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venerdì 14 novembre 2025

Il buio in salotto: Interview with the Vampire | Monster: Ed Gein | Il mostro

Misteriosamente passata in sordina in Italia – arriverà su Netflix a dicembre –, è già arrivata alla terza stagione in patria. Perché la serie TV tratta dai romanzi di Anne Rice sta facendo così fatica a trovare il suo pubblico? Perché io stesso ho recuperato le prime due stagioni dopo anni di rimandi, per poi rimanere abbagliato da una trasposizione che – nell'anno dei fasti di I peccatori – brilla per eleganza di scrittura, efferatezza e sensualità? La storia, già raccontata in un film con Tom Cruise e Brad Pitt, cambia forma e dinamiche, ma mantiene immutati il gusto scenografico e le elucubrazioni. Jacob Anderson e Sam Reid – che nulla, notorietà a parte, hanno da invidiare al duo originale – ripropongono l'eterno conflitto tra creatore e creatura, all'interno di una relazione tossica minata dall'arrivo di Claudia: figlioccia adolescente avida di libertà. Nella seconda stagione, ci si sposta a Parigi e, in fuga dalla solitudine, ci si unisce a una congrega. Tra canti, balli e mattanze, lo spettacolo si fa più spettacolare ancora e, mentre subentra il nuovo amore per Assad Zaman – più anziano, più saggio, più costante di Lestat –, si gettano le basi per uno degli episodi più belli dell'anno. La memoria di un immortale è sempre infallibile? Si può vivere onestamente, nonostante il troppo sangue versato? Da questo trio, in una serie opulenta e imprevedibile come un ballo in maschera, chi non si lascerebbe azzannare? (8)

Dopo le stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e ai fratelli Menendez, la serie di Ryan Murphy abbandona l'asciuttezza del dramma processuale per sposare i toni dell'horror. Benché molto patinata, potrebbe mettere alla prova con scene gore e voyeurismo: niente, tra nefandezze e feticismi, ci è risparmiato. L'obiettivo, ambiziosissimo, è non tanto realizzare il biopic di Ed Gein, ma raccontare un'epoca; un Paese. Non sempre all'altezza, gli episodi mettono troppa carne al fuoco e peccano di una direzione incerta. In disordine, si parte dal mondo interiore di Gein (gli abusi materni, il trauma della Shoa, la disforia di genere) per poi fare tappa a Hollywood (Psycho, Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti sono alcuni dei film ispirati al suo modus operandi) e negli uffici dell'FBI (Gein, infatti, avrà un ruolo chiave nella cattura di Ted Bundy). Ne emerge un ritratto non sempre accurato, ma multiforme e personale, che trova una sua identità nel corso degli ultimi episodi: quelli meno sanguinosi e più lirici, dove un Charlie Hunnam da Emmy conferma un'intensità perfino superiore alla sua avvenenza e l'irriconoscibile Vicky Krieps ruba a molti la scena nelle vesti di una sadica nazista. Quando abbiamo fatto di un serial killer un'icona pop? Quando abbiamo trasformato un uomo schizofrenico in un mostro? (7)

Alle porte di Firenze, ha ucciso otto coppie nell'arco di diciassette anni. L'incubo di una generazione di innamorati — già al centro di una miniserie Sky con Ennio Fantastichini e di innumerevoli podcast — torna in una produzione attesissima, con la firma di uno dei registi più internazionali del nostro cinema: Stefano Sollima. Lontano dallo sperimentalismo a cui ci ha abituato, sceglie una maggiore asciuttezza — in cui, però, si fatica a scorgere la sua impronta — e un taglio inedito ma discutibile. Più che di una serie sul Mostro, si tratta di un prequel sul delitto di Barbara Lonci e Antonio Lo Bianco: a collegarli alle altre morti, l'utilizzo della stessa pistola. Frammentario e confuso, Sollima si muove tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, la Sardegna rurale e una Firenze assediata, col risultato che le indagini facciano semplicemente da contorno alle vicende della famiglia Mele: un marito pavido, una donna sottoposta a violenze esasperanti, le frequentazioni ambigue coi fratelli Vinci. Pacciani e i famigerati compagni di merenda faranno capolino nella seconda stagione? In questa storia di misoginia e repressione sessuale, per ora, non c'è spazio per gli eventi più noti né per un cast di nomi altisonanti: a spiccare, nell'anonimato imperato, è il solo Valentino Mannias, sinuoso e spietato come un lupo. (5,5)

venerdì 7 novembre 2025

Recensione: La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo

 La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo. Feltrinelli, € 20, pp. 432 |

