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venerdì 7 novembre 2025

Recensione: La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo

 La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo. Feltrinelli, € 20, pp. 432 |

È un grande anno per il cinema horror. Per non essere da meno, anche Feltrinelli si è messa al passo con un romanzo citazionista e dalle atmosfere vintage, che farà la gioia e il terrore degli amici cinefili. Ambientato nel cuore degli anni Novanta, in un sobborgo residenziale ormai in decadenza, racconta di una banda di amici con l'hobby dei film di genere e delle bravate. A sedici anni, la morte è un pensiero incidentale. Al TG: qualche incidente stradale, suicidi in sordina, la piaga dell'Aids. Medhi, membro dell'unica famiglia straniera del quartiere, è vittima del bullo della scuola. Alex ha da poco sepolto la madre, divorata dal cancro. Tom, ossessionato dagli insetti, vorrebbe aizzare una scolopendra contro il patrigno. Max, fidanzato con la bella del liceo, è attratto dal gemello di lei. Lena, l'ultima arrivata, è in fuga da un passato violento.

A volte era sembrato a Lena che lei e i suoi amici sarebbero stati in un certo modo eterni e che l'universo esistesse solo per loro, semplicemente perché erano là a posarvi lo sguardo. Ma ormai era consapevole della loro fugacità, fragilità e impermanenza, aveva acquisito quella consapevolezza del tempo che passa, preleva quello che gli devi e non offre in cambio che un po' di oblio.

Tutti hanno le proprie ombre. Tutti sono attratti dalla casa nell'impasse des Ormes. È lì che si manifestano le fobie e i desideri più sfrenati, in un budello infernale a metà tra il sonno e le veglia. Il folgorante Jean-Baptiste Del Amo, colpevolmente scoperto qui e ora, è la luce in un mondo prigioniero della penombra, dove gli incubi si mescolano ai sogni erotici e i bassi istinti prendono il sopravvento. In un angosciante gioco di specchi e doppelganger, sarà impossibile distinguere una dimensione dall'altra e arginare le conseguenze. Derivativo sin dalle premesse, appesantito da una cinquantina di pagine di troppo e non sempre fedele alla sua dimensione corale, La notte devastata resta comunque una lettura sinceramente spaventosa in cui riecheggiano le grida di It, Nightmare, Amityville Horror.

L'innocenza può essere un inferno.

A elettrizzare, tuttavia, non sono soltanto gli insetti giganti, i parti mostruosi, gli sfondi lovecraftiani, ma la descrizione di un'adolescente sensoriale e irrequieta che tanto somiglia a quella dei romanzi del connazionale Nicolas Mathieu. Divisi tra frustrazione, fumo e noia, i protagonisti si scoprono prigionieri di un film horror con la colonna sonora dei Nirvana, in cui l'incanto infantile è ormai spacciato e la consapevolezza del tempo, della diversità e dell'oblio, conducono sulla soglia del più spaventoso dei mondi: quello degli adulti. Si sopravvive alla morte dell'innocenza?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are 

mercoledì 22 ottobre 2025

Recensione: Frankenstein, di Mary Shelley

| Frankenstein, di Mary Shelley. Feltrinelli, € 10, pp. 320 |

Un laboratorio cavernoso. Un corpo a pezzi, ricucito con rattoppi di fortuna. La scintilla di un lampo. Poi, un’esclamazione di trionfo: è vivo. Eppure, questa e altre scene — radicate, ormai, nell’immaginario collettivo — non esistono nel romanzo di Mary Shelley. Nessun cimitero viene profanato in nome della scienza. Gli omicidi avvengono fuori scena. L’epilogo, struggente, è una promessa di morte poco prima del sipario. Filtrato interamente dallo sguardo di Victor, il romanzo segue la sua biografia dall’infanzia fino alle estreme conseguenze dell’esperimento. Ubriaco di conoscenza, lo scienziato flirta con l’alchimia: non trova la pietra filosofale né l’elisir di vita eterna, ma riesce comunque a imbrigliare la morte — e a restituire respiro alla materia inerte.

L'invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos.

Tra lunghe peregrinazioni dalla Svizzera al Polo Nord e lettere alla promessa sposa Elizabeth, Victor tenta di placare il proprio ardore febbrile e di lasciarsi alle spalle il suo famigerato mostro. Ma non è un caso che, ancora oggi, nominando Frankenstein, si pensi prima alla Creatura — in realtà, senza nome — e solo poi al suo creatore. Pur concedendole meno spazio di quanto ci si aspetterebbe, Shelley fa della Creatura un grande attore non protagonista: un mostro incompreso e gentile, che si commuove spiando la quotidianità di una famiglia di contadini, e legge Goethe, Plutarco, Milton per imparare a distinguere il bene dal male. Tagliato fuori dal mondo, ma animato dalla stessa irrequietezza del suo artefice, seminerà una lunga scia di sangue pur di condannare l’altro alla medesima solitudine.

Se non riesco a ispirare amore, causerò paura.

Tra Svizzera, Francia e Irlanda, a lungo andare i viaggi si moltiplicano; gli elementi raccapriccianti degni di Bram Stoker, invece, scarseggiano. Mary Shelley — all'epoca, una geniale diciottenne logorata dall’amore tossico per il poeta Percy — firma un romanzo di formazione elegante e terribile sulla crudeltà del più sapiente tra gli uomini. E continua a dialogare, da due secoli, con la letteratura gotica, il cinema e le serie TV. La nostra immaginazione, infatti, ricama i dettagli sui quali l’autrice sorvola. Perché Frankenstein è vivo, sì. E anima un inseguimento tortuoso e implacabile, disseminando orme e indizi lungo la strada. Forse, vuole solo essere trovato. Perché avere un nemico che giuri di braccarci per sempre — fino in capo al mondo, fino alla fine dei tempi — significa non essere mai più soli.

Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine - Everybody Scream

lunedì 18 settembre 2023

Recensione: Il gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

 
 | Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, € 13, pp. 304 |

L'ho portato con me in Sicilia. Mancavo da vent'anni. Come il Gattopardo, sono sempre stato un nostalgico. Il Principe Fabrizio è una bestia mansueta. Incombe placidamente su uomini, donne e feudi. Su di lui, in salotti splendidi ma già polverosi, ci sono volte affrescate con pappagalli e bertucce, angeli e dei. Fuori dal suo palazzo, invece, si estendono giardini dai profumi stordenti: la dolcezza dei fiori di pesco, tuttavia, non nascondere il tanfo di putrefazione che sale intanto dal corpo di un soldato, morto proprio sotto le fronde di casa Salina. Ambientato tra l'arrivo dei garibaldini e il primissimo Novecento, il capolavoro di Tomasi di Lampedusa è una saga familiare sulla fine di un'era e l'inizio di un'altra; lo spaccato di un ceto, quello nobiliare, sprovvisto di qualsiasi sapere pratico e ottusamente chiuso al progresso; il gioco strategico di un grande pater familias, che riversa le sue ultime ambizioni nel nipote Tancredi pur di non conoscere l'oblio. Anche a costo di spezzare il cuore alla figlia Concetta.

Ma Lei sa meglio di me, principe, che anche le stelle fisse veramente fisse non sono.

Ogni capitolo ci apre per circa un giorno le porte della residenza di Donnafugata. È una scenetta dal gusto teatrale, in una commedia in costume e di costume. Amarissima, ma pur sempre una commedia. Qui, un narratore dalla sensibilità contemporanea fa gustosamente il verso alla fiorita prosa ottocentesca, ma delinea con mal celata ironia l'opulenta mollezza del palazzo. Perfino la bellissima Angelica, figlia di un parvenu da spennare, è sorpresa nell'atto di togliersi del cibo tra i denti con la forchetta. E il budino al rum prediletto dal padrone di casa? Diventa un fortino minacciato dalle forchette dei commensali, simbolo della disfatta in agguato. Tra tedio e intrighi matrimoniali, si spettegola delle prime femministe che protestano per il diritto al voto e della smania di collezionismo di taluni. Irresistibile e chirurgico, Tomasi di Lampedusa ci rende partecipi di una rivoluzione politica e familiare; di un risveglio dei sensi, a cui seguirà poi un timido risveglio delle coscienze.

Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.

La Sicilia, troppo avvezza agli invasori per temere grandi cambiamenti, sonnecchia nella furia del solleone. Gli anziani rosolano al sole, il basilico contrassegna la casa delle prostitute, le suore custodiscono le ricette dei mandorlati. Laggiù, a differenza che sulla terraferma, ci si racconta che niente cambierà. Circondato dal suo affezionato e polveroso ciarpame rococò, non si farà illusioni il Gattopardo: un protagonista indimenticabile, con il difetto di avere una mente troppo veloce in un paese che troppo lentamente, invece, imbocca la strada del progresso. In un momento chiave del romanzo, il principe ricercherà l'aria aperta e le epifanie che garantisce. Di ritorno dal valzer, reso leggendario dal film di Visconti, rinuncerà alla carrozza e tornerà a piedi. Lui incombe su tutti, ma su di lui incombe a sua volta il cielo. Il principe ha provato spesso a venire a capo dei misteri del firmamento. Ma l'ha colto in contropiede la verità delle stelle fisse, che a ben vedere davvero fisse non sono. La limitatezza di un nobiluomo che accetta finalmente l'illimitatezza celeste si intrecciano così alla bellezza allo squallore, allo sfarzo e alla miseria, in un ballo degli opposti che celebra gli ultimi sospiri di un mondo in fin di vita. E brevemente ma per sempre, su carta, ne arresta così l'estinzione.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Giuseppe Verdi - Va', pensiero 

mercoledì 3 maggio 2023

Recensione: Lapvona, di Ottessa Moshfegh

| Lapvona, di Ottessa Moshfegh. Feltrinelli, € 18, pp. 270 |

È il romanzo che non ti aspetteresti da qualcuno come lei. Un'autrice un po' radical chic; una da salotti raffinati e sbadigli nei caffè lunghi di Starbucks. Questa volta si sporca le mani e retrocede in un terrificante Medioevo, ma con sé porta pur sempre una curiosa ventata pop. In esergo c'è una canzone di un'ex stellina Disney, Demi Lovato, e subito dopo la descrizione meticolosa dei contorcimenti di un efferato bandito condannato al patibolo. Siamo in un villaggio di un Paese indefinito: la bellezza è una colpa incancellabile, la morte una compagna costante, il dolore un ponte verso Dio. In cima alla collina svettano i cancelli, guai a oltrepassarli, del feudatario. Da lì l'esilarante Villiam guarda il mondo dei villici come se fosse una messinscena: per sfuggire alla noia che lo attanaglia, il sovrano costringe la servitù a ridicole danze e organizza piccoli attentati con cui si sollazza alla stregua di spettacoli. 

Era una ragazza forte, ma aveva la morte dentro. La morte è così. Come un mendicante che ti segue lungo la strada. E ti ammazza.

Tra i suoi sudditi c'è Marek, tredici anni e gravemente deforme: un novello Quasimodo, quasi, figlio del gelido pastore Jude e di una madre dai capelli rosso fuoco, di cui non resta che una misteriosa tomba vuota. A salvarlo dalla miseria potrebbero essere Ina, strega centenaria dai seni copiosi di latte, e una impensata ascesa sociale. Ma tra parenti redivivi, scenografiche nozze in rosso e banchetti luculliani a Natale, nessuno è al sicuro; soprattutto se ci si appresta alla nascita di un nuovo Messia e se ci si allontana dall'innocenza primigenia degli umili. Ne ucciderà più l'ignoranza che la spada. Insomma: prendete le ambientazioni cupissime del Trono di spade e mescolatele all'umorismo caustico, al senso del ridicolo, del cinema del greco Lanthimos. Otterrete un soggiorno a Lapvona: una satira sui (nostri?) tempi bui che, a dispetto dei toni parodistici, si fa prendere tremendamente sul serio.

Certe volte qualcosa di nuovo può ricordarti quello che hai perduto.

È un piacere smarrirsi nella sua gustosissima (ma irrisolta) galleria di personaggi borderline, prostrati da pestilenze, ansie e avidità. È un orrore soffermarsi sulle descrizioni più truculente (sadomasochismo, squartamenti, stupri, cannibalismo), rese però irresistibili dalla bellezza sublime delle scrittura. A una prima parte da incorniciare, morbosa e fiabesca com'è, ne segue una seconda sfilacciata e inconcludente: ho avuto l'impressione che la narratrice, onnisciente ma troppo indolente per tirare le briglie delle numerose sottotrame, a un certo punto non sapesse più cos'altro aggiungere, chiuso il suo carosello di ammiccamenti e nefandezze. Come la pesca addentata da Marek nel romanzo, Lapvona nasconde difetti sotto la sua buccia succulenta: un verme. È una natura morta. L'apprezzamento della lettura, e del lauto pasto, dipenderanno dalla suscettibilità del nostro palato.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – King

lunedì 13 giugno 2022

Recensione: La fortuna, di Valeria Parrella

| La fortuna, di Valeria Parrella. Feltrinelli, € 16, pp. 140 |

Ai miei studenti non ho dato compiti per le vacanze. Difficilmente sarò il loro insegnante anche il prossimo anno e, onestamente, non ho mai creduto nelle letture obbligate. L’ultimo romanzo di Valeria Parrella, però, avrebbe potuto essere la mia eccezione alla regola. Piccola storia di formazione con una grande scrittura alla base, è un prezioso bignami di storia e cultura romana. E, soprattutto, un’avventura comune a tutti i giovani d’oggi: crescere dritti e robusti, coraggiosi, senza lasciarsi piegare dal caos tutt’intorno – impresa degna di un vero eroe. Come ci insegna la mitologia, ci sono tre parche a tessere la tela della nostra esistenza: annodano in trame misteriose vita, destino e morte.

Perché il desiderio è nascosto, si innalza dalla terra, è il cuore stesso della terra, e noi siamo terreni.

È possibile torcere a nostro vantaggio il filo di quella centrale? Essere, insomma, più forti del divino? Se lo domanda Lucio, diciotto anni, che ogni sera lascia le imposte semiaperte sperando che ci si intrufoli di soppiatto la Fortuna: soltanto lei, scritta rigorosamente con la maiuscola, può stravolgergli la vita. Nato con un occhio guercio – troppo fragile, dunque, a detta degli altri –, il protagonista diventerà tuttalpiù un senatore: mai un gladiatore, mai il condottiero di una nave. Ma la costruzione di un’orazione – glielo spiegano i suoi maestri, Quintiliano e Marziale – non è poi troppo diversa da quella di un’imbarcazione. Come preferire, tuttavia, l’astrattezza delle parole alla gloria di un futuro d’azione? Il Colosseo, intanto, è in costruzione sotto lo sguardo attento di Vespasiano; l’amato Tito conquista Gerusalemme; Plinio il Vecchio allestisce la propria flotta. Presto, all’orizzonte, si profila una nube di fuoco, pioggia e lapilli; un prodigio che sconvolge il cielo, la terra e la giovinezza. Per tre giorni e tre notti l’eruzione del Vesuvio terrà l’Impero in scacco. Descritto in maniera particolareggiata, quest’evento apocalittico rappresenterà l’iniziazione all’età adulta per Lucio e gli altri ragazzi della sua generazione: si sbucherà dall’altra parte della nube tossica ingrigiti dalla cenere, invecchiati, per sempre mutati.

Vivono solo gli dei e ciò che gli assomiglia: quando abbiamo riso per una sciocchezza. Cercare la tua schiena nella notte. Quella bracciata che mi fa tutt’uno con il mare. Il momento in cui mia madre poggiò la sua mano sulla mia, guardando lontano oltre il davanzale. Essere uomo e cavallo nel galoppo. La lama del primo gladio che mi fu regalato. E tu, lenta ginestra.

