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venerdì 2 giugno 2017

I ♥ Telefilm: Chiamatemi Anna | Fargo II | Girlboss

I Cuthbert, fratello e sorella che gestiscono una sperduta fattoria in Nuova Scozia, aspettavano l'aiuto di un garzone. L'orfanotrofio, invece, li sorprende inviando una ragazzina lentigginosa, allampanata, con le trecce rosse. Scende dal treno e tu sei lì, indispettito a morte, che già vorresti spingerla sulle rotaie e chi si è visto si è visto. Perché Anna Shirley Cuthbert – la stessa del cartone di cui ricordo appena la sigla, l'eroina dei romanzi di Lucy Maud Montgomery – non la facevo tanto insopportabile. Ti stordisce di chiacchiere, a suon di luoghi da ribattezzare dal nuovo, vestiti dalle maniche a sbuffo, toni melodrammatici. Certo, umanamente ha la mia comprensione: orfana passata da una famiglia affidataria all'altra, si è rifugiata nella lettura. Si sente rifiutata, sempre un rimpiazzo, ma scioglie i cuori duri di Matthew e Marilla mostrandosi intelligente, giudiziosa, dotata di mille talenti. Peccato che la sua logorrea stremi. Peccato che il primo episodio, lungo un'ora e mezza, metta a dura prova. Come mi assicurava qualche amico su Facebook, una volta superato quello, le sei puntate restanti di Chiamatemi Anna si guardano da sé. Lei parla un po' meno, perché a scuola i maestri la richiamano all'ordine ed è circondata da compagne maldicenti ancora più fastidiose di lei – ma il corteggiatissimo Guilbert (Lucas Jade Zumann, già sorprendente protagonista di 20th Century Women) intanto le fa gli occhi dolci. Non mancano i momenti di tenerezza, gli attimi di coesione, e neanche qualche dramma di troppo. Anna, come la quasi omonima di Tredici, sembra chiamare a sé calamità e sciagure: case ipotecate, incendi, dipartite, febbri alte, patrigni maneschi colti comicamente da infarto. Nello spirito delle storie formative e ricattatorie che un tempo andavano per la maggiore, dei film a tema nei Natale di Canale Cinque, la serie Netflix si fa apprezzare l'indispensabile e con poco. Candida e furbetta, ti lascia in sospeso. Con il ricordo di paesaggi bellissimi – complice il tocco della regista Niki Caro –, il cerchio alla testa per i monologhi a fantasia della comunque ottima Amybeth McNulty, la sensazione che dalla produttrice di Breaking Bad e Flesh & Bone fosse lecito aspettarsi ben più che una fiaba già sfogliata. (6)

L'ho recuperato con ben due anni di ritardo. A sorpresa, quel Fargo che non mi aveva mai attirato prima da allora – io e i Coen, si sa, non tanto ci prendiamo – si era fatto seguire in una manciata di giorni, in un circolo vizioso di divertimento e angoscia. Complici caratteristi d'eccezione, un giallo che sposava l'umorismo più macabro, le promesse di varietà delle serie antologiche. Seconda stagione, altra storia. Fargo fa un salto indietro. Siamo sul finire degli anni Settanta. Protagonisti: personaggi di una generazione prima – nello specifico, la famiglia della coraggiosa agente Solverson – e il famigerato massacro di Sioux Falls, già citato nelle puntate precedenti. Al centro: la guerriglia senza esclusione di colpi tra due famiglie rivali, le disavventure di una coppia di coniugi in crisi che hanno investito il criminale sbagliato, indagini che a tratti procedono a tentoni. Convenzionale nell'intreccio, se non fosse per un'esilarante spruzzata di fantascienza in chiusura, Fargo conferma di essere un intrattenimento di alti livelli. Ben scritto, recitato meglio ancora. Purtroppo, stando a me, il salto indietro non riguarda soltanto i piani temporali. Ho visto questi dieci episodi distribuendoli in un mese, né stufo né preso, e questo la dice lunga. Ho sentito la mancanza a bordo di grandi mattatori come Bob Thornton e Freeman; della passata verve. La neve torna a macchiarsi di sangue, ma a calpestarla sono personaggi poco carismatici. Le famiglie malavitose che ispirano tanti sbadigli; il poliziotto tutto d'un pezzo di Patrick Wilson, con a casa moglie malata e una figlia da crescere; la sciampista frustrata e il macellaio timido che qui e lì, complice una Dunst svampita ma affatto degna di stupore, ti fanno appassionare alla loro bizzarra odissea di provincia. Rimasto significativamente a bocca asciutta durante la stagione dei premi, al contrario del suo predecessore, questo Fargo è come immaginavo (sbagliando) avrei trovato il primo capitolo. Più lento, più serio, più classico. Appunto, più così. (7)