È un grande anno per il cinema horror. Per non essere da meno, anche Feltrinelli si è messa al passo con un romanzo citazionista e dalle atmosfere vintage, che farà la gioia e il terrore degli amici cinefili. Ambientato nel cuore degli anni Novanta, in un sobborgo residenziale ormai in decadenza, racconta di una banda di amici con l'hobby dei film di genere e delle bravate. A sedici anni, la morte è un pensiero incidentale. Al TG: qualche incidente stradale, suicidi in sordina, la piaga dell'Aids. Medhi, membro dell'unica famiglia straniera del quartiere, è vittima del bullo della scuola. Alex ha da poco sepolto la madre, divorata dal cancro. Tom, ossessionato dagli insetti, vorrebbe aizzare una scolopendra contro il patrigno. Max, fidanzato con la bella del liceo, è attratto dal gemello di lei. Lena, l'ultima arrivata, è in fuga da un passato violento.

A volte era sembrato a Lena che lei e i suoi amici sarebbero stati in un certo modo eterni e che l'universo esistesse solo per loro, semplicemente perché erano là a posarvi lo sguardo. Ma ormai era consapevole della loro fugacità, fragilità e impermanenza, aveva acquisito quella consapevolezza del tempo che passa, preleva quello che gli devi e non offre in cambio che un po' di oblio.

Tutti hanno le proprie ombre. Tutti sono attratti dalla casa nell'impasse des Ormes. È lì che si manifestano le fobie e i desideri più sfrenati, in un budello infernale a metà tra il sonno e le veglia. Il folgorante Jean-Baptiste Del Amo, colpevolmente scoperto qui e ora, è la luce in un mondo prigioniero della penombra, dove gli incubi si mescolano ai sogni erotici e i bassi istinti prendono il sopravvento. In un angosciante gioco di specchi e doppelganger, sarà impossibile distinguere una dimensione dall'altra e arginare le conseguenze. Derivativo sin dalle premesse, appesantito da una cinquantina di pagine di troppo e non sempre fedele alla sua dimensione corale, La notte devastata resta comunque una lettura sinceramente spaventosa in cui riecheggiano le grida di It, Nightmare, Amityville Horror.

L'innocenza può essere un inferno.

A elettrizzare, tuttavia, non sono soltanto gli insetti giganti, i parti mostruosi, gli sfondi lovecraftiani, ma la descrizione di un'adolescente sensoriale e irrequieta che tanto somiglia a quella dei romanzi del connazionale Nicolas Mathieu. Divisi tra frustrazione, fumo e noia, i protagonisti si scoprono prigionieri di un film horror con la colonna sonora dei Nirvana, in cui l'incanto infantile è ormai spacciato e la consapevolezza del tempo, della diversità e dell'oblio, conducono sulla soglia del più spaventoso dei mondi: quello degli adulti. Si sopravvive alla morte dell'innocenza?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are 

mercoledì 22 ottobre 2025

Recensione: Frankenstein, di Mary Shelley

| Frankenstein, di Mary Shelley. Feltrinelli, € 10, pp. 320 |

Un laboratorio cavernoso. Un corpo a pezzi, ricucito con rattoppi di fortuna. La scintilla di un lampo. Poi, un’esclamazione di trionfo: è vivo. Eppure, questa e altre scene — radicate, ormai, nell’immaginario collettivo — non esistono nel romanzo di Mary Shelley. Nessun cimitero viene profanato in nome della scienza. Gli omicidi avvengono fuori scena. L’epilogo, struggente, è una promessa di morte poco prima del sipario. Filtrato interamente dallo sguardo di Victor, il romanzo segue la sua biografia dall’infanzia fino alle estreme conseguenze dell’esperimento. Ubriaco di conoscenza, lo scienziato flirta con l’alchimia: non trova la pietra filosofale né l’elisir di vita eterna, ma riesce comunque a imbrigliare la morte — e a restituire respiro alla materia inerte.

L'invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos.

