, farneticazioni e voli pindarici, fra cani gatti e bonsai di cui non ci si sa prendere affatto cura, Ritorna è un ritratto al maschile logorroico e fanfarone, incapace di prendersi sul serio ma con uno sguardo al contempo pieno di poesia. Il protagonista ha una soglia dell'attenzione bassissima e cerca stimoli dappertutto. E tutto, perciò, anche quando se ne sta in panciolle, anche quando non ha voglia di fare alcunché, si trasforma in un racconto ispirato e ben scritto. In qualcosa di buono. Grazie alle tragicommedie a cui vanno incontro i suddetti procrastinatori, alle bugie degli scrittori, alla sottovalutata tenerezza dei nostri papà. Ritornano così il batticuore, il desiderio di rimettersi all'opera davanti a una pagina Word immacolata, un pezzo di te salpato per terre lontane. Frammisto a un'insospettabile profondità d'animo, a risate a crepapelle, eccolo qui: ha fatto ritorno anche il buonumore.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Indochine – Song for a Dream

venerdì 27 ottobre 2017

Mr. Ciak - Speciale Halloween: 1922, It Comes at Night, Leatherface, Annabelle 2, Berlin Syndrome

Il sommo Stephen King ha potuto soffiare sulle sue settanta candeline con la pace nel cuore. Quest'anno, l'autore horror storicamente maltrattato nel passaggio dalla carta alla pellicola è stato infatti fortunatissimo. Non soltanto un It all'altezza delle aspettative, infatti, a scacciare i prevedibili flop di The Mist e La Torre Nera. Complice Netflix, hanno gridato lunga vita al Re prima Mike Flanagan, poi questo 1922 uscito all'ombra del più pubblicizzato Pennywise. Ispirato a un racconto non di mia conoscenza, il film del promettente Zak Hilditch è la tragedia americana che forse non ci si aspetta. Un irriconoscibile Thomas Jane, uomo avido e tutto d'un pezzo, sgozza Molly Parker con la complicità del figlio adolescente. Se la moglie sognava la di città, i negozi alla moda, i protagonisti – strenuamente legati a una terra che neanche era la loro, a relazioni di buon vicinato che purtroppo non passeranno l'inverno – salvaguardano quella loro esistenza umile, dimessa, a costo della vita altrui. Il cadavere della donna di casa è lì, che si deteriora nel pozzo. Il tarlo dell'ossessione somiglia a un'orda di ratti che si riversano dagli interstizi e dalle tubature. Rosicchiano i nervi, tormentano le anime. Tutto precipita, e la violenza chiama violenza. Non se ne esce: mai. Il bene che fai porta fortuna, si dice. E il male? Dramma della coscienza lugubre e marcescente, che di horror ha soltanto i picchi della colonna sonora e le significative visioni di morte, 1922 è il King rètro che aspettavamo senza ansie. A tratti, eppure, sembra John Steinbeck. Di uomini e topi si parla, letteralmente. E della confessione senza fondo di un uxoricida messo a dura prova dagli agenti atmosferici e dal senso di colpa, in un quattro lunghe stagioni che, mentre sei impegnato a contarle, ti rubano sotto gli occhi i membri della famiglia – uno per uno – e l'illusione fantasma della prosperità. (7)

Un padre, una madre, un figlio. La minaccia del bosco e, quando il sole picchia, passeggiate con i fucili puntati. Contro un misterioso contagio che ha condotto gli Stati Uniti alla rovina, si resiste facendo affidamento alle leggi della famiglia e alle maschere anti-gas. Finché non bussa un estraneo, sano come un pesce, che propone una proficua collaborazione: si trasferisce lì con bambino e consorte. La convivenza mette a confronto due mondi, due coppie unite contro lo stesso pericolo senza nome. Come in un film di Shyamalan, tra gli alberi fruscia un male che non si svela mai. Il cane, intanto, latra. It Comes at Night, realizzato con costi ridotti e un cast esiguo (segnalo la presenza di Joel Edgerton, burbero patriarca, e Riley Keough, ospite così bella da spingere a pensieri maliziosi l'adolescente di casa), è un survival festivaliero girato in gran segreto. La critica americana parlava di Trey Edward Shults con un senso d'attesa parzialmente ingiustificato e paragoni esaltanti ma ingannevoli. Per quanto solido e ben scritto, assolutamente apprezzabile, il suo è un film senza grandi misteri, con la sintassi consueta del cinema indie e le ambientazioni di Into the Forest e Z for Zachariah – prodotti forse meno significativi, ma con gli stessi ritmi lenti, spaccati psicologici di insindacabile accuratezza e un'amarezza diffusa. Cosa succede se, in un cottage con le finestre sbarrate e le assi alla porta, in realtà è notte anche in pieno giorno? Fanno il loro ingresso il disagio, lo stare fissi sul chi va là, e non c'è arma che possa proteggerti dal sospetto dell'altro e dagli equilibri che, inevitabilmente, la novità della convivenza infrange. La paura dell'esterno li confina in un ambiente teso, claustrofobico, in cui il mostro è un loro simile. Riflessioni sparse, non troppo originali ma mirate, di un horror psicologico (o meglio, sociologico) che diventa prima campo di battaglia tra il dentro e il fuori; poi guerra civile che, in pochi metri quadri, logora e divide. (7)

