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lunedì 7 ottobre 2019

Dear Old Mr. Lynch: Mulholland Drive, Velluto blu, Strade perdute, The Elephant Man, Una storia vera

[2001] Stando alla critica è il miglior film d’inizio millennio. In rete abbondavano i frame, le lodi, le spiegazioni, e al solito non mi sentivo all’altezza del recupero. Avrei capito anch’io la grandezza di Mulholland Drive o, come successo con Twin Peaks, sarei stato troppo confuso per dire la mia? Per quanto popoloso di figure grottesche e cospiratorie, degne di un romanzo hard boiled con sprezzo del kitsch, il capolavoro di David Lynch risulta sorprendentemente lineare e coerente nei primi novanta minuti. Mi ha messo a suo agio così. Ci sono un’attrice di provincia in cerca di fama e una sconosciuta senza identità che, forse, proprio a causa di quella stessa fama si è bruciata. Accanto a loro, un regista costretto a obbedire alle manipolazioni dei produttori, che dall’alto gli impongono la stella del suo ultimo lavoro. Tutt’intorno, appare indispensabile una selva tragicomica di sicari pasticcioni, cowboy sibillini, inquietanti compagni di posto e clochard che fanno saltare lo spettatore in poltrona provocando perfino svenimenti. Vistose parrucche platino, nomi scambiati e topless bollenti culminano con l’ingresso delle protagoniste nel club Silencio, dove tocca rivalutare i ruoli delle due donne all’interno della vicenda. In definitiva, un noir su una Hollywood fucina d’illusioni e dissapori. Per affermarsi basta il talento? Per resistere all’ennesimo provino fallimentare è sufficiente l’amore? Le stranezze e le scene di culto si annidano tutte nell’ultima parte – la mia preferita –, dove abbondano i fumi, le sovraimpressioni, le figure simboliche. Lì dove, affascinati da un Lynch capace di un equilibrio insospettabile, siamo portati a cercare un senso – a volte con successo, altre brancolando nel buio – all’intreccio, mettendolo quanto possibile in ordine cronologico.  Se una regia priva di guizzi rivela l’iniziale natura televisiva del progetto, gli applausi sono invece per la scrittura – reale motivo di cotanta iconocità –, capace di spaziare dai personaggi stereotipati ai travagli dei melodrammi LGBT, consacrando nel mentre una Naomi Watts già straordinaria e svelandoci le grazie della prosperosa Laura Harring, finita purtroppo nel dimenticatoio. Tema clou: quei sogni nel cassetto, letterali e figurati, di cui il cinema è una macchina instancabile. Il risveglio, traumatico, sarà un testacoda su Mulholland Drive. La strada su cui morì più di qualche aspirante star, assieme alle belle speranze di una ragazza dell’Ontario che, a occhi aperti e chiusi, sognava la gloria, l’amore e altre chimere inconciliabili. (8,5)

[1986] Gli uccellini cinguettano beati. Le staccionate bianche sono state riverniciate di fresco. I giardini sono un fiorire di rose rosse. Come esemplifica bene la sequenza d’apertura, però, in quel quartiere residenziale dalle villette a schiera non è tutto oro quel che luccica: sotto c’è del marcio. Serpeggiano blatte e vermi, di cui si nutrono perfino i pettirossi – simbolo d’amore e speranza. Si rinvengono, in passeggiate nel cuore della natura, orecchie mozzate e altri scomodi segreti. A fare da detective per caso è un acerbo Kyle MacLachlan, poi ritrovato con pistola e distintivo nei panni del detective Cooper, di ritorno all’ovile dopo anni da studente fuori sede: inciamperà accidentalmente nella morte e nei drammi di una cantante jazz dalle tendenze sadomasochistiche – l’indimenticata Isabella Rossellini, per me né così bella né così brava –, così diversa dalla ragazza della porta accanto con il volto della giovane Laura Dern. Venerato da Quentin Tarantino, questo scandagliamento del sogno americano ha il voyeurismo dei patinati thriller erotici che ci si aspetterebbe da Lyne o De Palma. Sprovvisto di clamorosi colpi di scena, con una risoluzione smaccatamente lieta che oggi fa un po’ storcere il naso, invecchia con estrema classe ma deve aver smarrito in parte la sua carica eversiva. Di grande atmosfera, con una regia più elegante che altrove, ha tutt’oggi il merito di aver contaminato un genere di per sé raffinatissimo con succulenti inserti pulp e un cattivo – il gigioneggiante Dennis Hopper qui a un passo dall'Oscar – decisamente sopra le righe, pur raccontando in definitiva poco di nuovo. Trentatré anni dopo, il pregio di questo morbidissimo velluto blu non si discute; meno la brillantezza del giallo. (7)