Tra lunghe peregrinazioni dalla Svizzera al Polo Nord e lettere alla promessa sposa Elizabeth, Victor tenta di placare il proprio ardore febbrile e di lasciarsi alle spalle il suo famigerato mostro. Ma non è un caso che, ancora oggi, nominando Frankenstein, si pensi prima alla Creatura — in realtà, senza nome — e solo poi al suo creatore. Pur concedendole meno spazio di quanto ci si aspetterebbe, Shelley fa della Creatura un grande attore non protagonista: un mostro incompreso e gentile, che si commuove spiando la quotidianità di una famiglia di contadini, e legge Goethe, Plutarco, Milton per imparare a distinguere il bene dal male. Tagliato fuori dal mondo, ma animato dalla stessa irrequietezza del suo artefice, seminerà una lunga scia di sangue pur di condannare l’altro alla medesima solitudine.

Se non riesco a ispirare amore, causerò paura.

Tra Svizzera, Francia e Irlanda, a lungo andare i viaggi si moltiplicano; gli elementi raccapriccianti degni di Bram Stoker, invece, scarseggiano. Mary Shelley — all'epoca, una geniale diciottenne logorata dall’amore tossico per il poeta Percy — firma un romanzo di formazione elegante e terribile sulla crudeltà del più sapiente tra gli uomini. E continua a dialogare, da due secoli, con la letteratura gotica, il cinema e le serie TV. La nostra immaginazione, infatti, ricama i dettagli sui quali l’autrice sorvola. Perché Frankenstein è vivo, sì. E anima un inseguimento tortuoso e implacabile, disseminando orme e indizi lungo la strada. Forse, vuole solo essere trovato. Perché avere un nemico che giuri di braccarci per sempre — fino in capo al mondo, fino alla fine dei tempi — significa non essere mai più soli.

Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine - Everybody Scream

martedì 7 ottobre 2025

Recensione: Le notti di Salem, di Stephen King

| Le notti di Salem, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 14, pp. 656 |

Per un lungo periodo della mia vita — tra la fine delle elementari e il liceo —non ho letto altro che Stephen King. Nella mia vecchia camera, sul letto, ho una mensola con schierati tutti i suoi romanzi più famosi. Anzi: avevo. Quest'estate ho riposto tutte le mie cose, smantellando scaffali e ricordi, per l'imminente trasloco di papà. La mia adolescenza è in un garage — materiale fragile, maneggiare con cura. Ma ho voluto sottrarne una piccola parte, tenendo fuori dagli scatoloni uno dei pochi classici finora mai affrontati: Le notti di Salem. Tra incanto e terrore, proprio come accadeva da ragazzino, ho realizzato che il me adolescente non sbagliava: Stephen King resta il più grande narratore sulla faccia della terra.

Ogni notte bisogna combattere la stessa battaglia e l'unica cura è l'inevitabile atrofizzazione delle facoltà immaginative, quell'evoluzione che si chiama età adulta.

Scritto sul finire degli anni Settanta, il romanzo è cinema allo stato puro. Benché lontano dall'introspezione di It, contiene già traccia del capolavoro che arriverà qualche anno dopo. Anche qui abbiamo una cittadina immaginaria dove i fantasmi del Vietnam, gli scandali e i segreti affollano le confessioni più nere dei parrocchiani. Anche qui abbiamo un ritorno a casa, alle origini del male, e un gruppo di eroi coraggiosi — accanto a Ben, scrittore in cerca di ispirazione, ci sono un professore a un passo dalla pensione e un piccolo boyscot ossessionato da Houdini. Le assi scricchiolano. Le porte cigolano. Le risate argentine dei bambini ghiacciano il sangue nel cuore della notte. Su tutto e tutti, ritta su un poggio come un dio crudele, domina Casa Marsten: teatro di un misterioso omicidio-suicidio dopo la crisi di Wall Street, attira puntualmente uomini malvagi e, questa volta, diventerà testimone di una mattanza senza pari. Sopravvivranno in pochi.

L'oscurità è quando i mostri ti prendono.