Ricevere una motosega come regalo di compleanno. E, tra gli applausi e le incitazioni dei parenti, metterla in moto e rivolgerla contro il primo malcapitato. Piccoli assassini crescono, nell'ennesimo film ispirato ai mostri del compianto Tobe Hooper. Ci si guadagna, così, una scontata adolescenza in un ospedale psichiatrico, nonostante il gran scalpitare della matriarca Lili Taylor. E da quell'istituto che non disprezza l'elettroshock e le maniere forti, una notte, si scappa in tanti con un piccolo pretesto, trascinandosi dietro un'infermiera costretta suo malgrado a fidarsi del più docile tra loro. La struttura on the road e i personaggi depravati, trucidi, ricordano il primissimo Rob Zombie o Robert Rodriguez. Sulle loro tracce, gli agenti Stephen Dorff e Finn Jones – senza troppe sorprese, più selvaggi e cattivi della gang di psicopatici in libertà. C'è un interessante cambio di rotta nel momento in cui prima si invertono i ruoli di potere, poi cambiano bruscamente le preferenze dello spettatore. Gli inseguitori diventano inseguiti, o viceversa. I cattivi tenenti del profondo Texas degli anni Sessanta ci tentano, quasi, con il crimine preferito alla legge. Leatherface, film a sé sul primo amore e la cruenta adolescenza del membro più famigerato della famiglia Hewitt, è un horror dalla parte dei cattivi. Reboot trascurabile, sì, ma con la mano pesante dei registi del cult francese A l'interieur. Più europeo che americano: sporco, con sangue a fiumi, necrofilia e una trama che abbozza perfino un colpo di scena, nel tirare le conclusioni. C'è del buono, insomma, nel cattivo gusto di Alexandre Baustillo e Julien Maury. Adesso, prego, apritegli porte che non somiglino più a questa qui. (5,5)

Il prequel di uno spin-off: pessime premesse, e invece... Come il dignitosissimo Ouija 2con cui ha in comune, oltre alla cura degli interni e al fascino della ricostruzione storica, anche la presenza della piccola Lulu Wilson –, Annabelle: Creation sceglie atmosfere vintage e gli anni Cinquanta. Ci sono una casa di campagna, una famiglia addolorata per la perdita dell'unica figlia, uno spettro che utilizza il lutto e un'inquietante bambola di porcellana come canale. Ne viene fuori un horror classico, derivativo, certamente perdibile, che ha il pregio di saper cosa fare dei silenzi, dei coni d'ombra, del suo assurdo senso di attesa. Cosa si muove negli angoli bui? Perché i bambini, candidi e vulnerabili, sanno risultare eppure tanto inquietanti? Fedele alla mitologia a cui ha dato il via James Wan che qui si limita a produrre, ma presta il suo sguardo al Sandberg dell'orribile Lights Out –, il prequel gioca con lo spazio filmico e tutti i cliché del caso. Ecco le luci ballerine, i montacarichi tremolanti, le storie di fantasmi sotto le coperte, un pozzo nero in cui si rischia di essere tirati giù; le rarissime concessioni allo splatter e, nonostante la pochezza della trama, una cura che ipnotizza lo spettatore più attento alla forma che alla sostanza. Creation si prende il suo tempo. Troppo, forse, per approfondire le storie – melense, a tratti – di un gruppo di sfortunate orfane dickensiane. Troppo poco per chiudere il cerchio o colmare le falle. Fa sobbalzare, ma non spaventa. Convince ugualmente, se la paura è sopravvalutata e ci si accontenta di altro. Qualcuno, infatti, ha confezionato per Annabelle – vedasi la cura del comporto tecnico, l'eleganza degli interni, la studiata suggestione che si annida nei segreti dei campi lunghi – un gran bel pacco regalo. Scartatelo in fretta. Prima che Halloween e la voglia di accontentarsi passi in fretta. Prima che l'orrida bambola, impaziente, trovi da sé uno strappo attraverso cui tormentarvi. (6,5)

Una turista australiana con lo Reflex al collo incontra un ragazzo di quelle parti, rispettabile professore di inglese. Siamo nella stessa Germania affascinante e sgranata di quel Victoria girato d'un fiato. Berlin Syndrome, presentato in anteprima al Sundance e immancabilmente al Festival di Berlino, sembrerebbe un boy meets girl di quelli che tanto mi piacciono. Si passeggia chiacchierando, ci si conosce ingannano il poco tempo a disposizione. Teresa Palmer e Max Riemelt (sì, proprio il biondo del compianto Sense8) sono belli, bravissimi, presi. Lei sta per tornare a casa e lui, innamorato già al primo sguardo, vorrebbe che restasse. Nessuno ti potrà sentire, le sussurra al culmine della passione. Un invito ad abbandonarsi al piacere, o una minaccia? Berlin Syndrome sembrerebbe una rilettura europea, indipendente, di un'Attrazione fatale a rovescio. Riemelt la chiude in casa, la lega alla testiera del letto e, dopo un tentativo di fuga, le spappola le dita. Sembrerebbe, ancora, un rape and revange: ci sono le violenze fisiche e psicologiche, infatti, e il desiderio costante di insorgere. Il thriller di Cate Shortland è niente di tutto ciò, ma anche tutte e tre le cose insieme. Ha un occhio interessante, due ottime performance, un sociopatico dal profilo insolito – rispettato dai suoi studenti, popolare tra i colleghi, premuroso con il padre morente. Fa sì che lei abbia bisogno di lui, che diventi il suo mondo: usando ora la carota e ora il bastone, ammaestrandola. Il sesso non sembra più stupro. La cattività appare una scelta di vita. Accurato e sottile, Berlin Syndrome è però di una lentezza e una ripetitività snervanti. Una prigionia resa nel dettaglio, troppo? Difetti grandi e piccoli di una regia a lungo indecisa tra il dramma e la vendetta? (6)

mercoledì 25 ottobre 2017

Recensione: Ho taciuto, di Mathieu Menegaux

| Ho taciuto, di Mathieu Menegaux. Bompiani, € 15, pp. 144 |

Claire e Antoine hanno una bella casa nella capitale, carriere di successo e, come unico problema in paradiso, l'esasperante prigrizia degli spermatozoi di lui. Quarantenni attraenti e affiatati, hanno i loro piacevoli riti – fare l'amore di domenica mattina, ad esempio, o partire per una vacanza dell'ultimo momento senza dover dare conto a nessuno – e inviti a cena nei palazzi signorili della migliore borghesia parigina. A casa di un collega di Antoine, ci sono chiacchiere e perbenismo di troppo. Claire si congeda elegantemente, inforca la bicicletta. Imbocca un sottopasso, rivolgendo un sorriso di buona educazione a un'ombra più fitta delle altre. Che la abbranca strappandole un urlo e i jeans. Che la stupra sull'asfalto, al buio.