L’autrice napoletana, con una lingua immediata e seducente, firma un romanzo di formazione esile ma densissimo, capace di condensare in un centinaio di pagine tutto ciò ci affanniamo a memorizzare tra i banchi di scuola: la pietas filiale, l’adesione al mos maiorum, il potere eternatore della letteratura. C’è magia in Lucio, nell’eccezionalità di uno sguardo deviato – straniato – che ricorda quello di Mattia Pascal. C’è magia nella lava, che, sotto la sua coltre spessa, annienta la vita e la preserva al tempo stesso. Cosa resterà delle ambizioni di Lucio, del suo amore per l’amato Aulo e dei giochi della Fortuna? Ce lo racconteranno gli scavi archeologici, la memoria delle ginestre, le parole fuori dal tempo di Valeria Parrella.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Two Steps from Hell – Nero

lunedì 7 febbraio 2022

Recensione: Verso il paradiso, di Hanya Yanagihara

| Verso il paradiso, di Hanya Yanagihara. Einaudi, € 22, pp. 766 |

Leggo Hanya Yanagihara per trovare salvezza dai miei lati peggiori. La scorsa estate, vittima di un'apatia che mi rendeva estraneo al mondo, mi sono affidato a Una vita come tante in cerca della catarsi del pianto. A gennaio, invece, isolato in camera insieme al virus e ai miei soli pensieri, ho atteso l'arrivo di una nuova storia – anzi, tre – per fuggire lontanissimo da me. Questa volta, lo ammetto, non avrei tollerato l'ennesimo magnifico struggimento. E l'autrice, per fortuna, ha avuto grande cura di me e della mia solitudine: nell'arco di oltre settecento pagine l'ha riempita di voci. Le sento anche ora, a lettura ultimata, e tento di districarle a furia di scriverne. Ma si può realmente possedere un romanzo così ampio, sfuggente, indefinibile? È forse possibile averne a colpo d'occhio la visione d'insieme? Mi piacerebbe riportare alla mente tutti i dettagli, grandi e piccoli; individuare la costante in grado di sbrogliare l'equazione. Ma è impossibile, tanto quanto la pretesa di scorgere una silhouette claudicante sull'uscio di un condominio di mattoni: il nostro Jude St. Francis, sappiatelo, non abita lì. Restano allora le strade di New York, una poetica malinconia di fondo, una dimensione umana dal calore contagioso e, soprattutto, una domanda sprovvista di risposte nette: cos'è il paradiso?

Le amicizie a quell'età sono così fragili, perché quello che sei – non solo le tue dimensioni fisiche, ma pure quelle emotive – cambia moltissimo da un mese all'altro. […] Ci eravamo allontanati, non divisi, e quando ci vedevamo da lontano nei giardini della scuola o nei corridoi, facevamo un cenno con la testa, o con la mano, i gesti che faresti in mare, da lontano, dove sai che la voce non si sente. Quando più di una decina d'anni dopo ci ritrovammo, parve in qualche modo inevitabile, come se fossimo entrambi andati alla deriva così a lungo da doverci ritrovare prima o poi.

In un Ottocento ucronico, la fine della guerra di secessione ha portato all'indipendenza della città e all'avvento dei matrimoni egualitari. Immerso in atmosfere degne di Jane Austen, un giovane di ricca famiglia si scopre combattuto tra il matrimonio combinato con un vedovo e il sentimento bruciante per un insegnante socialmente inferiore a lui. Il paradiso è una casa status symbol, già pronta a essere ereditata, o una tormentosa passione da romanzo d'appendice? Mentre l'avvento dell'Aids falcia un'intera generazione, un venticinquenne di nobili origini hawaiane riflette sull'amore e la morte: i migliori amici del suo partner stanno morendo come mosche e ogni rimpatriata si trasforma in una festa di addio; il padre lontano, colpevole di un torto indicibile commesso in nome del fanatismo, domanda di lui in un delirio struggente. Il paradiso è un salotto in cui risuonano le chiacchierate di amici un po' attempati, o l'utopia di restaurare la sovranità hawaiana in trenta ettari? Ci si sposta nel futuro, infine: l'apocalisse si esprime con un lessico ormai familiare. Continuamente in balia di virus di differente entità, il mondo è diventato una distopia in cui vigono la legge marziale e i baratti, i ribelli vengono massacrati in pubblica piazza e i matrimoni, combinati con la forza, mirano a scoraggiare l'omosessualità. Prigioniera di un matrimonio senza amore, una tecnica di laboratorio segnata dalla malattia fa i conti con sentimenti nuovi e spaventosi: la gelosia verso il marito, al centro di una vita parallela; l'attrazione verso l'ultimo arrivato nel distretto, che osa avanzare quesiti di natura personale; la nostalgia per il nonno epidemiologo, che in una lunga corrispondenza confessa amaramente di aver sacrificato gli equilibri della famiglia per la salvezza della specie. Il paradiso è una società in cui il caos è arginato con fermezza, o il buio del guado?

Tu sei tanto giovane; hai passato quasi metà della tua vita vita accanto alla morte e alla possibilità della morte – ci hai atto il callo, che è una cosa che mi spezza il cuore. E allora forse non capirai fino in fondo quel che ti voglio dire. Ma quando si invecchia, si fa tutto ciò che si può per restare vivi. A volte nemmeno ti accorgi di farlo. A volte, un istinto, un sé deteriore, prende il controllo: e perdi ciò che sei. Non succede a tutti. Ma succede a molti.

Nell'impossibilità di bissare il successo precedente, Yanagihara spezza le linee temporali e la compattezza della narrativa americana; spiazza. Costruisce un dedalo di storie dentro storie, e di epoca in epoca ripropone nomi di battesimo (David, Edward, Charles) e indirizzi (Washington Square). Si tratta delle stesse persone in realtà differenti? Se fossimo in un film, avrebbero gli stessi volti o sarebbero sconosciuti gli uni agli altri? I nessi, poco manifesti, vanno cercati unicamente in questa galleria di giovani inetti, nonni granitici, triangoli sentimentali e famiglie omogenitoriali; in riflessioni sulle radici culturali e l'identità, sul sangue e sul crepacuore dei sogni infranti. Quale mondo lasceremo ai nostri figli? In che mondo li lasceremo? Solidale e spietata, con una scrittura che è un mare caldo in cui è incantevole immergersi, l'autrice apre finestre, parentesi, squarci; registra i passi falsi commessi lungo i cammino dell'utopia. Ma se i genitori sono umani, dunque fallibili per natura, allora tocca ai loro eredi abbandonare la sicurezza dei confini già tracciati. Rinunciando, però, a cosa? Affrancarsi significa costruirsi un paradiso su misura. Lo fanno i protagonisti, combattuti tra andar via o restare, tradirsi o scoprirsi. Lo fa Hanya Hanagihara, alle prese con un cambio di rotta che scontenterà più di qualche accolito. I loro passi – avvolti da una luce misteriosa – sfumano nella vaghezza dell'incerto, fin quando non distogliamo finalmente lo sguardo: sono troppo distanti. Verso il paradiso.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Judy Garland – Somewhere Over The Rainbow

martedì 20 ottobre 2020

Recensione: Malinverno, di Domenico Dara

Malinverno, di Domenico Dara. Feltrinelli, € 18, pp. 330.

Se nell’immaginaria Timpamara tracciassimo una linea tra il maceratoio e il camposanto, otterremmo una retta perfetta. Lo stupore, poi, crescerebbe ulteriormente dopo la seguente constatazione: la biblioteca comunale sorge proprio a metà strada. Da un lato dunque avremmo il luogo in cui vanno a morire i libri, dall’altro quello in cui muoiono gli esseri umani, e giusto al centro una bolla che ristabilisce gli equilibri per magia: nelle biblioteche, infatti, tanto le storie quanto gli uomini che le hanno scritte sono salvi dall’oblio. A dispetto della caducità della carta stampata, sugli scaffali non si muore mai.


In ogni angolo di Timpamara, su davanzali, panchine, portabagagli delle auto, sui sacchi della spazzatura e perfino sui cappelli delle signore, poteva trovarsi la pagina di un romanzo: quando le genti le raccoglievano la leggevano, e se non piaceva non la buttavano ma l’appoggiavano da qualche parte, nella fioriera del marciapiede o su un gradino, fermata da una pietra affinché qualcun altro la prendesse; se piaceva, invece, la portavano a casa e la conservavano. Leggevano tutto e tutto serbavano, i timpamarani, quasi a contrappesare il destino di distruzione del macero: lì i libri venivano cancellati, loro invece li tenevano in vita.