Chi sono gli ultimi arrivati, Staker e Barlow, e cosa contengono quelle casse polverose portate dall'Inghilterra? Che fine hanno fatto i fratelli Glick e perché i cadaveri fuggono via dall'obitorio, tenendo in scacco il borgo? Con un montaggio alternato degno dei maestri del cinema, King segue la lotta alla sopravvivenza dei suoi protagonisti dal tramonto all'alba. Ogni scena è sezionata con attenzione autoptica. Ogni personaggio, perfino il più dimenticabile, ha un background indagato nel dettaglio. I ritmi sono implacabili. Ma è nelle lunghe sequenze corali — le migliori — che King sfoggia tutto il talento di cui è capace, spostandosi in volo da una casa all'altra di Lot. Viene fuori, così, il ritratto oscuro di una America provinciale e perbenista, dove gli eredi di Dracula troverebbero tutt'ora terreno fertile. Tra acqua santa, aglio e paletti, King si diverte come un bambino dispettoso. E cinquant'anni dopo non smette di divertirci, con l'omaggio a Bram Stoker che esisteva — e mordeva — prima di Netfix, prima del binge watching, prima dei remake.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Dead Can Dance – The Host of Seraphim

martedì 16 settembre 2025

Halloween in anticipo: Weapons | Bring Her Back | 28 anni dopo | So cosa hai fatto | Heretic

Era stato etichettato come l'horror dell'anno ancora prima di arrivare al cinema. Al battage pubblicitario, poi, si sono aggiunti gli incassi: sorprendenti, soprattutto in estate. Che fine hanno fatto diciassette bambini scomparsi nel cuore della notte? Per venire a capo del mistero, Cregger confeziona un film a capitoli, lungo e ambizioso, in cui punti di vista diversi si intrecciano in preparazione del finale: intrattenente, ma al di sotto delle aspettative. Servivano due ore che oscillano dal mystery al grottesco fino allo splatter più puro? Serviva una struttura-puzzle che poco spiega dei personaggi e troppo a lungo maschera, rimanda, dissimula una verità soprannaturale? Più derivativo del previsto — una versione blockbuster di Longlegs, con cenni a Stephen King —, Weapons punta all'iconicità con le sue corse a braccia larghe e le apparizioni terrificanti di zia Gladys. Ma si limita a riproporre in chiave contemporanea le fiabe più oscure dei Grimm, trasformando in una folle corsa a zig-zag un cammino altrimenti linearissimo. Qualcuno si sentirà preso in giro. Qualcuno, invece, si divertirà. Io, nel mezzo, aspetto Together — e mi tengo stretti gli altri film del post. (6,5)

L'horror è il genere che meglio si presta a cambiare pelle. A tormentare. A sviscerare ciò che fa più male. È il caso di Bring Her Back, ritorno alla regia del duo di Talk to Me, che attraverso una trama archetipica — due fratellastri ospiti di una strega cattiva — fruga nelle viscere degli abusi familiari, della disabilità, del trauma, del lutto. Scritto come una fiaba nera, lascia i protagonisti in balia di Sally Hawkins. Sottovalutissima, regala un'interpretazione destinata a trasformarla in una delle villain più memorabili del cinema recente. Coi suoi rituali, con le sue videocassette sgranate, fa una paura matta. E spezza il cuore, in un film dove il sangue — copioso, forse inutilmente — è un inganno per inchiodarci a una parabola alla Hereditary sull'insostenibilità di certe perdite. Non esiste un termine per definire una madre che ha seppellito la propria figlia. Ed è proprio in questo vuoto lessicale che l’horror affonda le mani. Allora non resta che affidarsi al cinema di genere, alla magia nera, per dare una forma — per quanto mostruosa — a tutto ciò che il dolore rende contro natura. (8)

Può un film pieno di morti essere un inno alla vita? Me lo chiedevo l'anno scorso, davanti al prequel di A Quiet Place. L'interrogativo, insieme alla commozione, mi ha seguito anche in 28 anni dopo. Il Regno Unito continua a essere il focolaio di un contagio. I protagonisti utilizzano la terraferma come terreno di ricognizione. Ci sono un padre col complesso dell'eroe (Taylor-Johnson, di nuovo con arco e frecce), una mamma malata (Comer: da nomination) e, soprattutto, un dodicenne contro le regole (l'esordiente Williams, straordinario). Garland stupisce con un romanzo di formazione sanguinoso ma delicatissimo, dove abbondano i cenni alla contemporaneità — il Covid e la Brexit, la mascolinità tossica e l'eutanasia — e Boyle può ricordarci di essere tra i più grandi registi viventi. Tornato alla regia della serie, alterna una prima parte iperviolenta a un prosieguo dal lirismo struggente, dove la vita si annida dappertutto e le ossa impilate ci ricordano che la morte e l'amore, forse, non sono che due teschi della stessa medaglia. (7,5)