Ieri la mia vita era una vita a metà, una vita da fenicottero rosa, una vita su una zampa, in cui cercavo di mantenere l'equilibrio alla meno peggio, ma una vita. [...] Oggi cosa sono? Una donna violentata.

Come Isabelle Huppert in Elle, la protagonista chiama la polizia per riattaccare dopo qualche squillo appena. Si solleva da terra e se ne va. Si concede una lunga doccia. Si tiene per sé la paura di quell'aggressione che la renderebbe solo più fragile, solo più vulnerabile, agli occhi degli altri. E Claire, troppo legata alla sua idea di decoro per mostrarsi a pezzi, già in passato si è tenuta stretta i suoi segreti. Tace lo stupro. Qualche anno dopo, in attesa del verdetto della giustizia, tacerà le barbare ragioni che l'hanno condotta a una cella di massima sicurezza. Dove della sua identità non resta che un anonimo numero identificativo e una confessione di cui liberarsi entro l'alba del mattino successivo. Ho taciuto è un noir dell'anima. Un dramma giudiziario scabroso ma elegante, come soltanto i francesi sanno. Stranisce perché ha il tono delle storie vere, e al fatto che l'autore sia un esordente, lo stesso uomo fotografato nel risvolto di copertina, si fa semplicemente fatica a credere.

Leggetemi. Siete la mia ultima conversazione prima che io scompaia.

Si legge di Claire con un misto di interesse e abiezione. Ha commesso infatti il crimine più ignobile che si possa immaginare. E, tra le pagine, torna indietro. A quando era libera. A quando era innocente. A quando era lei, la vittima, e non il macellaio che fa sbizzarrire la stampa internazionale. Non fornisce alibi e non cerca giustificazioni. Non deve convincere il giudice e non può rabbonire una giuria di conservatori. Lei ha già condannato sé stessa. Il suo provante calvario, la sua affascinante tela di pensieri, contagia il lettore assieme all'incubo incancellabile di due occhi nerissimi. Claire, all'inizio dalla parte della ragione, gioca a imbrogliare gli altri, a fingersi Dio. Pecca di tracotanza nel costruire la sua personale Babele di bugie. Come Prometeo nel mito, però, ha un avvoltoio che le divora il fegato. E troppo provata, troppo suggestionata dalla violenza, smette di credere nei miracoli e nel prossimo. Il fegato a brandelli, e un cuore buio che non crede più alle schiarite.

Scavalcherò i muri di cinta senza scala, senza rampini, senza lenzuola annodate, volerò al di sopra dei fili spinati senza ali, sparirò senza trucchi, svanirò senza armi, senza odio né violenza. […] La scrittura è l'ultima stazione della mia Via crucis. Non conto di tornare il terzo giorno. Non mi rivedranno.

Corto e spregevole, il primo romanzo di Mathieu Menegaux è un racconto a sangue freddo aperto a diverse svolte shock e a pagine di impensata delicatezza (pensate, si chiude con la mia preferita delle canzoni degli Smiths). Succede poco, ma le pagine non consentono altrimenti. Non dico troppo, perciò. O comunque meno di quanto vorrei. Sembrerebbe di giudicare una pagina di diario, non un romanzo bellissimo. Gli sbagli della donna, non del personaggio fittizio. Claire non esiste, invece, e metabolizzare la consapevolezza, lo strazio, richiede tempo; i nervi che intanto ringraziano. Ho taciuto è un romanzo di cuori neri che non vogliono saperne di far riempire da cima a fondo una pagina bianca. Una macchia addosso che più provi a cancellarla, con il palmo della mano, e più ti insudicia.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Depeche Mode - Enjoy the Silence

giovedì 17 agosto 2017

Dear Old Mr. Ciak: Che fine ha fatto Baby Jane, J'ai tué ma mère, Beginners, Frantz

[1962] Papà Hudson ha reso Jane una stella del palcoscenico. I boccoli biondi della sua bambina prodigio hanno ispirato perfino una bambola. Molti esemplari resisteranno alll'eclissarsi della notorietà di lei: scalzata dalla sorella rivale, Blanche, che crescendo ha voluto pareggiare i conti. Un incidente, all'apice della gloria, le ha tarpato le ali e spezzato le gambe. Bloccata in sedie a rotella, vive di rendita e delle cure della sola Jane. In un cupo castello dedicato al dio passato, dove non sono ammessi visitatori e in cui, a lungo andare, l'insofferenza miete vittime. Chiudete in una stanza due sorelle che si accusano a vicenda di essersi rovinate la vita. Mettete sullo stesso set due dive sul viale del tramonto, professioniste che fanno di qualsiasi capriccio una questione personale, e buttate via la chiave. Allo scontro tra titani a colpi di battute taglienti sopravviverà la più posata Joan Crawford o l'insuperata Bette Davis? Se la prima è la vittima messa a tacere, vessata e schernita con una crudeltà così esemplare da divertire, l'altra pianifica un impossibile ritorno al passato. L'indimenticabile Jane nasconde topi e passerotti ammazzati sotto la cloche; strega con gli occhi spiritati, lo straordinario sprezzo del ridicolo e il trucco sbavato. Qual è la sorte dei ragazzini bollati anzitempo come promettenti, poi incapaci di mostrarsi all'altezza della situazione? Cos'è stato dei ritornelli di Nikka Costa, del biglietto aereo per Macaulay Culkin, del sesto senso dello struggente Haley Joel Osment? Che fine ha fatto Baby Jane? La domanda te la pone il titolo di un thriller psicologico passato alla storia. Uno di quelli che suscitano reverenza, che recuperi con sessant'anni di ritardo. La scusa perfetta: Feud, la serie antologica che accende i riflettori su una faida che seguì le protagoniste anche fuori dal set. Nonostante il bianco e nero, Che fine ha fatto Baby Jane? non è invecchiato di un giorno. Genitore degenere di qualsiasi Misery non deve morire; figlio tiranno del capolavoro Viale del tramonto; stella fissa. (8)