[1997] A ben vedere, è l’anello di congiunzione fra Velluto blu e Mulholland Drive. Un tassello indispensabile. Un’opera nella quale, a mente lucida, s’intravedono i germi dei successi futuri. Peccato che la visione risulti di per sé poco memorabile. Il jazzista di un monocorde Bill Pullman brucia di gelosia per i presunti tradimenti di sua moglie, una Patricia Arquette qui al massimo del sex appeal. Accusato dell’omicidio della donna, perseguitato da misteriose cassette e da un uomo dalla bruttezza profondamente disturbante, il protagonista finisce in carcere. Ma i secondini, un giorno, trovano un’altra persona al suo posto. Che ci fa in gatta buia quel meccanico scapestrato e piacione, con una relazione sconsiderata per la moglie di un boss mafioso – sempre lei, una Arquette doppiamente nuda e fatale? Composto da due film all’apparenza sconnessi, nessuno dei quali particolarmente coinvolgente, Strade perdute si è lasciato seguire soprattutto perché trovavo intrigante l’idea della risoluzione finale. Come si sarebbero ricongiunte storie così lontane? Lo fanno a fatica e con le classiche stranezze del regista, davanti alle quali questa volta non ho provato il desiderio di chiedere spiegazioni alla rete o di saperne di più. Si affronta il tema del doppio. Si fa tanto, patinatissimo sesso. Si ascolta una pesante colonna sonora rock ‘n’ roll – con tanto di cameo di Marilyn Manson –, perfetta per gli ambienti malavitosi del film ma lontana dal mio gusto personale. Questa consolidata storia di bulli e pupe, tuttavia, è inserita per fortuna in una cornice che fa la differenza, mirata ad aprire al cinema le porte delle teorie freudiane e a filmare scena per scena le scosse elettriche di un conflitto interiore. A fuoco ma non abbastanza, le strade del titolo hanno il pregio di aver condotto il nostro Lynch a un sostanziale crocevia. Ma il risultato è inferiore alla somma delle sue parti. (5,5)

[1980] Sono gli anni di grigiore e depravazione della Rivoluzione industriale. Hopkins, affascinato dalla deformità di un freak, lo salva dai soprusi del circo e cerca di educarlo. Lo hanno mosso la tenerezza o l’ambizione? Qual è la differenza fra un padrone e un buon samaritano? Soggetto a continue disavventure, l’Uomo Elefante è vittima di una malattia genetica: non può scandire bene le parole, non può dormire disteso sulla schiena senza rischiare il soffocamento, non può a vivere a lungo in una società tanto inospitale. Ma nessuno ha messo in conto i prodigi della sua forza di volontà, né quelli del suo ingegno. Autoaffermandosi, perché non pretendere di vivere un’amicizia, una storia d’amore e un giorno perfetti – soprattutto se un’attrice, la Bancroft, vede in lui il compagno ideale per leggere le tragedie romantiche di Shakespeare? Da copione, il protagonista imparerà le buone maniere, onorerà il rito del tè delle cinque, indosserà il frac. Qualcuno vorrà scacciarlo. Qualcuno vorrà venderlo al migliore offerente. Qualcuno lo accoglierà, ma per mero opportunismo. Fiaba dalla scrittura classica, fra biografia canonica e parafrasi sognante, The Elephant Man è un film di grande maniera, con un Lynch che non perde il suo tocco personale neppure alle prese con i languori di un bianco e nero anni Cinquanta. Poco male se tutto va proprio come previsto. È possibile vederlo, infatti, senza abbandonarsi a scena aperta a un pianto viscerale? Eroe burtoniano non meno di Edward mani di forbice, John Hurt si lascia sfuggire dai pertugi del suo mascherone ingombrante poche parole confuse e lacrime passeggere. È l’umanità dei mostri. E' la mostruosità degli uomini. (8)