Da adolescente, a torto, l'ho sempre trovato la copia sbiadita della saga di Scream. Il tempo mi ha dato torto. A sorpresa, So cosa hai fatto è invecchiato meglio del previsto, e quello arrivato al cinema a metà luglio — a cavallo tra sequel e remake — è un ritorno alle origini che ho trovato delizioso. Il merito spetta a una scrittura fresca e genuinamente divertita, che dialoga con le commedie splatter e omaggia le atmosfere anni Novanta senza però scordare i colpi di scena. Il nuovo cast, in cui brilla l'esilarante Madelyn Cline, si muove sulla vecchia scena del crimine. Tornano i superstiti dell'originale — iconico il cameo di Sarah Michelle Gellar —, ma in un film dove il passato torna a mietere vittime non c'è troppo spazio per la nostalgia. I ricordi ci ammazzeranno tutti. Per fortuna, quelli del film di Jennifer Kaytin Robinson ci hanno salvato dalla noia delle uscite in sala. Da vedere possibilmente al cinema, tra i risolini delle ragazzine e gli avanzi di popcorn. (7)

L'incipit: tra i più classici. Due ragazze giovani e belle bussano alla porta di un uomo misterioso in un giorno di pioggia. Potrebbe essere il prologo di uno dei tanti torture porn. Heretic, invece, è un horror psicologico arguto, cerebrale, originalissimo. Sophie Tatcher e Chloe East sono una coppia di missionarie e Hugh Grant, qui nel ruolo di uno dei villain più memorabili degli ultimi anni, è un padrone di casa che le costringe a un sadico gioco di ruolo. Ai fiumi di sangue, i registi Scott Beck e Bryan Woods preferiscono quelli di parole. Pur non disdegnando scantinati oscuri e stilettate, curano un gioiello dalle atmosfere teatrali e dalle riflessioni caustiche. Il loro film – frutto di dieci anni di lavoro – sintetizza le contraddizioni delle tre grandi religioni monoteiste come un piccolo manuale di teologia, e ci dice che il cristianesimo è solo la copia di mille riassunti. Quale sarà il prossimo aggiornamento? Chi saluteremo come nuovo Messia? Io ho fede in A24. E nell'horror come metafora massima della vita, della morte e di ciò che, sfuggente, c'è nel mezzo. (7,5)

venerdì 13 giugno 2025

Recensione: Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo

| Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo. Mercurio, € 19, pp. 264 |

In X, primo capitolo della trilogia cinematografica di Ti West, c'è una sequenza in cui la terrificante Pearl — ormai anziana, ma non per questo meno sanguinaria — si intrufola nel letto della pornodiva Maxine. È attratta dal suo calore, dalle sue carni sode ed elastiche, dalla sua giovinezza. Gli spettri del romanzo d'esordio di Matteo Cardillo provano la stessa fame struggente verso la vita che hanno lasciato. È per questo che si concentrano a Bologna, la città universitaria per antonomasia, al piano terra di un palazzone in stile Liberty aperto agli studenti. Mentre un'estate implacabile svuota le strade della città e i mandarini imputridiscono sui rami, nell'appartamento di Viale XII giugno si snodano le esistenze e le relazioni degli inquilini. Storie di sesso e tradimenti, di crisi personali e lavorative, che ben presto rianimano dal sonno eterno gli antichi abitatori. Il risveglio sensoriale di Amarsi in una casa intestata, a confine tra il romanzo di formazione e la ghost story, tra il desiderio e l'orrore, contagia anche i morti.

Ci saremmo di nuovo baciati con affetto come facevamo un tempo, sulle spalle, sulle clavicole, dicendoci ti amo, rispondendoci ti amo anch'io, perché in quello spazio fuori dal tempo, quel luogo della notte, nel tempo dei morti, tutto vale e tutto esiste ancora e non esiste più, e così anche i noi due di una volta.

