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giovedì 17 settembre 2020

Recensione: Gli affamati, di Mattia Insolia

| Gli affamati, di Mattia Insolia. Ponte alle grazie, € 14, pp. 170 |

Mio fratello è biondo, robusto, fuma. Mio fratello non mi somiglia. Sembra il maggiore, ma in realtà è di due anni più piccolo di me. Da quando vive lontano, mi manca. Sotto l’ombrellone, in un giorno di mare rubato al mese di settembre, ho trovato un posacenere bianco con i suoi strascichi. Due mozziconi di sigarette, fotografati poi accanto al romanzo che mi è sembrato parlasse un po’ di noi. Di quand’eravamo una coppia di animaletti selvatici, umorali e amorali, ai bordi di una casa dove gli adulti litigavano come bambini. Di quando lui, frustrato e addolorato alla fine del liceo, sognava di ricominciare altrove: alla fine, a differenza mia, ci è riuscito. La nostra era una vita di provincia – la mia lo è tutt’ora –, in una casa zeppa di strepiti e non detti. Per fortuna, però, fuori dalla nostra finestra non vedevamo una realtà simile a quella della fittizia Camporotondo: un buco di culo di diecimila anime, dove i cortili sono usati a mo’ di gabinetti e il desiderio d’altrove si sviluppa fortissimo, selvaggio.

«Però le cose belle le abbiamo trovate lo stesso. Insomma… alla fine, se ci pensi, siamo riusciti a trovarle e a vederle pure se tutto fa schifo, no?». «Sì, siamo riusciti a trovarle. Ma forse non le abbiamo mai capite davvero».
Assoluti padroni di casa, i personaggi di Paolo e Antonio gozzovigliano in mutande davanti alla tivù tra canne, alcol e pizze surgelate. All’apparenza brutti, sporchi e cattivi, covano entrambi segreti e sensi di colpa. Si somigliano perfino nei peccati. Quel loro dolore cencioso li rende protagonisti di un’illusoria affinità elettiva e, mossi dalla pretesa di vivere più intensamente dei compaesani, sfidano ogni giorno il mondo in una gara di velocità. Mentre Paolo è una bomba a orologeria che prova eccitazione fisica nel far danno, Antonio – più sensibile – si lascia comandare a bacchetta e salva una copia di Stoner dalla discarica pur di leggerla di nascosto. E poi c’è una mamma che torna all’ovile, intenzionata a sottrarre i figli dalle macerie; c’è un migliore amico, Italo, che propone lavori dignitosi e nuove sistemazioni; c’è un altro emarginato, l’omosessuale Oscar, di ritorno da Milano per fare chiarezza. Immersi fino al pomo d’Adamo nelle sabbie mobili del Mezzogiorno, come reagiranno Paolo e Antonio quando cambiamenti inevitabili minacceranno di stravolgere i loro equilibri malsicuri?

Dal dolore non ci si può mai liberare del tutto. Ogni sofferenza è un parassita che lascia delle tracce, e quelle tracce, scorie velenose, si ammonticchiano sempre di più e sempre di più fino a ostruire tutto, i capillari e le vene e le arterie. Saturano tutto. Non lasciano spazio a nient’altro.
A farci l’abitudine, c’è serenità nel caos. C’è bellezza nello squallore. Lo racconta egregiamente Mattia Insolia, classe 1995, in un esordio che ricorda le dinamiche del miglior Ammaniti e la fotografia giallastra del cinema dei D’Innocenzo. L’autore siciliano si muove in un panorama poco raccomandabile, ma meno spaventoso che in passato. La provincia, infatti, è stata ampiamente sdoganata dalla narrativa italiana. E bonificata? Dopo ciceroni d’eccezione, Mattia – il più giovane degli autori del filone; il più scapestrato – segue le orme dei predecessori con devozione, rispetta le leggi della giungla e quelle della natura, ma qui e lì tenta sorpassi, svincoli, sentieri sconosciuti. La provincia, e la narrativa che la descrive, è forse un territorio troppo circoscritto?

Eravamo malati di desiderio. Scintille nel buio, abbiamo illuminato la notte e siamo bruciati di incanti e meraviglie.
Nonostante il dubbio tutt’altro che illecito, il tentativo di Mattia emoziona e, a sorpresa, infonde una certa speranza. La sua scrittura è pungente senza essere urticante. Sboccatissima, fa scendere a fantasia lacrime e Madonne. Soprattutto nell’epilogo, eppure cronaca di una tragedia annunciata, sa glissare con coraggio sui dettagli più pietosi e cogliere in contropiede grazie alla commozione di una lettera di sette anni successiva agli eventi raccontati.
Paolo e Antonio, memorabili, sono due stracci intrisi di benzina: il mondo, fuori, è una polveriera pericolosissima; la carcassa di un gatto prima sbranato da un cane cresciuto nella bambagia e infine, per beffa, travolto dalle macchine in transito sulla statale. Ho guardato a loro con la tenerezza di chi vorrebbe ripulirli, addomesticarli. Di chi, in fondo, guardando nell’abisso di sé stesso, nella loro rabbia si è riconosciuto come in uno specchio deformante del luna park. Con Mattia Insolia, con me e mio fratello, condividono il metabolismo veloce e l’inquietudine esistenziale. Perché quando il mondo ti intossica, non può che restarti in ricordo questa fame chimica.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Anastasio – Rosso di rabbia

martedì 8 settembre 2020

Recensione: Ragazzo divora universo, di Trent Dalton

| Ragazzo divora universo, di Trent Dalton. € 19, Harper Collins, pp. 548 |

Per via delle oltre cinquecento pagine, ho terminato di leggerlo soltanto nella prima settimana di settembre. A dispetto delle tempistiche sbagliate, però, l’esordio di Trent Dalton resterà la lettura con cui mi piacerà ripensare a quest’estate. Un romanzo variopinto, cangiante e rocambolesco – sulla crescita e altre avventure –, con una galleria di personaggi talmente assurdi da essere veri. Ispirato in parte al vissuto dell’autore, Ragazzo divora universo è una lunga storia di formazione ambientata tra gli anni Ottanta e i Novanta, tra i dodici e i diciannove anni del protagonista: Eli.

Fai fuori il tempo, prima che lui faccia fuori te.

All’inizio poco più che un bambino, vanta un mamma fresca di disintossicazione, un patrigno spacciatore, un papà dalle tendenze suicide pregresse, un fratello – il geniale Gus – che parla per enigmi tracciando lettere nell’aria. Il suo babysitter, per di più, non somiglia certamente a Mary Poppins: si tratta di Slim Halliday, il cosiddetto «Houdini di Boggo Road», più volte entrato e uscito di prigione con trovate a dir poco brillanti. Tra ergastolani per amici di penna, sit-com dopo cena, citazioni di Star Wars e Steinbeck, Eli cresce con consapevolezze granitiche. C’è qualcosa di speciale nella sua famiglia, e c’è qualcosa di marcio nello stato del Queensland. Siamo nel peggiore sobborgo australiano. Le persone tendono a sparire nel nulla, in strada si scontrano baby gag armate di machete, le minoranze etniche campano di espedienti: la polizia si volta dall’altra parte.

Slim dice che questo libro l’ha aiutato a sopravvivere alla prigione. Parla degli alti e bassi della vita. La parte negativa è che la vita è breve e finisce. La parte positiva è che comprende il pane, il vino e i libri.
Attratto dalla cronaca nera e ossessionato dalla bontà, Eli sogna il mestiere di cronista per denunciare il malcostume e per potersi trasferire lontano dalla provincia. Ma fantastica, divaga, ama i dettagli e le coloriture liriche: insomma, gli dicono, a mancargli è l’asciuttezza che si confà allo stile giornalistico. Come frenare però la sua voce, per di più se ci regala pagine tanto preziose? Perché stare a sindacare sul suo abuso di figure retoriche, se ha per le mani un grande scoop? Lo squillo di un misterioso telefono rosso e la scoperta di un traffico di droga lo portano a incrociare spesso Tytus Bonz e il suo spietato sicario, Iwan. Non sarebbe meglio cambiare strada, soprattutto se quel vecchio di bianco vestito – un luminare nell’ambito delle protesi meccaniche – è un pilastro della comunità?

Lo scopo della vita è fare ciò che è giusto, non ciò che è facile.