[2009] Il giovane Hubert condivide un appartamentino kitsch con l'irritante Chantale. A volte sono cane e gatto, altre metà complementari. A detta del giovane, la donna è la persona che più odia sulla faccia della terra. Affermazione forte, ma tutto nella norma: lui è un adolescente scalpitante, lei è una madre che lo ostacola con la scusa di ciò che è meglio per lui. Siamo nella provincia canadese, illuminata a sprazzi dai ninnoli e dai centrini colorati di una casa di bambole; siamo in un film del talentuoso Dolan. Per la precisione, il primo. Lui – attore, autore, regista – aveva vent'anni. L'invidia dovrebbere rendermelo antipatico. Quella, e la consapevolezza di non avere apprezzato pienamente i film che hanno preceduto il suo effettivo capolavoro – il ciarliero Les Amours Imaginaires, il nebuloso Tom à la ferme. Lì c'erano, accanto a un lato visivo comunque potentissimo, un lezioso compiacimento di fondo e molto autobiografismo: tra arte, omosessualità e pop-art, in un duplice ruolo, troppo Dolan per una conoscenza preliminare. Qui, alle radici dell'enfant prodige, è presente di tutto un po'. Ma, benché molto acerbo, ho trovato J'ai tué ma mère un'opera prima fresca e sincera. I rapporti interpersonali al limite, la dolcezza e le urla, i piatti infranti e gli aforismi da incorniciare. Anche agli inizi, una genitrice che somiglia proprio a Anne Dorval: tenuta a distanza, contestata, tanto da nascondergli l'esistenza di un fidanzato non per timore di non essere accettati, ma per puro dispetto; una madre nevrotica, ispiratrice di continue invettive e instancabili recriminazioni. Accanto a lei, un capriccioso e imberbe Dolan: all'occorrenza ottimo attore e pessimo figlio unico. Uccide la madre nei temi in classe, dicendosi orfano. Nei suoi sogni segreti, si inseguono all'ombra di un bosco: lei, nel clou di un curioso ma delicato complesso di Edipo, indossa l'abito da sposa. Hubert è un adolescente con il mondo contro e in cerca di se stesso, Chantale è una mamma chioccia che non si accorge di soffocarlo per paura di un ulteriore abbandono. Come loro, tutti i figli imperfetti e tutte le mamme single. Come Dolan, già in tempi non sospetti, nessuno. Dietro l'ingannevole confessione di un presunto matricida, J'ai tué ma mère è una storia vera. Lo schizzo in potenza che precede il disegno di Mommy, indimenticabile atto. (7,5)

[2010] Oliver ha tempo a sufficienza per fare un bilancio. Vive solo, il suo lavoro da illustratore lo tiene impegnato ma non troppo. Gli fa compagnia un Jack Russel e il pensiero di un'affascinante attrice francese, che alle feste mascherate ha l'aria di essere infelice tanto quanto lui. Il protagonista ha scelto di travestirsi da Freud. Per uno scherzo del subconscio o per precisa volontà, chissà, la maschera dello psicanalista la dice lunga sui problemi personali di Oliver. Su una famiglia strana e sfortunata, perfino più delle nostre, che si è decimata nel giro di pochi anni: prima è morta la madre, portata via da un tumore; poi l'ha seguita a ruota il padre, con lo stesso male e un clamoroso outing prima di andarsene. L'arzillo genitore ha approfittato della vedovanza, del poco tempo a disposizione, per uscire allo scoperto: si è avvicinato alla storia della comunità LGBT e ai siti di appuntamento; ha incontrato un personal trainer infedele ma presente, che è stato con lui fino alla fine dei suoi giorni. In Beginners, autobiografia agrodolce sotto forma di commedia indipendente, c'è un Ewan McGregor – bravissimo, al solito – in fase di elaborazione. Medita, ricorda, si innamora dello spirito girovago della Laurent. Fa respiri profondi e passeggiate al parco e nei corridoi degli hotel. Per essere sempre in fuga, d'un tratto si fossilizza a riavvolgere il passato. Mette radici in una camera d'albergo con la moquette a terra, accanto a una sconosciuta. Pensa alla scoperta della tenerezza e della sessualità di Cristopher Plummer, ma senza rancore: lo compiange, un po' imbarazzato all'idea di gestirne il disordine postumo e il compagno in lutto. Confronta il passato e il presente, e c'è spazio per gli schizzi, le fotoricordo e gli sprazzi di genialità molto cari al cinema del già promettente Mike Mills (quest'anno apprezzatissimo con 20th Century Women, gioiello in sordina). Ci sarà spazio anche per l'amore, dopo aver preso atto che quello tra i suoi genitori è stato una sciarada ma non proprio tutto, eppure, è perduto? Vedasi la leggerezza di Plummer: pienamente se stesso a settantacinque anni. Vedasi gli adorabili difetti della nostra lei: amante dei libri usati e delle case vuote. Come il titolo rivela, i protagonisti sono tre individui alle prime armi. Impreparati a voltare pagina – a convivere in pace, a morire in silenzio –, ma non del tutto inadatti. Plummer deve avere fatto sua la lezione alla scuola serale. Assente ma presente, dà ripetizioni sentimentali a principianti in attesa di ravvedersi e di rivedersi. Se l'amore è questione di famiglia, meglio condividerne i segreti. (7,5)