Aggrappato a quel che resta dei vent'anni e a una relazione ormai al capolinea, il protagonista — per tutto il tempo senza nome — diventa un diapason per gli spiriti intrappolati dietro le pareti e, soprattutto, la voce di una generazione in cerca di risposte: la mia. Alle pareti ci sono poster di Argento. Le sorelle Morelli, le enigmatiche proprietarie di casa, somigliano alle dame velate dei film di Plaza e Balagueró. La campagna emiliana della medium Beniamina è la stessa del capolavoro di Avati. Con una scrittura personale e magmatica, Cardillo attinge a piene mani al cinema di genere, di cui è dichiaratamente fan, ma non dimentica che il linguaggio dell'horror ben si presta alla metafora. Tra le pagine, così, l'autore pugliese ospita un dolente giro di vite dove presente, passato e futuro si confondono e gli amanti abbandonati, insieme ai traumi rimossi, scivolano inesorabilmente nell'intercapedine dei nostri ricordi. Esiste forse tragedia peggiore della bellezza sciupata? I fantasmi ci spiano dalle porte a vetri, scavano nella carta da parati, picchiano contro i muri. Un po' ci tormentano e un po' ci consolano — vittime come siamo del precariato, della schiavitù delle app d'incontri, degli strascichi fisici e psicologici del Covid-19. Sarà proprio il loro fiato gelido a ricordarci che siamo caldi. E vivissimi. Tanto vale, allora, lasciare che i lamenti si confondano coi gemiti di piacere. E dormire insieme, popolando il buio di carezze, per scoprirsi meno estranei e spaventati di quanto non fossimo la notte prima.

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matia Bazar – Elettochoc

martedì 18 marzo 2025

Recensione: Katie, di Michael McDowell

| Katie, di Michael McDowell. Neri Pozza, € 14,90, pp. 440 |

È divertentissimo, sanguinoso, improbabile. Fino all'ultima pagina, è stato un chiodo fisso: la mia nuova ossessione. Ambientato nella New York ottocentesca di Edith Warthon, fa il verso al romanzo d'appendice. Prima di smembrarlo, pezzo per pezzo, con una ascia affilata. Katie, piccolo e implacabile dietro la copertina d'altri tempi, è un gotico che confermerà ai fan il talento di Michael McDowell: scomparso ventisei anni anni fa e a lungo considerato dalla critica un autore di serie B, gode finalmente di un successo tardivo grazie a Neri Pozza. Lo leggo qui e ora per la prima volta. Da adolescente, quando guardavo vecchi slasher e consumavo soltanto romanzi di Stephen King, ne avrei amato alla follia la crudezza. Adesso, pur stordendo un po' il naso davanti alle svolte più rocambolesche della trama, mi sono goduto comunque la corsa a perdifiato su queste montagne russe: accanto a me, sedeva una cattiva di rara perfidia, a metà tra la Pearl di Mia Goth e la serial killer Lizzie Borden.

Ho giurato a me stessa di vederli tutti e tre morti. Mi trasformerò in un segugio, li braccherò nelle loro tane, li farò impiccare, e quella notte dormirò ai piedi della loro forca. Il tanfo di decomposizione dei loro cadaveri sarà un balsamo per me.

Cresciuta in una famiglia rozza, stolida e avara, Katie Slape è l'artefice di omicidio aberranti ai danni di uomini, donne, bambini, animali. Dotata di misteriose capacità premonitorie e attratta dalle ricchezze al pari di una gazza ladra, si appropria del patrimonio di Philo Drax: una ragazza virtuosa ma sfortunata, ingiustamente accusata della morte del nonno. Per ironia della sorte, le due si troveranno a vivere a poche strade di distanza l'una dall'altra. Sullo sfondo di una città sapientemente rievocata tra spiritismo e cabaret alla moda, investimenti fallimentari a Wall Street e lucidascarpe in ogni dove, McDowell annoda le mille trame — senza nessuna paura di sporcarsi le mani — di una favola nera sognante e terribile, dove le eroine vivono sciagure indicibili, pur mantenendo incorrotti i loro valori, e gli antagonisti vengono sempre puniti dalla sorte. Miete più vittime una lama, infatti, o il karma? Divertito e onnisciente, l'autore americano mette il suo sapere nella costruzione di un contesto storico credibile in ogni dettaglio, con un occhio di riguardo alla condizione femminile: Philo, all'inizio idealista, scoprirà presto i mezzi coi quali le sue coinquiline sopravvivono alla crisi economica. È possibile smaliziarsi senza mai perdere la dignità e, nel frattempo, trovate perfino un marito facoltoso? Il resto, che ovviamente non vi svelo, è intrattenimento impagabile e purissimo. Astenersi i deboli di cuore. Il martello di Katie non lascia superstiti, né fa sconti.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Meghan Trainor – Criminals

lunedì 7 ottobre 2024

Recensione: Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, di Irene Solà

| Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre. Irene Solà, Mondadori, € 18,50, pp. 156 |