Sempre di corsa, sempre in fuga, il protagonista anela fino all’ultimo alla pace e si specializza nell’arte di tagliare la corda. Il bello è che pur suscitano le preoccupazioni dei prof e degli assistenti sociali, pur rendendoci partecipi di una sordida storia di criminalità e squallore, ci appare una gran brava persona. Un ragazzo normale. E la sua famiglia strampalata, nel bene e nel male, finisce per somigliare proprio alle nostre. Con una struttura ciclica in cui tutto torna per magia, l’autore incanta con un apprendistato che fa tornare in mente le infanzie miserabili di Dickens e Twain, e nelle sue sfumature più inquietanti – tunnel degli orrori, cadaveri mutilati, presunte resurrezioni – il primo King. Certo, come capita con le narrazioni fluviali, i difetti e le lungaggini non mancano: la vicenda appare forse troppo dilatata nel tempo e ha una natura ondivaga, episodica, che ben si adatta alla serie TV di prossima uscita. Ma tutti noi abbiamo superato l’infanzia con una specie di disturbo post-traumatico da stress. Si diventa grandi, infatti, non vivendo: bensì sopravvivendo. Trent Dalton ce l’ha fatta. Da ragazzino, per sfuggire a pericolosi intrighi alla Breaking Bad, ha cercato eroi e vie di fuga. Questa sua testimonianza, tenera e leggendaria, ci racconta il lato ordinario del crimine e quello, assolutamente straordinario, della maturazione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Woodkid- Run Boy Run

venerdì 5 luglio 2019

Mr. Ciak: Il traditore, Capri-Revolution, La paranza dei bambini e gli altri film del Flaiano Film Festival

Se anche non conoscessi la storia, basterebbe la levatura di un personaggio shakespeariano a rendere Il traditore comunque un'opera riuscitissima. Ma sono nato a Palermo, da un padre carabiniere, e allora qualche ricordo riaffiora. Per tutti gli altri, chi fu Tommaso Buscetta? Aveva la licenza elementare e, con il narcotraffico, aveva fatto fortuna a sufficienza per condurre un'esistenza da pascià a Rio. Conquistò l'amore di tre mogli e la simpatia di Falcone, che in tribunale gli offriva le sigarette e lo illuminava sulla fine di un'era intitolata a Cosa nostra. Suscitò le antipatie di Riina, suo rivale per eccellenza, ed ebbe l'ardore di citare in giudizio Andreotti. Fu il primo dei pentiti. Padre di otto figli, due dei quali massacrati, ci mise la faccia; tanta furbizia, dal momento che non confessò mai alcun misfatto; un po' di cuore. Bellocchio, ottantenne in forma smagliante, lo racconta uomo, marito, padre. Lo mostra nell'arco di trent'anni, lasciandolo alticcio e malinconico a un karaoke. Lo indaga nelle contraddizioni e nell'orgoglio, nel bene e nel male, indugiando con un montaggio sorrentiniano sulle pressioni psicologiche e il senso di spaesamento. Alla maestosa prima segue un processo farsesco e urlatissimo, con personaggi teatrali che cozzano con lo spessore drammaturgico del resto. Ma quella, eppure, è la giustizia italiana: lo si realizza con paura, davanti a un'umanità grottesca che schiamazza in TV e gioisce per l'omicidio di un magistrato. Importante non solo come documento storico, Il traditore vanta un Favino da palmarès: recita in tre lingue, prende peso, e sfoggia un misto di dolore e sfrontatezza che straziano. Davanti alla poetica anacronistica di un gangster decaduto, tuttavia, è giusto entrare in empatia con l'uomo sradicato ma guai a risultare troppo indulgenti. Lo ricorda una chiusa che riporta tutto nella giusta prospettiva: la mafia esiste, ed è una storia bruttissima. Anche quando a raccontarcela è la bellezza del cinema di cui andare fieri a Cannes. (8)

Dopo Il giovane Favoloso, Martone torna al cinema. E in cattedra. Un altro lungo dramma in costume, un'altra ricostruzione per spiegare agli spettatori gli uomini e la Storia. Siamo a Capri, all'alba del conflitto mondiale. È subito scontro fra tre logiche inconciliabili, incarnate da personaggi in disaccordo fino alla fine. Da un lato abbiamo gli isolani, religiosi e maneschi, che confidano nella sicurezza di accasare le figlie femmine con il miglior partito; dall'altro il medico del villaggio, uomo di scienza con simpatie comuniste; infine un gruppo di asceti sfaccendati, che praticano il nudismo e il sesso libero e fanno scalpore per lo scarso contributo che apportano alla comunità. Alla protagonista tocca intraprendere uno di questi cammini già tracciati o, coraggiosamente, percorrerne uno ignoto? Ingiustificatamente pesante, indeciso fra l'intendo pedagogico e quello teoretico, Capri-Revolution indugia in scarpinate mozzafiato e in coreografie alla Matisse. Il tentativo, vincente nel film passato, si ritorce contro il suo stesso autore. La sua ultima fatica è tanto degna di meraviglia per il comparto tecnico quanto pedante nell'andatura. Marianna Fontana, acerba ma sempre intensa, a tratti si lascia intimidire dai concetti astrusi del suo regista e dalle incongruenze del suo personaggio. La scagiona un elogio alla libertà che prende infine il largo da Capri, da Martone, e punta al futuro. Quello minacciato dalla guerra, che inizia a far tremare gli isolani. Quello in cui tutto è possibile, in pratica e in teoria. (5,5)

Un ragazzino sogna la bella vita. Non sembra esserci altra via, a parte darsi alla criminalità, per ottenerla in fretta. L'euforia della guerra coinvolge anche i suoi coetanei. I protagonisti hanno insospettabili facce d'angelo; il sangue è mostrato a malapena. L'avventatezza e la bellezza della gioventù esplodono ora in parate di palloncini rossi, ora in colpi di mitra, mentre ci si appassiona più del previsto a questo racconto di bambini che desideravano mangiare al tavolo dei grandi. Mettici una bella ragazza che vuole andare a ballare a Gallipoli; mamme e i fratelli minori che non sanno bene se essere fieri o spaventati per il successo del primogenito. Aggiungi poi una fotografia scarna, che fotografi con toni neorealisti una povertà che ama vestirsi di kitsch. Ispirato al romanzo di Saviano, l'ultimo Giovannesi sembra una copia sbiadita della Terra dell'abbastanza. La paranza dei bambini racconta con coinvolgimento la medesima storia allo sbando; ma cambia dialetto e scenario, abbassando un po' l'età dei protagonisti. Meno raffinato, ha un'identica morale di fondo ma la lezione poteva essere più esemplare. Colpa o merito di una delicatezza che, nella chiusa, si scambia per mancanza di fermezza. (6,5)

Una coppia di amici si riunisce per la malattia terminale di uno dei due. Si incontrano all'ombra del Colosseo, con un cagnone al guinzaglio, dandosi a un giro di ultime volte fra l'Italia e Barcellona. Domani è un altro giorno, sin dalla trama risaputa, è un film che non osa. Collage agrodolce di dialoghi, incontri e addii, ha lo stampo televisivo e pregi che devono derivare dal film che lo ha ispirato, Truman. Il solito Mastandrea, non nuovo alle riflessioni sulla morte, si muove in silenzio alle spalle del compagno di scena con un'aria malinconica che in questi casi calza a pennello. Giallini, con un istrionismo alla Proietti, non si scrolla invece di dosso il solito ruolo del burino dongiovanni ma dal cuore generoso; il ruolo poteva mostrarne altre sfaccettature, le lacrime e le fragilità, ma la sceneggiatura non lo aiuta. Simone Spada sceglie di mostrare i gesti d'affetto, mai la malattia. Non fa mai il salto sperato al dramma. La sua rilettura di un successo estero, così, resta un buddy movie solido ma senza guizzi. Davvero serviva puntare sempre sugli stessi attori, già insieme sul set in Perfetti sconosciuti? Davvero serviva ispirarsi agli stranieri, se la commedia all'italiana ha un nobile e lunghissima tradizione di tragicomiche su ruote? (6)

Non ho visto niente o quasi di Moretti. Non sapevo niente o quasi del golpe cileno. Quante probabilità c'erano di trovare commovente un documentario del regista su un tema tanto ostico? Negli anni Settanta, il socialista Allende fu assassinato per scongiurare la guerra civile. Le consuete immagini di repertorio e le parole degli inviati descrivono le agghiaccianti torture verso i ribelli – scariche di elettricità negli organi genitali – e la mancanza di pentimento dei militari finiti sotto processo. Restano l'omertà diffusa, le cicatrici per gli oltre tremila morti ammazzati, ma per fortuna questa è una storia a lieto fine. Santiago, Italia sta infatti dalla parte di chi ha avuto diritto a un'altra patria. Per ricordare una pagina di storia recente tristemente sconosciuta. Per ricordarci, fra orgoglio e amarezza, la magnanimità di cui un tempo siamo stati capaci. I cileni che riuscirono a scavalcare il muro dell'ambasciata italiana furono accolti a Roma. Parte di un popolo autoironico e poco rancoroso, i rifugiati raccontano aneddoti a volte buffi, altre struggenti. Il documentario serviva non tanto al Cile quanto a noi. Ce n'era bisogno sì, in un'epoca in cui l'intolleranza è di casa, al punto che si fa fatica a riconoscere la fotografia di un Paese che accoglieva a braccia aperte e si angosciava per le tragedie altrui. Cinematograficamente di scarso valore, l'ultima fatica di Moretti è un documento umano e mai politico, che non fustiga né Pinochet né Salvini. Ma evidenzia come eravamo, e le differenze con l'oggi addolorano. Adesso che, come afferma uno degli intervistati, il Cile sembriamo noi. (7,5)

