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mercoledì 7 agosto 2019

I film che leggeremo: saghe, capitoli complementari e puntate

It: Capitolo 2
5 settembre 2019
Secondo e ultimo capitolo per l'adattamento cinematografico firmato da Andy Muschietti. Dopo le gioie e gli orrori di due anni fa, i Perdenti stanno tornando per la resa dei conti. E Pennywise, scacciato per ventisette anni, a giudicare dal trailer è più cattivo che mai. Dato il cast – in cui ora spiccano i bravissimi Jessica Chastain e James McAvoy –, data la durata annunciata – quasi tre ore –, non dovremmo aspettarci brutte sorprese o tagli da macellaio. Ma oggettivamente meno brillante di quella dedicata all'infanzia, la parte finale è la più dimenticabile: dunque, la più difficile da realizzare. Ricordate anche voi che disastro fece la miniserie degli anni Novanta? Da qui al cinque settembre, doppiamente spaventati, conteremo i giorni e i palloncini.


Doctor Sleep
7 novembre 2019
Ancora Stephen King, da qualche anno più inarrestabile che mai. Ancora un secondo capitolo. Questa volta tutt'altro che atteso. Accolto con preoccupazione diffusa dai fan del capolavoro di Stanley Kubrick – non lo siamo né io né l'autore del Maine –, Doctor Sleep è il seguito ufficiale di Shining. Il piccolo Danny, interpretato da Ewan McGregor, è cresciuto ma non ha perso la luccicanza. Mosso dal desiderio di proteggere una bambina con le sue stesse doti, si imbatte nella vampira Rebecca Ferguson – e sui luoghi del delitto dell'Overlook. Mike Flanagan si butta a bomba. Il trailer mozzafiato, infatti, ripercorre i corridoi iconici del primo film in ricostruzioni d'impressionante fedeltà. Abominio, dirà qualcuno. Ma del regista che ha firmato The Haunting of Hill House io scelgo di fidarmi a scatola chiusa.


Creepshow
26 settembre 2019
Negli anni Ottanta il compianto George Romero aveva realizzato un film a episodi firmato da un King sulla cresta dell'onda. Fortunato horror a basso budget, qualche anno dopo aveva avuto anche un seguito. Il franchise riparte trent'anni dopo. Sotto Halloween, prodotto dalla AMC, il grottesco carosello di Creepshow propone altre sei storie da brivido. Accanto a King, scrivono Joe Hill, Joe R. Lansdale e Josh Malerman. Se Ryan Murphy è venuto a noia da un pezzo e la visione dell'ultimo American Horror Story è quanto mai in forse, per questa squadra di scrittori, al contrario, sono già seduto in poltrona.


The Witcher
Fine 2019
In assenza di Game of Thrones e in attesa del Signore degli anelli, gli amanti del binge e del genere fantasy possono consolarsi con The Witcher. Famosa saga letteraria del polacco Andrzej Sapkowski, forse più nota per i videogiochi che per i romanzi, seguirà un biondo Henry Cavill – contestato da qualche nerd, ha fatto ricredere tutti o quasi in queste prime immagini – mentre, da bravo mercenario, caccia indistintamente demoni, orchi, elfi. Non esattamente il mio genere, ma auguro agli appassionati buona visione. 


His Dark Materials
Fine 2019
Dopo il flop del film Chris Weitz, arrivato in sala dodici anni fa con un cast di tutto rispetto, la trilogia fantasy di Philip Pullman – autore celebrato tanto quanto la Rowling, nonostante la scarsa popolarità qui in Italia – cede al piccolo schermo. Piccolo, be', si fa per dire. Produce la HBO, sempre in cerca di nuove punte di diamante; recitano James McAvoy, Ruth Wilson e la piccola Dafne Keen, già apprezzata in Logan; dirige il premio Oscar Tom Hooper, atteso al varco anche per Cats. La “bussola d'oro”, questa volta, punterà nella direzione che porta al successo?


Artemis Fowl
2020
Ispirato alla serie per ragazzi di Eoin Colfer, di cui avevo letto il primo volume una quindicina di anni fa senza nessun entusiasmo, fuori tempo massimo arriva in sala anche Artemis Fowl. Altro progetto spesso tramontato sul nascere. Altro film dalla lavorazione lunga e accidentata. Come se non bastasse, previsto per novembre, adesso è slittato direttamente all'anno prossimo per ragioni imperscrutabili. Domandiamolo alla Disney, sempre più carente di buone idee, e al regista Kenneth Branagh, qui alle prese con gli effetti speciali a profusione già mal gestiti in Thor: serviva?


Watchmen
Ottobre 2019
Non serve essere un accanito lettore di fumetti per averlo sentito nominare. Watchmen, la serie di Alan Moore, è un'istituzione. Inserita dal Time fra le cento migliori letture pubblicate dal 1923 al 2010, già protagonista di una trasposizione diretta da Zack Snyder, a ottobre sarà anche una serie HBO. Nel cast, i premi Oscar Jeremy Irons e Regina King. In una realtà alternativa in cui la Guerra Fredda è ancora in atto, dei vigilanti mascherati sono l'arma segreta degli Stati Uniti. Nell'attesa, vi consiglio vivamente la visione di The Boys su Amazon Prime Video. 


Cercando Alaska
18 ottobre
Avevo ormai perso le speranze. Ci avevo rinunciato. Eppure, ad anni di distanza dalla lettura del romanzo – tutt'oggi il mio preferito di John Green – e dopo l'annuncio di un film diretto da Sarah Polley sfortunatamente mai andato in porto, l'ossessione di Cercando Alaska ritorna. Sarà una miniserie Hulu in otto puntate ambientata agli inizi del nuovo millennio. Lui ama lei, ma lei ha un cuore impenetrabile che la porterà a commettere scelte scellerate. Ripasserò i dolori della lettura grazie al piccolo schermo. Della serie so poco altro, ma non importa: sono già felice così.

venerdì 27 luglio 2018

Mr. Ciak: Oltre la notte, Unsane, Amiche di sangue, Euphoria, Quello che non so di lei

Fanno tenerezza i ribelli che si accasano in nome della famiglia. Fanno tenerezza Katja e suo marito: lei tatuatatissima, sotto i vestiti di tutti i giorni; lui ex spacciatore turco, ex galeotto, che ha scelto infine il posto fisso e un figlio da crescere. Il loro sogno di normalità, purtroppo, è pronto a a scoppiare all'improvviso al tempo degli attentati dappertutto. Una bomba imbottita di chiodi ha ammazzato padre e figlio. Restano una mamma che piange, strepita e non sa andare avanti; un'elaborazione che passa dallo stordimento degli oppiacei alle lamette sui polsi. Oltre la notte, vincitore del Golden Globe per il Miglior Film Straniero e misteriosamente mai arrivato alla prestigiosa cinquina da Oscar, è una tragedia in tre atti: ci sono prima il lutto e le indagini, in una Amburgo piovosa e piena di pericoli (fondamentalisti, neonazisti, usurai, pusher); poi il processo contro la diabolica coppia omicida, che amaramente mette al vaglio il ricordo delle vittime innocenti e non i colpevoli; alla fine un viaggio in Grecia, al mare, in cerca di giustizia quando la giustizia fallisce. Ho pianto lacrime di rabbia insieme a un'incredibile Diane Kruger, confusa e pazza di dolore. E mi sono lasciato scuotere e spossare da un thriller devastante, che si muove fra le notizie allarmanti della cronaca nera e pensieri di vendetta, avendo dalla sua l'intelligenza e lo sguardo del cinema d'autore. La Kruger, così, non diventa mai un'eroina bad-ass in lotta contro il sistema corrotto. L'occhio per occhio, dente per dente resta uno sbocco da film hollywoodiano. Il revenge movie secondo Fatih Akin procede invece inesorabile. Oltre la notte non ci sono schiarite o assoluzioni, non c'è mai pace. Neanche quando il sole a picco del Mar Ionio sembra brillare perfino sulle nostre sciagure. (7,5)

