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lunedì 14 ottobre 2024

Recensione: Il male che non c'è, di Giulia Caminito


| Il male che non c’è, di Giulia Caminito. Bompiani, € 18, pp. 272 |

Parte tutto da un refuso nella newsletter della casa editrice per cui lavora. Un apostrofo fuori posto e Loris, trent'anni, precario, finisce schiacciato sulle mattonelle del bagno. Il fiato corto, il cuore impazzito, un uovo dal guscio duro che gli si schiude all'improvviso sul fondo della pancia. Lo conosciamo steso tra il lavandino e il bidet, all'alba dell'ennesima crisi. Al di là della porta chiusa c'è Jo, l'eterna fidanzata, che spererebbe in un compagno più tonico, più intrepido, più appassionato. Seduta sulla lavatrice, invece, c'è la sua amante immaginaria: si chiama Catastrofe, spiazza con trasformazioni imprevedibili e somiglia alla versione horror di una delle emozioni di Inside Out. È lei a comunicargli che presto o tardi esploderà. Cosa si nasconde dietro i mal di pancia, i tremori, le ossessioni di Loris? Schiavo della melatonina e dei fermenti lattici, prigioniero dell'inferno di sé stesso, invidia il codice rosso dei feriti a morte, si nutre di tragiche storie vere sui forum e su YouTube, origlia con astio i suoni di un vicino di casa che suona, scopa e vive senza pudore. A un certo punto dichiara che preferirebbe una malattia terminale al pressappochismo con cui, ormai, lo liquidano i medici.

Cosa succederà a quel ragazzino nella foto lui non lo sa, eppure non può fare niente per salvarlo, né da sé stesso né dal dolore, perché così avviene: il male arriva e passa schiacciando e livellando, deviando il corso del fiume che sei stato.

Sarebbe facile biasimarlo, considerarlo empio e vittimista, ma la verità è che quest'ipocondriaco con cui parrebbe impossibile empatizzare ha la mia faccia allo specchio, le mie identiche crepe. All'inizio ho corso il rischio di divorare la sua storia. Poi ho rallentato, per la paura di essere divorato. Il lockdown sembra accaduto una vita fa, ma l'altro giorno ho trovato una vecchia mascherina nella tasca del doppiopetto. E ho ripensato a quand'ero come Loris, ai capelli sporchi e alle clavicole sporgenti, ai libri letti bulimicamente e ai siti porno consultati in cerca di un'eccitazione che non sopraggiungeva. A un lavoro che, nell'immobilismo generale, non arrivava. Dopo tanta paura della malattia, il contagio, infine, era giunto con carico di delusione: una febbriciattola che non mi avrebbe ammazzato — per fortuna, purtroppo. La mia stanza, intanto, era diventata una cella dove enumerare le figuracce, i rimorsi, i ricordi; il corpo un campo di battaglia. Durante la lettura mi sono materializzato alle spalle di Loris e, io che ci sono passato, io che a volte ci passo ancora, ho rubato il posto a Catastrofe nell'ascoltarlo, scuoterlo, stringerlo forte. Se non fosse così brava, Giulia Caminito risulterebbe respingente. È il rischio che corre chi sceglie personaggi scomodi e pone al centro, senza fronzoli, la malattia: queste volta, per di più, una malattia reputata immaginaria. La sua scrittura, di chirurgica esattezza, è la sonda nelle viscere di Loris. Cerca il male, Giulia. Insegue il ticchettio della bomba e medita un modo per disinnescarla, lei che ha strumenti da artificiera. È nella ricerca, però, che trova anche la luce che resta.

Si era sempre immaginato accanto a lei, ma da soli. Loro due come una diade tenace, un microcosmo autosufficiente.

Loris, anestetizzato, se ne sta rannicchiato in posizione fetale e torna neonato, embrione, spermatozoo. Vive un'evoluzione a rovescio. Il suo lamento diventa un romanzo intimo, privatissimo, pieno di simboli e dolori, in cui il passato è l'unico baluardo sicuro contro un presente sismico. Laggiù c'è un nonno che ci spiega la vita attraverso l'osservazione delle voliere e che ci rivela, all'occorrenza, i segreti degli innesti felici. Serve colla abbondante affinché la vita attecchisca; serve pazienza, poi, affinché fiorisca nella pelle di una corteccia estranea. L'autrice romana si fa portavoce di quei segreti — suo nonno, a cui il romanzo è dedicato, doveva somigliare molto a Tempesta — e li condivide generosamente con noi, pur di vincere la solitudine che l'ansia chiama a sé. Firma, così, un romanzo ben più misurato del precedente, in cui trova finalmente spazio vitale una generazione che finora non c'era sui libri: quella affetta dal male che non c'è. Giulia Caminito ci ha salvati dall'estinzione.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gazzelle - Destri


lunedì 18 gennaio 2021

Recensione: Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron

| Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron. Adelphi, € 11, pp. 206 |