Avere ventisette anni e nutrire un nichilismo fuori moda. Avere ventisette anni e voler sfondare come fumettista. Qualcuno, Zerocalcare, ci è riuscito senza montarsi la testa. Non ha dimenticato, perciò, la sua Roma di borgata né i passi dolorosi degli esordi. Zero, suo alter-ego nel primo film ispirato alle sue tavole, è un giovane di periferia che sbarca il lunario fra ripetizioni private e un lavoro in aeroporto. Legato suo malgrado alle telefonate di mamma Morante, ammazza il tempo in compagnia dell'esilarante Castellitto e consiglia a ogni piè sospinto la visione dell'Odio. Vorrebbe proprio vivere in un film post-adolescenziale girato in Francia, ma si accontenta di Rebibbia e dei consigli di un armadillo per amico immaginario. La svolta arriva attraverso una telefonata: Camille, amica d'infanzia, è morta. Cosa le è successo? E cos'è successo al gruppo affiatatissimo che formavano da bambini? Accolto tiepidamente, La profezia dell'armadillo mi ha divertito ed emozionato da morire. Tenero e rabbioso, fa sfoggio di vestiti neri e di un cuore puro. Come il suo protagonista, un bravissimo Simone Liberati, non crede nei compromessi o nel cambiamento. Condannato a un eterno presente, nella rievocazione di un'infanzia immaginata a torto senza fine, deve imparare a rinunciare alla nostalgia per voltare pagine. E colorare, così, nuove storie. (7)

Gli americani sono sul piede di guerra. Qualcuno, in Sardegna, ha reclamato il possesso della luna. Preservare gli equilibri internazionali mandando sul campo una spia: Jacopo Cullin, di genitori isolani ma nato e cresciuto a Milano, deve sopravvivere all'addestramento per mimetizzarsi in una terra chiusa allo straniero. Capire come muoversi, imparare a parlare, significa però abbracciare anche le proprie origini rinnegate. Completamente inatteso, sorretto da un umorismo nerissimo e da un cast di grandi caratteristi, l'opera seconda di Paolo Zucca è un gioiello indipendente che non avrei mai visto altrimenti. Questo entroterra inesplorato, da vecchio West, vive parimenti di violenza e splendore. Deserto incontaminato, aperto a cuor leggero a derive fiabesche, ha una corsia preferenziale verso il cielo grazie a poeti romantici che si danno a promesse impossibili. Inseguito da una banda di contadini armati di lupara, il protagonista si imbatterà in un rifugio paradisiaco; a un certo punto, senza dire troppo, salteranno fuori perfino sottomarini statunitensi e militari armati fino ai denti. Commedia strampalata dalla regia degna di attenzione, L'uomo che comprò la luna ci conduce nei paesaggi di Figlia mia e nei toni utopici di Tito e gli alieni, galeotto un satellite solcato di recente anche dall'astronauta Ryan Gosling. Sembrerebbe un pasticcio, ma invece è capace di portarti lontano senza passare dal via. Lassù, dove riposano il nonno di Jacopo, Antonio Gramsci e Grazia Deledda. Dove, fiera, sventola la bandiera sarda. (7+)

Ancora la provincia, ancora il dialetto. Questa volta, però, siamo in una Campania insolita: in una periferia affatto degradante, dove ci si nobilita con il sogno del pallone. In un primo momento, Un giorno all'improvviso sembrerebbe raccontare un rapporto di amore-odio alla Dolan: e lì interessa, con le sue atmosfere in stile Dardenne; e lì emoziona, grazie alla tenerezza impareggiabile verso il giovane protagonista. Peccato che il dramma d'esordio di D'Emilio si perda nella cronaca di allenamenti di scarso interesse; in amicizie e dissapori presto abbandonati, lasciando ai margini gli strepiti di una Foglietta ottima ma poco presente in scena e gli sguardi persi di un adolescente combattuto. A una narrazione fino ad allora verisimile e pacata, senza furberie, non ho perdonato la cupezza gratuita di un epilogo tutt'altro che ineluttabile. La storia interpretata da un dolcissimo Giampiero De Concili non sapeva bene cosa raccontare. I pregi e i difetti di una convivenza instabile? I personaggi di mamma e figlio dividono la scena meno del previsto. L'impossibilità di un cambiamento nel bel mezzo della provincia stagnante? La convocazione del protagonista dimostrerebbe il contrario. Le conseguenze di quelle che accade, un giorno all'improvviso? Di improvvisi, a malincuore, si ricorderanno soprattutto i passaggi della sceneggiatura. (6)

È il film che non ti aspetteresti da uno come Veltroni. Politico e saggista, cosa ha a che spartire con una storia sulla scia di About a Boy? Era lecito aspettarsi un maggiore impegno; era giusto confidare in qualcosa di meglio. Ma la sua leggerezza, in poltrona, spiazza e incuriosisce. In verità presto abbandonato per scandire le tappe di un ennesimo viaggio on the road, lo spunto iniziale racconterebbe l'incontro fra due fratelli lontani per età e stili di vita. Da Roma la strada si allunga fino a Parigi, però, in un tour tanto dispersivo quanto istintivo scandito dalle visite a un'ex fidanzata omosessuale e a una mamma malata di Alzheimer; cene e concerti in compagnia della cantante Simona Molinari, qui interprete bella e convincente. Fresi insegue arcobaleni per professione, e per sport rifugge le responsabilità. Ma quel fratellino ingessato, che a lungo gli dà del lei, ha ovviamente qualcosa da insegnargli. Ingenuo all'inverosimile, C'è tempo glissa sui dispiaceri e non va a fondo, mantenendosi al sicuro in superficie grazie alla piacevolezza del cast e alle citazioni a Truffaut. Godibilissimo, somiglia a un arcobaleno duraturo, sbucato all'orizzonte senza acquazzoni in anticipo. Omaggia I quattrocento colpi, ma farà colpo più su un pubblico da Giffoni. (5,5)

lunedì 8 aprile 2019

I ♥ Telefilm: The OA S02 | True Detective S03

Ambiziosa, autoriale e impenetrabile, nell'anno dei fasti di Stranger Things si era imposta a sorpresa come mia serie del cuore. Non l'avevo compresa fino in fondo, eppure mi aveva commosso. Con le sue coreografie ipnotiche e metaforiche. Con i suoi protagonisti indecisi fra l'additare la malattia mentale della loro guida spirituale oppure abbandonarsi al miracolo. Il finale, per me perfetto così, ci doveva qualche spiegazione. The OA, attesa al varco non senza timore, è tornata ad aprirci occhi e mente, a prenderci in giro, con un nuovo arco di episodi. Se l'attesa è stata ripagata, le si perdona anche il ritardo: assolutamente necessario per riprendere le fila, stupirci e, a tratti, superarsi. Prairie, la sempre incantevole Brit Marling, è andata incontro a morte certa ma infine ci è riuscita: ha fatto il salto in un'altra dimensione. L'atterraggio ha avuto effetti collaterali: da un lato, infatti, deve imparare a muoversi nell'esistenza dell'alter-ego Nina, imprevedibile e viziosa; dall'altro, invece, fare i conti con il fatto che Homer non sappia chi lei sia e con il pensiero che Jason Isaacs, il folle che l'ha tenuta per sette anni rinchiusa, ricopra anche lì un ruolo di potere. Prairie, ricoverata in un ospedale psichiatrico, è prigioniera insieme alle altre cavie di Hap. Alle ambientazioni di Maniac e Homecoming si sovrappongono le vicende di un nuovo personaggio, un detective in cerca di un'adolescente scomparsa, e quelle dei compagni di Prairie, commoventi liceali on the road reduci da un'amicizia impossibile da dimenticare. Due dimensioni distinte, tre diversi piani narrativi: cosa succederà quando si sfioreranno? The OA promette faville e frustrazione. Di ripetersi. La seconda stagione rischia di dire troppo, vero, e troppo presto. Fa sentire qui e lì la mancanza dei suoi adolescenti: nonostante il surclassamento a personaggi secondari, comunque, ci regalano gli attimi più struggenti – saranno quelle danze affascinantissime, o forse il candore di chi si fida ciecamente. Consapevoli dello strano patto narrativo, quest'anno si lascia seguire con minori difficoltà. Guadagna ritmo, comprimari, quesiti. Osa, contaminandosi con l'horror alla Lynch e il leggero trash di fughe e feste mascherate. Il salto si fa maggiore, somiglia a un volo impossibile su San Francisco. La totale comprensione della visione è questione di fede. Siamo punto e a capo, con lo stesso pugno di mosche e un'immutata suggestione. L'epilogo non è che lo specchio riflesso del precedente. L'interpretazione, al centro di dubbi prima fugati e poi rinnovati, non è univoca. La serie, infatti, ha i passaggi segreti e le zone cieche della casa degna di Hill House, costruita da un ingegnere e da una medium, nella quale si imbattono i nostri protagonisti: giovani sognatori vi hanno smarrito al suo interno il lume della ragione e le pareti, sottilissime, promettono di collegarci a realtà alternative. Come sarà il mondo dall'alto, visto dal rosone istoriato della facciata? Prairie promette ai naviganti una visione d'insieme splendida e destabilizzante, simile a quella di Neil Armstrong quando si voltò in assenza di gravità e vide la terra. E The OA è proprio una creatura aliena. Una serie lunare dove tutto è possibile, ogni domanda è lecita, ma le risposte potrebbero negarcisi. Questo la rende amata da qualcuno, odiata da altri. Ma una provocazione intellettuale senza precedenti. (8)