 “Custode di libri, guardiano del cimitero, protettore dei vinti”, Astolfo Malinverno si giostra tra un polo e l’altro. Timido e perseguitato dalle sciagure, ha un modo tutto suo di stare al mondo e poca dimestichezza coi vivi. Pertanto non si cruccia troppo dell’ennesimo incarico annunciatogli dal messo comunale: mentre nel pomeriggio registra i prestiti bibliotecari, al mattino appunta i trapassi. Tanto i lettori quanto i parenti dei defunti presentano simili idiosincrasie. Un novello Lazzaro si avvicenda così a un assicuratore con ambizioni proustiane; qualcuno vorrebbe seppellire il proprio animale domestico e qualcun altro un arto mutilato; c’è chi sfoggia sul loculo una foto in coppia con l’amante platonica e chi, invece, vorrebbe sposare il fidanzato fresco d’incidente mortale; infine ecco entrare e uscire puntualmente i visitatori più enigmatici di tutti. Un uomo incappucciato, che ausculta l’ambiente circostante con un paio di cuffie, e una bellissima donna di nero vestita che indugia ai piedi di una tomba in particolare: peccato che la defunta, che Astolfo nel frattempo ha soprannominato Emma Bovary, sia la sua copia carbone. Cosa cercano i vagabondi inquieti che si muovono entro quelle mura di cinta? Ci si può innamorare perdutamente di un fantasma?

Bisogna essere soli per sapersi prendere cura di altre solitudini.

Nel terzo romanzo di Domenico Dara, autore che scopro qui per la prima volta, succedono letteralmente cose dell’altro mondo. Ho pensato alle atmosfere della poesia cimiteriale, tetra e romantica. Ho pensato, soprattutto, ai mondi incantevoli del compianto Zafon. Giunto in libreria a fine estate, Malinverno si è rivelato la lettura ideale in abbinamento con i primi rigori dell’autunno, con i tè fumanti sorseggiati a merenda e, soprattutto, con i preparativi per l’imminente Halloween. Il romanzo si muove avvolto in atmosfere piacevolmente lugubri, e ha un gusto per la narrazione che riempie gli occhi di nostalgia: è figlio d’altri tempi, è una creatura sovrumana in cui ogni minimo figurante vive di alte citazioni – e trattandosi di un romanzo corale, quindi, impossibile non leggerne di bellissime. Tutto racconta una storia. Ogni nome della galleria di Domenico Dara – popolosa e, isolato difetto, forse un po’ dispersiva – convive con rimpianti, segreti, ambizioni, amori persi e amori ritrovati. Può Astolfo, sensibile com’è, far sempre propri il dolore e le vicissitudini altrui? Quando troverà il coraggio di vivere davvero?

Perché chi ama, appena scopre nell’altro un cedimento o una manchevolezza, non ha altro scopo che apparare e livellare, che forse a questo serve l’amore, a sentirci necessari, a essere lo stucco sulle incrinature dei vetri, la toppa sugli strappi dei tessuti, il punto tra le pelli lacerate.

Artefice di uno Zibaldone pieno di note a margine, il protagonista condivide a cuore aperto hobby e paturnie. Una su tutte: l’abitudine a riscrivere dal nuovo i finali dei romanzi più celebrati, a suo dire manchevoli se provvisti di lieto fine. Lo ammetto, sì, sono d’accordo con lui: le storie perfette sono quelle che garantiscono il crepacuore. Ma leggendo dei suoi sospiri verso Emma – morta chissà quando, morta chissà come: ora riposa nell’anonimato, all’ombra dei fiori di cardo –, è difficile non opporsi alla rigorosa logica di Astolfo. Non confidare  in un’eccezione alla regola. A questo romanzo e all’eroe eponimo, insomma, si finisce per volere un bene oltre misura. Sarà che sono entrambi generosi nel condividere pagina dopo pagina passioni, dettagli, aneddoti: francamente basterebbero per altri dieci romanzi. Sarà che, più che pieni di umanità, ne sono ricchissimi, sovrabbondanti. Qui e lì si perde l’equilibrio: sul filo dell’equilibrista, insieme a loro, portano sospese le sorti di tutta Timpamara. Ma quando il numero circense riesce ugualmente, nonostante tutto, come trattenere un piccolo boato di meraviglia?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Evanescence – My Immortal

lunedì 27 gennaio 2020

Recensione: Bartleby lo scrivano, di Herman Melville

Bartleby lo scrivano, di Herman Melville. I classici del Corriere della sera, € 7,90 |

Ci sono storie che leggi in un’ora ma che ti restano addosso per molto più tempo. Forse per sempre? Personaggi che non invecchiano, nonostante i loro centosessantasette anni, e che tutt’oggi amano restare gialli irrisolvibili. Quello, immagino, contribuisce a trasformarne il fascino in leggenda. Le cose che ci sfuggono, infatti, tendono a diventare un chiodo fisso. E il mistero di Bartleby, maestro di garbati rifiuti e di stranezze inspiegate, è ancora l’ossessione di molti. Da qualche giorno, anche la mia. Ho letto il mio primo Herman Melville per lo più come riempitivo: cinquanta pagine appena; facili da incastrare nel corso della giornata ma difficilissime da recensire. Probabilmente non l’ho capito fino in fondo, per questo alla fine del post non troverete le consuete stelle di valutazione, non me la sono sentita, ma voglio comunque consigliarlo: perché mi ha fatto innervosire, divertire, commuovere e innervosire ancora.

Preferirei di no.

La storia, breve e irrisolta, è ambientata in un palazzone affacciato su Wall Street. Il narratore, avvocato piuttosto influente, non è però lo sciacallo senza scrupoli che ci aspetteremmo da una vicenda di impiegatucci sottopagati e sommosse singolari: caritatevole e comprensivo, anzi, ambisce alla beatificazione sopportando di buon grado i capricci dei suoi dipendenti – soprannominati Tacchino, Zenzero e Pince-nez – e accettando perfino un quarto collaboratore. Bartleby è l’ultimo arrivato. Un copista grigiastro, taciturno e allampanato, che dietro un paravento verde sgobba come un mulo, sgranocchia biscotti allo zenzero e contempla il muro di mattoni rossi su cui affaccia l’unica finestra disponibile. Quanto può essere paziente il datore di lavoro, però, se a un certo punto si rifiuta di lavorare? All’inizio Bartleby si sottrae alle domande personali, ma ben presto fa orecchie da mercante anche davanti a richieste più ingenti. Risoluto ma educato, è l’artefice di una resistenza passiva che somiglia a una specie di capriccio. Benché l’avvocato reagisca con magnanimità, rifiutandosi di licenziarlo e spinto dal desiderio crescente di comprenderlo, il suo dipendente diventerà una presenza perturbante. I suoi rifiuti influenzeranno anche il vocabolario degli altri. A Broadway, oltre che delle elezioni imminenti, si parlerà anche di lui. Un fantasma di cui chiedono spiegazione anche gli altri inquilini. Un vagabondo sradicato che occupa l’ufficio, ormai, giorno e notte. Il rifiuto e lo spirito di abnegazione possono portare un individuo all’annullamento?