Ricordo di averla incrociata sulla copertina di un romanzo Sonzogno. L'autobiografia di Sophia Amoruso, classe 1984, raccontava un'altra faccia del sogno americano. Ventenne a San Francisco, la giovane frequentava i locali indie e i negozi dell'usato. In testa: un'idea vincente di moda. Da un negozio virtuale su Ebay può nascere un'impresa di successo? Ci si può arricchire facendo affidamento su una gran faccia tosta, vestiti a basso costo e un po' di fortuna? Sì, se vivi negli Stati Uniti prima dell'era Trump e c'è abbastanza spazio per chi ha il coraggio di buttarsi. Sì, se in una manciata di giorni – e con un sorriso imperituro – ti concedi i tredici episodi di Girlboss. Biopic in formato tascabile, romanzato quanto basta, parla dell'Cenerentola di periferia che scoprì l'America in un'intuizione da poco. Gli inizi della carriera della Amoruso, pazza e battagliera, partono dall'ultimo di una lunga serie di licenziamenti e dall'ennesimo acquisto non necessario. I suoi coetanei stanno crescendo, ma lei rimanda a domani quello che potrebbe fare oggi. Ha vaghi sogni di gloria, poca voglia di serietà, una connessione super veloce. Basta un click, il versamento in denaro del primo acquirente, per guadagnare la fiducia di qualcuno e le gelosie dei colleghi virtuali. Quanto ci vorrà per dire a papà che la bambina di casa è una donna in carriera? A gestire agende fitte, amanti inaffidabili e un cast centratissimo, una Britt Robertson brava come non mai: il biondo barattato per il castano scuro, la parlantina a raffica, tempi comici inaspettati e una naturale adorabilità che rendono impossibile odiarla, quando pecca di avarizia. Ha scoppi di tristezza, qualche volta, e conti in sospeso con mamma. Colorito, colorato e spassosissimo, Girlboss è una fiaba contemporanea. Una parabola classica, risaputa, con atmosfere che piaccono e comprimari così esagerati, protagoniste così belle, da sembrare una compagnia indispensabile con l'afa o con la pioggia. (6,5)

giovedì 12 maggio 2016

Mr. Ciak: Ave,Cesare!, La corrispondenza, Single ma non troppo, The Invitation, Kill your friends

Mai andati molto a genio i Coen. Fintamente leggeri, sofisticati, freddi nel loro buon gusto e in una perfezione formale che, ancora una volta, è innegabile. Semplicemente, mi ripeto, avrò visto i più sbagliati tra i loro film. Dopo A proposito di Davis, di cui avevo molto apprezzato gli sciarponi sgualciti, i gatti rossi e la voce di uno splendido Isaac, è questo Ave, Cesare! che guardo. E lì per lì rido, lo trovo spassoso e consapevole, ma c'è un ma non trascurabile. Ambientato negli anni Cinquanta, mi ha ricordato un capolavoro di nome Cantando sotto la pioggia e la mia recente visita, lo scorso dicembre, a Cinecittà. Quel film storico, che all'inizio definivo vecchio e basta, che all'universita mi aveva incantato; quel casermone dalle linee severe che, all'interno, nascondeva un'autentica fabbrica dei sogni. La loro ultima commedia, in ordine casuale, è di questo che racconta: attori che interpretano altri attori, magie. Un gioco di metacinema per soli appassionati, che ha colori sgargianti, una parata di star e una direzione da maestro. Ma, film ad episodi non dichiarato e con un debolissima cornice ad unirli tutti, presenta situazioni slegate – sequenze brillanti, omaggi nostalgici – che mancano di un filo conduttore; di nerbo. Una squadra di fuori classe e tanta eleganza, sì, ma i Coen si divertono più dello spettatore. E mollano le redini. La loro commedia, che avrà pure tutti i pregi del mondo ma i pezzi di scotch a vista d'occhio, diverte perché allo sbaraglio, essenzialmente: mentre si girano musical, western e peplum, ecco il rapimento dell'attore principale e gli sceneggiatori comunisti che reclamano sottomarini sovietici e attenzioni. La critica ufficiale, forse, lo etichetterebbe come divertissement o pastiche; uno di quegli eufemismi leziosi e ambigui, per dire che non lo ricorderai il giorno successivo ma, per carità, è d'autore, fa sorridere, e quindi i suoi meriti li ha. Meriti del comparto tecnico, grosso modo, e di una Scarlett sirena, di un Tatum marinaio e ballerino, di un Alden Ehrenreich pistolero e giullare, all'ombra dei ben più gigioni – troppo – Brolin e Clooney. (6)