Una piccola comunità, due bambini scomparsi nel bosco, una famiglia che si sgretola sotto il peso della tragedia. Un corpo viene ritrovato presto, infatti; l'altro no. Il mistero dura venticinque anni. Non ci saranno superstiti in casa Purcell, ma due segugi, per fortuna, non smetteranno mai di chiedere, scavare, provocare. Messa così, fatta eccezione per la suddivisione in tre piani temporali, la trama è la stessa di un giallo come tanti: una ricerca tanto delicata quanto preoccupante, di quelle che anche sul piccolo schermo abbiamo visto e rivisto spesso. A onor del vero, tutto è come appare. Ben poche variazioni sul tema, a parte l'insolita parentesi dolce-amara con i protagonisti invecchiati, e nessun guizzo fino all'ottava puntata. Non si può parlare di delusione, eppure era lecito aspettarsi maggiore complessità da un ritorno tanto inaspettato. Erano gli intrighi difficoltosi, i personaggi criptici e gli spunti di attualità la cifra stilistica di True Detective? Dal momento che i pregi della prima stagione si erano rivelati anche i difetti della seconda, la HBO ha ripiegato su una semplicità che premia. Lineare non tanto nella struttura quanto nella pianificazione, il mistero che sono chiamati a sbrogliare gli ottimi Mahershala Ali e Stephen Dorff si protrae nel tempo – tanti buchi nell'acqua, tante false risoluzioni e altrettante ripartenze – anche se, come ci conferma l'epilogo, certe storie vanno avanti da sé. Reduce del Vietnam e guardato con sospetto dal razzismo, Ali – straordinario, al punto che verrebbe voglia di scommettere già su di lui nella prossima stagione dei premi – fa prima i conti con i conflitti d'interesse per la moglie romanziera, poi con l'oblio della demenza. Il ritrovato Dorff, tutto d'un pezzo anche sotto il trucco che lo appesantisce, è il classico sbirro dai metodi poco ortodossi e la vita sentimentale sregolata, nonostante spesso e volentieri i ruoli di potere si invertano: chi è allora il poliziotto buono, chi quello cattivo? I ritmi sono quelli lenti a cui ci siamo affezionati, i dialoghi ben scritti abbondano – a sorpresa, questa volta affiora un'emozionalità sconosciuta – e lo scioglimento, immancabilmente, arriva. In un cameo fotografico fanno capolino perfino McConaughey e Harrelson, insieme all'ipotesi di traffici umani, ma siamo fuori pista. Come si diceva, la serie si mantiene su stilemi classici. Un colpo di cuore, allora, giunge davanti a quel finale che in rete divide. Non mi spiego, sinceramente, il perché delle libere interpretazioni fioccate qui e lì; le critiche di chi dice di aver visto Pizzolato lavarsene le mani. Ci sono brividi, epifanie, immagini, che percepiti attraverso la demenza del personaggio principale sanno invece dare speranza e armi pacifiche a chi crede nell'immaginazione; nelle seconde opportunità. C'è una confusione di quelle buone a indicarti piazzole d'emergenza in questo viaggio, rigorosissimo ma un po' anonimo, al termine della notte. (7)

venerdì 7 dicembre 2018

I ♥ Telefilm: Le terrificanti avventure di Sabrina | American Vandal

Da bambino mi teneva compagnia due volte al giorno. La mattina a cartoni, il pomeriggio con le risate registrate delle sitcom. Me la ricordavo diversa: frizzante e pasticciona, con l'aiuto del petulante gatto nero di cui cantava la sigla e una casa coloratatissima da spartire con le zie. Sabrina Spellman è tornata a Greendale. Se anagraficamente non sembra essere cresciuta – sta per compiere sedici anni, l'età in cui scegliere da che parte schierarsi –, hanno subito una rivoluzione drastica il suo armadio e il senso dell'umorismo. A metà tra l'ingenuo e il seducente, complice il candore di una Kiernan Shipka perfetta per il ruolo, popola una serie Netflix dalle marcate tinte fosche ed esplora in profondità una doppia natura che la espone a scelte fatali. Nata da un mago e da un'umana, vive sempre sotto la stretta sorveglianza delle zie paterne – una delle due, Zelda, è una splendida Miranda Otto –, ha sempre l'ignaro Harvey per eterno fidanzato, ma prima dei pasti eleva una preghiera al Signore Oscuro e per il suo compleanno gli venderà l'anima in una foresta infernale. Qualche nostalgico ha storto il naso davanti alla violenza inaspettata, agli spruzzi di sangue, all'ironia macabra: gli amanti dell'horror lo hanno trovato un po' troppo teen, gli amanti del teen un po' troppo horror. Qualcun altro, invece, ne ha sottolineato le imprecisioni e le incongruenze: ebbene sì, ci sono chiese sataniste di tutto rispetto là fuori, e gli adepti non perdonano le libertà creative del team di Roberto Aguirre-Sacasa. Delle Terrificanti avventure di Sabrina si è parlato e sparlato sotto Halloween: lo speciale natalizio è già alle porte e la seconda stagione, confermata a scatola chiusa, è attesa per il prossimo aprile. In pochi però, nelle chiacchiere generali, mi hanno detto come fosse. Spalmato in un mese di visione, senza la minima esigenza di darmi al binge watching, il ritorno di questa Sabrina non ha creato dipendenza ma mi ha stupito per il coraggio di osare. Nonostante la trama non riservi niente di nuovo – un po' di Streghe, un po' di Buffy, con tanto di accademia magica che ricorda una Hogwarts gotica –, ne ho apprezzato l'ottima fattura rétro, la mancanza di cerimonie nel parlare di sesso e morti violente, piccoli brividi comunque preferibili a quelli dell'ultimo American Horror Story. Sabrina si spoglia, taglia gole, pratica esorcismi, assiste ad orrendi rituali cannibali, sfida la paura del cappio in riti d'iniziazione che vorrebbero farne una martire. Nel quinto episodio, un autentico gioiellino del filone, un demone del sonno alla Freddy Krueger gioca con le fobie e le fragilità dei membri della famiglia. Negli ultimi, invece, gli spettri delle vittime dell'Inquisizione minacciano vendette trasversali e non sono al sicuro neppure i coetanei della protagonista – oltre al fidanzato, hanno ruoli chiave una medium affetta da cecità progressiva e un'aspirante transgender nelle mire dei bulli. A scuola si consigliano vecchi film e romanzi proibiti, si fondano club per sole studentesse dove celebrare il potere della diversità. In poltrona si accolgono volentieri ammiccamenti, omaggi splatter e suggestioni, con il solo appunto verso un Salem in sordina e la mancanta leggerezza. Più spaventosa che magica, la Sabrina per bambini cresciuti non incanta all'istante, ma l'efficacia del suo filtro d'amore – che vuole fidelizzarci, stregarci – potrebbe sortire a breve il suo effetto. (7)

È il giallo meglio costruito in cui vi imbatterete quest'anno. Originale nella struttura, pieno di suspance e depistaggi, imprevedibile fino all'ultimo. Ma una serie come American Vandal – tanto sperimentale da meritarsi purtroppo due stagioni e basta prima della cancellazione ufficiale – lì per lì può non chiamare. È presentata infatti come un falso documentario, ha interpreti sconosciuti che potrebbero lasciare a torto intendere troppa amatorialità, presenta spunti assurdi pronti però a farti ricredere. L'ambiente è quello dei licei americani. L'indagine, che parte dai confini scolastici e strada facendo arriva lontanissimo, è svolta dai membri di un club audiovisivo con una telecamera in spalla e la presunzione di diventare virali durante la ricerca della verità. Ci illuminano le loro ricostruzioni a tavolino, le lavagne riassuntive, le congetture a fantasia di chi guarda tanto cinema d'inchiesta. Ci parlano i testimoni, le vittime e i sospettati in confessioni formato intervista con la profondità degli studi antropologici: al vaglio, così, i vizi e le virtù di un'intera generazione. E l'amara consapevolezza, in una serie che tra le righe si fa anche politica, di come il paese dei sogni abbia bisogno di eroi e capri espiatori – alle stesse conclusioni giungeva anche la caccia alle streghe contro Tonya Harding. Difficile aspettarsi un simile impegno su carta: American Vandal sceglie la burla, il paradosso, un'ingannevole leggerezza. Il primo caso riguarda uno scherzo nel parcheggio degli insegnanti: chi ha deturpato venti automobili con una bomboletta spray? Nel secondo, più in grande e forse per questo meno spontaneo, ci si sposta in un istituto cattolico: i nostri detective per caso sono diventati famosi nel mentre, possono permettersi attrezzature sofisticate e appoggi maggiori, ma in fondo li si preferiva alle prime armi. Il caso tuttavia scotta, e seguirlo al solito a cena non è stata affatto un'idea vincente. Perché qualcuno a mensa ha messo i lassativi nella limonata? Fra falli scarabocchiati sulle fiancate delle macchine e diarrea a spruzzi in quantità, le piste di American Vandal non smettono mai di sorprendere. Cosa mostriamo agli altri e cosa teniamo per noi? Perché spacciarsi per qualcuno di diverso su social che la vita sociale, paradossalmente, l'hanno cancellata a colpi di Mi piace? Quando sposare in pieno il luogo comune, quando rifiutarlo a beneficio dell'onestà? Le risposte in un thriller con le problematiche dei nostri ragazzi e gli incastri studiati di Agatha Christie. Un esperimento sociale che schiera in campo l'intelligenza degli autori, l'originalità dei mezzi, per vandalizzare un genere ormai abusatissimo e dagli scarabocchi osceni, dai purulenti virus intestinali, far nascere i germi di una piccola rivoluzione. (7,5)

lunedì 9 luglio 2018

Mr. Ciak - Flaiano Film Festival: Figlia mia, La terra dell'abbastaza, Sono tornato, Youtopia