[1999] Ha perso sette dei suoi quattordici figli. Ha visto i suoi nipoti venir reclamati dagli assistenti sociali. Costretto a camminare poggiato a un bastone, mezzo cieco, l’anziano Alvin Straight ha un passato tumultuoso – reduce di guerra, alcolista –, un cappello da sceriffo e due occhi spalancati per l'infinita meraviglia. Incurante delle rimostranze della figlia autistica Sissy Spacek, un mattino prende e va: deve andare a trovare il fratello minore colto da un infarto, con cui non parla eppure da dieci lunghi anni. Il suo mezzo di trasporto: un tosaerba malandato. Lungo il tragitto lo aspettano incidenti di diversa natura, tantissimi buoni samaritani, ricordi drammatici. E il tutto sembra così folle da non poter non essere vero – ci è testimone il titolo italiano, Una storia vera. Se le atmosfere sono di quelle affascinanti, splendide come in un racconto di Kent Haruf, alla storia d'altra parte si rimprovera una dose di zucchero in surplus. Agrodolce ma a tratti un po' stucchevole, questa fiaba sulla terza età a cui tutto deve il bellissimo Lucky schiera tanti temi caldi in campo – vedasi la descrizione iniziale della tribolata vita del protagonista – ma fa presa sicura con una storia così poetica, così adorabile, da toccare le corde giuste. Avrebbe fatto altrettanto bene, probabilmente, anche con meno. Mi riferisco alle lungaggini, al patriottismo alla Eastwood, a un troppo che storpia. Ma la verità è che a un certo punto non ho visto più i difetti, con gli occhi pieni di lacrime per colpa della tenerezza di Richard Farnsworth: tutt’oggi non so se sia più struggente la sua ultima performance o la consapevolezza che di lì a poco si sarebbe tolto la vita, vinto da un male incurabile. Com’è grande il cuore di questo insospettabile Lynch, alle prese con il piccolo cinema indipendente. (6,5)

sabato 15 dicembre 2018

Mr. Ciak: Lazzaro felice, Il testimone invisibile, Searching, Lucky

Si chiama Lazzaro e come l'omonimo biblico ha vissuto una doppia vita. La prima ha inizio in una campagna senza confini e senza tempo in cui si sgobba con il sorriso sulle labbra: un'adolescenza come mezzadro nei terreni di un'avara nobildonna e, grazie all'arrivo del figlio ribelle di lei, finalmente l'epifania. La marchesa ha costretto i braccianti a un Medioevo ignorante, truffaldino e malpagato: sovrana di un impero di tabacco pronto a vacillare, la Braschi ha intossicato la manodopera con un lavoro nobilitante all'apparenza e infinite bugie. La verità, tuttavia, rende liberi davvero? Qual è l'effetto del progresso su chi l'ha conosciuto di sfuggita per generazioni e generazioni, complici le visite sporadiche di rampolli capricciosi dal ciuffo punk? L'acclamatissima Alice Rohrwacher porta con sé i plausi di Cannes, l'affezionata sorella Alba e un diffuso senso di stupore. Il taglio verista di una prima metà in linea con il cinema di Olmi si sposa con le stranezze della conclusiva: quella in cui scoprire che il tempo è relativo, e che per alcuni non passa mai, per altri vola in un lampo. Quella in cui questo Lazzaro con gli occhi belli dell'esordiente Adriano Tardiolo – ventenne acerbo e imbabolato, eppure capace di bucare lo schermo con la semplicità di un'occhiata – ci conduce in una moderna agiografia piena di allegorie e prodigi inspiegati. Proprietà di nessuno, senza mamma né padre, il protagonista si fa in quattro per il prossimo e ama sognarsi fratellastro di un figlio di papà di cui brama l'amicizia. Non cede a compromessi, non cresce, non viene scacciato. Fa ingresso nella sua seconda vita sulle proprie gambe, gioioso come una Pasqua, seguendo le indicazioni stradali dei ladri d'appartamenti e la luna nel cielo. Un Piccolo principe in cerca della sua Rosa, un San Francesco capace di ammansire le bestie selvagge e meno i capitalisti, che fa tappa in un'altra esistenza. Poiché miserabile quanto la prima, bisogna imparare a sfruttare per non essere sfruttati e non c'è traccia di verde se non ai bordi delle ferrovie. C'è sempre indigenza, ma di un tipo diverso. Abbondano i grigi, i debiti, lo squallore, e la magica sospensione dell'apologo viene minacciata dalla mancanza di galanteria, dallo strombazzare delle automobili imbottigliate, dalla fila inferocita in banca. Lo segue la musica. Lo segue un lupo, anche a costo di sfidare il traffico dell'ora di punta. Lo seguiamo noi, a tratti troppo confusi per dirsi felici, ma incantati. (7,5)