La pallida forma dello scrivano mi appariva ravvolta in un gelido sudario, tra indifferenti sguardi di estranei. Quella figura, così sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine. Era Bartleby.
Scritto con un lessico vagamente burocratico, lo stile del narratore ben presto si colora e s’accalora. Ed entrano in gioco il disagio, l’inquietudine, la preoccupazione. Penso a Bartleby, infatti, come penso allo spettro interpretato da Casey Affleck nello struggente A Ghost Story. Resterebbe lì, immobile, anche se l’edificio venisse abbattuto da una palla di demolizione. Da qualche parte, oggi, è ancora dove tutto ha avuto inizio. A guardare un vicolo cieco, fantasticando su chissà che cosa. A opporsi a sfregio contro tutto e contro niente. Senza mezze misure. Irragionevole e indimenticabile. La letteratura mondiale è costellata di dubbi amletici. Essere o non essere? Chi aspettava Godot? Infine: cosa preferirebbe Bartleby?

mercoledì 25 luglio 2018

Recensione: Orrore, di Pietro Grossi

| Orrore, di Pietro Grossi. Feltrinelli, € 14, pp. 140 |

Gli scrittori e il mistero (del processo creativo, della magione infestata che è la mente umana): cronaca di una lunga e tormentata storia d'amore. Sono autori di best-seller i protagonisti dei kinghiani Misery, La finestra segreta, La metà oscura; altra addetta ai lavori anche Delphine De Vigan, che in Da una storia vera si raccontava in un mystery a tinte saffiche fra autobiografia e finzione. Ultimo nome all'appello, a proposito di variazioni sul tema, è quello del nostro Pietro Grossi: in passato edito dalla selettiva Sellerio, premiatissimo, qui alla sua ottava fatica. È la prima volta con un genere a cui il titolo allude chiaramente: l'horror. È la prima volta che lo leggo, io che a pane e horror sono invece cresciuto. Cosa c'è dietro quella copertina dall'aria spaventosa? Cosa si nasconde oltre l'uscio di una casa nel bosco da esplorare da cima a fondo, mossi dalla stessa curiosità che nei proverbi delle nonne uccide il gatto? Orrore, più vicino all'estensione del racconto lungo che del romanzo, è un'altra storia che parla di ispirazione mancata e scrittura, in cui autore e narratore sin dall'inizio si confondono per precisa volontà. A raccontarsi è un anonimo padre di famiglia felicemente stabilitosi negli Stati Uniti – lo stesso Pietro, vorrebbe dirci la suggestione – che all'indomani della nascita dell'adorato primogenito, di ritorno in Italia per le vacanze di Natale, si mette in cerca di un posto nel mondo, di un obiettivo a lungo termine, dell'idea per un nuovo romanzo. È l'ispirazione stessa, a sorpresa, a raggiungerlo. Galeotta una sera a cena con Diego e Lidia, una storica coppia di amici che fra una chiacchiera e l'altra condivide con il protagonista un'inquietante scoperta: accanto alla loro villetta in alta montagna, un autentico paradiso per villeggianti, c'è una casetta a tratti abbandonata, a tratti in perfetto stato d'uso.

Se solo. Di tutti i momenti per cui da anni mi maledico, questo è l'unico indipendente da me e da qualunque mia volontà. Dunque, il più immacolato. […] Se solo. Tre semplici, striscianti sillabe, capaci di sgretolare esistenze come termiti in una trave di legno.

Fare irruzione è un gioco da ragazzi – anche se sono lontani, ormai, i tempi dei giornaletti per adulti rubati in edicola e poi letti di soppiatto sull'argine del fiume. Il vecchio mulino è una costruzione in pietra, con all'interno un tavolino da caffè tirato a lucido, nonostante l'usura generale, e un giornale di dieci anni prima; un disegno infantile sul frigorifero lasciato acceso e una serie di maschere di cartapesta, a tema satanico, in esposizione; un bagno pieno di materiale ospedaliero, come il laboratorio di un moderno Dottor Frankenstein. Il narratore si improvvisa investigatore privato. Chi sono i proprietari di quel casolare che confina con un fiume, e con l'incubo? Dopo l'effrazione ha allora inizio la parte difficile: osservare, aspettare. In nome dell'ossessione. In nome delle ombre che l'uomo si porta dentro, e che all'improvviso lo rendono tutt'uno con la natura del bosco: la pazienza del predatore, lo sguardo attento del detective, risvegliano presto un morboso istinto animale. Metafora, forse, della fatica dello scrivere – un abisso in cui guardi, per dirlo alla Nietzsche, a costo che l'abisso guardi poi a sua volta dentro di te?

Sei soltanto curioso, ecco cosa sei. E lo sei sempre stato, questo te lo concedo. Hai sempre voluto guardare cosa c'è un po' più in là. E qual era il più naturale luogo in cui guardare oltre la luce che circondava la tua casa e la tua famiglia? Il buio. Vedevi luce e felicità ovunque e ti sei fatto incuriosire dalle ombre.

La missione notturna dell'alter-ego di Grossi corrompe i sogni e i ricordi, rovina le feste a una famiglia altrimenti realizzata; prevede nomi rigorosamente puntati, per proteggere la privacy di figuranti che si confondono fra veri e fittizi, e il rivolgersi a un tu (il figlio del protagonista) nella tipica prassi delle lettere aperte. Spettava a un autore affermato, a un editore importante, liberare l'horror dalla presunta serie B? Orrore è in realtà una lettura da ombrellone rapida e piuttosto accattivante, che lascia misteri irrisolti e qualche sincero dubbio sulla propria efficacia. Scritto sì bene, ha un paio di ottime intuizioni, ma risulta senza infamia né lode. I personaggi ci restano pressoché sconosciuti; le pagine, già poche di per sé, si concedono un paio di attimi di lentezza di troppo. Lecito aspettarsi di più. Da quella Feltrinelli che non tratta narrativa di genere, di solito, e che a scatola chiusa faceva confidare in una giustificata eccezione alla regola. Da uno scrittore, benché da me scoperto soltanto ora, che sulla fiducia ho immaginato qui non al suo meglio. La nebulosità e la confusione, infatti, sono quelle degli incubi di cui al risveglio facciamo fatica a ricordare il finale; quelle di esperimenti, di piccoli brividi, dal successo frammentario.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Negramaro - Sing-hiozzo

lunedì 30 aprile 2018

Recensione: Vittoria, di Barbara Fiorio

| Vittoria, di Barbara Fioria. Feltrinelli, € 15, pp. 267 |

Un siamese dagli occhi blu, un po' di magia, il nome di Barbara Fiorio in copertina. 
Provate a proporre questi ingredienti a me, gattaro convinto che, maschera di cinismo riposta assieme ai maglioni invernali, non ho mai smesso di prestare fede alle fiabe raccontate in Qualcosa di vero. Chiedevo una lettura di quelle carinissime, come se poi fosse poca cosa, e sin dalla copertina sapevo di poter domandare a questo romanzo tutta la leggerezza del mondo. A sorpresa, ho trovato molto di più. Una lettura di cui si ha un disperato bisogno, anche in giorni apparentemente sì in cui ci si chiede, eppure, il perché della malinconia. Una storia di alti e bassi, picchi e voragini, da cui si risale davanti a una tazza fumante; sotto lo sguardo di una professionista con qualche pelo sul maglione e la Canon al collo, una persona gentile. 
Riappropriarsi della propria esistenza. Facile, uno dice. Soprattutto trattandosi di personaggi immersi in una commedia pastello. Facile con il senno di poi, quando da patti sai che ci sarà una svolta lieta, il bicchiere mezzo pieno. Il guaio è nel mentre: ci vedi nero, non ci vedi. Non ti vedi. Vittoria – genovese, quarantasei anni, l'appartamento e il conto in banca improvvisamente vuoti – è la classica eroina controvento, pronta a chiedere la rivincita a una mezza età che l'ha colta depressa, in rosso, abbandonata. Ma che ne sa lei, intanto, che quello è tutto un romanzo; che passerà come le giura chi le vuol bene? Hollywood, ho riflettuto, è piena di donne piantate in asso alla riscossa. La separazione lì mi è sempre parsa liquidata con sufficienza, come se venire a patti con il fallimento di un amore che muore, di un letto vuoto per metà, meritasse un paio di sequenze con Adele in sottofondo e basta – neanche una scena madre, chessò, in cui fare i conti con il profumo di chi ci ha lasciato, i suoi cibi biologici in dispensa, gli amici comuni che ne parlano e ne sparlano, il gatto che miagola davanti a una porta chiusa.

Non si può amare chi non ci ama, è contro natura.