Tornatore è un regista a cui voglio bene. Fino a qualche anno fa, prima che il cinema italiano, almeno, si desse a una rinnovata giovinezza, era l'unico autore di cui andavo fiero. Se ci si trova ad accogliere a braccia aperte giovani registi e si dà il benvenuto a generi che un tempo non ci appartenevano, mi addolora il passo falso di un conterraneo che ha sempre avuto cura dell'emozione. Cosa dire sulla sua ultima fatica – anche se, nel seguirlo, la fatica più grande è la nostra – che non sia già stato detto? L'insuccesso di La corrispondenza non lo comprendevo, prima di vederlo. E, ancora, non mi capacito del risultato. Un melodramma stucchevole con due protagonisti male assortiti, un'idea gettata alle ortiche e un regista che ha dato forfait. Senza mezzi giri di parole, bruttissimo. Di chi è la colpa? Una caccia al tesoro che si fa ripetitiva in fretta, un doppiaggio pessimo, una storia d'amore che risulta insana? Indipendentemente da tutto ciò, La corrispondenza parte male sin dall'incipit. Due amanti lontani per età, lui professore e lei studentessa, che si baciano come in Via col vento e si sussurrano parole gonfie di enfasi. E le parole, dopo la morte improvvisa di lui e il dolore di lei, non cessano: retoriche, zuccherose, irrazionali. Un Jeremy Irons irritantissimo, all'indomani del suo trapasso, lascia a una Olga Kurylenko in stato catatonico sms, lettere, email e case sul lago.  Il danno vero, oltre a un Morricone letargico, lo fa una scrittura che si scopre surreale, pur di non incappare nei passi del ben più godibile P.S. I Love you. Si ride dell'impiego di stuntman di lei – a cui, in una sequenza ridicola, taglia la strada un'anziana in carrozzella – e i comprimari, burattini senza fili, sono inanimati smista-posta mandati lì dal caso. Troppe le coincidenze, infinite le falle narrative: le loro età distanti, tra l'altro, rendono irreale, carico e gelido cotanto struggersi.Tornatore, ti sei perso? Tornatore, però torna. (4)

Alice, impiegata in uno studio legale, si è presa una pausa di riflessione dal suo fidanzato: vuole sperimentare. Sua sorella, Meg, ha 40 anni, nessuna relazione stabile e il desiderio improvviso di avere un bambino, da sola. Robin, strabordante e sboccata, un fidanzato non lo cerca; Alice, invece, ha creato un algoritmo per trovare quello perfetto. Il fidanzato di Alice la molla per un'altra; Meg, in attesa del fiocco rosa, conosce una tipo bizzarro ma dolce; Robin è Robin e Alice, che scrocca il wi-fi al bar sotto casa, fa mettere la testa a posto al barman dongiovanni di turno. Single ma non troppo – imbarazzante trasposizione dell'inglese How to be single – mi ha fatto compagnia in una seria infrasettimanale e, a sorpresa, si è rivelato meglio del previsto; gradevolissimo. Io, che immaginavo un Sex & The City con un rinnovo generazionale, mi sono trovato davanti, invece, una commedia corale ben recitata e piuttosto ben pensata, lunga e popolosa, ma a cui la regia del fresco Christian Ditter e la penna di Marc Silvestein, già sceneggiatore di La verità è che non gli piaci abbastanza, danno ironia, ritmo e, qui e lì, un romanticismo che non intacca il proposito iniziale: mostrare un gruppo di amiche che bastano a loro stesse. New York è bella, e più belle ancora sono Dakota Johnson e Leslie Mann, sorelle indipendenti; poi c'è la classica Rebel, volgarissima, e una superflua Alison Brie, che invece, dalla sua, non ha neanche la simpatia esagerata della Wilson. Qualche personaggio – la Brie, appunto, il vedovo facoltoso e il barista per trombamico – apparentemente non ha una collocazione precisa. Aveva senso inserirli, se una protagonista ci mette la freschezza, l'altra la maturità e la terza i doppi sensi a gogò? Direi di no, ma Alice, abbarbicata su un monte e con una copia di Wild sul comò, in un elogio ponderato alla solitudine, ci dice che qualche donna resiste ai vuoti e qualcuna si accasa, che qualche uomo cambia e qualcuno viene a patti con l'abbandono. (6,5)