Da quando sei triste? Quando gli pongono questa domanda, James fa spallucce. Vorrebbe rispondere che triste lo è da sempre. Paragona il raggiungimento della felicità a una fatica erculea; essere in pace con sé stessi gli appare un'impresa agonistica, un po' come attraversare a nuoto il canale della Manica. Perché questo pessimismo cosmico, per di più alla tenera età di diciotto anni? C'entrano forse il divorzio dei genitori, i dubbi legati a una sessualità ancora inesplorata, la paura di un salto nel vuoto chiamato futuro? Scuote energicamente la testa. Poco importa se l'incostante mamma gallerista sia tornata da un viaggio di nozze a Las Vegas già in procinto di divorziare nuovamente o se il papà affarista, eterno Peter Pan, inganni lo scorrere del tempo con qualche ritocchino di chirurgia estetica; poco importa se qualcuno lo pensi gay, dopo un'adolescenza problematica e solitaria; poco importa dell'iscrizione a un college esclusivo, se all'improvviso medita di mollare gli studi per comprare una casetta isolata nel Midwest. James ha visto crollare le Torri Gemelle senza riportare grossi traumi, è fisicamente in salute, appartiene alla classe privilegiata che beve acqua Evian e spende diciotto dollari per un piatto di pasta. Ma in una metropoli popolata di squali e avvoltoi, percependosi alla stregua di un coniglio candido e indifeso, prevedibilmente non si sente a proprio agio. Ci si può sentire soli a New York? A colloquio con una psicoterapeuta che ha il brutto vizio di rispondere a una domanda con un'altra domanda, James verrà a capo di un viaggio a Washington che l'ha condotto sull'orlo del suicidio. Cos'è successo in gita scolastica? Cosa non è successo?

So di pensare e di parlare nella stessa lingua, e so che in teoria non c’è ragione per cui io non possa comunicare i miei pensieri appena si formano o immediatamente dopo. Eppure la lingua in cui penso e quella in cui parlo sembra spesso talmente lontane che mi pare impossibile colmare il vuoto sul momento o anche retroattivamente. […] Credo che nel mio cervello ci sia un setaccio che impedisce un rapido (e tantomeno simultaneo) travaso di parole. Un po’ come il filtro nello scarico della vasca da bagno. C’è qualcosa che trattiene i pensieri nel cervello e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati.

Da quando sei triste? Se me lo chiedessero, risponderei anch'io da sempre. Anch'io, come James, non avrei altre argomentazioni. Prendendo in prestito uno dei passi più veritieri scritti da Peter Cameron, potrei aggiungere che a certe domande non c'è risposta; che qualche volta le parole non bastano. Un conto è pensarle, le cose, e un conto è esprimerle a voce alta. Nel passaggio dal cervello alla bocca si perdono sfumature sostanziali, come nelle traduzioni simultanee; i contenuti finiscono per suonare ridotti all'osso, banali. Il disagio di James somiglia al mio. Dal momento che purtroppo o per fortuna l'identificazione è stata istantanea, ho finito per affezionarmi a un romanzo destinato a dividere: o lo si ama o lo si odia. Diviso tra frustrazione e speranza, lieve e filosofico insieme, Un giorno questo dolore ti sarà utile è composto da episodi e dialoghi giustapposti. Manca una trama portante, manca perfino un epilogo. Nonostante tutto, avrei voluto sottolinearlo da cima a fondo, acquistare un diario Smemoranda e trascrivere a penna le pagine in cui mi sono sentito prima spiato, poi tradito, infine compreso. Eccomi qui: stimo noiosa la compagnia dei miei coetanei (James stravede per la nonna); vorrei saltare a pie' pari le tappe, essere già vecchio e avere il peggio alle spalle (come nei dipinti di Thomas Cole); mi vanto di usare al meglio modi e tempi verbali per mettere ordine al caos cosmico (i pensieri sono intrasponibili, perciò le parole vanno dosate con cura); sui social ho una vita parallela ben più interessante di quella vera (iscritto su un sito d'incontri, James si finge colto, di successo e con un pene di ragguardevoli proporzioni).

A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono, un dono crudele, ma pur sempre un dono.

C'è qualcosa che non va? Tutto. Niente. La nostra inquietudine misteriosa è celata dalle acque alte, mentre dall'esterno i più scorgono soltanto la punta dell'iceberg. Essere nella testa ingarbugliata di Cameron è un privilegio. Leggere di James è terapeutico. Non è mai troppo tardi, infatti, per rivivere i propri tormenti adolescenziali. Non è mai troppo tardi, soprattutto, per auscultarsi e scoprirsi così degli adorabili disagiati. A diciotto anni lo avrei considerato uno dei miei romanzi preferiti, ma nella mia vita – prigioniera di uno di quei loop temporali da film – è cambiato poco da allora. Sono irrisolto, confuso, incasinato. Alle vecchie ansie se ne sono aggiunte soltanto di nuove. Ma vado fiero di me e dei dispiaceri grandi e piccoli che mi hanno reso come sono oggi. A quasi ventisette anni, dunque, vado dicendo di essermi imbattuto a scoppio ritardato in una di quelle storie-specchio che riflettono tutte le mie nevrosi; tutte le mie contraddizioni. E anche se sono un personaggio alleniano, cinico e fatalista, non smetterò di prestare fede al titolo. Una frase di Ovidio, una promessa solenne. Perché il dolore non passerà mai, non c'è guarigione né vaccino – non è mal di denti, non è Covid –, ma prima o poi si scoprirà una ricchezza interiore. Vivo con impazienza in attesa di questo giorno, per vantarmi del mio dolore anziché affannarmi a mettergli una museruola.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – En e Xanax