Un film girato con l'iPhone. Dopo Sean Baker, chi era l'ondivago Steven Soderbergh (che senza un preciso disegno passa dagli spogliarellisti ai trafficanti, dai casinò all stars ai biopic di successo) per non provarci a sua volta? Per non mettersi in gioco, e per di più con la complessità del thriller? Nasce così Unsane. Una giovane donna perseguitata, sette giorni di ricovero forzato in un istituto psichiatrico, la scoperta che il suo infallibile stalker si sia infiltrato fra i membri del personale. La vittima e il carnefice si confonderanno nel finale, passando dalla parte del torto. Dalla parte del folle. Chi va con il pazzo, parafrasando il famoso proverbio, impazzisce? Stalking e malasanità: la carne al fuoco è in realtà così poca da non saziare. Ma Soderbergh è una volpe, e sa affascinare e distrarre con un incubo sotto psicofarmaci dai ritmi ossessivi. Bastano uno smartphone. Un'attrice sulla buona strada per diventare grandissima. Un'idea che avrebbe senz'altro avuto bisogno di maggiore appeal. Il mezzo, Claire Foy e la fama del regista, dunque, ora motivano, ora sovrastano un film altrimenti fragile, canonico e frammentario, che sorprende soltanto per l'eleganza e la fermezza della direzione. Unsane, alias lo spot per iPhone più lungo mai realizzato, angoscia e mantiene sempre il controllo, mentre la Foy al contrario sbarella da manuale. Peccato per la banalità della sceneggiatura: scritta con il T9, per amore di coerenza. (6)

Ha uno scioglilingua per titolo. La distribuzione italiana, per una volta non troppo a torto, ha ribattezzato così Thoroughbreds semplicemente Amiche di sangue. La trama, con quel titolo nostrano che no, non fa misteri di sorta, è presto detta: una casa da rivista, una vicinanza all'inizio poco gradita, un piano criminale un po' per vendetta e un po' per capriccio. Al centro di lunghi piani sequenza che ne accentuano bellezza e bravura, Anya Taylor-Joy e Olivia Cooke sono due diciassettenni al limite. Algide come le vergini del cinema di Sofia Coppola, irrequiete e imprevedibili quanto la strana coppia del recente The End of the Fucking World, scoprono un hobby comune: l'omicidio. Per fortuna, da che costrette a frequentarsi per qualche ripetizione pagata profumatamente, si ritrovano complici contro l'antipatia gratuita del padrigno della Taylor-Joy. Ne abusa, chiederete voi? In una commedia nera che fa il verso a Schegge di follia ma nel mentre sfoggia a sorpresa la raffinatezza di Stoner, gli alibi mancano e lo spunto di partenza è un pretesto come un altro per godersi dialoghi a sangue freddo, l'ultima interpretazione del sicario Anton Yelchin e la prima volta alla regia di Cory Finley, che sa fare la differenza a colpi di innata eleganza. Si desidera la morte di un parente acquisito perché fa un rumore infernale allenandosi in una stanza adibita a palestra. Si confida nella fermezza di una Cooke in cerca di un senso, di un'opera buona, a cui svelarsi a tratti nella verità del pianto o nel bisogno di una compagna sincera. Ma in un ibrido al vetriolo, curato nel dettaglio, le imperfezioni sono mal tollerate. E concedersi un'amicizia elettiva ti rende vulnerabile, ti rende debole: meglio invece restare pazzi, solitari, come dettano rigorosamente la moda e il black humor. (7)

Cosa hanno in comune Alicia Vikander ed Eva Green? Sono entrambe bellissime, bravissime e, europee, hanno conquistato Hollywood a colpi di interpretazioni – moglie da Oscar la prima, femme fatale dal fascino alieno l'altra. Riposto il glamour, sono sorelle ai ferri corti nel primo dramma internazionale di Lisa Langseth. La scusa per riunirsi: un viaggio dalla meta misteriosa. Hanno sei giorni appena per ritrovarsi, magari per ripensarci, in una clinica presso cui trovare ora l'ispirazione, ora la solitudine. Il degente Charles Dance e la direttrice Charlotte Rampling assistono insieme allo spettatore alle liti, alle confessioni, alla ricerca del tempo perso. Sui piatti della bilancia, le responsabilità dei primogeniti e l'egoismo dei figli minori; la verità su una mamma morta suicida. Al centro, e non è uno spoiler, il tema del suicidio assistito: perché in questa ricchezza illusoria, fra orchestre, feste e presunzioni di felicità, ogni giorno suona una campana e le persone sofferenti sono invitate a prendere un pezzo di dolce e un cocktail mortale. La Green, con i suoi famosi seni devastati dalla mastectomia, vuole dire basta e commuove con un intensità che forse soltanto Penny Dreadful aveva rivelato. La Vikander, che ancora una volta conferma la sua sensibilità artistica, pretende di avere voce in capitolo: non vuole abbandonarla, non di nuovo. Il soggiorno farà bene e male a entrambe queste amiche-nemiche, meno allo spettatore: il melodramma esistenzialista, calato nel verde e con un cast tutto al femminile, verrà infatti pure dalla Norvegia, ma ha il rigore della Gran Bretagna. Seduta terapeutica che non manca dunque di dolcezza, che non manca di pena, in cui l'euforia del titolo rima con eutonasia, e la grande discrezione del tutto impedisce che in un certo far cinema si intrufoli controversia alcuna. (6,5)