[2016] A proposito di registi francofoni che adoro: posto anche a Ozon. Il parigino che viene dal mondo della moda e spazia con nonchalance dal thriller alla commedia musicale, è stato a Venezia con l'applaudito Frantz. Un melodramma postbellico che rinuncia coraggiosamente al colore e si rifà a una pellicola di Lubitsch. In un paesello tedesco del primo Novecento, una vedova di guerra piange il promesso sposo. Sulla sua tomba, un giorno, trova un fiore. A depositarlo, un soldato francese. Adrien parla di Frantz, ma non come farebbe un semplice amico. Fa breccia nei cuori dei genitori del defunto, seduce l'anticonformista Anna. Poi sparisce, nel clou di una rivelazione, e le lettere inviate a lui ritornano al mittente. Chi era quel forestiero per il soldato caduto? Cosa si nasconde nei suoi modi gentili, nelle sue risposte vaghe, nello sguardo altrove? Come l'ultimo Dolan, anche Ozon sceglie di allontanarsi dalle piste consuete. Restano integri il mistero, il fascino, la splendida cura della regia. A malincuore, dopo una bellissima parte introduttiva, si fanno presto i conti con ciò che manca. Frantz è sobrio, lento, raffinatissimo. Il regista cede al richiamo di un film diverso dal solito. A un omaggio classico, languido, che riflette sulla verità e il perdono. Alla trama si rimprovera una certa piattezza, purtroppo, e sono le bugie e il ricordo a colorare magicamente i concerti privati del sempre bravissimo Niney (brutto ma bello, come solo i francesi possono) e i sorrisi della raggiante Beer. La pacatezza del bianco e nero ammorbidisce le passioni proibite, l'impostazione rigorosa abbraccia un'estetica splendida e trascura il coinvolgimento. Le cose belle, però, piacciono. E la classe rètro dell'etereo Frantz – un Ozon a metà, sprovvisto del suo eros e della sua ambiguità – incanta. Lo si apprezza, se non altro, per la Grande guerra raccontata dal punto di vista dei sopravvissuti a una generazione perduta, rievocata attraverso le inimicizie tra tedeschi e francesi: vicini di casa, eppure rivali. Finito il conflitto, finirà l'odio? E la vedovanza di una ventenne che, un po' come noi, si aspettava dall'elusivo amico di Frantz l'enigma, la svolta, l'amore ? (6)

sabato 10 giugno 2017

Mr. Ciak: Raw, Wonder Woman, La tenerezza, Colossal, Life

Primo giorno di università per Justine – diciannove anni, una maglietta con gli unicorni, una famiglia vegetariana. Diligente e ben educata, è destinata a diventare la prima della facoltà. A traviarla, il giro sulla giostra delle prime volte. Justine fantastica sui gemiti che provengono dalla stanza dell'attraente coinquilino gay. Prima ne segue le orme e poi prende le distanze da una sorella maggiore che ha rinnegato la dieta bio e le sue origini alto-borghesi. Assaggia un morso di carne cruda, per gioco, e capisce che il suo corpo ne ha bisogno. Raw, tanto cruento da provocare conati di vomito a Cannes, fa socchiudere gli occhi in preda a un vago disgusto, ma non mette mai a dura prova le resistenze. Horror ibrido, femminile, francese, è un esordio che ha la ricercatezza e la profondità del cinema festivaliero. Lontano dai bagni di sangue, nonostante Garance Marillier abbia sempre il mento imbrattato di rosso arterioso, somiglia a un romanzo di formazione non di difficile interpretazione. Originale e mirato, grottesco e sottilmente erotico, Raw racconta la scoperta di sé con leggerezza e stile – ha un che di Dolan, ad esempio, Ma che freddo fa in chiusura o la sequenza in cui gli studenti, sporchi di vernice, sono spinti a baciarsi in una versione surreale del gioco della bottiglia. Il tempo delle mele ha i vestiti corti e la ceretta alla brasiliana, il bicchiere sempre pieno e un sesso di fretta. Cosa direbbero i genitori, a cui Justine deve i modi da bimba e il regime alimentare? Dovrebbe forse prendere esempio da Alexia, spintasi ormai troppo in là? La protagonista tampona uno sbaffo di rossetto sulle labbra, un rivolo di sangue sul mento. Ti guarda con gli occhi di chi ha imparato ad arte a padroneggiare l'arma della malizia. Raw è l'addio al liceo, al nido, alle inibizioni. Uno strappo del cordone ombelicale, cambiare pelle. L'indipendenza spalanca gli occhi e lo stomaco. Fuori c'era un mondo che per tutto il tempo aspettava solo noi – e reclamava carne fresca. E Justine, di quel mondo, ha fame chimica. (7,5)

Quando parlo di cinecomic è perché mi porta a vederli di peso papà. Quando capita, lo faccio sempre con gli stessi toni. Tocca annoiarvi anche con la cronaca dell'ultimo giunto in sala? Benché diretto dalla regista di Monster, il cinecomic sulle origini dell'amazzone DC non fa breccia. Cominciamo malissimo, con una prima metà vittima spesso del ridicolo involontario: su un'isola interamente popolata da donne – una novella Lesbo protetta da schiere di Xena –, Gal Gadot è una Sirenetta che sceglie di seguire il naufrago Chris Pine nel mondo reale. Fuori c'è la guerra, ed è tutta colpa di Ares. E anche una Europa grigiastra e sotto assedio, in cui tutti vanno di fretta e indossano abiti scomodi. Se sopravvissuti all'incipit, la seconda parte si farà seguire con meno smorfie: un po' Allied, tra battute maliziose e gala a cui infiltrarsi; un po' un Hacksaw Ridge in gonnella, con mine calciate ed eroismo spiccio in trincea. L'amore tra due che si somigliano e si pigliano sboccia, nonostante gli uomini servano solo per procreare e le ragazze sappiano divertirsi da sé. I villain abbondano – un nazista e la sua scienziata rubata a Austin Powers, un Ares da ridere in chiusura – e, insieme all'inconsistenza della sceneggiatura, risultano i tasti più dolenti. Rito di iniziazione di una mancata femminista Disney, il Wonder Woman della Jenkins è un film introduttivo e non da cestinare in toto. Purtroppo, pecca di una CGI non sempre inappuntabile e di quella sciatteria che non perdono. Diana, come tutte le bellissime con la fascia da miss, fa discorsi sulla pace nel mondo e l'importanza dell'amore. A lei dobbiamo la fine della Seconda guerra mondiale e gli uomini che si lasciano volentieri salvare dalle loro innamorate, riposto l'orgoglio. Le bambine e Alice Sabatini prendano appunti, intanto, così da snocciolare sogni edificanti e la storia contemporanea secondo Zack Snyder nel prossimo futuro. (5,5)