Dal 29 giugno al 6 luglio, con una cerimonia finale sullo sfondo di Piazza della Rinascita, si è tenuto a Pescara il quarantacinquesimo Flaiano Film Festival. Il primo per cui ho timbrato il biglietto. Diciotto film divisi in quattro categorie, Riccardo Milani come direttore artistico e un red carpet aperto ad alcuni fra i migliori volti di casa nostra: il tre volte Premio Oscar Vittorio Storaro, Ferzan Ozpetek, Elena Sofia Ricci, Monica Guerritore, Greta Scarano, Filippo Timi, Massimo Popolizio, Francesco Montanari, Ennio Fantastichini, Rolando Rovello, il trio Ward-Conticini-Muniz, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, Alessandro Cattelan.

La Sardegna è quella brulla e ancestrale di Michela Murgia. Lì si raccontano leggende e bugie. Ci si scambia i figli. Si vive di quel che porta a riva la benevolenza del mare. Valeria Golino, con una tinta scura che le fa più bella e i vestiti dei giorni di festa, ha affidato le sue preghiere prima alla Madonna, poi ai lombi della Rohrwacher: tanto bene integrata la prima, quanto sciagurata la seconda, non avrebbero in comune niente, se non un segreto con i capelli rossi; un patto da violare nel momento in cui la derelitta Angelica, tutta abitini inguinali e lingua impastata, non avanza una pretesa prima di lasciare l'isola per sempre. Conoscere un po' per capriccio, un po' per desiderio, la bambina che ha partorito e subito ceduto a una genitrice migliore di lei. La piccola Vittoria non conosce la verità sulla propria nascita, ma è troppo selvatica, troppo curiosa in fatto di baci e imprese impossibili, per appartenere a una famiglia dalle discrete possibilità economiche che le impone gli abiti da signorina, il costume intero in spiaggia, gli orecchini meno appariscenti e animali domestici che non somiglino a scrofe, galline o cavalli. Il sangue chiama. La bussola interiore porta sempre e comunque alla fattoria fuori mano dell'irresponsabile madre biologica; mentre colei che l'ha cresciuta, in paese, si strugge per diritti che non le spettano, la torta di compleanno intonsa, un letto vuoto. Dopo Vergine giurata, Laura Bispuri torna al cinema con un melodramma al femminile con i colori accesi, la telecamera a mano impegnata a seguire le protagoniste in piani sequenza impressionanti, una storia di maternità salveggia. Figlia mia è una carnale romanzo di formazione fra due fuochi, sotto il sole a picco, con affascinanti sprazzi kitsch e interpreti al loro meglio. Disarmante per immediatezza e generosità, è il rito iniziatico di una bambina contesa, voluta allo stesso tempo da tutti e da nessuno. Come succede alle anguille, stando ai racconti dei padri pescatori, viene partorita al largo per poi raggiungere il punto di partenza. Perché le bestie dalla natura acquatica e le figlie della Bispuri, tagliato il cordone, trovano sempre la strada di casa: a guidare le due litiganti, colei che dall'alto del suo sfacciato metro e trenta se ne frega della buona educazione e delle leggi degli uomini. In terre, in film, in cui raddoppiano l'emozione, le mamme, l'amore. (7,5)

Mirko e Manolo frequentano la scuola alberghiera, ma non vogliono essere camerieri. Proprio non se ne parla, di servire. Si desiderano padroni. All'inizio pensavano a un'attività in proprio, ma il destino ha piani alternativi. Hanno avuto la fortuna di investire l'uomo giusto: ricercato da un clan del posto, il latitante è stato freddato per caso da due ventenni su di giri, che fanno di quell'omicidio preterintenzionale una merce di scambio; un modo per svoltare. Il clan vuole sdebitarsi, li vuole a bordo. Perché se uccidere viene loro sorprendentemente facile, il malaffare è la via. Siamo nell'immancabile provincia romana di Garrone, Sollima, Caligari: volgare, stagnante, miserabile. Le femmine sognano i talent show alla TV; i maschi di continuare a giocare alla guerra. Qualche mamma nel frattempo fa i salti mortali per sbarcare il lunario e qualche padre – un inedito Tortora – liquida la morte come fosse un hobby. Applaudito all'unanimità al Festival di Berlino e vincitore della Migliore opera prima ai Nastri d'argento, l'esordio dei fratelli D'Innocenzo è una tragedia urbana pesantissima e potente. A sangue freddo. Non lascia scampo con i suoi schiaccianti primi piani e una scrittura in caduta libera, che da candida si fa efferata. Nuovo capitolo da inserire con successo nel filone dei drammi criminali, quelli che più ci riescono ma che più annoiano, La terra dell'abbastanza racconta sempre la stessa storia, sì; mostra sempre il solito sesso squallido e i soldi sporchi; tutto già detto, tutto già visto. Eppure, guardandolo, ho avuto la sensazione di assistere alla nascita di qualcosa di significativo: sentiremo parlare presto dei D'Innocenzo, che hanno un taglio indie come marcia in più, e degli scapestrati Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, che ricordano Marinelli e Borghi (amici-nemici al limite nello speculare Non essere cattivo) non solo per la fisicità o gli accenti. Anche se tra te e te credevi in fondo di averne avuto abbastanza, di spari a tradimento e ragazzi interrotti. (7)

Dici Miniero, e pensi subito ai remake su misura d'italiano. Dici Sono tornato, e ti vengono in mente il best-seller tedesco che non sei riuscito ad avere o la trasposizione che non ti ha mai interessato troppo. Vedi Popolizio, con una voce e una presenza sceniche straordinarie, e pensi che sia perfetto per il ruolo di colui che ingannava e incantava il gregge. Vedi Matano, ancora, e ti domandi cosa ci faccia in un film semiserio, e pensi che peccato: ti è sempre stato simpatico, sì, ma non che come attore convinca granché. Comunque poco male. Perché combattuto tra pro e contro, tra il desiderio di recuperare l'originale e la consapevolezza che questo aggiornamento potesse cogliere più nel (nostro) segno, sono andato a vedere la commedia satirica in cui a tornare non è il famigerato baffone, bensì il socio. Letteralmente piovuto dal cielo, si fa seguire da un aspirante documentarista – e a Matano, con il ruolo giusto, male non si può volere – in giro per uno Stivale da riconquistare. Gli extracomunitari, le unioni civili, la destra e la sinistra che non esistono più: a detta sua, il nostro disonore. Gli italiani lo trovano spassoso e affascinante, lo scambiano per un comico: gli danno un programma che fa ascolti, e tutte le ragioni. Miniero prende senz'altro il meglio dal film originale, sferza e smuove, ma il politicamente corretto resta – a sorpresa, direi, se parte di un Paese di spettatori permalosi, di gente più colpita dall'uccisione di un cagnolino in CGI che dalle persecuzioni razziali. Si ride dunque moltissimo, ma a denti serrati. Si ha paura, sotto sotto. Lo share, la popolarità, dicono come i più trovino il Duce non soltanto simpatico, ma una soluzione necessaria. Voce della ragione, una nonna smemorata che mette la pelle d'oca con i suoi ricordi shock. Al suo arrivo in sala, eppure, Sono tornato non ha fatto gran rumore. Troppo intelligenti gli italiani, o troppo punti sul vivo per proferire verbo?  Si ride nerissimo, ci si guarda indietro e avanti. Dove eravamo. Dove andremo. In una Italia su ruote, sui canali della TV trash, che spererebbe di riprendere tutto ciò che è suo. Un nulla di fatto, sublimato dalla peggiore forma di nostalgia. (6,5)