Lo hanno prima pubblicizzato con malizia a Cannes e poi gli hanno cambiato titolo, fancendo sì Da una storia vera diventasse inspiegabilmente Quello che non so di lei. Al centro, poi, sono arrivate le vecchie accuse per un Polanski forse recidivo, ma qui impegnato a riadattare senza convinzione il brillante thriller di Delphine De Vigan. Una lettura talmente particolare, avevo notato, da non sembrare adatta a farsi film. Posso dirlo? Come volevasi dimostrare. Trasposto, infatti, perde l'originalità, la bellezza conturbante degli incastri metaletterari, i cognomi autentici. Quel gusto perverso ma affascinante nel mescolare forme, registri, storie dentro storie. Resta l'impalcatura, di per sé banalissima. Una scrittrice di best-seller in crisi creativa, il rapporto insano con la sua fan numero uno, una convivenza forzata che vorrebbe ispirare la stesura di capolavori ma regala alla svogliata Seigner soltanto una nuova inquietudine: la musa spettrale di una Eva Green che merita sempre il prezzo del biglietto. Il risultato, a malincuore, è pari a un mystery di Rai Due. Né brutto né bello, compassato, con un regista assente e attrici che possono tanto, ma non i miracoli. Certo, non tutto è carta straccia, ma proprio non gli si perdona il già visto, se la De Vigan al contrario mi aveva fatto sperimentare il mai letto. La delusione è tripla: Polanski non decolla, l'efficacia dell'adattamento fallisce e la sceneggiatura di Assayas, regista di quel mezzo capolavoro che è stato Sils Maria, lascia la sua proverbiale ambiguità per l'immediatezza dei finali copia-incolla. Il collega Ozon, sia in Swimming Pool che in Nella casa, aveva comunque detto già tutto, e per di più molto meglio. Perché non voltare pagina? (5)

lunedì 16 ottobre 2017

Recensione: Da una storia vera, di Delphine De Vigan

| Da una storia vera, di Delphine De Vigan. Mondadori, € 19, pp. 302 |

Lei incontra lei. La prima: madre di due figli grandi, goffa, in crisi. L'altra, agli antipodi: ghostwriter bella e fatale come Eva Green. La loro misteriosa affinità elettiva – all'inizio soltanto un'amicizia inattesa, poi qualcos'altro, qualcosa di più – sfocia in un mare di sopraffazione e violenza. Fin qui, presto detto. Un thriller anni Novanta, alla Inserzione pericolosa, in cui l'ossesione per l'amante spinge a saccheggiarne i modi, i vestiti e, infine, a violarne l'identità. Magari all'omicidio, sventato da copione un attimo prima dei titoli di coda. Invece, magistrale e ipnotico com'è, francese fino alle ossa, il primo romanzo che leggo della bravissima Delphine De Vigan è più dalle parti di Persona e ai bordi delle piscine del cinema di Ozon, sebbene citi Stephen King e I soliti sospetti. Ne ha tratto un film di prossima uscita Roman Polanski. Il presto detto, la prevedibilità, le mettono allora a tacere un garbuglio metaletterario che vive di citazioni, lusinghe e fumo. 
Perché lei – quella che scrive e che si racconta, l'autrice, ma anche il personaggio principale – è la De Vigan in persona. Divorziata, compagna di un documentarista spesso all'esterno, ora acclamata e ora minacciata dopo un romanzo in cui ha lavato i panni sporchi (i disturbi alimentari in gioventù, il suicidio della madre) al di fuori della ristretta cerchia familiare. Affetta dal famigerato blocco creativo, in bilico tra il successo precedente e il terrore di fallire, non toccherà penna per tre anni.
E perché l'altra, protetta dall'anonimato di un'abbreviazione, è la sua dolce e crudele metà: forse un alter ego fittizio, forse di vera carne, in pagine incalzanti in cui autobiografia ed enigma si alleano a tavolino.

La scrittura è un'arma, Delphine, una dannata arma di distruzione di massa. La scrittura è molto più potente di quanto tu possa immaginare. La scrittura è un'arma di difesa, da tiro, una scacciacani, la scrittura è una granata, un missile, un lanciafiamme, un'arma da guerra. Può devastare tutto ma può anche ricostruire tutto.

L'instabile e vulnerabile Delphine cerca il conforto della narrativa dopo un'opera che l'ha messa a nudo, in pericolo. L., vendicatrice dei torti e inquietante demiurgo, la induce a riflettere sulle leggi imperscrutabili dell'ispirazione e del desiderio carnale; accende le lampadine della creatività e folgora ogni rivale. Chi manipola chi? Quali sono i confini di un thriller psicologico ai limiti della fiction? Quanto c'è di vero nella bugia lunga un libro della De Vigan? Da una storia vera si oppone a una narrazione lineare e coerente. Fa carta straccia del sacro patto fra chi scrive e chi legge. Romanzo allo specchio ingannevole e traditore, la cui penna si scarica un po' a metà per poi ritrovare linfa e inchiostro nell'irresistibile vezzo del finale, mi ha divertito da morire laddove potrebbe frustrare altri. In un rapporto ambiguo e simmetrico, che pretende in cambio di qualche confidenza troppo intima una libbra di cuore e la stesura di un secondo memoir capolavoro, emergono infatti in filigrana i temi realmente predonimanti. L'intreccio non è che una pura cornice ornamentale, perciò, per parlare dell'arte maieutica del processo creativo e del nostro essere voyeur. Attratti dalla cronaca nera, dalle promesse di verità. Desiderosi di sbirciare nei cassetti e nelle menti altrui.

La verità è l'unica cosa che conta.

L'autrice – quella che non sa più scrivere, quella fragilissima, quella che si vede piccola brutta e inadeguata – ci dice che le chiavi di scorta sono al solito posto, sotto lo zerbino. Prego, servitevi pure. Mi racconto, m'invento. E così lo facciamo. Origliamo. Ficcanasiamo. Spiamo, eccitati, le labbra di due donne cha parlano fitto fitto, a distanza di bacio. Apriamo gli armadi che ospitano gli scheletri più privati. Potremmo stimarla, compatirla o perfino deriderla, Delphine. Ci appassioniamo, sentendoci presenze onniscienti e invisibili. Ma è tutto un falso d'autore. Lei resta la padrona di casa. Tiene il coltello dalla parte del manico nonostante tutto. E non si svela. E ci guida con discrezione all'interno, in silenzio, passo dopo passo. I fiori di plastica, i mobili nuovi di zecca, una scenografia di cartapesta. Da qualche parte, in salotto, c'è una libreria. I libri, l'unica cosa a non apparire intonsa. Una donna elegante, di spalle, legge le coste. Un fantasma di professione. Unisce i titoli come fossero parte di una frase lunghissima. In un sopraffino taglia e cuci, ci raccontano una storia: questa. Siamo ospiti in un set cinematografico che presto sarà sgombrato, giusto il tempo di un'ultima illusione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Yael Naim – Toxic

venerdì 30 dicembre 2016

[2016] Top 10: Le serie TV



10. Rocco Schiavone: Per il vicequestore romano, i gialli da risolvere sono una rottura di coglioni del decimo grado. Ma, su una scala da uno a dieci, dov'è che si colloca il piacere della sua compagnia?
9. La mafia uccide solo d'estate: La fiaba che, in pillole, fa bene parlando del male.
8. Shameless VII: Anno bisesto, anno funesto; intanto, ci ha regalato ben due appuntamenti coi Gallagher. E alle loro rumorose catastrofi corrispondono puntualmente le nostre gioie.
7. Westworld: Ronza una mosca; i protagonisti la scacciano via con un gesto della mano. Un fastidio che anticipa il risveglio dei sensi. L'insetto continuerà a ronzare, insieme al pensiero di essere – e non a torto - in presenza di una fra le serie dell'anno.
6. Daredevil II: Occhio per occhio, e il mondo divenne cieco. 
5. The Young Pope: Non ha convertito appieno uno scettico come me, ma è comunque gaudio e tripudio per il controverso Pio XIII: bello come Jude Law e, pare, più di Gesù.
4. Black Mirror III: Lo specchio, agli inizi, è più nero che mai. Nella terza stagione lo lucidano regie patinate, volti noti, toni che accettano il compromesso. Ma il riflesso, in un caso come nell'altro, spaventa.
3. This is us: Semplice è bello. Bellissimo.
2. Stranger Things: I favolosi anni '80. Non c'ero, ma è come se ci fossi stato. 
1. The OA: Visione frustrante e degna di meraviglia. Imperfetta, e perciò rara. Ti prende e ti porta dove e quando vuole lei. A confine.