Will e Eden si sono separati. Si rivedono a cena, due anni dopo la tragedia, con i rispettivi compagni e gli amici di sempre. I faccia a faccia, inevitabili; l'ingresso di nuove figure, in una compagnia altrimenti affiatata; meccanismi che scattano e di rado si inceppano, tra fascinazione, gelosie e eros. Chi è più strano fra loro, tutti gaudenti e amichevoli, e Will, al contrario, sospettoso e inaffidabile? The Invitation, invito a casa con mistero, è un thriller indipendente che in rete ha subito fatto parlare di sé. Per alcuni, addirittura, siamo al cospetto del thriller dell'anno; per chi non porta pazienta, invece, altro non è che una lunga noia. Io mi colloco tra un eccesso e l'altro. Incrocio ideale tra il nostro Perfetti sconosciuti e The Path, serie Hulu attualmente in onda, ha tutta l'aria di un dramma da camera a tinte fosche, sull'elaborazione e il perdono. L'ultima mezz'ora si rivelerà, infine, un'escalation di violenza e tensione non così prevedibile. Il giusto compromesso tra l'introspezione degli inizi e la fretta dell'epilogo. The Invitation spicca per una scrittura profonda – più nel dramma dei due genitori che nei risvolti da brivido – e una recitazione, nonostante un cast di bellocci del piccolo schermo, sopra la media. Ma come un incensato Honeymoon, curato nel romanticismo e sbrigativo se alle prese con l'omaggio allo sci-fi d'altri tempi, il thriller psicologico funziona più parlando dell'elaborazione che dei coltelli nascosti dietro la schiena. Del dolore, e di tutti i mezzi a nostra disposizione per sfuggirvi. Al lutto, e ai ricordi scomodi. Allora, c'è la rabbia silenziosa di Logan Marshall-Green, che non dimentica. Sorrisi falsi, per la seducente Tammy Blanchard, e la complicità del sempre corteggiatissimo Michiel Huisman, che in una comunità religiosa – e in un amore non del tutto disinteressato – han trovato illusoria consolazione. (7)

Steven, giovane ai vertici di una casa discografica, in anni in cui la musica vendeva, e di musica si viveva o si moriva, ha tanti potenziali nemici, troppe grane e più di qualche grattacapo. Per fortuna, Steven non ha peli sulla lingua e nessuno scrupolo. Accattivante e spietato, perennemente su di giri, avrà forse paura di sporcarsi un po' le mani per ottenere ciò che desidera? Tratto da un romanzo di John Niven e diretto con agilità dal semi-esordiente Owen Harris, Kill Your Friends è una commedia nera e a tinte splatter, con una colonna sonora preziosa, il panorama musicale anni Novanta a fare da suggestivo sfondo e, infine, un protagonista cinico e divertentissimo che regala al film le sue trovate migliori. Maestro nelle macchinazioni, shakesperiano negli umori, ha il volto di un bravissimo Nicholas Hoult, che con una prova piacevolmente sopra le righe fa dimenticare gli errori di ingenuità: un epilogo crudissimo contrapposto a un incipit canonico, ad esempio; meno eccessi di quanti ne avrei graditi; risvolti intuibili. Il prodigioso bambino di About a boy e Skins è cresciuto, ed è diventato un perticone di un metro e novanta, bello come il sole e sfacciato in modo assurdo: arrivista come pochi. Perché questo Steven, che sembra un Patrick Bateman rivisto e corretto o, ancora, il "lupo" Jordan Belfor passato dai titoli in borsa ai pentagrammi, si rivolge a tu per tu alla macchina da presa, manda giù sciacquabudella a fantasia, conosce a fondo la cocaina e le sue infinite derivazioni e, come se avesse importanza, la musica che produce nemmeno gli piace. (6,5)