Si è riso più che con Favola. Si è storto il naso più che per la mancanza di carattere di Dopo la guerra. La soglia della credibilità, abbassata più che nella fiaba Tito e gli alieni. Ma non parliamo di una commedia grottesca, di un dramma politico che non sa bene che pesci prendere, di fantascienza per bambini; piuttosto della disperazione per la crisi economica, di sesso e potere, del lato sporco di internet. Di una ragazza che a diciott'anni mette all'asta la propria verginità per salvare la casa dal pignoramento. Lei è una De Angelis tutta tette a vista e bronci, che nella sua cameretta chatta con il romantico avatar doppiato dall'attore di Mommy e si concede un paio di topless davanti alla webcam. Donatella Finocchiaro, qui mesta e avvinazzata, è sua madre: ci prova anche lei a spogliarsi, a un certo punto, ma alla fine cuce alla figlia un vestito da Cenerentola per la temutissima notte con Haber: farmacista pescarese vizioso e repellente, con un improbabile sottoposto che conosce il Deep Web e una schiera di prostitute a cui proporre i peggiori giochi di ruolo. Vuole la carne fresca, adesso, di un'adolescente che non contempla altra via, che un lavoro non sembra mai cercarlo davvero, che ha fatto del proprio status la versione sozza di Ready Player One. Vorrebbe essere un dramma di denuncia ma ha gli scivoloni delle commedie sexy, questo Youtopia. Indifendibile su ogni fronte, brutto e immorale, ridicolo per sbaglio – vedasi i ben poco ammiccanti pruriti anali di una escort impegnata a flirtare col farmacista sbagliato o un annuncio che, nonostante le lacrime esagerate della Finocchiaro, genera l'ilarità in sala. Di cattivo gusto, senza uno sguardo o un briciolo di sex appeal, Youtopia è risate incerte a scena aperta e una bella De Angelis che, purtroppo, si perde nelle maglie della rete, e della bruttezza. (4)

Ho rivisto: Favola (7,5); Tito e gli alieni (7,5).

sabato 6 maggio 2017

I ♥ Telefilm: Feud | Fargo | Bates Motel V

Murphy non si ferma. Lo sceneggiatore più inarrestabile (e instabile) che c'è torna con l'ennesima serie antologica. Con una seconda stagione già confermata, Feud ha fatto il suo debutto parlando della rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford. Ormai sul viale del tramonto, le due leggende erano tornate a sfidarsi nel cult Che fine ha fatto Baby Jane. Quanto di vero e quanto di simulato c'era in quell'odio che ricordiamo a distanza di mezzo secolo? Feud, tra biopic e rotocalco, mostra le premiazioni, i livori, il girato. Ha una Jessica Lange autoironica e calcolatrice, strepitosa nei panni della Crawford: attrice più bella che capace, si vociferava, incapace di rinunciare al rosa shocking. Antipatica nel suo narcisismo, commuove a sorpresa nel decadimento finale. Con lei una magnetica Sarandon, che della Davis ricalca la voce roca, lo sguardo, la scortesia. La paura, certo, era che il tutto si trasformasse in una mezza soap opera. Murphy, adorante, qui fa rare concessioni al kitsch e nessun errore. Il cast è centratissimo e meno affollato del solito, nonostante comprimari illustri – Tucci, Molina, Judy Davis nel ruolo che in Trumbo fu di Helen Mirren. La piacevolezza della scrittura, poi, accoglie di buon grado i capricci, gli strepiti, gli exploit. Quando le luci si spengono, quando la compezione non ha ragione d'essere, cosa resta? Perché vivere se non per detestarsi? Si accumulano allora le sigarette spente, i tappi di champagne, le rughe. Tagliate fuori, come la Swanson in Viale del tramonto, si sperimenta la compagnia della solitudine. La storia dei dissapori tra Bette e Joan affascina e devasta. Un po' doverosa celebrazione e un po' seduta spiritica mascherata a festa, Feud è una miniserie in cui lo star system celebra e condanna se stesso. Ti svela, così, come negli anni abbia sedotto e abbandonato le proprie amanti; destinato all'aridità i tanti fiori all'occhiello. Il tutto, creando da una semplice intuizione un nuovo tassello del filone del divismo – e Feud non teme paragoni né primi piani. Hollywood, mamma chiocca e matrigna degenere, non è un paese per cuori docili e vecchie signore. (7,5)

In un periodo in cui in sala c'è poco, e di quel poco non viene neanche voglia di parlarne, fare come le stelle di Hollywood. Tradire il cinema con il piccolo schermo. Complice la noia delle feste comandate e l'uscita di una terza stagione, ho recuperato gli inizi dell'acclamato Fargo. L'adattamento televisivo di un cult degli anni Novanta, uno dice, e ti mobiliti solo adesso? Questione di momenti sbagliati, di film visti nella superficialità di uno sbadiglio, ma non sono un estimatore dei Coen. Disinteressato, ne ho letto distrattamente le lodi qui e lì. Assistiamo a fatti realmente accaduti, ci assicura una scritta che compare all'inizio di ogni episodio. L'ennesima burla degli sceneggiatori. Che amano prendersi gioco dello spettatore e irretirlo con massime surreali, coincidenze a cui si presta fede, intrighi troppo impossibili per essere veri. L'umorismo nero e il protagonista, un timido assicuratore vessato dal prossimo, fanno subito pensare a Breaking Bad. Martin Freeman, maltrattato da moglie e concidittadini, incontra nella sala d'aspetto del pronto soccorso un Billy Bob Thornton più iconico che mai: a quel perfetto sconosciuto, a quella canaglia, racconta tutti i suoi guai. Non sa di stare confessando i suoi desideri a un sicario senza scrupoli. Undetto d'un fiato, così, genera una carneficina esagerata: di quelle che fanno socchiudere gli occhi e, se ami il cinismo gratuito, ridere a crepapelle. Alla fine del primo episodio si contano la bellezza di quattro morti ammazzati in una cittadina spazzata dalla neve. Fatta eccezione per un'agente messa in un angolo, la polizia locale non ha né i mezzi né la voglia di mettersi a ficcanasare. Ma quando il sangue scorre non puoi fermarlo. E il delitto perfetto di un tale, come un'emorragia, chiama a sé l'attenzione della malavita e una bizzarra girandola di violenza. In Fargo, meravigliosamente sopra le righe, si chiacchiera a suon di apologhi e si spara a bruciapelo. C'entrano le piaghe d'Egitto – piovono sangue e cavallette sull'imprenditore Oliver Platt -, la fragilità del ghiaccio, l'ira dei miti. Le persone che cambiano dal giorno alla notte, e si trasformano in predatori. La città è disorganizzata: abbastanza da pensare di poterla fare franca. Ma è piccola, un buco di mondo: ci si pesta i piedi, ci si dà sui nervi anche non volendo. La neve custodice le tracce delle loro assurde "rocambolerie", e la memoria non può fare altro che imitarla. (8)

Non pensavo che la chiusura del motel più famoso del piccolo schermo potesse lasciarmi addosso questa tristezza. Bates Motel, riscrittura del capolavoro di Hitchock, era infatti iniziato sotto una cattiva stella. Aveva difetti grandi due stagioni. La pazzia emergeva a partire dalla terza. Quando il liceo finiva, gli ospiti sparivano, il giovane Psycho covava cattivi pensieri. Il resto, a beneficio di chi aveva preferito rimandare l'abbandono, era stato una sorprendente escalation. Parco di splatter e generosissimo dal punto di vista emotivo, Bates Motel aveva avuto forse il suo apice nel decimo episodio della quarta stagione. Succedeva l'irreparabile e un Norman distrutto rimaneva in compagnia di un cadavere trafugato. L'ultima stagione, ambientata qualche anno dopo, si allinea al film originale ma sceglie una conclusione diversa. Marion Crane – Rihanna, impegnata in un discutibile cameo – parcheggia sul vialetto. Si concede la famosa doccia, ma sotto la furia delle coltellate muore qualcun altro. Norman commette errori su errori, va incontro a un epilogo annunciato. Al solito, non si rinuncia a sottotrame più o meno accessorie: la sete di vendetta dello sceriffo galeotto e il riavvicinarsi di Olivia Cooke e Max Thieriot – affiatati genitori di una neonata da tenere all'oscuro - richiamano protagonisti e figuranti dove le tragedie della famiglia hanno avuto inizio. Egregio padrone di case, con la sognante Dream a little dream of me in filodiffusione, un Freddie Highmore psicotico e sottovalutatissimo; lo spettro dell'indispensabile sobillatrice Vera Farmiga, invece, si accontenta di aleggiare tra cucine assolate e scene del crimine. All'inizio lo si mal sopportava. Alla fine, preoccupati per cosa sarà di lui e dei suoi incubi assurdi, si tifa per la redenzione della mela marcia. Perché quello al Bates Motel resta sì un pernottamento modesto, su Tripadvisor e in streaming c'è di meglio, ma mantiene le promesse – che sarà turbolento e senza ritorno, volubile e poco confortevole, degno di tutta la fiducia che gli hai regalato. Dispiace fare il check out. Dispiace congedarsi da Norman, serial killer di cui sentirò la mancanza, e voltargli le spalle. Potrebbe essere l'ultima volta. Potrebbe nascondere un coltello e pugnalarci alla schiena, sognandosi Norma. (7)