Migliore attrice protagonista:
Penny Dreadful III – Eva Green
American Crime Story – Sarah Paulson
The OA – Brit Marling
Migliore attore protagonista:
The Young Pope - Jude Law
Rocco Schiavone - Marco Giallini
Mozart in the Jungle III - Gael Garcia Bernal
Migliore attrice non protagonista:
Westworld - Thandie Newton
Penny Dreadful III – Billie Piper
This is us – Mandy Moore
Migliore attore non protagonista:
This is us – Ron Chepas Jones
The Young Pope – Silvio Orlando
Westworld - Anthony Hopkins, Ed Harris


Muchacha sexy:
The Exorcist – Hannah Kasulka
Mozart in the Jungle III – Monica Bellucci
The Get Down – Herizen Guardiola
Bello e impossibile:
Preacher – Dominic Cooper
Rocco Schiavone – Marco Giallini
This is us – Milo Ventimiglia, Justin Hartley
Nice to meet you:
Stranger Things - Mille Bobby Brown
Fleabag – Phoebe Waller Bridge
American Crime Story, This is us – Sterling K. Brown
La coppia più bella del mondo:
Black Mirror - Mbatha-Raw, Davis
Shameless – Monaghan, Fischer
Rocco Schiavone – Giallini, Ragonese


Sing!:
The Get Down – Set me free
Jane The Virgin III – Locked Out of Heaven
No Tomorrow – Don't Stop Believing
Psycho Killer!:
AHS: Roanoke – Kathy Bates
Westworld – Ed Harris
The OA – Jason Isaacs
Let's talk about sex:
Sense8: Speciale Natale – L'ammucchiata telepatica
Westworld – Thandie Newton, Rodrigo Santoro
The Oa – Paz Vega, Emory Cohen
Cry me a river:
This is us – The Trip
Penny Dreadful – A blade of grass
22.11.63 – The day in question
The A-Team:
This is us
Shameless
Stranger Things

giovedì 8 dicembre 2016

Mr. Ciak: Captain Fantastic, Miss Peregrine, Sully, Elle

Un cervo bruca nel fitto degli alberi, preda di un giovane cacciatore che gli si avventa addosso armato di coltello. A detta del padre di lui, tutto orgoglioso, è così che si diventa uomini. La famiglia del ragazzo ci appare infangata, primitiva, sanguinaria: fuori dal mondo, fuori dal tempo, in realtà vive nei boschi di una America contemporanea. La città è a un tiro di schioppo, ma loro – sette in tutto - preferiscono procacciarsi il cibo a mani nude; dormire sotto le stelle; prendere esempio da un capo tribù che è un genitore provetto. Ben, patriarca che ha preferito la vita selvaggia ai vincoli del consumismo, si prende cura dei figli – adolescenti in fiore i cui nomi, unici al mondo, sono prova di un ennesimo atto d'egoismo e d'amore – senza la sua compagna: bipolare, di educazione borghese, la donna era il peggior nemico di se stessa. L'ha fatta finita in un ospedale psichiatrico, e Ben non ne ha fatto un mistero. Si sono messi in marcia per le sue esequie. Vestiti a festa, sono pronti a celebrarne il ricordo abbandonando la campagna a bordo di un camper. Il fuori avrà per loro, bizzarri e non al passo, parole gentili? C'è un lirismo francescano o semplice pazzia nella schiettezza di un vedovo per cui tutto – il sesso, la violenza, la fatica – è natura? Captain Fantastic e i suoi ragazzi sono felici così. Certo, non sono i libri letti all'ombra dei falò a rendere tale un'educazione. Certo, ogni tanto avvertono la mancanza di una casa e di una figura femminile, ma sempre famiglia è. Hanno loro stessi, il bosco, e tanto basta. Ritratto di una gioiosa pace dei sensi, la commedia indie di Matt Ross promette e dà le lacrime e le risate che spettano al Sundance e alle famiglie “infelici a modo loro”. Gli si invidiano la prontezza di spirito, le facce pulite, la gioia di vivere; alle commemorazioni si intonano i Guns N' Roses e si rispettano le donne così tanto da chiedere loro la mano al primo appuntamento. Di uno straordinario e arzillo Viggo Mortensen addito dalla poltrona gli errori – risoluto, si è mai posto domande a proposito dei desideri altrui? - e dalla poltrona guardo mio padre, che è solo e coraggioso uguale, e dico che ci sono scelte dettate dal sangue. Si fuggiva dalla cella di Room per scoprirsi più prigionieri all'esterno. In Captain Fantastic, invece, si fa breve ritorno al conformismo, agli orizzonti industriali, e mancano il completo da funerale e il pudore. Ma il dolore non porta cravate strette e l'affetto non costruisce campane di vetro. Questi Gallagher naturisti si mettono in discussione, scoprono la bellezza delle mezze misure, non si trasformano in ciò che odiavano – pallidi conservatori, musica triste. Dicono addio e cambiano aria. Coi toni di Little Miss Sunshine, illuminanti e presissimi, comprendono che all'addiaccio o sotto un tetto, ovunque si trovino, è la famiglia che fa casa. (8)

Nutrivo scarse aspettative per la trasposizione cinematografica di Miss Peregrine – il da me desideratissimo Riggs, infatti, non mi aveva colpito  – ed esagerate, al contrario, per il ritorno di un Burton a corto di ispirazione ormai da un po'. Tra fotografie inquietanti, toni cupissimi e Hogwarts impenetrabili, il romanzo era pronto. Nei risvolti di copertina, in tempi non sospetti, si sprecavano già i paragoni con il creatore di Edward mani di forbice. Non poteva dirigerlo nessuno se non lui. In libreria si era rivelato un titolo dal fascino straordinario ma con poca sostanza. L'occhio, però, aveva avuto la sua parte. Miss Peregrine si avvaleva di un lato visivo splendido di per sé: Burton ci avrebbe aggiunto i dettagli creepy, i merletti, l'accento regale di Eva Green. Perché il dinoccolato Asa Butterfield avverte i pericoli che minacciano un'isola del Galles sospesa nel tempo? Le doti dei giovani allievi, guidati da una Mary Poppins in nero, basteranno a respingere gli attacchi delle creature di un pessimo L. Jackson? Dal romanzo, la nuda impalcatura. Burton, di suo, mette gli arredamenti e il carattere che mancava tra le pagine, ma la storia – a tratti confusa – mantiene le sue fragili fondamenta. Il regista la ritocca, ad esempio nel finale parzialmente risolutivo, e la migliora. La spettacolarità di talune trovate – la nave sommersa, il treno degli orrori, gli occhi cavati – incanta lì per lì; ma benché simbolo degli emarginati, dei fuori posto tanto cari al Burton prima maniera, ai “bambini speciali” continua a mancare qualcosa. Miss Peregrine non è il grande ritorno sperato, né una cocente delusione: una diplomatica via di mezzo, piuttosto; un intrattenimento gradevolissimo che non lascia il segno. Stesso limite di un romanzo introduttivo che, a distanza di pochi mesi, già non ricordo più nel dettaglio. Come tra le pagine, anche qui si ha l'impressione che la vicenda decolli tardi e poco. Che quello di Jacob e dei suoi amici strampalati sia un volo che non porti molto lontano. La magia, presente all'appello, non ti segue oltre l'orario di lezione. (6,5)