martedì 17 novembre 2020

Recensione: La biblioteca di Mezzanotte, di Matt Haig

| La biblioteca di Mezzanotte, di Matt Haig. E/O, € 18, pp. 329 |

Sono tutti un po' persi a venticinque anni. In Un giorno, uno dei miei romanzi preferiti, la protagonista Emma si consolava dicendosi così: la giovinezza è infatti sinonimo di smarrimento. Con il passare degli anni troviamo forse un senso alla nostra inadeguatezza? Mento a me stesso dicendomi di sì, ma sono convinto che ogni età abbia le sue preoccupazioni: amaramente, la perfetta felicità è una prerogativa da privilegiati. Sarebbe d'accordo con me Nora Seed, che di anni ne ha già trentacinque e comunque non ha trovato un senso alla monotonia delle sue giornate. Di famiglia italo-inglese, sola e frustrata nell'uggiosa periferia inglese, ha tempo a sufficienza per crogiolarsi nell'autocommiserazione. Mentre i coetanei sembrano presi dalla vita da adulti, Nora ne è tagliata fuori: vivacchia arrangiandosi con lavori prepari, in compagnia di un gatto che purtroppo morirà proprio alle prime pagine. Alcune esistenze sono solite percepirsi alla stregua di buchi neri, e le circostanze sfavorevoli non aiutano a cambiare punto di vista. La chiamano depressione situazionale: chi non ne ha mai sofferto? Quest'anno con me è stato inclemente. Ripiegato su me stesso, chiuso nella solita stanza, ho pieno diritto a dichiarare stanchezza sollevando bandiera bianca. Nora è così stanca da spingersi verso il punto di non ritorno: dopo un'overdose di barbiturici, si ritrova nel limbo tra la vita e la morte. Una zona grigia che, a sorpresa, qui è coloratissima.

Avresti agito diversamente, se ti fosse stata concessa l'opportunità di gettarsi alle spalle i rimpianti?

Il luogo del trapasso ha le fattezze di una biblioteca eternamente ferma a mezzanotte, con le architetture immaginifiche e i trucchi di un'invenzione della Rowling: sugli scaffali ci sono file e file di libri – ogni libro contiene una vita possibile –, ma il libro più pesante e polveroso è quello dei rimpianti. La protagonista ha paura di morire, oppure di vivere? L'autore fa di ciascun capitolo una storia diversa. In uno Nora gestisce un pub con il fidanzato, in un altro è una campionessa di nuoto, in un altro una glaciologa, in un altro ancora una rockstar di fama internazionale. Moglie, madre e sorella, nel suo limbo legge di vite utopistiche, improbabili, avventurose. Ma ognuna di esse nasconde banalmente bugie, musi lunghi, compromessi. Non esistono situazioni idilliache né attimi da incorniciare. Se la perfezione non esiste, in quale bolla di sapone potrebbe rifugiarsi? Fedele alla filosofia del pensiero positivo, il prolifico Matt Haig – che tra narrativa e saggistica parla spesso di ansie e nevrosi – propone la teoria del multiverso come cura al mal di vivere. A metà tra Canto di Natale e Cambia la tua vita con un click, ma con passaggi da mancato manuale di auto-aiuto, il suo ultimo romanzo è una fiaba didascalica che anziché allietarmi mi ha infastidito. L'autore calca la mano, tanto nella tragedia quanto nella spensieratezza.

Può condurre alla pazzia, pensare a tutte le vite che non viviamo.

Si accarezza l'idea del suicidio per motivi ben meno catastrofici di quelli di Nora, dal momento che siamo tutti frangibili. Si ritrova la retta via senza scomodare viaggi astrali e miracoli, dal momento che ci spezziamo ma non ci pieghiamo. Sopra le righe e decisamente semplicistico, infarcito di continue citazioni filosofiche, La biblioteca di Mezzanotte è un romanzo troppo consolatorio. In giornate nere di queste mi sarebbe piaciuto ritrovarci il calore di un abbraccio, invece l'ho scoperto talmente prevedibile e zuccherino da risultare noioso. La morale, immancabile, è proprio la solita e fa sollevare gli occhi al cielo: la vita è un dono, non va sprecata bensì vissuta. Ode alle imperfezioni e ai momenti da cogliere, si legge comunque con piacere grazie alla penna ironica di Haig: peccato che sia così spudoratamente propositivo da regalare sensazioni opposte a quelle sperate. Ho letto i libri delle mille vite di Nora Seed. Presi in prestito, però, a fine lettura li ho restituiti al mittente senza ritardi né tentennamenti prima che scattasse il minuto successivo alla mezzanotte. Per quanto importante, infatti, conoscevo già la lezione a menadito.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Fiorella Mannoia – Che sia benedetta

lunedì 31 agosto 2020

Recensione: Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli

|Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli. Mondadori, € 19, pp. 193 |

A volte la mia testa è un brutto posto dove soggiornare. Dentro, proprio sotto questa zazzera di capelli rossiccia sfuggita al mio controllo, sento una polveriera. Basterebbe una scintilla per scoppiare in mille pezzi. Materia cerebrale dappertutto, pugni chiusi, denti serrati. Le mezzelune delle lune impresse sulla pelle tenera dei palmi e la mascella che, a ogni risveglio, scricchiola puntualmente di malessere. Perché a volte anche il corpo fa male di conseguenza, sta male: quando mi dico che non è giornata – anzi, non è vita – e mi trovo a rimpiangere la stasi della quarantena, quegli arresti domiciliari che mi ero fatto stare comodi. Per telefono lo nascondo. Devo proteggere mia madre. Ma a me, invece, chi mi protegge? Nella speranza di stare meglio, ho letto nel buio della mia mente e in quella di Daniele Mencarelli. Per venire a capo di certi pensieri di rabbia e sconforto; per ridimensionarli, senza il bisogno di una diagnosi.