Vittoria ha perso il senso dell'orientamento. Trova difficile dare un senso al disordine, riconsiderare quella mezza scena del crimine casa sua o, da sfollata sentimentale dedita all'autocommiserazione, abbandonare la stanza degli ospiti dell'eterna migliore amica per un appartamento che le rinfaccia Federico. Un gallerista velleitario, in crisi di identità, che l'ha illusa abbastanza da farle desiderare sotto sotto i fiori d'arancio, un matrimonio (il secondo) e un abitino rosso, finché ha il girovita. 
La svolta arriva assieme a un regalo di compleanno anticipato, un mazzo di tarocchi e Halloween: se abituati a catturare l'anima delle persone con uno scatto, leggerne il destino nelle carte, nei volti, è un gioco da ragazzi. I serial americani, magistri vitae, insegnano. Come in Lie to me, Vittoria capisce di leggere attraverso le persone. Con una macchina fotografia o senza. E di sapersi leggere, perciò, attraverso di loro. I segreti della fotomanzia: un posto accogliente, una scatola di infusi assortiti, il passaparola su Facebook – candele e incensi, sappiatelo, sono un optional per creduloni. Nel suo salotto, così, in un andirivieni irresistibile, mettono il naso con un misto iniziale di curiosità e vergogna uomini e donne protetti dal segreto professionale; preoccupati per i figli, gli amanti, il precariato.

Mi piacerebbe trovare davvero la magia, non quella dei tarocchi o delle manciate di sale grosso, quella letteraria delle bacchette magiche, delle fate permalose e delle streghe sardoniche. Quella in cui mi rifugiavo da piccola, dove tutto era possibile e fantastico. Ho una nostalgia struggente di un mondo così. Come ho potuto scordare che si può combattere il dolore ridendo, ridendo fino a stanarlo ed esorcizzarlo? Fingo di leggere i tarocchi e ho dimenticato una delle magie più potenti: la leggerezza.

La sensibilità di Vittoria non ha prezzo, e lei dispensa comodamente da casa tranquillità, parole di conforto, stampe che ci mostrano sotto la luce giusta. Ma, in tempo di crisi, la cartomanzia sì. Se non bastasse, per fortuna, arrivano in soccorso Netflix e un romanzo con le carte vincenti. La bellezza di farsi in quattro per qualcun altro, le fusa dei nostri mici, le tavolate chiassose con amici vicini e lontani. Quelli che ti danno una scusa buona per tirarti giù dal letto, lavarti i capelli, vestirti e ripartire da zero, o quasi. Quelli che ti prestano le loro storie, sapendo che mal comune è mezzo gaudio e, soprattutto, che saprai farne un uso consapevole. C'è una regola non scritta seconda la quale bisogna contenere aspettative, stelline di valutazione ed entusiasmo davanti a una fiaba contemporanea. Una regola da violare qui: in duecentosessanta pagine di piuma, speranzosissime, ma che pesano e di qualche peso ti liberano. 
L'ultima volta mi era capitato con La tristezza ha il sonno leggero: scrittori specchio e libri del momento giusto, che parlano un po' di te, con le tue stesse parole. Da allora è successo che il peggio è passato. Che certi giorni, facendomi il segno della croce, sto quasi bene. Questa cosa – ma sì, osiamo pure chiamarla felicità – mi sembra una vacanza, e purtroppo non ho ferie illimitate. Non so cosa sarà di me da qui a qualche mese. Mi sento bene, e penso non durerà. Mi fascio la testa in anticipo, e penso che magari farà effetto. Sorrido meno come per punirmi. Mi prendo spesso una pausa da questa parentesi di dolce far niente, imponendomi di volare basso, di coltivare i pensieri di troppo. Di non tradire la solitudine, amante rancorosa, per non provare così l'imbarazzo di ritrovarmi in sua compagnia dopo esserci persi di vista.

Ho capito che l'onestà può essere elastica e offrire, ogni tanto, un cicchetto all'illusione. Chi viene a chiedere risposte sul futuro porta con sé un tacito accordo: non importa se vedi davvero qualcosa di bello per me, importa che tu me lo faccia credere, perché ne ho bisogno per andare avanti. Deve aspettarmi dietro il prossimo angolo, e se poi non ci sarà, sarò almeno andato avanti fino a raggiungerlo, quell'angolo, e poi il successivo e il successivo ancora, finché qualcosa accadrà, o almeno mi sarò allontanato dal dolore di partenza.

Io ero Vittoria in persona, che si cura da sé limitandosi a viversela nel frattempo: a vivere. 
Ero uno dei suoi clienti, pronto a spolverare in pubblica piazza cuori e dolori, davanti a una lettura talmente generosa da spingerti a fare altrettanto. 
Barbara Fiorio mi ha rivelato che la sua non è soltanto la versione meno acchiappa-like di Per dieci minuti, l'indirizzo dell'erboristeria di fiducia e il terzo segreto di Fatima: dalla giusta prospettiva, non siamo infatti che parte di una bella commedia a lieto fine. Ce la faremo. O così dice la protagonista di un romanzo baciato dalla fortuna, che nel nome ha proprio il trionfo che merita. 
Le ho lasciato la mancia, attento non la mangiasse il gatto. Alla fine, imboccata l'uscita, le ho concesso il pigolio di un arrivederci. Qualsiasi altra forma di congedo suonerebbe definitiva, dove non vedi l'ora di fare ritorno.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Coldplay – Magic

lunedì 27 novembre 2017

Recensione: La zona cieca, di Chiara Gamberale

| La zona cieca, di Chiara Gamberale. Feltrinelli, € 15, pp. 219 |

Non ci eravamo lasciati bene, no. Adesso, inconcludente e furbissimo, aveva dato vita a una pausa di riflessione lunga più di un anno e mezzo. Chiara Gamberale, leggevo in dolce attesa, questo inverno torna (ma non proprio) con La zona cieca. Si tratta infatti di una ristampa. Di un romanzo che il prossimo anno soffierà sulle sue dieci candeline. Ho potuto tirare così un sospiro di sollievo. Perché sulla Chiara di una volta non ho mai avuto dubbi: è la nuova, ogni tanto, che mi fa dubitare. Perché questi Lidia e Lorenzo, io, tanto li ho letti e riletti in ordine casuale. Li conoscevo già. Mandorla, la protagonista di Le luci nelle case degli altri, era loro condomina: la speaker radiofonica e lo scrittore in crisi creativa facevano coppia fissa, avevano un cane con il nome di un antidepressivo e si accapigliavano spessissimo, nell'amore bello e litigarello dei proverbi delle nonne.

Non ne posso più di tutto questo altrove, ho bisogno un po' di dove.

Lidia, a un bivio, più padrona di sé, era anche in quell'Adesso da dimenticare. L'alter ego dell'autrice – come lei, qualche disturbo alimentare in gioventù e buoni consigli in radio – incontra Lorenzo, un maestro nel dare e nel togliere, nel febbraio di un anno bisestile. Non per un caffè, ma per un giro a un luna park che di per sé mette un po' di malinconia. Credono che faranno eccezione. Si prendono e si lasciano. Lei, troppo malleabile, predica bene e razzola male. Lui, bello e dannato per copione, con una ex moglie omosessuale e un livido dentro, dipende dagli stupefacenti ma non dagli altri. Convivono, ma guai a dirsi insieme.

Nel suo immaginario Lorenzo era il pesce giallo e blu ferito nell'acquario dove va a finire il piccolo Nemo, era Spugna l'aiutante di Capitan Uncino ed era Scar, lo zio cattivo del giovane Re Leone, mentre, sempre secondo lui, io ero il piccolo Nemo, il giovane Re Leone ed ero Wendy, che sa volare sull'Isola che Non C'è ma può anche tornare a casa - questa la sua tragedia, questa la sua fortuna, diceva. Eravamo Lilo e Stitch.
- Una bambina delle Hawaii sola al mondo e un mostro orribile programmato per distruggere, ma che insieme imparano che 'Ohana vuol dire famiglia.