Nel gennaio di sette anni fa, un aereo tentava un ammaraggio sul fiume Hudson. Nessuna vittima a bordo, un solo uomo da celebrare: Chesley Sullenberg, pilota a un passo dal pensionamento, esempio di freddezza e straordinaria prontezza di riflessi. Accanto agli scontati plausi, anche controversie impreviste: stando a molti, l'arzillo comandante avrebbe avuto una valida alternativa. Tutti i requisiti per far ritorno all'aeroporto di LaGuardia senza drammi. Sully, dettagliata ricostruzione dello spettacolare atterraggio e delle imprevedibili conseguenze che ebbe, è un ritratto parziale di un eroe dei giorni nostri. Un uomo schivo, onesto, pieno di dignità, finito nell'occhio del ciclone: salvarsi – salvare le centinaia di anime a bordo – non è stato infatti che l'inizio della sua personale crociata. Indagano, sperando che ammetta dipendenze e scheletri nell'armadio come Denzel Washington in Flight. Fanno domande e studi, convinti che a farlo agire così non siano stati solo l'istinto di conservazione e la paura. Un Tom Hanks dal baffo candido interpreta il ruolo con la naturalezza e gli occhi gentili che conosciamo. Dirige Eastwood, cantore di storie vere e patriota ostinato: meno indigesto che nel bellicoso American Sniper, confeziona con Sully un dramma che comunque risulta troppo freddo, troppo cronachistico. Resoconto castigato e di parte – non ci sono mai dubbi sull'operato di Sullenberg –, resta asciuttissimo nonostante l'Hudson in piena e la minaccia vaga della commozione. Ho stimato profondamente l'uomo, ho odiato il tentativo di cercare il cavillo tecnico dietro il miracolo, ma tutto – aereo, emozioni – resta in superficie. Come nel caso del reduce di guerra che sentiva gli spari, nel sicuro della propria casa. Come nel caso di questo pilota di cui mi avrebbe suggerito altrettano, forse, un qualsiasi servizio giornalistico. La critica e le sale americane applaudono. Io ci ho visto una ricostruzione attenta e una storia che ispira. Basteranno sì: ma, ancora una volta, non impressionano. (6)

Michèle, produttrice di videogiochi, ha sessant'anni meravigliosamente portati, un figlio che le ha rivelato che presto diventerà nonna e una ristretta cerchia di conoscenti. Nella scena d'apertura, un uomo in passamontagna s'intrufola nella sua villetta che dà su un perfetto quartiere borghese: la violenta brutalmente sul pavimento. Lei si alza e, senza colpo ferire, continua la sua giornata come se nulla fosse: a cena, confesserà distrattamene lo stupro subito. Elle, a metà tra la commedia nera e il noir, stranisce dall'inizio alla fine. Non si evolve diventano una classica storia di vendetta. Non indaga la psicologia ferita di una donna che si rifiuta di denunciare l'aggressione alla polizia, di dirlo a voce alta. Diretto da un arzillo e inaspettato Paul Verhoeven – settantottenne olandese dalla carriera ondivaga che, tra un Basic Instict e un Atto di forza, dieci anni fa, aveva inserito il riuscitissimo Black Book –, la pellicola ironizza su traumi, nevrosi e ipocrisie. Tutt'altro che seria e rigorosa, ha un umorismo sottile e un eros oscuro. Cosa passa in testa a una distaccata e sensuale Isabelle Huppert, interprete coraggiosa e abituata ai ruoli scabrosi? Leggera, ambigua, elegantissima, dà un'anima malata e un corpo statuario a una protagonista sfuggente e maliziosa: il padre in carcere, per scontare delitti indicibili; la madre, fragile e un po' patetica, avvinghiata a un gigolò; il figlio, cieco davanti al palese tradimento della compagna; gli amanti occasionali, la migliore amica ingannata, il vicino di casa spiato e bramato. Manca un equilibrio, a tratti. E manca un punto, una riflessione, a queste due ore che ti irretiscono mantendo sveglia la curiosità. Non si capiscono le reazioni di causa-effetto né i moventi. Lo si sbirgia a occhi socchiusi, tra riso e pietà: un male esserne divertiti, in fondo? Elle è ambiguo, irrisolto, ma affascinante: accontenta tutti coloro che per natura sono un po' voyeur, intrigati dalle devianze altrui, e quelli che apprezzano un cinema francese che non taglia fuori le attrici più agée e mostra il sesso più strano, le tentatazioni più indicibili, senza inciampare nell'orlo della volgarità. (7)

sabato 16 luglio 2016

Recensioni a basso costo: La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, di Ransom Riggs

Mi ero appena rassegnato a un'esistenza noiosa quando iniziarono a succedere cose straordinarie. La prima fu traumatica. E come tutto ciò che ti cambia per sempre, spaccò la mia vita in due metà: il Prima e il Dopo