Magari lo spiego male, ma lì ho capito che la scrittura non è un gioco, ‘na noia come me l’avevano sempre insegnata, ho capito a che serve veramente e che è l’unico mezzo che può racconta’ quello che vedo, che m’esplode dentro.
Nel torrido giugno del 1994, anno della mia nascita nonché dei mondiali di calcio, l’autore  viene sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio. Gli amici sono all’oscuro di tutto. Per una settimana Daniele semplicemente sparisce, ricoverato in mezzo ai reietti. A differenza degli altri degenti, lui ha vent’anni, una famiglia comprensiva, il tempo e la speranza di una pronta guarigione. Ma esiste forse una cura alla malinconia di cui si ammala ogni autunno per poi fiorire nuovamente in primavera? Hanno parlato di bipolarismo, di disturbo borderline, di depressione. È colpa della serotonina, che pare che in lui scarseggi. Stanco di star male, Daniele – studente di Giurisprudenza in pausa dagli studi, che intanto installa climatizzatori – ha cercato soluzioni tanto nelle droghe pesanti quanto nella terapia, con mezzi illeciti e leciti. Tutto pur di riuscire ad accettare la vita così com’è: fragile e imprevedibile, talora ingiusta. Perché siamo nati per morire? Dotato del forte sentire tipico delle anime belle, tenero e disperato, cerca salvezza negli antidepressivi e nella poesia. Plateale sia nella disperazione che nella gioia, con il TSO scoprirà la ricchezza dell’ascolto e della condivisione. Fortemente provato nel momento del ricovero, a sorpresa, lo sarà ancora di più in quello delle dimissioni.

Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?
Mario è un maestro in pensione ghiotto di mele cotte, imbabolato a guardare gli uccellini alla finestra. Alessandro è un manovale in stato catatonico. Giorgio è un grande gigante gentile, con le braccia percorse dalle cicatrici dell’autolesionismo, che di notte desidera soltanto che qualcuno gli stringa la mano. Madonnina prega e se la fa nel pannolone. Gianluca, sboccato e a corto d’amore, è una ragazza prigioniera in un corpo maschile. 
Sono questi i compagni d’avventura di Daniele Mencarelli. Sono i buoni, quelli meno pericolosi. Dall’altra parte del corridoio, invece, si levano le urla strazianti dei casi gravi: fanno venir voglia di coprirsi anche col caldo, alla ricerca vana di protezione. Dietro le sbarre e durante i viavai estenuanti i protagonisti sognano un ghiacciolo, una relazione peccaminosa, una nave da crociera sulla quale esibirsi come star d’eccezione. Mentre i medici si appisolano vergognosamente o confondo un paziente con l’altro, tra i matti – per sfidare l’insonnia comune a tutti – si sviluppa un dolcissimo senso di fratellanza. Parlano la stessa lingua dell’autore. La libertà è con loro, o fuori da lì?

Io credo che gli artisti, come certi matti, abbiano dentro di sé il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. È la bellezza la scintilla di tutto. Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che ha cambiato tutto.
Il vincitore del premio Strega Giovani ribalta prigionia e libertà, malattia e sanità. I folli sono i veri saggi? Qual è il discrimine tra la malattia mentale e una personalità sopra le righe? Guarire, se si può, significa uniformarsi agli altri? Per gusto personale, avrei preferito una cronaca più asciutta e immediata, meno didascalica. A tratti, non che sia un difetto, mi è sembrata la tipica lettura che un insegnante di religione o filosofia assegnerebbe ai suoi studenti per le vacanze. Commovente, delicato e soprattutto mai pesante, proprio come mi si assicurava, allevia però gli animi con una galleria di personaggi variopinti e con la simpatia contagiosa dell’accento romanesco. Ventisei anni di distanza dagli avvenimenti rievocati, inoltre, hanno permesso alla scrittura di filtrare i disagi grandi e piccoli – il magna dell’inquietudine di Daniele – per farne poesia. 
Tutto chiede salvezza è stato il romanzo giusto nel mio momento sbagliato. E sì, me ne ha data di salvezza, insieme alla speranza che tutto passerà; che perfino questa frustrazione che provo un giorno potrà tornarmi utile. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – En e Xanax

sabato 30 marzo 2019

Recensione: La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, di Krystal Sutherland

| La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, Krystal Sutherland. Rizzoli, € 17, pp. 412 |

Mi dico che non ho l'età. Per avere paura. Per leggere young adult. Ma ci sono fobie – il futuro, le altezze, fidarsi di qualcuno, lasciarsi andare – che colgono in contropiede anche me, tutt'altro che stoico in verità, ma salvatore di ragni, lucertole e chiocciole dallo scalpiccio degli ospiti che calpestano il mio vialetto. E ci sono romanzi per ragazzi, soprattutto, che non hanno limiti: li si valuta con il cuore, così, organo notoriamente di manica larga, e nel mentre li si consiglia in lungo e in largo a lettori senza pregiudizio. Già colpito dalla bellezza dei Nostri cuori chimici, esordio brioso e struggente insieme, riscopro a due anni di distanza le magie di Krystal Sutherland. Pensavo fosse una meteora, lo ammetto, invece era la figlia segreta di Rainbow Rowell e John Green. Dalla sua: un'immaginazione sconfinata, temi difficilissimi sospesi fra favola e psicologia, un gruppo di personaggi memorabili sbucati da un romanzo gotico di Shirley Jackson. Ogni adolescenza, infatti, è una casa infestata: una storia di fantasmi. Esther, diciassette anni, non li teme. Come potrebbe, se a giorni alterni si abbiglia come Mercoledì Addams, ha amuleti appesi agli alberi in giardino e un piano della sua villa è chiuso al transito come l'ala di un fantomatico ospedale psichiatrico?