L'ambizioso imprenditore Scamarcio è riverso in una camera d'albergo. Poco più in là c'è il cadavere di una Leone femme fatale. La stanza è chiusa dall'interno, le finestre bloccate. Da dov'è entrato, da dov'è uscito l'assassino? All'alba di una testimonianza decisiva, una grandissima Maria Parato torchia l'uomo: seduti agli antipodi del tavolo, avvocato e cliente rivangano il passato. Arrivando a riesumare il ricordo di un incidente con omissione di soccorso di cui papà Bentivoglio ancora non si capacita. E un piano criminale su più livelli i cui esiti lasciano basiti per i mille incastri, lo studio machiavellico dei colpi di scena, gli intrighi delle deposizioni. Il testimone invisibile, visto in anteprima a una proiezione gratuita, è un thriller coi fiocchi: non facciamone un altro mistero. Peccato che, a proposito di inganni, abbia un risvolto negativo: le sue idee migliori vengono dal bel Contrattempo, passato purtroppo in sordina su Netflix. Copia carbone dell'originale spagnolo, il film nostrano si sposta dalla Catalogna al Trentino; ripropone l'eleganza della messa in scena e le claustrofobiche atmosfere teatrali senza improvvisare variazioni sul tema. Il remake non aggiunge niente di nuovo, no, ma continua a essere un intrattenimento a regola d'arte: possiamo fargliene forse un crimine se Mordini, dopo Pericle il nero, proprio non sfigura nel paragone? Le dinamiche del giallo alla Christie restano vincenti perché lasciate intonse. Rispondono a tono, così, il montaggio serratissimo; una regia di insospettabile classe; un quartetto di attori convincenti che non si lasciano intimidire mai dai voltafaccia o dagli stravolgimenti dei punti di vista. Una domanda resta, e su un blog che parla di romanzi suonerà senz'altro obbligata: perché scomodare autori stranieri con le librerie piene di firme rinomate – vedasi Donato Carrisi, prima scrittore e poi regista dell'altrettanto solido La ragazza della nebbia? Mi sarei lambiccato, confesso, davanti a un rimaneggiamento indecoroso. I bandoli del Testimone invisibile, nonostante la conoscenza dell'originale abbia rovinato l'effetto sorpresa, mi hanno però divertito da morire. Trucchi, beffe e segreti di un giallo perfetto su un delitto perfetto: peccato, questa volta, sia d'importazione. (7)