Titolo: La casa per bambini speciali di Miss Peregrine
Autore: Ransom Riggs
Editore: Rizzoli – Bur
Numero di pagine: 382
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Quali mostri popolano gli incubi del nonno di Jacob, unico sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia di ebrei polacchi? Sono la trasfigurazione della ferocia nazista? Oppure sono qualcosa d'altro, e di tuttora presente, in grado di colpire ancora? Quando la tragedia si abbatte sulla sua famiglia, Jacob decide di attraversare l'oceano per scoprire il segreto racchiuso tra le mura della casa in cui, decenni prima, avevano trovato rifugio il nonno Abraham e altri piccoli orfani scampati all'orrore della Seconda guerra mondiale. Soltanto in quelle stanze abbandonate e in rovina, rovistando nei bauli pieni di polvere e dei detriti di vite lontane, Jacob potrà stabilire se i ricordi del nonno, traboccanti di avventure, di magia e di mistero, erano solo invenzioni buone a turbare i suoi sogni notturni. O se, invece, contenevano almeno un granello di verità, come sembra testimoniare la strana collezione di fotografie d'epoca che Abraham custodiva gelosamente. Possibile che i bambini e i ragazzi ritratti in quelle fotografie ingiallite, bizzarre e non di rado inquietanti, fossero davvero, come il nonno sosteneva, speciali, dotati di poteri straordinari, forse pericolosi? Possibile che quei bambini siano ancora vivi, e che - protetti, ma ancora per poco, dalla curiosità del mondo e dallo scorrere del tempo - si preparino a fronteggiare una minaccia oscura e molto più grande di loro?
                                             La recensione
Piantonamenti, inseguimenti senza dare nell’occhio, la spia dal buco della serratura e, infine, le piazzate sotto casa. Descrivervi come, dopo anni e anni di ordini cancellati e tentativi vani, abbia fatto a reperire una copia della prima edizione di La casa per bambini speciali di Miss Peregrine suonerebbe tanto come il diario di uno stalker seriale. Nel carrello non ci voleva stare, quell’edizione con copertina rigida presto finita nei Remainders, e quante illusioni, quanti scongiuri, quando Libraccio, puntualmente, mi cancellava acquisto e buoni propositi all’ultimo minuto. Verso marzo, poi, e ormai non ci credevo neanche più, ci sono riuscito: Libreria Universitaria, qualche giorno di attesa, ed eccolo lì, pagato sei euro anziché diciannove, solido, bellissimo e mio. Nel frattempo, in rete, iniziavano a circolare i primi trailer della trasposizione di Tim Burton e, dopo gli ultimi flop collezionati dallo stesso regista che, con Big Fish, ha diretto quello che è forse il mio film preferito,  le invenzioni curiose e la fantasia contagiosa di Ransom Riggs sembravano il portale ideale per ritornare alla magia perduta. Io sono io, però, e ci sono voluti quattro mesi affinché, all’indomani del tallonamento, Miss Peregrine passasse dalla libreria al comò; l’ispirazione, un po’ di tempo libero in più e cieli che conciliano – odiando l’estate, aspettavo i temporali di queste mattine. Primo volume di una trilogia fantasy che pare giungerà a conclusione entro l’anno, l’esordio di Ransom Riggs si è rivelato degno del mio spietato, assiduo corteggiamento? O è valsa a poco la smania di possesso che me l’ha fatto letteralmente ricercare per mari e per monti?  Da grandi aspettative derivano grandi responsabilità, sì, eppure io ne sapevo pochissimo dei suoi mondi incantati e dei terrificanti piccoli eroi ricordati dal titolo: l’ho aspettato – e come, se l’ho aspettato – ma a scatola chiusa. In ritardo avrei scoperto del rapporto stretto tra Jacob e suo nonno, un anziano polacco scampato al Nazismo, e delle favole a tinte fosche che raccontava a suo nipote prima di addormentarsi. Favole di cui quel nonno, miracolo in incognito, si diceva essere il vero protagonista. Un misterioso meccanismo della psiche per rielaborare gli orrori dell’Olocausto, o resoconti di una vita parallela? Metafora o verità? Il vecchio conserva una straordinaria lucidità, l’accento originario, lettere di un’amante lontana non immaginereste mai quanto e una chiave che apre un arsenale: non abbastanza per farsi prendere sul serio da un nipote magico come lui, e non abbastanza per proteggersi dai Vacui. Quando il nonno viene rinvenuto nei boschi, assassinato, Jacob si accorge che incubi e prodigi sono all’ordine del giorno per persone come loro due: speciali. Scortato dal padre, ornitologo in erba, il sedicenne viaggia nella tempesta, fino a una sperduta isoletta britannica: nella punta più estrema, sorge l’orfanotrofio in cui il nonno è stato allevato prima della guerra. 
O quel che ne resta. Un rudere distrutto dai bombardamenti, di cui rimangono sinistre fotografie color seppia e un passaggio segreto. Si accede alla Casa per bambini speciali di Miss Peregrine viaggiando nel tempo, esplorando un anello in cui si è prigionieri di uno stesso giorno destinato a ripetersi in loop e affidandosi anima e corpo alle cure della direttrice, Peregrine, che si trasforma in un falco pellegrino all’occorrenza e protegge i suoi straordinari orfani in una bolla di sapone. Jacob arriva lì per innamorarsi di Emma, dalle cui mani scaturiscono sfere di fuoco, e stringere amicizie con gli altri: bambine forzute, aspiranti dottor Frankenstein, fanciulle fluttuanti, ragazzi invisibili... Lui, che apparentemente non ha nulla che non vada, normalissimo, ha il potere di smascherare i mostri – vogliono rapire la tutrice e sterminarne i discepoli, mossi da un piano da ostacolare – e il compito gravoso di proteggere i suoi pari. La scelta è perdersi o restare. Ransom Riggs, valente narratore e rigattiere a tempo perso, confeziona una deliziosa favola moderna, che nei momenti buoni – soprattutto nella prima metà, dunque – sortisce sul lettore l’effetto di una nostalgica macchina del tempo. 
Fa piacere ritrovarsi bambini d’un tratto, all’epoca in cui si leggevano i primi King sotto le coperte, e il merito va a una una scrittura fresca e fascinosa e, soprattutto, a inserti fotografici che sono un prezioso elemento aggiuntivo. L’autore scopre fotomontaggi di un’epoca passata in un baule e, tutt’intorno, cuce una fiaba che da quei negativi prende i volti inquietanti e da lì, in seguito, s'inventa storie dentro storie. Il risultato è dei più suggestivi, nonostante la memorabilità non sia purtroppo di casa. E la colpa è di uno svolgimento potenzialmente ripetitivo, che non sono certo si sia lasciato dietro forti nodi da sciogliere, briciole di pane, o figure che facciano a gara per conquistarci: la stessa Miss Peregrine, ad esempio - che da attempata nonna Papera al cinema mi diventa la splendida Eva Green: altro che lifting -, fa da guida ai suoi pupilli senza rivelare troppo di sé. Il potenziale di La casa per bambini speciali di Miss Peregrine starà tutto qui, come ho iniziato a sospettare verso la conclusione? Burton, che sin dal trailer sembra avere imboccato una strada molto diversa, approfitterà del materiale di partenza per fare addirittura meglio, così com’era stato per il pare non imperdibile romanzo di Daniel Wallace? Nonostante mi tenga compagnia più di qualche dubbio, quello di Riggs è però il romanzo da sfoggiare in libreria. E io, che eppure mi sono convertito piano alle gioie della biblioteca comunale e, di tanto in tanto, leggo anche qualche ebook, mi sarei sentito a metà senza un volume in cui l’inventiva del narratore, l’impaginazione curatissima e le logore fotografie al suo interno giocano gomito a gomito per rievocare giardini segreti, pseudo ucronie e giovani avventurieri che, in viaggio nel tempo, arrossiscono per le moine della bambina speciale che, una vita prima o appena ieri, si scambiava baci e promesse con un nonno che ha scelto la normalità e un tempo che scorre come deve.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Birdy – Wild Horses 