Una Napoli senza accento, un condominio in cui si intrecciano generazioni e solitudini. Un avvocato con la reputazione sporca stringe amicizia con la dirimpettaia: moglie di un uomo nevrotico, spinge quel signore scontroso a sorridere davanti a un caffè. Lo spunto lo riconoscete, i personaggi forse: vengono dalla Tentazione di essere felici. Essenzialmente: la parabola di un vedovo che capiva che non tutta la vita veniva per nuocere. Adatta con licenza poetica Amelio, autore di un cinema soldissimo e sentito. Cambia il titolo, i nomi e le professioni, la struttura. Ci sono le presentazioni in apertura, una tragedia a metà, il percorso dei figli rancorosi in conclusione. La dolcezza, in apparenza, solo nel nome. La tenerezza, dramma intimista e di vecchio stampo, è infatti una storia altra e con un altro linguaggio – questo, con buona pace dei lettori di Marone. Ritratto disperato di un uomo che ha preferito fare terra bruciata attorno a sé (Renato Carpentieri, di una bravura clamorosa), è la trasposizione asciutta e realistica di un romanzo che, nell'anima, era una favola partenopea. Al cinema c'è la solitudine della vecchiaia: brutta bestia. Un perdono che si nega per il bene del passato. La cronaca nera irrompe prima del previsto. Nomi altisonanti (Germano, la Ramazzotti, la Mezzogiorno; ci pensa una Scacchi sotto shock, piuttosto, a scuotere con un monologo bellissimo) richiamano l'attenzione dal poster ma non restano. La tenerezza è un film di genitori e figli. Di persone che, imperterrite, continuano a sbagliare. E a prendersi a cuore il prossimo. Ci si può disaffezionare? A settant'anni la vita smette di colpire sotto la cintola? Si vive per conquistare il bene di un altro, in gran segreto, e affinché qualcuno voglia affidarci il peso delle proprie chiavi di casa. Interrompi la visione e ti chiedi se esista, questa tenerezza. Cosa sia – un gesto o un sentimento? E in quale mano tesa, in quale veglia proibita, cercarla. (7)

Anne Hathaway torna in provincia con la coda tra le gambe. In una città che non è cambiata neanche un po' incontra un compagno di scuola, Jason Sudeikis. Mettici le atmosfere indie, mettici una colonna sonora ad hoc, e otterresti una commedia romantica a là Blue Jay. Non mancano due protagonisti amareggiati e stanchi, che hanno paura di crescere e di piacersi, né i momenti di vulnerabilità faccia a faccia. Peccato che i notiziari li vogliano vigili e preoccupati: nella lontana Corea un mostro terrorizza gli abitanti. Peccato, soprattutto, che la lei del duo si accorga che il mostro obbedisce ai suoi comandi. Fa balletti buffi e inciampa. Commete massacri involontari quando è brilla. Colossal, secondo film americano di Nacho Vigalondo, è una creatura strana e, nel bene e nel male, unica nel suo genere. Cosa c'è dietro la connessione telepatica di una donna sull'orlo di una crisi di nervi e un alieno che mette a soqquadro l'altra parte del mondo? Cosa nasce dall'incontro tra Drinking Buddies e Godzilla? Se i trailer suggeriscono una storia demeziale, a sorpresa Colossal si rivela tutt'altro: denso e semiserio, è una metafora – non del tutto riuscita, ma acuta – che con la scusa dei mostri parla di noi. Precisamente, dell'insoddisfazione perenne di una coppia impossibile – lei, infatti, non ricambia le attenzioni di lui – che un giorno qualsiasi può elevarsi dalla propria mediocrità, da fegati ulcerati e matrimoni mancati, giocando a fare Dio. La Hathaway e Sudeikis, bravissimi, fanno da spettatori annoaiti alle loro stesse vite. Di pomeriggio, in un cortile, si accorgono di poter cambiare quelle degli altri – annientarle, risparmiarle. Se vinto e disperato, ti ecciterrebbe sentirti onnipotente? Colossal è un racconto grottesco di amicizie a senso unico, ossessioni e seconde chance. Una storia dall'equilibrio ondivago, che ci ricorda di comportarci come se il prossimo dipendesse dal più piccolo gesto; da una nostra birra di troppo. (6,5)

Quest'anno lo spazio fa tendenza. Agli Oscar, la poesia di Arrival e il cielo sopra Hidden Figures. In sala, richiesto ma non troppo, il sequel di Prometheus. A metà strada, lo scorso marzo, c'era anche questo Life – un trio stellare, la regia del capacissimo Daniel Espinosa, infondate voci di corridoio che lo volevano prequel di Venom. Thriller fantascientifico nello spazio profondissimo, il film segue gli studi di una squadra di astronauti intenti a studiare un campione proveniente da Marte. C'è vita altrove. Da impercettibile e innocuo, un punto sul vetrino, l'alieno crescerà e minaccerà di mandarli alla deriva. Lo svolgimento, tutt'altro che inconsueto, si dipana tra scelte di vita o di morte, esplosioni e fughe che somigliano a un eterno rimpiattino. Reynolds, la Ferguson e Gyllenhaal – quest'ultimo pesce fuor d'acqua in un blockbuster piacevole ma mediocre – scappano fluttuando e vengono perseguitati in maniera implacabile. Personaggi scritti con sufficienza impersonati da attori sprecati, esiti assai intuibili, un mutante che non possiede né l'iconismo di Blob né la ferocia della Cosa. Life, passato in sordina perché non all'altezza delle attese iniziali, eppure non dispiace. Accanto ai difetti: l'alta tensione e la cura di un comparto tecnico che si ispira a Cuaròn, nelle vertigini e nei capogiri. Senza peso, vola via nella sua tuta linda e perfetta. E che non sia l'infinito la meta finale, nostro malgrado, poco tange. (5,5)