La zona cieca è la loro storia d'amore: con tutte le ansie, i dilemmi e i grattacapi propri delle coppie di oggi. La compongono le confessioni anonime degli ascoltatori; i pensieri estemporanei di una trentenne insicura, cotta e chiacchierona, che qualcuno potrebbe giudicare perfino senza capo né coda. Eternamente indecisi, Lidia e Lorenzo sono scordinatissimi: vogliono la stessa cosa, ma le danno nomi diversi. Fidarsi, affidarsi, significa scoprirsi vulnerabili. Perché finché siamo soli possiamo penserare a noi: anche diventando, a volte, i peggiori nemici che abbiamo. Ma in due ecco che ci si scopre più pieni, più felici, ma anche più tristi per per un muso lungo. Per un giorno no contro cui, nostro malgrado, nulla possiamo. L'amore fa miracoli? 
La zona cieca è tutto un processo di accettazione e di elaborazione, ora frizzante e ora mesto. Finisce con l'amarezza e una punta di beffa, con i puntini di sospensione, anche se a differenza loro so già la fine che faranno: so che possono farsi felici, applicandosi.
La zona cieca, ancoraè tutto quello che gli altri vedono di noi ma che ci sfugge – ad esempio, un pezzo di lattuga rimasto intrappolato fra i denti a cena, o una convivenza altalenante che bene non fa. Per capirlo bisogna sbatterci la testa o, in questo caso, rompersi il mento. Lo suggerisce per email uno sgrammaticato sciamano irlandese come amico di penna. Lo ribadisce una Gamberale ritrovata con piacere – anche se con due protagonisti molto difficili da amare, e infatti non li ho amati fino in fondo – che per fortuna, tra queste pagine, mi ha ricordato perché non sia un'autrice di cui parlare e sparlare per pregiudizio preso.

Vorrei tanto essere meno triste per farla felice.

Sulle strade senza uscita, sui coni d'ombra, ci proietta la sua riconoscibilissima luce. E gli spigoli di un rapporto considerati pericolosi solo perché lasciati al buio, i segreti dell'altro, non fanno più spavento sotto la guida di chi sa e, soprattutto, sa condividere. 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Arisa - Ho perso il mio amore

giovedì 6 aprile 2017

Recensione [Bancarella 2017]: Magari domani resto, di Lorenzo Marone

La felicità è silenziosa, Luce, ricordalo. Se fai troppo casino, lei ti passa sulla testa e nemmeno la senti.

Titolo: Magari domani resto
Autore: Lorenzo Marone
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 320
Prezzo: € 16,50
Sinossi: Luce, una trentenne napoletana, vive nei Quartieri Spagnoli ed è una giovane onesta, combattiva, abituata a prendere a schiaffi la vita. Fa l'avvocato, sempre in jeans, anfibi e capelli corti alla maschiaccio. Il padre ha abbandonato lei, la madre e un fratello, che poi ha deciso a sua volta di andarsene di casa e vivere al Nord. Così Luce è rimasta bloccata nella sua realtà abitata da una madre bigotta e infelice, da un amore per un bastardo Peter Pan e da un capo viscido e ambiguo, un avvocato cascamorto con il pelo sullo stomaco. Come conforto, le passeggiate sul lungomare con Alleria, il suo cane superiore, unico vero confidente, e le chiacchiere con il suo anziano vicino don Vittorio, un musicista filosofo in sedia a rotelle. Un giorno a Luce viene assegnata una causa per l'affidamento di un minore, e qualcosa inizia a cambiare. All'improvviso, nella sua vita entrano un bambino saggio e molto speciale, un artista di strada giramondo e una rondine che non ha nessuna intenzione di migrare. La causa di affidamento nasconde molte ombre, ma forse è l'occasione per sciogliere nodi del passato e mettere un po' d'ordine nella capatosta di Luce. Risolvendo un dubbio: andarsene, come hanno fatto il padre, il fratello e chiunque abbia seguito il vento che gli diceva di fuggire, o magari restare?

                                                 La recensione
Quartieri spagnoli, oggi. La primavera è vicina, ma arrivano prima i motorini. Sorpassano, sgommano, strombazzano. Riempiono i vicoli ammuffiti di smog e risate imprudenti. Dagli appartamenti dei femminielli malinconici, ad alto volume, passano brutte canzoni neomelodiche. Nell'aria, arricciando il naso, odore di tufo, babà e salsedine. Per vedere il mare devi salire in alto in alto. Arrampicarti all'ultimo piano di un palazzo, scorticato quanto il resto, e posare gli occhi dove l'istinto ti dice di posarli. Ci devi fare caso, per vederlo dipanarsi all'estremo del labirinto. Ma lo senti. Il mare trova la strada. E si mette, forse, sulla stessa che sta percorrendo Luce Di Notte. Una che ha sempre fretta di arrivare, ma dove? Una che è abituata a dare del tu alla vita. Scappa a destra e a sinistra, indaffaratissima. Come tutte le donne del mondo, nasconde il fiatone e la fatica, ma ti sbatte in faccia il suo malumore. Che sia un giorno buono o cattivo, infatti, Luce è sempre e comunque incazzata con qualcuno per qualcosa, e lo palesa in smorfie colleriche, grugniti, rispostacce che in dialetto stretto fanno tutto un altro suono. Tremola, ma non si fulmina. Insomma: si piega, ma non si spezza. Ha trentacinque anni, scarse speranze, una laurea in Giurisprudenza e un attestato nell'arte di arrangiarsi. Vive in affitto un'esistenza provvisoria, come se da un momento all'altro potesse o finire, o aggiustarsi da sé. Si fa secca, come dice un detto delle nostre parti, ma non muore di fame. Lei, i capelli rasati e il ringhio imperituro, è la protagonista dell'ultimo romanzo del sempre benvenuto Lorenzo Marone: quest'anno in lizza al Bancarella e atteso al cinema, a fine aprile, con il libero adattamento della Tentazione di essere felici. Cambia editore. Cambia sesso. Come parla una piccola femmena del sud? Come non far sentire forzature nella metamorfosi, rimanendo al contempo fedele a se stesso? 
Segreti del mestiere di uno scrittore che ti capisce e ti dà ascolto. Spesso, infatti, ho l'impressione che Lorenzo Marone faccia ordine fra i pensieri. Quelli di una donna saranno una confusione di percezioni e desideri, o piuttosto un guardaroba bene ordinato in cui ogni cosa è al posto suo? Le cose che hai pensato qualche volta e che qualche volta avrai detto anche a voce alta tornano a riempire gli spazi bianchi, gli anfratti, di una deliziosa commedia all'italiana. Magari domani resto è l'apoteosi delle storie medie, il canto del cigno delle donne qualunque. Marone – come i napoletani tutti: sorridenti, ospitali e naturalmente affabulatori – ha un grande senso della narrazione. Non descrive. Lui si siede, ti mette a tuo agio e ti racconta scampoli di sé e degli altri. A guidare la storia, non i fatti ma i personaggi. Sullo sfondo: una Napoli che non dimentica i fasti dell'antico scudetto e, probabilmente, non perdonerà mai lo sgarro di Higuaìn. Capo-coro: un'avvocatessa rampante con le tette piccole e il culo grosso, stando a lei, che lavora per un mariuolo in toga (tra me e me l'ho immaginato tale e quale a Buccirosso) e, un giorno, si prende a cuore un cane abbandonato, una rondine ferita, un adorabile scugnizzo nato da una mamma vaiassa e da un padre camorrista. Per essere un lupo solitario Luce ispira una strana fiducia nel prossimo. 
La vedì, arrabbiatissima, e anziché starle alla larga la importuni. Le vomiti addosso tutti i tuoi guai, sperando che ti trasmetta parte della sua cazzimma o si accolli qualcuno dei tuoi dolori. Come me a volte, lei pensa che il dialetto – ho nonni napoletani, infatti, e non conosco lingua più perfetta per far volare chitemmuort – spieghi meglio il concetto e pianifica nel dettaglio una fuga impossibile, combattuta tra ali e radici. La trattengono il delicato caso del piccolo Kevin. L'amicizia di Don Vittorio, un trombettista in carrozzela dalla lingua scioltissima, essenziale per filosofeggiare. La chiamata di Antonio, il fratello minore, che le comunica che la famiglia di Notte si sta per espandere con l'arrivo di un frugoletto: chi lo dice a mamma, una sarta piantata in asso da un padre girovago, senza provocarle un coccolone? Infine c'è Thomàs, un mimo di strada che ha una “r” moscia incomprensibile, ma che quando la guarda con certi occhi la fa sentire in pace col mondo. I telefoni squillano. L'orologio biologico ticchetta, e il desiderio di maternità sboccia assieme ai fiori di pesco in piazza. Il tempo scorre, e le stagioni si susseguono, ed è arrivato il tempo di volare nonostante l'ala guasta, e niente è davvero perso. Non contano i legami di sangue, bensì chi resta quando la clessidra è vuota e il pranzo è finito. Chi sparecchia. Chi punta i piedi e s'impunta. Magari domani resto fa parte di quei romanzi che non leggi per il bisogno di sapere come andrà a finire. Non è importante, in realtà. Ti assicura risate che hanno un peso specifico e qualche pagina con l'orecchietta a lato. Ti fa una bellissima compagnia. Dice le parole giuste nel momento sbagliato. Riparo di fortuna in un lunedì mattina in cui la pioggia ti sorprende a metà strada e il nido sta stretto. 
Il mio voto: ★★★★ 
Il mio consiglio musicale: Mumford & Sons – Hopeless Wanderer