sabato 24 dicembre 2016

I ♥ Telefilm: The OA, La mafia uccide solo d'estate, American Crime Story

Prairie torna a casa a sette anni dalla sua scomparsa. Fa incubi premonitori, chiama nel sonno un misterioso ragazzo e, cieca, ha recuperato la vista. Ora ci vede, ora sa. In segreto raduna cinque concittadini in una casa abbandonata – un bullo, una insegnante, un'adolescente in transizione, l'alunno modello e lo sfattone – e, a lume di candela e a porte aperte, racconta una storia che parte in Russia e sembra concludersi nello scantinato dove Prairie e altri come lei, sopravvissuti già una volta alla morte, sono stati sottoposti agli esperimenti di uno scienziato desideroso di carpire i segreti dell'aldilà. Si palesano i primi parallelismi: laggiù, in una specie di serra con telecamere ovunque, la protagonista aveva altri quattro compagni. Di uno, l'amato Homer, chiede spesso. Com'è fuggita via, quando ha recuperato la vista  e cosa spera di ottenere da quegli incontri notturni? Si può scomparire nel nulla, e dal nulla si può riapparire? Forse sì: The OA, inattesa e poco pubblicizzata, è stata infatti rilasciata da Netflix con un gioco di prestigio. Un attimo prima non c'era, quello dopo sì. Brit Marling, musa indie che già camminava all'ombra di una seconda Terra in Another Earth, scrive a quattro mani e recita. Con lei, il regista di The East e un cast di volti nuovi: tralasciando Jason Isaacs, antagonista irreprensibile, spiccano il coraggioso Emory Cohen (romantico italo-americano in Brooklyn) e il manesco Patrick Gibson. La serie parte come un giallo: i misteri, anziché avere fine, iniziano da lì. Si resuscita come in Les Revenants e nel nuovo testamento; accadono le grandi bizzarrie di Stranger Things; agiscono i personaggi eterogenei di Sense8, colti in intense sequenze d'insieme; affiorano i grattacapi dell'isola di Lost, sospesa com'era tra corpo e spirito, realtà ed elaborazione. Esempio di narrazione ad ampio respiro, la serie viaggia fra generi, toni e universi paralleli. Gli autori hanno completa carta bianca: fanno di te e dei loro prigionieri ciò che vogliono. Otto episodi in caduta libera sono questione di fiducia: dove atterrerai? In un epilogo poco chiarificatore, nebuloso come il resto, che sta spazientendo il web. I nessi dell'episodio della discordia non li ho colti lì per lì, ma fatto sta che mi ha commosso: con le sue coreografie di gesti, la cronaca nera che fa capolino a mano armata, le pareti bianchissime del paradiso o degli ospedali. Ci ho ragionato su e poi, quando ho capito che non serviva, ho realizzato di averlo amato. Inutile farsi troppe domande: non avresti risposte soddisfacenti, né la chiave di lettura che ti schiude le porte dei suoi prodigi. In The OA non ci sono scorciatoie. O ci credi, o non ci credi. Ci sono le fiabe nordiche, con stanze trapunte di stelle; spiritualità e intelletto; cattolicesimo e filosofie new age. Azzardati e indefinibili, sperimentali, gli episodi si sono fatti seguire però con più semplicità del previsto: la mollezza negli arti, la sospensione dell'incredulità, una magica sensazione di abbandono. The OA è una visione frustrante e degna di meraviglia. Imperfetta, e perciò rara. Ti prende e ti porta dove e quando vuole lei. A confine. (9)

Salvatore, sensibile e curioso, appunta tutte le domande che ha su un quaderno rosso e, da un appartamento che dà su Palermo, scruta il mondo ad altezza bambino. Si interroga sulle relazioni umane e il futuro. Pensa con un brivido alla parola mafia, ma ha paura a pronunciarla. Gli hanno detto, tanto, che la mafia non esiste. E, seppure esistesse, non si curerebbe certo di loro quattro. Una famiglia qualsiasi che reagisce all'eco della storia e che, suo malgrado, fa i conti con la cronaca. Perché mamma Pia – un'intensa Anna Foglietta – è condannata a un infame precariato: in graduatoria hanno sempre la meglio i falsi invalidi, i raccomandati, e lo sconforto la porta a ricambiare le attenzioni di un galante maestro. Perché a papà Lorenzo – omino onesto impersonato dal bravissimo Claudio Gioè - negano il mutuo se non accetta di far favori a destra e a manca. Perché uno dei primi amori di Angela, diciassettenne che ha condannato il compagno di banco ai dettami della regola dell'amico, finisce in protezione testimoni e lo zio Massimo si rende protagonista di un'inquietante scalata al potere. Perché l'angelo custode del piccolo Salvatore è Boris Giuliano: poliziotto assassinato nella crociata contro Cosa Nostra. Siamo nel 1979. Di mafia si moriva. Trent'anni dopo, nell'esordio di Pif alla regia, se ne poteva invece anche ridere: ispirato e agrodolce, La mafia uccide solo d'estate era una fiaba che puntava alla prima serata. Diliberto fa da voce narrante e affida il timone a un cast in armonia. La fiction, in pillole, riesce a far bene parlando del male. Divertente e struggente, trasognata, mescola verità e finzione: Riina e Provenzano giocano a carte e complottano; Buscetta è ghiotto delle melanzane ripiene di Pia; Giuliano se ne intende di prime cotte e virtù. Dove troveremo gli adorabili Giammaresi, qui immortalati in uno splendido finale sospeso, l'anno prossimo? L'insospettabile Rai fa l'en plein. Se l'insubordinato Rocco Schiavone, infatti, è la novità, La mafia uccide solo d'estate – tra commedia all'italiana e neorealismo - è un pegno al passato. Ricorda le famiglie riunite davanti ai primi televisori a colori. Sa di già visto. Ma lo rivedi, fai chapeau, ti emozioni. (7,5)

In un quartiere sicuro e popoloso, un cane abbaia insistentemente in direzione di un giardino. La polizia scoprirà i cadaveri di una donna e del suo amante: tutti gli indizi conducono alla porta del marito di lei. La risoluzione del caso sembra scontata e intuitiva. Il colpevole dev'essere l'ex, possessivo e manesco. Ma ha la pelle nera, un nome importante, una fama che lo precede. Cos'ha fatto davvero O.J. Simpson, talentuoso giocatore di football e stella di Una pallottola spuntata? Il duplice omicidio, da bello che risolto, si rivela così più spinoso del previsto. Nascevo quell'anno - 1994 - e conoscevo il caso solo per sentito dire. Simpson, per me, era la spalla comica di Leslie Nielsen: non uno sportivo né un criminale. Poco interessato, ho rimandato a lungo la visione della prima stagione di American Crime Story, che in dieci episodi ricostruisce le indagini e l'estenuante processo. L'ho recuperata per dovere di cronaca. Purtroppo, pur trovandola appassionante e ben realizzata, mi ha lasciato poco coinvolto. Ha pregi lampanti, qualità innegabili: legal thriller senza intoppi, si avvale di attori straordinari – accanto ai redivivi Gooding Jr. e Travolta, la perfezionista Sarah Paulson e la rivelazione Sterling K. Brown – e riscatta il nome di Ryan Murphy dal trash. Vengono immortalate la tentata fuga, la scrupolosa formazione della giuria, le strategie degli avvocati. Ci si gioca la carta del razzismo a piacimento. Parlando di diritti civili e poliziotti intolleranti, l'assassinio passa in secondo piano. American Crime Story non si schiera e non cerca la verità, non sposa particolari punti di vista e non sveglia il cane che dorme. Riferisce sul banco dei testimoni le stesse controversie sollevate ventidue anni fa. Come nel caso dell'agiografico Sully o dell'impersonale Spotlight, la cronaca avvince ma oltre a interpretazioni maiuscole e al taglio chirurgico, limite mio, ho trovato poco altro. Il verdetto, sebbene espresso in suo favore, dichiara The People V. O.J. Simpson asciutto e imparziale; magistrale e  senz'anima. (7)

sabato 28 novembre 2015

Recensione: La ragazza nella nebbia, di Donato Carrisi

Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità.