sabato 27 maggio 2017

Mr. Ciak: 7 romanzi al cinema

Tom, sopravvissuto alla Grande guerra, si trasferisce a Janus in cerca di silenzio. Dalla terra ferma, incantata dai suoi modi d'altri tempi, lo segue la fedele Isabel. I bambini non vogliono arrivare. Il mare ha la soluzione: una scialuppa alla deriva e, a bordo, una bambina senza identità. Perché lasciare che tutto quell'amore vada sprecato? L'apparizione della madre biologica, però, rompe l'idillio. La bambina è di chi l'ha messa al mondo o di chi ha avuto cura di lei? L'estate scorsa queste stesse domande mi toglievano il riposo in spiaggia: sotto l'ombrellone, tentavo di stringere i denti. Avevo amato la potenza di La luce sugli oceani e, da lontano, invidiato chi lo aveva visto in anteprima a Venezia. Le prime recensioni, però, suonavano tutt'altro che rassicuranti. Personalmente, voce fuori dal coro, mi piace scoprirmi talmente immerso nella finzione da prenderla come una questione personale. Così, mesi dopo, mi trovo a remare contro l'aridità della critica. La luce sugli oceani non è un film da luci della ribalta: vuole il pomeriggio perfetto e la casa vuota. La sa lunga Derek Cianfrance in fatto di coppie scoppiate e bocconi indigeribili. Alla stregua del regista di Blue Valentine, anche Alicia Vikander mi ha sempre in pugno: è destino, infatti, che mi faccia disperare ogni volta. Con lei una ritrovata Rachel Weitz, che con pochi tocchi svela i retroscena di un'altra pena e di un'altra donna. Ma ago della bilancia e giudice dall'ingrato compito, un laconico e straordinario Fassbender. La luce sugli oceani è una parabola classica, sulle sfumature dell'amore e dell'acqua. Sul peso specifico del perdono. Fedele al materiale di partenza, viscerale, a tratti è così pieno che sì, potrebbe sopraffare i naviganti. Potevano privarlo delle tante lettere, dei molti pianti, dei troppi tramonti. Eppure, dalle onde della sua emotività, mi sono lasciato volentieri travolgere. Senza guardare mai l'orologio. Senza additare i sentimenti, e i melodrammi, come fuori stagione. (7,5)

Siccome cinquanta non erano abbastanza, le Sfumature raddoppiano con un sequel. Si scuriscono, virando al nero. La James, ai ferri corti con la precedente regista, si affida a uno sceneggiatore di fiducia – adatta, infatti, il marito in persona – e al tocco del solido Foley. Si riparte da dove eravamo rimasti. La rottura tra Anastastia e Christian si rivela soltanto un breve litigio: i due tornano insieme, qui, e si godono i pregi di fare la pace. Ci si mettono in mezzo il capo di Anastasia, che attira spasimanti come se ce l'avesse solo lei; una stalker psicolabile; la tardona Kim Basinger. Nella prima ora, tra balli in maschera e giochi ammiccanti, è una commedia sexy che non dispiace: palesa le assurdità già assodate e una maggiore complicità tra Jamie Dornan e Dakota Johnson. Mostrare bella gente nuda, però, poco ha a che fare con l'erotismo. A stuzzicare ci pensano fascette, perle e divaricatori, ma i protagonisti – incaprettati, bendati, vulnerabili – finiscono sempre per ripetere la stessa coreografia: lei sotto, lui sopra col sedere in mostra, dissolvenza. Il trash è godibile quando dura poco, si sa. Nella seconda parte il film vorrebbe farsi prendere inutilmente sul serio, e allora dà il peggio del peggio. La colonna sonora è radiofonica, i comprimari meglio definiti sono gli addominali di Dornan e la natica sinistra di Dakota, lo si segue divertiti perché ormai abituati al nonsense. E' così raffazzonato e insipido, alla fine, che troppo male non gli si vuole. Più dignitoso del precedente perfino, anche se per un pelo. E, se si parla di vedo-non vedo, di spogliarelli e lingerie, saprete bene che anche un pelo fa la sua. (5)

Al cinema uccidete tutte le persone che volete, ma non toccatemi gli animali. Pensiero ricorrente, questo, perfino davanti all'horror più sanguinoso. Figuriamoci se si tratta dell'ultimo film di Lasse Hallmstrom – lo stesso di Chocolat, svariate trasposizioni di Nicholas Sparks e, soprattutto, Hachiko. Dopo il trauma legato all'Akita che non si arrendeva alla perdita del suo padrone, assecondare la tristezza con Qua la zampa. Sabotato lo scorso inverno dagli animalisti, nonostante accuse pare belle che cadute, la commedia a tinte fantastiche dello svedese parte da uno spunto originalissimo: raccontare non una, ma le tante vite di un cane speciale. Bailey, infatti, è destinato a reincarnarsi senza dimenticare il proprio passato – e nell'edizione italiana, purtroppo, la voce narrante di Gerry Scotti. A volte nasce maschio, a volte femmina. A volte campa a lungo, altre si spegne presto. Lo ospitano famiglie sul punto di disfarsi, coppie felici e coppie scoppiate, l'unità cinofila e un canile da cui scappare alla prima occasione. Abbandonato, usato, amato, cerca uno scopo e non si disfa del pensiero di Ethan, il suo primo padrone (il KJ Apa di Riverdale che crescendo diventa Dennis Quaid). La sceneggiatura non approfondisce un'idea vincente. Un cane che accompagna varie generazioni, che sperimenta varie esistenze: perché non mostrare attraverso i suoi occhi un po' di storia americana, come in un Forrest Gump a quattro zampe? La storia del Paese resta ai margini. Si accenna alla crisi dei missili, la radio passa Take on me, i capelli si ingrigiscono. I trailer anticipano troppo. Da copione Bailey morirà non una, ma innumerevoli volte. C'è un limite ai pianti di uno spettatore dal dichiarato cuore di pastafrolla? Qua la zampa, invece, è un intrattenimento per grandi e piccoli che intenerisce, diverte, e di lacrime, purtroppo o per fortuna, non fa esagerato abuso. (6)