«La paura ti protegge. Devi sentirti spaventata fin nelle ossa» le sfiorò la clavicola con la punta delle dita, «perché l'audacia abbia un senso.»
Esther lo osservò. «E se muoio?»
«E se vivi?»

Casa Solar è un po' un castello degli orrori, un po' un bunker post-apocalittico: sui pavimenti scorrazzano liberamente galli e conigli (mamma, giocatrice d'azzardo, è convinta portino fortuna), gli interruttori della luce sono fissati con il nastro adesivo (il fratello gemello, Eugene, ha paura del buio e di sé stesso), in cantina è Natale in qualsiasi stagione (sei anni prima ci si è rifugiato il padre, veterinario agorafobico, devastato dagli ictus frequenti e dall'incomunicabilità). La nostra protagonista, all'apparenza normalissima, sembrerebbe lo strappo alla regola se non fosse per un dettaglio: alla maledizione di famiglia crede anche lei. I Solar, si tramanda, saranno uccisi dalle loro paure. Esther alterna bizzarri travestimenti per non farsi scovare, spaccia dolcetti a ricreazione con il sogno di risparmiare abbastanza per scappare via da lì e, complice il ragazzo giusto o forse sbagliato, accarezza l'idea impavida di salvare i suoi parenti. Il nonno, ex detective ossessionato da un assassino di bambini mai acciuffato, giura di aver conosciuto il Mietitore in Vietnam: un ventenne anonimo e butterato, che brindava con un bicchiere di latte e desiderava ritirarsi a vita privata a Santorini. Ammesso che esista, perché non sfidarlo a revocare la loro misteriosa iettatura? Basta affrontare la lista delle proprie paure di petto, punto per punto, inseguendo l'ombra della morte – e con essa, dunque, anche la vita. Ma affrontare aragoste, falene, luoghi angusti, scogliere e tempeste di fulmini è più facile in teoria che in pratica per qualcuno con le inibizioni di Esther: una ragazza che ha visto troppi film horror, infatti, ha disperatamente bisogno di qualcuno con la sfacciataggine di Jonah. Un coetaneo artistico e cleptomane, che alle scuole elementari la proteggeva dai bulli e al liceo, dopo anni di silenzio, le ha rubato prima il portafogli alla fermata dell'autobus, poi una promessa. Che vivrà pazzamente, testimone una GoPro.

Esther capitava la prima legge della termodinamica, secondo cui nulla si creava o si distruggeva: tutti i frammenti e i pezzi che costituivano un essere umano sarebbero stati redistribuiti altrove alla sua morte, ma dove andava la memoria? La gioia? Il talento? La sofferenza? L'amore.
Se la risposta era “da nessuna parte”, allora perché diavolo ci diamo da fare? Qual è il senso di quei grumi carnosi di consapevolezza che mangiano, bevono, amano e nascono da frammenti rabberciati dell'universo?

La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi conta quattrocento pagine, quaranta capitoli e cinquanta appuntamenti fissi: ogni domenica per un anno si sale sul motorino di Jonah e, aggrappati a lui, si flirta con i pericoli grandi e piccoli che erigono barriere intorno al mondo. Leggera soltanto all'apparenza, la lettura – figuratevi pure un mondo a metà fra Wes Anderson e Tim Burton – mi ha fatto ridere e piangere impunemente. Accanto alla Sutherland, un pigmalione australiano tutta citazioni nerd e ordinate liste per punti, è bellissimo scoprirsi codardi e vulnerabili. A cosa serve farsi in quattro per gli altri se a lungo sfugge l'essenziale, ossia salvare sé stessi?
A ben vedere questi Tenenbaum in chiave noir hanno tagli rattoppati sui polsi, conti in sospeso con mamma e papà e, con la scusa di una maledizione, mascherano da eccentricità malesseri più profondi. Si parla fra le righe di disturbi ossessivi, ansia sociale, depressione, e la lettura ispira inevitabilmente gli esami di coscienza: perché negli immancabili giorni storti io non avrò paura di schiocchi di chele e saette minacciose, no, ma della compagnia di me stesso. Il mio peggior nemico, mentre il Mietitore se ne sta in disparte: nelle corsie di un ospedale sfoglia un giornale con Kim Kardashian, annoiato, e lucida la propria falce.

«Be', sbagli su così tante cose che non so decidere da dove iniziare per dimostrartelo. E su cosa vuoi poi che ti dimostri che stai sbagliando?»
«La morte, soprattutto. E l'amore.»

Ho quasi venticinque anni e ormai acquisto young adult con il contagocce. Qualche volta sono troppo triste perfino per piangere e mia mamma, al telefono, si prende le colpe: siamo parte di una famiglia a pezzi, malinconici per natura, e a un bivio preferiamo guardarci l'ombelico – il passato è doloroso, il futuro incerto: allora dove rivolgersi, e a chi?
La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi è un romanzo speciale, che ti riconcilia con il mondo: di quelli di cui leggi da cima a fondo – compresi, insomma, ringraziamenti, fonti e note dell'autore – in cerca di un'altra iniezione di energia per endovena, degli indiscreti pregi dell'umorismo nero. Mi ha insegnato senza peli sulla lingua che i disturbi mentali non sono peggiori di una gamba rotta, che la terapia è il gesso per rinsaldare menti frantumate. E che di un uomo, quando scompare, restano in eredità la polvere, le storie e un'orchidea viola appoggiata sul cuscino.
Le paure ci obbligano a scomporci in compartimenti stagni, ma le navi non sono creazioni inaffondabili: lo sa bene il Titanic, che in acque gelide pagò il fio della propria presunzione. Cosa può Esther contro l'attrazione per Jonah: l'incubo degli incubi? Cosa possiamo noi contro l'iceberg? Krystel Sutherland firma un brillante avviso ai naviganti, nella speranza che le stazioni radio e le librerie diffondano il messaggio fino in capo al mondo: certi amori, certi urti, certi romanzi per fortuna ti obbligano a imparare a nuotare.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Bjork – It's Oh So Quiet

mercoledì 27 marzo 2019

(Non solo) David | Euforia, Troppa grazia, Ride, Una storia senza nome, La prima pietra, Cosa fai a Capodanno?