venerdì 10 giugno 2016

Recensione: Non è la fine del mondo, di Alessia Gazzola

Vorrei essere una persona da cui essere felici di tornare.

Titolo: Non è la fine del mondo
Autrice: Alessia Gazzola
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 219
Prezzo: € 15,00
Sinossi: Emma De Tessent. Eterna stagista, trentenne, carina, di buona famiglia, brillante negli studi, salda nei valori (quasi sempre). Residenza: Roma. Per il momento - ma solo per il momento - insieme alla madre. Sogni proibiti: il villino con il glicine dove si rifugia quando si sente giù. Un uomo che probabilmente esiste solo nei romanzi regency di cui va matta. Un contratto a tempo indeterminato. A salvarla dallo stereotipo dell'odierna zitella, solo l'allergia ai gatti. Il giorno in cui la società di produzione cinematografica per cui lavora non le rinnova il contratto, Emma si sente davvero come una delle eroine romantiche dei suoi romanzi: sola, a lottare contro la sorte avversa e la fine del mondo. Avvilita e depressa, dopo una serie di colloqui di lavoro fallimentari trova rifugio in un negozio di vestiti per bambini, dove viene presa come assistente. E così tutto cambia. Ma proprio quando si convince che la tempesta si sia finalmente allontanata, il passato torna a bussare alla sua porta: il mondo del cinema rivuole lei, la tenace stagista. Deve tornare a inseguire il suo sogno oppure restare dov'è? E perché il famoso scrittore che Emma aveva a lungo cercato di convincere a cederle i diritti di trasposizione cinematografica del suo romanzo si è infine deciso a farlo? E cosa vuole da lei quell'affascinante produttore che continua a ronzare intorno al negozio dove lavora?

                                          La recensione
Sessione Invernale che vai, Alessia Gazzola che trovi. 
Questo, da un paio d'anni a questa parte. 
E invece, nel gennaio più catastrofico della mia vita, l'Allieva non era lì accanto a me. Alessia, Alice, dove siete andate? E mi ha risposto l'eco, insieme all'ufficio stampa Longanesi: tornano in autunno, mi assicurano. 
Nel mentre, la pubblicazione targata Feltrinelli di Non è la fine del mondo: una nuova protagonista, una nuova realtà editoriale, nuove abitudini a cui come mio solito faccio una certa fatica ad abituarmi. Storia, intuiamo dalla copertina, di una giovane donna ben vestita, che sogna le villette con i glicini e i rampicanti, ha la frangia e pensa al cinema. Il sottitolo svela di più. Emma è la tenace stagista e la sua, commedia romantica, è una favola moderna. Emma non è Alice, e Alice non è Alessia. Ad assicurarcelo, nelle interviste e nei post, la simpatica scrittrice siciliana che da un po' seguo e consiglio spassionatamente. La Gazzola mi fa bene, con i suoi piccoli misteri, i poligoni sentimentali e le eroine sbatate. Emma De Tessent ha un cognome pretenzioso, una famiglia aristocratica in declino da svariate generazioni, la passione segreta per ciò che è naturalmente inarrivabile: il posto fisso, al giorno d'oggi, e quegli uomini usciti dai romanzi rosa un po' porneggianti che legge mangiando biscotti. I soggetti in questione, ha scoperto bruciandosi, o sono sposati, o non esistono. Amara verità, insieme a quella che le dice che non le rinnoveranno il contratto e che lei, impiegata in una casa di produzione cinematografica che si occupa dell'acquisizione dei diritti di noti best-seller, è di troppo. Questo mondo è per i raccomandati e i cinici, non per le eterne stagiste che sognano case poi trasformate in ristoranti scadenti e sottratte alla galanteria della Londra ottocentesca per cadere, come la principessa Amy Adams in Enchanted, nella bocca del leone; in una giungla urbana. Lungo la via, Emma, pecorella smarrita e sottopagata, si imbatterà in una sartoria che con il tulle e i merletti fa prodigi di delicatezza e, infine, in Pietro Scalzi: il Produttore. 
Quarantenne diversamente bello ma fascinoso, che le dà imperterrito del lei, si strugge in cuor suo per una vecchia fiamma, la vorrebbe un giorno sì e l'altro no a bordo della sua casa di produzione radical chic e di sani ideali. Il tutto, mentre le sorelle maggiori vanno in crisi coniugale, le madri hanno sassolini nelle scarpe e uno scrittore italonipponico, noto per la sua misantropia e per una lunga amicizia con un misterioso benefattore, non si decide a cederle i diritti del suo ultimo capolavoro letterario. Non è la fine del mondo è di un genere non nelle mie corde – chick lit e dintorni li preferisco infatti sul sofà, a mente spenta – che ho letto bendato, fidandomi della prosa di Alessia. Anche qui, pimpante e tutto: si diverte con aggettivi inusitati, avverbi di modo, perle di saggezza sparse. Aspettavo l'acquisto del cartaceo, io che all'Allieva ho regalato un ripiano della mia libreria, ma alla fine ho ceduto alla versione digitale, e senza tanti rimpianti. Non è un titolo che riterrò indispensabile tenere con me, né una lettura che – senza il nome della Gazzola in copertina – avrei intrapreso. Lei, che con tanto estro avvicina le signore timorose al poliziesco e gli amanti del noir alle sfumatura di rosa, non mi ha fatto andare a genio un genere su cui nutro riserve. Il suo primo romanzo lontano da Alice Allevi, perciò, di miracoli non sa farne, ma è piacevole, aiuta a combattere la noia degli esami, si legge bene. 
Dolce scusa appena, per stare di nuovo in sua compagnia. Perché questa Gazzola viene, saluta, ma non resta. Vagamente, Emma e la sua sorella di carta si somigliano, sì. Si riconoscerebbero a vicenda, senz'altro. Hanno, d'altronde, la stessa fata madrina e si nota, nell'umorismo e nei buoni sentimenti. Però lavora nel mondo del cinema e, nel romanzo, di cinema, se ne respira pochissimo: penso, nel dirlo, a Una sera a Parigi, che eppure ho mollato dopo cinquanta pagine – quanto miele, gesù – ma sprizzava passione e titoli di film da appuntarsi seduta stante. Falla lavorare, non so, in una casa editrice: anche se è verità universalmente nota che noi, colleghi di Lettere, dopo la laurea dobbiamo arrangiarci con quello che viene. Da' alle sue riflessioni sulla bellezza e sull'arte (la settima, magari) più fondamento. L'intreccio ha pochi nodi, prevedibilissimo: ben venga il fatto che sia una commedia rosa, ma è la commedia rosa di un'autrice che inscena omicidi e architetta indagini che prendo sul serissimo, io. Un sottobosco di comprimari non memorabili, tutt'attorno; un finale semiaperto dinanzi alla possibilità del lieto fine; poche pagine e pochi ricordi su cui spendere poche parole di sorta. 
Lì per lì, però, se fine del mondo non è stata, comunque suona carino. 
Se non molto, abbastanza.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Elisa – Love me forever