Una reunion. I corridoi del liceo che ispirano ricordi a ogni passo. Sono immancabili quelli legati allo Svedese: un giovanotto che eccelleva in doti atletiche e carisma. Ha fatto una fine indegna di lui. Pastorale Americana è la storia della famiglia che costruì ma non seppe tenere unita. La maggioranza delle recensioni lette lasciavano intuire un gran pasticcio. Un dramma in cui il troppo stroppia. Mi ritrovo a essere in disaccordo, benché tanto faccia la mancata lettura del romanzo di Roth e la passione per le famiglie infelici a modo loro. Come condensi un capolavoro di cinquecento pagine in un film di un'ora e quaranta senza sacrificare qualcosa? Temevo mi scivolasse addosso. Peggio: temevo di non affezionarmi, nell'annunciato riassunto di una moderna pietra miliare, ai suoi personaggi. Pastorale Americana, per me, è un dramma classico e arduo, perciò coraggioso. A sobbarcarsi l'impresa, così come il suo personaggio ingurgita e metabolizza i dolori di tutti gli altri, un Ewan McGregor che interpreta e per la prima volta dirige. I doppi impegni lo provano e un po' ne risente la recitazione. Stanco ma credibile, spinge a rimarchevoli exploit la Connelly e una antipaticissima Fanning. A fine visione, ho avuto più voglia ancora di scoprire il romanzo. A fine visione, soprattutto, io che temevo un film senza peso, ho sentito la pena inconcepibile di questo uomo buono a cui succedono cose cattive. Calmo in superficie, Pastorale Americana indugia nei dettagli essenziali abbastanza da lasciarti intravedere il mare che si agita sul fondo e il sentore vago della sua originaria bellezza. (7)

Sophie, orfana a Londra, viene sottratta al collegio e alla solitudine dalle mani di un premuroso gigante. Attraverso balzi chilometrici, il mostro la conduce in una terra di insidie. Peccato che sia in realtà il più minuto della sua specie. Maltrattato dai propri simili, imbottiglia sogni e protegge Sophie dai fratelli. l GGG, classico di Dahl purtroppo mai arrivato nella mia libreria, trova un nuovo adattamento. Dirige Spielberg, avvalendosi di una computer grafica non sempre inappuntabile e della voce di un Mark Rylance fresco di statuetta (qui in versione “Spacco botilia, ammazzo familia”): subito si mettono in conto nostalgia e occhi lucidi. Dahl, eppure portato al cinema infinite volte, questa volta lascia annoiati e delusi: le guance asciutte, al contrario che nel recente remake del Drago Invisibile, e un senso di irritazione verso un'eroina antipatica come poche. Il minutaggio, eccessivo, sfiora le due ore; i toni cupi e i peti da cinepanettone turberanno i piccoli, lasciando sostanzialmente insoddisfatti anche gli adulti; la storia, mi dicono fedelissima all'originale, decolla tardi e lascia straniti in un finale grottesco. Anche più del Canto di Natale secondo Zemeckis, Il GGG risulta pesante e artificioso. Non abbastanza modesto da passare inosservato. Non abbastanza importante da meritarsi la tripla “G” dell'acronimo. (4,5)

Nella Toscana degli anni '50, un'infermiera cerca di scoprire le ragioni del mutismo di un bambino. Alla morte della madre, infatti, ha smesso di parlare. La casa scricchiola e i muri parlano. Raccontano una storia di amore e perdita che è destino si ripeta. I domestici sono un enigma, il padrone di casa vede nella protagonista una nuova musa, gli abiti da cocktail della pianista defunta le stanno a pennello. Qual è il desiderio del fantasma di Caterina Murino: vendicarsi dell'ospite o cercare qualcuno che riempia il vuoto che ha lasciato? Tratto da un romanzo di Silvio Raffo, Voice from the Stone è una ghost story che ha i suoi pregi – gli unici, a malincuore – nello splendore delle donne e dei suoi scorci naturali. Ibrido svogliato e confusionario tra Jane Eyre e Giro di vite, ha poche ombre e l'aria di una fiction Rai. Un mistero su carta che, passando ai fatti, mistero non è. Il film non decolla: ben confezionato, ma recitato con la noia addosso. Incapace di intrigare, nonostante la presenza di un inquietante Girone, sfocia frettolosamente nel melodramma. Scene di passione percepite nel dormiveglia e il nudo artistico della star di Games of Thrones – bella come una ninfa di Botticelli, ma impacciatissima quando si tratta di darsi a pianti o vaneggiamenti vari – non bastano a trovare un senso a quello che le pietre non dicono. (5)

Louis è un bambino sfortunato. Protagonista di incidenti grandi e piccoli, è sempre stato salvato in corner dal sonno eterno. Fino a quando, festeggiando il suo compleanno su una scogliera, non cade da una rupe: è in coma, ma tutt'intorno a lui – nella sua mente, perfino – il mondo continua. Pare non si sia trattato di un incidente, questa volta, ma di un tentato omicidio. Colpa di quel padre violento, fuggito chissà dove? Tratto da un romanzo finito automaticamente in whishlist, The 9th Life of Louis Drax è un ibrido sui generis, inclassificabile, a metà tra il thriller e la favola. Dirige il discontinuo Alexandre Aja – esordì in Patria, anni fa, con il bellissimo splatter Alta tensione – e, lesinando questa volta sulla violenza, conferisce alla trasposizione un'anima francese. Se da un lato il film ha le canoniche indagini del dottor Jamie Dornan, qui vittima del fascino e della lacrime di Sarah Gadon, dall'altra troviamo gli interventi di un narratore trasognato e un po' crudele, che ha qualcosa dei bambini prodigio di Jeunet e un patrigno sospetto, che somiglia proprio a Aaron Paul. Chi desiderava il silenzio del bambino, e perché? Pieno di volti familiari e stranezze, irrisolto ma molto interessante nel suo essere di tutto un po', The 9th Life of Louis Drax è un Hitchcock ad altezza bambino, che all'inizio confonde e alla fine potrebbe anche deludere. Loquace e nerissimo com'è, però, mi ha stranito: cosa non da poco. E la nona vita del piccolo protagonista – l'ultima, forse – ha in serbo qualche altra sorpresa. (6,5)