Per Lisa era un Dolan all'italiana, ma a malincuore lo avevo perso in sala. Le mie aspettative, alle stelle sapendolo nominatissimo, sono state disattese solo in parte. Vero: sui cieli di Roma si aggirano stormi coreografici, sui corpi nudi vengono proiettati ipnotici giochi di luce e i balli in corsia conciliano la commozione. A lungo, però, la seconda prova della consapevole Valeria Golino ha i pregi e i difetti delle nostre produzioni: Euforia sarà quindi un dramma fatto di personaggi sfaccettati, dei soliti attori bravissimi, con uno spunto talmente classico che poco di nuovo ha da sviscerare in due ore. I contro appartengono a un cinema d'autore che a volte gira a vuoto, strizzando furbescamente l'occhio all'indigesto Sorrentino, ma sa scoprirsi altresì capace di smorzare la malinconia e di sublimare, così, le peggiori difficoltà. La regista napoletana ama lasciare l'amaro in bocca, le scene sospese e, checché se ne dica, Riccardo Scamarcio: allo storico ex, infatti, la Golino regala un personaggio centrale nonché uno dei suoi ruoli migliori. Omosessuale gaudente e spendaccione, ospita in casa il fratello maggiore: un Mastandrea in fin di vita da proteggere dalla verità. Generoso ma prevaricatore, Scamarcio sbandiera le carte di credito e nasconde lo sporco sotto il tappeto. Allo stesso modo, con una studiata forma di egoismo, maschera la preoccupazione verso quel fratello burbero e dolente. Gli indora la pillola con i capricci e gli sperperi, con la fede, con l'amore ritrovato dell'amante Trinca. È tutto sotto controllo, o così si illude. Quanto è giusto pretendere una vita al massimo e togliere all'altro il diritto alla paura, al dolore? Euforia, filtrato dall'amato-odiato personaggio principale, si fa apprezzare più con la testa che con il cuore. Come accade a Scamarcio con Mastradrea, si dimostra onesto soltanto alla fine. Al malato, intanto, sfuggono l'equilibrio e le parole. Verbosissimo ma misurato, al contrario, il film sa come non rimanerne a corto. (7)

L'Italia, terra di miracoli e appalti truffaldini. A fare i conti con gli uni e con gli altri è una geometra fresca di separazione, con ingaggi ormai rarissimi e uno spiccato senso della giustizia. Se lei è la radiosa Rohrwacher, talento impareggiabile a cui si addicono l'ironia e la fisicità di un ruolo più solare dei soliti, non è una sorpresa scoprirla in contatto nientemeno che con la Madonna: a proprio agio con le questioni di fede, dopo Il miracolo e Lazzaro felice, l'attrice fa i conti con un'entità dai modi bruschi, disposta a strapparle i capelli e a prenderla a schiaffi pur di sbatterle in faccia l'evidenza. Commedia in odore di santità, troppo metaforica per risultare perfetta, Troppa grazia ha un ottimo incipit e un prosieguo vittima dell'astrattismo post-new age. Senza tralasciare gli alti e bassi della vita coniugale accanto a Germano e gli atti coraggiosi per sovvertire la corruzione dello status quo, il folle Gianni Zanasi mescola riflessioni sparse sulla salvaguardia del territorio, l'immigrazione e il femminismo. Troppi elementi, con il rischio che lo spettatore non sappia fino in fondo su quale concentrarsi in vista di una chiusa significativa e un po' irrisolta sulle note da lacrime dei Radiohead. Il titolo lo suggeriva: troppo in ballo, ma poco importa. Una scrittura brillante fatta di contraddizioni e paradossi e una Rohwacher da David bastano a credere nei miracoli di un certo cinema italiano; alle preghiere di una creatura bizzarra e amabile contro questo nostro mondo allo sbaraglio. (7)

Mastrandrea fa di nuovo i conti con la morte: questa volta, dietro la macchina da presa. Accolto tiepidamente, nonostante l'autorevolezza di un interprete capace anche di scrivere e dirigere, Ride è una dramedy nostrana che piace per struttura e piglio. Organizzato in lunghi quadri, il film studia le reazioni dei superstiti – si parla di un incidente sul lavoro finito in tragedia – e i loro meccanismi di difesa all'alba delle esequie. Mentre l'orfano pianifica un'intervista per conquistare la bella della classe e il padre del defunto si scontra con il secondogenito ripudiato, la vedova – la scommessa Chiara Martegiani, compagna del regista – lotta con quelle lacrime che non vogliono scendere. Perché non si strugge ma continua ad avere fame e sonno, a cantare a squarciagola la loro canzone d'amore anziché piangerci su? Non mancheranno i gesti di ribellione e i riavvicinamenti, i faccia a faccia e le abbuffate consolatorie. Non mancheranno la poesia del cinema indie: ricorderò a lungo un bambino che apre l'ombrello in casa per riparare la mamma da una pioggia torrenziale. Tutti hanno lacrime, storie, ricordi. Ma nella Marchegiani, gli occhi screziati di mascara e l'accento veneto, il giorno del funerale genera una strana ansia da prestazione. Grezzo ma già interessantissimo, Ride ha la colonna sonora giusta, dialoghi disarmanti e un espediente non da poco: conoscere la persona scomparsa non in fotografa, non nei flashback, ma attraverso chi le è stata accanto. Quali sono state le sue ultime parole? Cosa direbbe se sapesse che la moglie ha bisogno di imitare la fidanzatina del liceo per capire cosa sia il lutto? Proprio Mastandrea, parlava in Euforia del diritto a stare male. Qui, invece, di quello a star bene. Non c'è un unico modo per reagire. Non c'è un unico modo per trattarlo. Valerio, con la fortuna del principiante, individua quello vincente. (7+)