Che invenzione, il computer. Scatola magica che da vent'anni a questa parte custodisce le nostre vite come un infinito album fotografico. Contiene traccia delle nostre gioie e dei nostri dolori, una copia delle ricette della nonna e le e-mail urgenti, scatti e video in abbondanza. Un corto circuito, un comune guasto, e ci sentiremmo persi per sempre. Il computer è un diario intimo: a volte, il confessore dei nostri peggiori segreti. Lo pensiamo seguendone attravero uno schermo gli alti e bassi della splendida famiglia Kim – dalla spensieratezza dei primi giorni di scuola fino alla tragica morte della donna di casa, senza mai trascurare i saggi di fine anno o le vacanze in compagnia – e a proprie spese, nel momento del bisogno, lo scopre il capofamiglia di un John Cho sempre più serio, sempre più intenso. Sua figlia, quindici anni, è scomparsa. Tre chiamate perse in piena notte, l'impossibilità di rintracciarla, e infine un'amara consapevolezza. Non è in gita con gli amici – non ne aveva –, non è a lezione di pianoforte – ha smesso di nascosto sei mesi prima –, non è nella macchina ripescata dal fondo della palude – qualche macchia di sangue sul cruscotto, ma il cadavere manca. L'opinione pubblica, gli hashtag, i messaggi su Facebook parlano di Margot come di una novella Laura Palmer: che fine ha fatto? Sono tutti sospettati, compreso quel papà apprensivo – evidentemente non abbastanza – con cui l'adolescente evitava qualsiasi dialogo, preferendo raccontarsi perfino agli sconosciuti di YouCam. Aggiungete al quadro un'ottima Debra Messing, inedita sbirra con a cuore il destino della scomparsa, e potreste avere la trama del classico giallo investigativo. La realizzazione di Searching invece spiazza: esperimento non meno efficace dei recenti The Guilty e American Vandal, a opera di un esordiente di ventisei anni appena. È da un computer che assistiamo all'intero diramarsi della vicenda: leggiamo i messaggi privati, origliamo le conversazioni telefoniche, frughiamo nei ricordi in cerca di indizi. Zoomiamo. E in questo intelligente elogio all'arte del multitasking – i pericoli della rete, eppure, son sempre dietro l'angolo – si trovano le risposte a tutti i misteri, i colpi di scena spiazzanti e un cuore assolutamente commovente. Toccante e calibratissimo, perfetta unione di mezzi tecnici e scrittura d'impatto, Searching è la struggente ricerca di un uomo solo: una tipica riflessione sul rapporto genitori-figli, sul paradosso tutto contemporaneo dell'asocialità al tempo dei social, che sceglie il più atipico dei mezzi per illuminarci. Dopo Crazy Rich Asians, è l'anno degli attori coerani che conquistano i cinema e il botteghino americano. È l'anno dei gialli bellissimi perché inaspettati, come una richiesta d'amicizia inoltrata dalla suspance in persona. (7,5)

Esercizi tutte le mattine, lunghe passeggiate, un irrinunciabile pacchetto di sigarette nel taschino. Le gambe snelle, il cuore giovane, due polmoni perfetti. Finché Lucky, arzillo ma solo al mondo, un giorno sviene: così, dal nulla. Ha novant'anni suonati e prima di quel malessere viveva la sua modesta routine nell'inconsapevolezza: non si era mai reso conto di essere vecchio. Come reinventarsi nell'immobilismo stagnante di certe province? Come essere una persona migliore, se a lungo ha evitato aiuti esterni, compagnia e palliativi? Sorprendersi delle piccole cose è sempre un'ottima idea: i quiz a premi alla tivù, un posto a sedere alternativo nel solito bar, la testuggine in fuga dell'amico David Lynch, qualche rissa da non disdegnare poiché reduce di guerra. Non pensarci, alla morte, significa forse evitare che accada? È stata lei alla fine a cogliere in contropiede lo straordinario Harry Dean Stanton: il caratterista nell'ombra, qui al suo primo e ultimo film da protagonista, sarebbe scomparso poco dopo aver prestato acciacchi e speranze a un personaggio dal nome augurale. Retore astutissimo, caratterizzato da un senso di giustizia e un decoro d'altre epoche, l'anziano ascolta Johnny Cash, s'imbuca ai compleanni dei bambini e canta con i mariachi commuovendoci un po', parla di nichilismo e antichi conflitti armati. Lascia la porta aperta alle tartarughe, che magari poi tornano a casa, e alla bellezza dell'imprevisto: un cactus centenario e mal tenuto – peggio di lui, insomma – sulla cui cima non smettono di fiorire i boccioli. Piccolo e saggio, con atmosfere vicine ai romanzi di Kent Haruf, l'esordio alla regia di John Carroll Lynch è una lezione di vita già sentita, ma con l'urgenza agrodolce del commiato. Senza mai calcare la mano – anzi, il passo – cammina su questa terra, in questa esistenza, e a ben vedere qualche impronta la lascia. Grazie agli andirivieni di una routine reiterata. Grazie a una sceneggiatura onesta, che non cerca stratagemmi per farsi ricordare, eppure ci farà ricordare di Stanton. Per sentirci fortunati di averlo conosciuto: anche se poco, anche se in ritardo. (7)