Cosa succederebbe se David Eggers, il regista di The Witch e The Lighthouse, dirigesse una sceneggiatura firmata dal fantasma di Gabriel Garcìa Màrquez? La bravissima Irene Solà, autrice catalana già di culto presso i millennial, sembra mostrarcelo in questo incubo a occhi aperti. Un po' menestrello, un po' strega, ci apre le porte di una saga familiare fosca e oscena, i cui personaggi si muovono in un limbo brulicante di insetti. Siamo in una stamberga sui Pirenei. Il casolare del Mas Clavell è paragonato a un corpo in decadenza, le stanze a una bocca guasta. È una proverbiale notte buia e tempestosa e, costretta a letto, la vecchia Bernadeta attende la morte: non è il paradiso che la attende. Veggente, è stata l'amante del Maligno in persona e una degli ultimi membri di una famiglia di donne irredente. Eccole, riunite intorno al capezzale, pronte a trascinare la parente inferma all'inferno. Hanno sgozzato un capretto. E disordinatamente, confondendosi coi vivi, si sono raccontate senza filtri al lettore. Vissute a cavallo tra le due guerre, appartengono a una progenie maledetta: nel loro DNA c'è il gene della mancanza, dell'abbandono.

Perché di mattino una donna ingenua poteva illudersi che la notte fosse finita. Mentre la notte non finiva mai, attendeva di nascosto e faceva sempre ritorno.

Solà ci propone un carosello spettrale di orgogliose peccatrici e, sondando le ombre, ci intrattiene con bambini divorati nella culla, abusi e mattanze, selve popolose di belve e briganti. Per leggerla è vietato essere impressionabili: gli argomenti scabrosi abbondano e poco è lasciato all'immaginazione. Il suo romanzo è una carogna che disgusta, eppure, misteriosamente, attrae. Come volgere lo sguardo altrove? Schiavo del turbamento, ho subito tessuto le lodi di una scrittura ritmica e fortemente suggestiva: sensuale perfino nell'orrore più turpe. Il difetto è che la trama non presenta una vera evoluzione e che, fino all'ultima pagina, aspettiamo soltanto l'ultimo rantolo di Bernadeta. Eccessivamente barocco, prima affascina e poi affatica, con uno stile densissimo e un albero genealogico troppo ramificato per duecento pagine scarse. Si respira un sentore di decomposizione. Ma anche l'odore del soffritto che intanto frigge in padella: cipolla, lardo, cannella. C'è una festa da preparare. Alienate dal mondo, mosse da attrazioni incestuose e fantasie di zoofilia, le donne di casa sghignazzano delle diavolerie dell'epoca contemporanea e nutrono nostalgia per gli eccessi che furono. Sono vittime inermi del Secolo breve o femministe all'avanguardia, in un passato in cui altrimenti non avrebbero avuto voce? Il loro sabbat è un commiato senza speranze in cui le tenebre sono l'unico spettacolo da rimirare; l'unica coperta abbastanza lunga da stringerle tutte insieme ancora una volta.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Thom Yorke – Volk


martedì 1 ottobre 2024

Recensione: Elizabeth, di Ken Greenhall

| Elizabeth di Ken Greenhall. Adelphi, € 19, pp. 173 |

Seduta in soffitta, a gambe incrociate, studia il suo riflesso allo specchio. Bellissima, mostra più dei suoi quattordici anni. La minigonna mette in mostra le gambe tornite e una ferita ancora fresca: è il morso di un ragno. Dall'altra parte della finestra New York è una foresta di grattacieli. All'improvviso sullo specchio si proietta l'immagine di un'altra donna: proviene da un'altra epoca, il Cinquecento, e da un'altra dimensione. Ha inizio, così, un dialogo strano e perturbante tra due generazioni lontane; tra un'allieva e la sua guida. Come si diventa una strega? Elizabeth è un'alunna provetta. Responsabile della tragica morte dei genitori, ha uno zio per amante e un'istitutrice inglese che pende dalle sue labbra. Nessuno — lettore compreso — può resistere ai suoi desideri mostruosi e alla sua oscura libidine. La seduzione è un'arma. Fin dove si spingerebbe per imparare a tracciare formule magiche con il suo rossetto scarlatto?