Titolo: La ragazza nella nebbia
Autore: Donato Carrisi
Editore: Longanesi
Prezzo: € 18,60
Numero di pagine: 373
Sinossi: La notte in cui tutto cambia per sempre è una notte di ghiaccio e nebbia ad Avechot, un paese rintanato in una valle profonda fra le ombre delle Alpi. Forse è stata proprio colpa della nebbia se l'auto dell'agente speciale Vogel è finita in un fosso. Un banale incidente. Vogel è illeso, ma sotto shock. Non ricorda perché è lì e come ci è arrivato. Eppure una cosa è certa: l'agente speciale Vogel dovrebbe trovarsi da tutt'altra parte, lontano da Avechot. Infatti, sono ormai passati due mesi da quando una ragazzina del paese è scomparsa nella nebbia. Due mesi da quando Vogel si è occupato di quello che, da semplice caso di allontanamento volontario, si è trasformato prima in un caso di rapimento e, da lì, in un colossale caso mediatico. Perché è questa la specialità di Vogel. Non gli interessa nulla del dna, non sa che farsene dei rilevamenti della scientifica, però in una cosa è insuperabile: manovrare i media. Attirare le telecamere, conquistare le prime pagine. Ottenere sempre più fondi per l'indagine grazie all'attenzione e alle pressioni del "pubblico a casa". Santificare la vittima e, alla fine, scovare il mostro e sbatterlo in galera. Questo è il suo gioco, e questa è la sua "firma". Perché ci vuole uno come lui, privo di scrupoli, per far sì che un crimine riceva ciò che gli spetta: non tanto una soluzione, quanto un'audience. Sono passati due mesi da tutto questo, e l'agente speciale Vogel dovrebbe essere lontano, ormai, da quelle montagne inospitali. Ma allora, cosa ci fa ancora lì?
                                         La recensione
Faceva freddo come adesso, più di adesso, e il bavero del giaccone non bastava a ripararmi dal vento. Dopo anni ci si abitua – all'umido, alle nuvole pesanti – ma la pioggia, in quel weekend a un passo dalle feste, si infilava con impegno negli occhi, sotto la pelle. Spaccava le ossa, una ad una. Fulmini e saette, percussioni ritmiche e riflettori accesi, per uno scenario degno di un noir da manuale. Ogni storia da brivido trova il suo inizio in una notte buia e tempestosa. Ogni presentazione di Donato Carrisi meriterebbe perciò un cielo a tema. Una nerissima visione da fine del mondo. Ricordo i brividi di febbre passeggera del ritorno a casa, in autobus, e il piacere di un incontro sorprendente – se avete letto il mio post, all'epoca, è un po' come se ci foste stati anche voi, con me –, insieme alla sensazione che il cattivo tempo avesse disturbato, stranamente, anche l'autore: uno che, per lavoro, gioca con le ombre, ma a cui poi manca il sole pugliese; uno che maneggia argomenti grevi, sempre con i guanti bianchi, e che in privato – o davanti al suo pubblico di lettori affezionati – si scopre leggerissimo. Donato Carrisi, di persona, è meno tenebroso che in foto: alto come me, più o meno, e dal sorriso facile. Soprattutto, non si lascia scoraggiare dalle bizze dei microfoni: le interferenze tecniche o la presenza, in libreria, di un pubblico che chiacchiera e gli scatta foto non lo turbano. Ci sono scrittori schivi e scrittori, invece, che sanno modulare frasi significative e creare immagini indelebili anche così, all'impronta. Donato Carrisi lavora con le parole, che siano d'inchiostro o di fiato poco importa. E con quelle stesse parole, in unione a innate capacità di uomo di spettacolo, aveva catturato il pubblico – perfino mio fratello, all'inizio preso dai suo acquisti – in un'ora in cui si parlava del più e del meno, del processo creativo, dei gialli di cronaca. “Ricordate tutti la Strage di Erba, i coniugi Romano”, aveva domandato, “ma scommetto che nessuno terrà più a mente un particolare. Il bambino ucciso, come si chiamava?”. I nomi – arabi, perlopiù, giacché ci si ricordava tutti un bimbo dai profondi occhi scuri e il suo sospetto padre tunisino – volavano come i numeri a tombola. 
“Youssef”, aveva rivelato infine. L'incontro si era concluso con una riflessione dolente – il ricordare i colpevoli, ma non le vittime quanto ci rende complici? - e un'anticipazione che non avevo saputo cogliere. A un anno di distanza, infatti, Donato Carrisi torna con La ragazza nella nebbia. Storia nuova con un vecchio interrogativo che si risveglia, all'ora delle streghe. E se mettersi sulle tracce di una ragazza scomparsa avesse minore priorità rispetto all'altro tarlo che logora: assicurare alla giustizia – e alle brame delle telecamere – un mostro? E se una storia, in realtà, la scrivessero i cattivi, con atti esecrabili che sovvertono gli equilibri, e non i buoni, povera gente dall'esistenza tranquilla? Abbiamo visitato, con lui a farci da Cicerone, un girone infernale senza confini e la Città Eterna. 
Abbiamo avuto professionisti dalle abilità fuori dalla norma – l'instancabile Mila, il penitenziere Marcus –, che sul male hanno formulato ipotesi schiaccianti; organizzato cacce. La bruma che si dirada a valle ci restituisce la foto di un paesino all'ombra delle Alpi. Avechot è un presepe immaginario su cui il Padreterno ha fatto cadere la neve, a fiocchi grossi, e un'inaspettata fortuna: si è fedeli al denaro e alla religione, da quando le ricchezze del sottosuolo hanno allontanato i turisti e i cantieri a cielo aperto hanno sottratto spazio vitale agli splendori naturali. Sembra Cogne. Quando il Natale chiederebbe a tutti di essere più buoni, quando il bianco è troppo bianco per il nero della cronaca, la sedicenne Anna Lou scompare nel nulla: ha un diario segreto in cui scrive di gatti e perline, una famiglia profondamente religiosa, i capelli rossi. Si parte dalla fine – il protagonista, confuso, è sotto interrogatorio – ed è il suo racconto al Dottor Flores, in un magistrale alternarsi di punti di vista e piani temporali, che scioglie, poi, il mistero de La ragazza nella nebbia. Sul romanzo, da parte mia, pesavano alte aspettative: superfluo dirlo. Con Carrisi – uno di quegli autori di cui non mi stanco – cerco la lettura del thriller dell'anno, non di un thriller, e, prima o poi, lecito incappare non in una delusione, ma in un romanzo vagamente sottotono. Anche se dispiace ammetterlo, abituati al meglio sin da un esordio indimenticabile. Lo stile resta riconoscibile, la struttura cambia. Si assottiglia, si semplifica: non ha, questa volta, tanti fuochi. Un unico perno – Chi ha ucciso Anna Lou? come Chi ha ucciso Laura Palmer? - e il confrontarsi, dopo intrecci machiavellici e bambole russe di tranelli, con il giallo tradizionale. Sembrerebbe prendere fiato tra due serie – e, dunque, da quei polizieschi tridimensionali, difficilissimi, ad incastro. 
Un gioco da ragazzi. Invece, ragionandoci, si nota che è meno semplice di quanto appaia: stupire con poco, anziché intrattenere con tanto. Carrisi stupisce e intrattiene, non dimentica le regole base del suo straordinario successo, ma – fino alla fine, anche davanti alla sue quasi quattrocento pagine – ho conservato l'impressione di un racconto lungo, di un esercizio ben portato a termine. Ho fatto le ore piccole per finirlo – con, fuori, le stesse atmosfere dello scorso anno e, tra le pagine, lo stesso Carrisi padrone – ma mi è mancato il colpo di scena eclatante, il brivido, in un ultimo capitolo frettoloso che, per la prima volta, non mi ha lasciato a bocca aperta. Se le risposte al caso mi sono sembrate modeste, La ragazza nella nebbia è interessante, molto, per le riflessioni sulla morte ai tempi dei mass media. I misteri dello storico Twin Peaks, gli uomini qualsiasi del Sospetto di Vinterberg, vessati dalle occhiate di fuoco del vicino di casa, e un quid – in questo caso, il sezionare la materia fragile di cui sono fatti i talk show, penna e telecomando alla mano – che è inequivocabilmente suo. La trama si fa circostritta, ma il male, chiodo fisso, rompe di nuovo gli argini. E l'agente speciale Vogel, che eppure dovrebbe combatterlo, lo coltiva con dedizione sotto le luci della ribalta. Non integerrimo uomo d'azione, ma mestierante dotato di sangue freddo e tratti telegenici, cercherà di offrire alla telecamera un colpevole – un mite professore di lettere con la sfortunata di non avere un alibi abbastanza solido – e il suo profilo migliore. Non cerca prove, ma indizi, con l'aiuto del giovane Borghi, di una giornalista d'assalto che gli ha rovinato la reputazione e di una giacca di cachemire – sotto: camicia inamidata, gemelli d'oro, cravatta di seta – per combattere il clima rigido, e nascondere le macchie di sangue altrui. Qualche sbavatura c'è – i colori del giallo, a volte, diluiti nel mare magnum del realismo – ma tanto si salva dalla nebbia della mia memoria. I lumi e i peluche. Un regalo mai scartato, con ancora il fiocco in cima, e un albero puntato verso la finestra, come un faro per i naviganti – e in città così piccole è assurdamente facile smarrirsi. I reporter, come gli avvoltoi, che avvertono l'odore dello scoop, pare ricordi quello rugginoso del sangue, e iniziano a volteggiare su Avechot, in cerchi implacabili e perfetti. Non ci si prende la briga di cercare la vittima, data per spacciata sin dalle prime ore, ma il suo assassino. Per santificare Anna Lou e dare a quel borgo spuntato da una fiaba, all'improvviso scena del crimine, la sua pace. La stampa adora i finali lieti, per quanto possibile, e l'illusione dei mostri.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Negramaro – Io non lascio traccia