venerdì 1 luglio 2016

I ♥ Telefilm: Penny Dreadful III | Wolf Creek

Io, che patisco il sole e vorrei l'inverno tutto l'anno, sottratto forse al sogno della cupissima Londra vittoriana, in Penny Dreadful avevo trovato infinite suggestioni, tanto fascino, troppa letteratura – mi ci ero ritrovato, non so come. Otto episodi lunghi, lenti, introduttivi e un prosieguo, invece, che mi era piaciuto, sì, ma senza entusiasmarmi: la serie in costume Showtime guadagnava ritmo, puntate e sottotrame. Non c'era il rischio che si perdesse e ci perdesse, soprattutto quando lontana dalla presenza irresistibile della dama in nero, Vanessa Ives? Con meno Eva Green di quanto sperassi, già nella seconda stagione Penny Dreadful restava lo stesso Penny Dreadful? Ci eravamo lasciati, la scorsa estate, con queste precise domande e personaggi in viaggio, avventurosi, sparsi per il mondo. Eccoci, in presenza degli stessi “ma”, di un po' di malinconia e del più grande difetto: i giochi, all'improvviso, finiscono qui. La cancellazione sorprende Vanessa e gli altri nel bel mezzo di storyline quanto mai frastagliate e, negli ultimi episodi, ci si affretta perciò a chiudere le imposte, a tirare su i ponti levatoi del castello, a non lasciare nulla in sospeso. Il deserto, però, non ha lo stesso appeal della piovosa Inghilterra; e Hartnett, al solito, non ha il carisma necessario. Victor Frankenstein, in accoppiata con un Jekyll che si stenta a riconoscere, ricerca cavie per perfezionarsi. E per cercare di guarire quella Lily che, nel frattempo, spadroneggia nei salotti di Dorian Gray. Reeve Carney, messo in un angolo, conserva immutata la sua bellezza efebica, la sua gioventù maledetta, ma la sua ospite insorge – da prostituta abusata a raffinata presidente di un clan di femministe assassine. La Creatura, invece, già poetica e piena di bontà, ricorda qui il suo nome di battesimo e i suoi familiari: lo accetteranno ancora?, si domanda.Vanessa, infine, cerca risposte: rievoca il soggiorno forzato in una clinica psichiatrica e  l'abbandono di Ethan; prende parte a sedute d'ipnosi con la psicologa impersonata da un'ottima Lupone; vive nuovi amori (un baldante curatore) e nuovi orrori (il demone che la perseguita in tutte le sue vite ha un nome, Dracula, e vuole renderla la sua infernale consorte). C'è chi la considera folle; chi le dà della strega. E chi, con un bacio, può liberare la sua natura sanguinaria e miracolosa, e compiacersene: imbrigliata nei corsetti, rimpicciolita dal giudizio altrui, indipendente a tutti i costi. Ci sono episodi dispersivi a metà e, nella chiusa, che è però definitiva, preoccupazione e sbrigatività. Per fortuna, non mancano i momenti da brivido, che fanno di Penny Dreadful un prodotto d'alta qualità e sconfinata classe – forse, visti i gusti del pubblico generalista, anche troppo? I monologhi strazianti – la maestosa e fragile Billie Piper, che si commuove ricordando la sua esistenza precedente; Reeve Carney che, circondato dalle sue tele, promette che aspetterà, aspetterà e aspetterà – e un capolavoro d'episodio: il quarto. Eva Green e Rory Kinnear, straordinari. Quando erano sono una povera ragazza matta e un inserviente senza cicatrici. Un colloquio cuore a cuore, un trionfo di poesia, in una camera con le pareti imbottite: tra amicizia, seduzione e confessione. Lì, in cinquanta minuti appena, una perfetta storia di senso compiuto, e due prove attoriali indescrivili. Mai come quest'anno, una stagione di squisitezze, bestialità e grandi personaggi femminili, capaci di toni magniloquenti, gesti enfatici, significative orazioni. Magnifiche le donne, tutte, in questa cornice sempre finemente intarsiata. I difetti: gli uomini, non alla loro altezza, e gli episodi che li vogliono protagonisti. Un andamento ondivago, poi, spezzettato, che prevede trame più numerose e ambienti più vasti – dalla ghost story si giunge, qui, al western – a discapito dell'organicità e di una Green che tutto può. Da metà in poi, però, si va in cerca di equilibrio. Anche se ci sono spinte, qualche forzatura di troppo, per riunirli. Sparsi come sono ai quattro venti, ma insieme – fortunatamente - per un gran finale che, nonostante tutto, soddisfa a modo suo. (7+)

Una famiglia in vacanza: quadretto felice, estivo, se non fosse per una figlia adolescente che, problematica e scontrosa, a volte rovina i piani e, spesso, coi suoi musi lunghi e le risposte sarcastiche, toglie loro la voglia di festeggiare. Se non fosse, soprattutto, per la destinazione scelta: i Thorogood, canadesi, percorrono l’Australia su ruote. Paese di dingo, deserti e ospiti scontrosi; terreno di caccia indiscusso, se ami l’horror un po’ di nicchia, di Mick Taylor. La camicia a quadri, il fucile imbracciato, il coltello negli anfibi. Hobby: la caccia spietata agli yankee. Segni particolari: aria sorniona e risata catarrosa, familiari per chi Wolf Creek lo aveva visto e apprezzato. Ispirato a una storia realmente accaduta, giunto in sala nell’inverno di dieci anni fa, aveva avuto un secondo capitolo – di gran lunga superiore al primo: caso raro – a sorpresa, con un ritardo notevole, ma che non si percepiva. A fare da leitmotiv, un contesto misterioso, omicidi sanguinosissimi e, talora, giochi alla Saw, pensati da un villain cult, che a me ricordava per piglio e presenza scenica il leggendario Robert Englund. Una miniserie in sei episodi, e poi con lo stesso accattivante John Jaratt a bordo: che bell’idea. Perché, con un killer così, con un attore così, c’era tanto da indagare, tanto da capire, tanto da vedere. Dispiace sin dall’inizio, però, trovarlo molto poco in scena. La serie ha come protagonista indiscussa la giovane Eve – diciannovenne scontrosa introdotta poco fa – che, sopravvissuta alla strage della sua famiglia per mano di Mick, si mette sulle sue tracce. Missione suicida, uno dice: ma la tensione si diluisce troppo, in sei episodi, e il cattivo appare assente, o comunque ammorbidito. In vista di un finale inglorioso, soprattutto, che ne sottovaluta il potenziale. Grossomodo, questo nuovo Wolf Creek risulta, e con grande dispiacere, il solito horror che passa e va. Che si scorda e, nel mentre, si deride un po’. La geografia non è il mio forte ma, a occhio e croce, l’Australia mi sembra immensa: su questo palcoscenico sconfinato e polveroso, per coincidenze inverosimili e svolte troppo accidentali, s’incrociano sempre le stesse figure e ci si imbatte, rigorosamente per caso, sempre in nuovi guai. Da una parte, la faida tra Eve e il cattivo è elementare e prevedibilissima; dall’altra,  negli episodi, c’è un inutile affollamento di motociclisti, galeotti, saggi sciamani e forzati dei ex machina. La trama è macchinosa, il brodo allungato e, per quanto sia valida la nostra scream queen – un incrocio tra Emilia Clarke e Shailene Woodley: una bellezza – non c’è gara con questo mostro messo, non si sa come, alle corde. In un angolo. Si lasciano apprezzare la fotografia impeccabile, la fattura cinematografica ma, per gli sceneggiatori, solo insulti. Ho perso il conto delle coincidenze, infatti, e alzato gli occhi al cielo per il tentativo pedestre, nel finale, di cercare di spiegare il passato del cacciatore. Non resta che la terra bruciata, insomma, dopo una conoscenza iniziata sotto i migliori (o, be', peggiori?) auspici. (5,5)