I lettori ricorderanno Vani, l'eroina dei romanzi di Alice Basso: ghost writer alle prese con i grattacapi del giallo. Di una simile disavventura si rende protagonista la goffa Ramazzotti: segretaria, di nascosto firma le migliori sceneggiature di Gassman, dongiovanni bugiardo che a piacimento le fa gli occhi dolci. Non era sua intenzione metterlo nei guai. L'amante giace in coma, adesso, perché la nuova sceneggiatura della protagonista ha fatto andare su tutte le furie le persone sbagliate: peccato non l'abbia scritta lei. Si è fidata della soffiata dell'enigmatico Carpentieri, e la storia della sua vita si è trasformata all'improvviso in un intrigo spionistico di arte, donne e mafia. Sullo sfondo della settima arte, Una storia senza nome è una commedia di grande maniera. Autoironica, densa, fatta di storie dentro storie e slittamenti frequenti. Ha tanto di buono, anche se non tutto funziona. La sceneggiatura, al contrario di quella scritta dalla Ramazzotti, ha qualche intoppo, passaggi frettolosi, e pur divertendo lascia amareggiati al ricordo della buona prima parte. Non si rivela, infatti, all'altezza dell'intelligenza dell'incipit, ma lo spettatore finisce per congedare Roberto Andò senza rimproveri. Intrattenuto da un caso di cronaca che l'immaginazione trasforma in un mystery. Stretto in un cast variegato, in cui spesso rubano la scena mamma Morante e un Gassman furfante anche in un letto d'ospedale. (6,5)

Prendete una scuola pubblica, il personale oberato e un atto di vandalismo che ha portato a convocare d'urgenza la famiglia del bambino. C'è una finestra infranta da sostituire, ci sono due bidelli che non si accontentano delle scuse. Aggiungete, poi, che il bambino incriminato è pure straniero e che Kasia Smutniak e Serra Yalmaz sono pronte a difenderlo con le unghie e con i denti scomodando razzismo e pregiudizio. I ruoli della recita di Natale, tuttavia, riflettono quelli sociali: come si difenderanno gli scoppiettanti Guzzanti e Mascino dall'accusa di avere assegnato agli alunni extracomunitari le parti degli animali? Gli esiti, dati da un coro di personaggi agli antipodi, sono di quelli conflittuali. A due giorni dalla festa che dovrebbe renderci tutti più buoni, volano botte da orbi, veleni e frustrazioni. Dotato di una struttura teatrale ormai meno pericolosa che in passato, cattivo fino all'ultimo, La prima pietra è scritto abbastanza bene da reggersi senza irritare ma non tanto da risultare memorabile. Inferiore ai suoi referenti, da Polanski a Genovese, resta comunque un gustoso anti-cinepanettone in giorni che ci vorrebbero tutti più buonisti, tutti più ipocriti. Gli stranieri ci rubano il lavoro? Il crocifisso in aula, sì o no? A farne le spese, mentre imperversa l'egoismo degli adulti, saranno i bambini. (6,5)

Prendete uno chalet, un manipolo di scambisti, fraintendimenti in quantità. Ci sono due ladri che si spacciano per i padroni di casa. Ci sono ospiti vogliosissimi, che non si accontentano però del benservito. Aggiungete poi che in radio si parla di una probabile fine del mondo. Come ingannare l'attesa se non con l'ammucchiata? Un'altra battaglia dei sessi. Un altro conflitto generazionale. Un'altra commedia satirica che gioca con gli ambienti circoscritti, le apostrofi satiriche, pur mancando di personaggi che non risultino sempre macchiette. Le assurdità degne del primo Ammaniti spiazzano e divertono: funghetti allucinogeni, dita mozzate, aragoste in fuga e cani assassini. Quelle inspiegabili, purtroppo, altrettanto: quale utilità trovare ai personaggi della coppia Scamarcio-Lodovini, agli addetti del catering bloccati nella tormenta? I riferimenti sono ambiziosi, da Tarantino ai Cohen, e qualcuno potrebbe perfino dirsi sorpreso del risultato: un sofisticato film d'interni, volutamente sopra le righe, in cui trionfano l'umorismo nero e i preliminari. C'è lo spunto, c'è la gente giusta e a colpo d'occhio non dispiacciono neppure le atmosfere asfissianti: peccato che, a proposito di sesso, non si arrivi mai al sodo. Sebbene il fascino delle interpreti femminili regali qualche nota piccante – la sexy gallerista Ferrari, la Lisbeth Salander di una Puccini fuori parte, la cafona di buoni sentimenti della solita Pasotrelli –, il risultato è maldestro. Non aspettatevi i fuochi d'artificio. (5,5)

venerdì 25 gennaio 2019

Recensione: L'abbandonatrice, di Stefano Bonazzi

| L'abbandonatrice, di Stefano Bonazzi. Fernandel, € 15, pp. 208 |

Le persone tristi si somigliano e si pigliano. Non si piacciono, non necessariamente, ma sentono di appartenersi. Perché, forse, non hanno altra scelta. Affinità elettive, oppure costrizione? Se lo domanda Davide, che a vent'anni sfoggia con una punta d'orgoglio i suoi vestiti scuri, un malumore imperituro e una famiglia intollerante: mancanze che, al posto di isolarlo, nei giorni sì hanno lo strano potere di farlo sentire straordinariamente fortunato. È stato proprio un attacco di panico in segreteria ai tempi dell'immatricolazione a renderlo parte della coppia formata da due giovani con in comune il mondo contro e il sogno dell'arte: un'illustratrice bravissima, quando non impegnata a servire coni al bar, e un figlio di papà con le conoscenze giuste (ma il talento?) per diventare un pianista jazz. Sono belli e derelitti. Benché studente in sede, la matricola Davide preferisce sgobbare come cameriere in nome dell'indipendenza da mamma e papà: la domenica a pranzo pur di ignorare il proverbiale elefante in mezzo alla stanza, ossia l'outing del figlio, parlano della stitichezza del gatto della vicina o dell'allarme femminicidio alla tivù. Oscar si lascia invece ammirare in boxer per casa, e lascia intravedere soltanto la punta di un iceberg che durante un tour in Gran Bretagna minaccia di far danni. E poi c'è Sofia, un po' hippy e un po' dark: giovane donna che ama tutti e nessuno, di certo non se stessa, con l'incombenza dei fratelli minori da salvare dai servizi sociali.

Cos'è oggi la mia famiglia? È il desiderio morboso di un “ciao”, di un “come stai?”, di un “vi voglio bene”. A diciott'anni avevo capito che il dolore è come una matrioska, ogni nuovo dolore contiene tutti i precedenti. Così non ti puoi abituare mai, è un meccanismo perfetto.

Schiacciati ora dalla tragedia delle eredità genetiche, ora dal peso dell'ambizione, questi tre angeli neri hanno perso le ali – eppure non gli ammiratori, non il sex appeal – nella Bologna del Dams, degli studenti morti di fame, delle droghe leggere o pesanti. Vorrebbero vivere come la Tosca, d'arte e d'amore, e stesi sotto il cavalcavia guardare le stelle confessandosi i reciproci dispiaceri nel rombare dei motori. Stare illusoriamente meglio.
Questa è la storia di Davide: migliore degli altri due, senz'altro più candido all'interno, che sceglie tuttavia di sporcarsi, di star loro accanto, anche a costo di dannarsi l'anima. Tutto fuorché le serate in solitaria, i silenzi ostinati, l'invisibilità sopportata nei peggiori giorni del liceo. Quando nascondeva natura e creatività per non brillare mai. Brilla di luce riflessa, allora, stretto fra il seducente Oscar – prima suo coinquilino, poi suo compagno: soprattutto nella cattiva sorte – e la sfuggente Sofia, che a un certo punto fa le valigie e se ne va. 
Lei, che in fondo aveva capito tutto. Che la tristezza genera tristezza e che un'anima buona come Davide, no, non se la merita. Scopriamo il suicidio della ragazza circa a pagina uno. Una corsa a perdifiato a Londra, al diavolo le gioie della prima esposizione fotografica del protagonista, e lì l'ennesimo fardello: Diamante, quindici anni e i toni sprezzanti, omofobici, che sputa sulla tomba di una madre troppo debole per stare al mondo e addita impietosamente la mancanza di carattere del solerte Davide e il corpo del fidanzato Oscar, strafatto sul divano. La convivenza improvvisata, la nuova formazione, sarà difficile. Manca il tocco solerte di una donna, un pizzico di ordine nell'appartamento a soqquadro. Manca qualcuno, soprattutto, che faccia luce sui misteri postumi di Sofia.

Era sempre stata attratta dal dolore, perché il dolore era parte di lei. Le persone come noi si riconoscono, si fiutano e poi si legano. Per un po' parlammo d'altro. Poi si alzò in piedi, si voltò verso di me con un lieve ghigno che le inarcava le sottili labbra perfette e mi disse: Ti va di urlare?

La verità del punto di vista esterno di Diamante, intanto, brucia. E brucia quello che ancora i personaggi non sanno dirsi. Una giovinezza da rievocare, un malessere di cui venire a capo e un triangolo che sin da subito ha confuso i limiti d'amicizia e attrazione. 
Che i lettori si figurino pure il grigiore delle atmosfere metropolitane di Valentina D'Urbano, gli scandalosi poligoni amorosi delle Ferite originali e la prosa sul filo del rasoio di un thriller dei sentimenti. Un trio di personaggi complessati, crudi e sofferenti, scavati con la punta del pirografo in un blocco di bellezza e dolore. A questo punto potreste capire parte del mondo di Stefano Bonazzi: grafico e scrittore al suo secondo romanzo, con il piglio accattivante dei narratori di razza e tutta la vividezza della sua passione di fotografo. L'autore ferrarese dimostra di possedere occhio, mano, pancia. Un occhio che lacrima suo malgrado, una mano che trema se l'onda blu dell'ansia sale e ci assale, una pancia che riversa violentemente sulla pagina le viscere fumanti delle più umane fra le emozioni. Abbastanza, direi, per non abbandonarlo a questa nostra conoscenza preliminare. Per abbandonarglisi.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Afterhours – Quello che non c'è