martedì 29 dicembre 2015

I ♥ Telefilm Awards - 2015

Giorni di propositi e listoni. Dopo i romanzi, oggi, si parla dei telefilm che ci hanno fatto compagnia sul piccolo schermo, in un anno in cui – se il cinema, almeno a mio dire, ha deluso – le produzioni televisive e l'avvento Netflix hanno regalato, al contrario, sorprese su sorprese. Continuano a mancarmi le serie più amate dai colleghi blogger – Leftovers, Mad Men, Fargo, Mr. Robot – e a piacermi, con una certa convinzione di fondo, cose da poco: si celebrano perciò, in una Top 10 scritta di getto, le cose belle e le cose che, meno belle, mi hanno aiutato però a vivere a cuor leggero. Tra i doverosi recuperi, esclusi dalla lista, quattro stagioni di Scandal e il capolavoro Breaking Bad, che ovviamente avrebbe stravinto in tutte le categorie; stracciato a mani basse la concorrenza. Ti piace forse vincere facile? Oltre a una sfilza di titoli, due parole per dirvi perché li ho scelti, categorie, sottocategorie. I migliori attori e, a seguire, rubando strofe alle canzoni più trash su piazza – per pigrizia, ammetto che non le ho purtroppo aggiornate – i belli e le belle, gli esordienti e i momenti impressi a fuoco. La lista dei film – con la stessa struttura e le stesse identiche voci, più qualche aggiunta – si farà attendere un altro po'. Tanta indecisione e, ancora, qualche recupero dell'ultimo minuto. E le vostre serie dell'anno, invece?


10. London Spy: Il melodramma conosce il noir, con il rischio di risultare tutto e niente. Mostra, però, monito per gli spettatori più omofobi del cosmo, che c'è qualcosa di indescribile quando lui incontra lei, nei boy meets girl di ogni dove, ma che quando un lui incontra un altro lui – nella storia della spia e dell'uomo che la amò, ad esempio – la magia è la stessa.
9. Unreal: Commedia nera di notevole fattura dalla divertentissima componente trash – un programma come un'agenzia matrimoniale – ma dotata di un meticolo studio di reazioni, meccanismi di causa effetto, colpi di scena. Guilty pleasure? Un piacere sì, ma in definitiva poco colpevole.
8. Le regole del delitto perfetto: Ho conosciuto così la famigerata Shonda Rhimes. Un intrattenimento che risulta utile per ammazzare il tempo e per scagionarti con classe estrema, se insieme al tempo hai ammazzato pure qualcun altro.
7. Ash vs Evil Dead: Bruce Campbell, sessantenne, torna a indossare una motosega come guanto e a combattere il male, nella spassosa reunion che i fan di generazioni nuove e vecchie aspettavano. Ha il busto ortopedico, la dentiera e due pivelli come aiutanti; non perde i colpi. Raimi produce – e qualche volta dirige – un rinfrescante bagno di sangue e un caldo ritorno a casa. Anzi, nella Casa.
6. The Affair II: I punti di vista raddoppiano ed è triplicato l'impegno di sceneggiatori e interpreti. I dialoghi realistici, gli inevitabili faccia a faccia e le litigate furibonde si fanno più intense, se a raccontarsi a cuore aperto sono anche i traditi.
5. Scream Queens: Spassoso, violento, verso il trash infinito e oltre. Idiota con cura, semiserio con ironia. La parodia di un genere che ha detto tutto e adesso sa finalmente prendersi per i fondelli.
4. Flesh & Bone: Il folgorante Whiplash sul mondo del balletto. Dove non esiste un cigno bianco, senza un cigno nero.
3. Hannibal III: Una produzione che ci lascia prima del tempo, ma forse con la stagione più bella che c'è. Amara consolazione? La classe del tutto, comunque, non è acqua. E' sangue.
2. Daredevil: Un film lungo tredici ore: alta qualità, dialoghi corposi, momenti spettacolari che non vivono di soli effetti speciali. Ha, inoltre, un'armatura resistente, l'agilità per schivare proiettili di sarcasmo, la possibilità di difendersi – e di convincere – soprattutto a suon di parole. Anche se i calci rotanti, okay, hanno sempre la loro importanza.
1. Sense8: Una storia in cui credi a colpo d'occhio, e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua diffidenza da misantropo. L'aspetto che immagino abbia l'armonia. 
L'ordine, sulla terra, è una forma geometrica tutta nuda e senza vergogna. 

Migliore attore protagonista:
1. Hannibal III: Mads Mikkelsen – Hugh Dancy
2. London Spy: Ben Whishaw
3. The Affair: Dominic West
Migliore attrice protagonista:
1. Penny Dreadful: Eva Green
2. Unreal: Shiri Appleby
3. Bates Motel: Taissa Farmiga
Migliore attore non protagonista:
1. Flesh & Bone: Ben Daniels
2. Daredevil: Vincent D'Onofrio
3. Shameless: Cameron Monaghan
Migliore attrice non protagonista:
1. The Affair: Maura Tierney
2. Penny Dreadful: Billie Piper
3. Scream Queens: Lea Michele – Jamie Lee Curtis



Sono una muchacha troppo sexy:
1. Flesh & Bone: Sara Hay
2. Quantico: Priyanka Chopra
3. Scream Queens: Emma Roberts
Bello impossibile:
1. Le regole del delitto perfetto: Jack Falahee
2. AHS – Hotel: Finn Wittrock
3. Unreal: Freddy Stroma
Siamo la coppia più bella del mondo:
1. London Spy: Ben Whishaw, Edward Holcroft
2. Catastrophe: Sharon Horgan, Rob Delaney
3. Billy & Billie: Adam Brody, Lisa Joyce 
Nice to meet you, where you been?:
1. Daredevi: Charlie Cox
2. Flesh & Bone: Sara Hay
3. Galavant: Joshua Sasse



Sing:
1. Sense8: What's Up
2. The Affair: The House of The Rising Sun
3. Please Like Me: Someone Like You
Psycho Killer:
1. Daredevil/Jessica Jones: Vincent D'Onofrio, David Tennant
2. The Royals: Elizabeth Hurley
3. AHS – Hotel: Lady Gaga
I Want Your Sex:
1. Sense8: Ammucchiata telepatica
2. AHS – Hotel: Lady Gaga e Matt Bomer, in un'orgia di sangue
3. The Affair: Ruth Wilson – Dominic West
Cry me a river:
1. Hannibal: Love Crime
2. Sense8: Mad World
3. Shameless: Ian, Mickey, il bipolarismo
I Love the way you l... die:
1. Scream Queens: Ariana Grande
2. Ash vs Evil Dead: dovrei scegliere una morte soltanto? 
3. Le regole del delitto perfetto: Tom Verica
Ops, I did it again:
1. Jane The Virgin - Stagione 2
2. Devious Maids - Stagione 3
3. The Royals - Stagione 2