Tutti abbiamo diritto ai nostri segreti. Potremo forse affrontare il mondo con un minimo di sicurezza, senza la giusta dose di conoscenza non condivisa? La conoscenza di ciò che succede tra due persone nel buio di una stanza?

Accolta in un'antica famiglia di armatori navali, vivrà un soggiorno da brividi nella casa di Coenties Slip: vi seminerà turbamento e scompiglio. Come in ogni gotico degno di questo nome, non possono mancare all'appello stanze piene di specchi; feroci animali domestici contro cui accucciarsi per prendere sonno; un omicidio consumato con un candelabro d'argento. Ken Greenhall, contemporaneo di Shirley Jackson, debutta in Italia a dieci anni dalla sua morte con un teen horror esile ma dalle atmosfere suggestive, delirante nel contenuto ma elegantissimo nella forma. Al di sopra del bene e del male, contorto e sessualmente ambiguo, il romanzo è un covo di desideri inconfessabili su una ninfetta irrequieta: dietro il fare provocante, però, come ogni adolescente, sogna di vivere una vita straordinaria o un amore che appaia meno soffocante dell'odio. Abbraccerà la sua eredità o la avverserà? L'epilogo, frettoloso, lascia con la sensazione che nella giovinezza della protagonista ci saranno altri misfatti, altri colpi di fulmine, altre scoperte. Quanto sarebbe soddisfacente saperne di più, leggerla ancora? Come l'antieroina di Goliarda Sapienza, costi quel che costi, Elisabeth punterà a ottenere la sua personale parte di gioia. Sarà, però, la dannazione dei più. La lettura del vostro prossimo Halloween è presto servita.

Il mio voto: ★★★

Il mio consiglio musicale: Rettore – Il Cobra

venerdì 1 marzo 2024

Recensione: Estranei - All of Us Strangers, di Taichi Yamada

| Estranei, di Taichi Yamada. Nord, € 16, pp. 216 |

Uno sceneggiatore in crisi sentimentale e creativa, pessimo nel gestire i rapporti interpersonali – in particolare con le moglie, fidanzatasi nel frattempo con il migliore amico, e con il figlio universitario –, sperimenta gli scherzi delle solitudine nel torrido agosto di Tokyo. La città, calda e trafficata, sembra essersi svuotata. Il condominio di cui occupa un appartamento al settimo piano, stipato di uffici, si spopola al calare della sera. Siamo in un romanzo giapponese degli anni Ottanta, a cui l'omonimo di Andrew Haigh (al cinema da ieri) si è soltanto liberamente ispirato. Siamo in una storia di fantasmi, a tratti sorprendentemente horror, in cui la soglia tra vivi e morti sa farsi labile. Il giorno del compleanno del protagonista coincide con una festività buddista chiamata O-bon: una ricorrenza in cui, un po' come il due novembre, si è soliti celebrare i propri defunti. E parlarci? Tornato a quarant'anni di distanza nel quartiere in cui è cresciuto, ormai zeppo di cinema dismessi e lotti abbandonati, il protagonista è ospite di una giovane coppia: dopo un pomeriggio passato a bere birra e whisky, si congeda da loro e, sul taxi del ritorno, piange di malinconia. L'uomo e la donna sono i suoi genitori, morti quando lui aveva dodici anni appena. È la fantasia del protagonista ad animarli, o c'è qualcosa di soprannaturale in atto? Una forza mortifera che minaccia di strapparlo alla realtà, all'insegna di un passato idealizzato in cui può atteggiarsi a figlio devoto?

Non sparire, adesso.

Considerato un maestro del genere in patria, Yamada punta tutto sulla fascinazione delle atmosfere e su una scrittura lineare, ma capace di sensazioni ambigue. Vietato aspettarsi lo stesso struggimento del film omonimo, che già con il trailer ci ha miseramente ridotti in lacrime. Resta, tuttavia, una profonda tenerezza nel figurarsi il protagonista bearsi delle mille premure dei familiare; godersi la quieta gioia mai sperimentata da bambino. Ma qui ci si domanda costantemente: i genitori redivivi sono spiriti benevoli o demoni sanguinari? In un limbo su misura dove l'immaginazione viene preferita alla realtà, l'ossessione per i morti rischierà di allontanarlo da Kei: una vicina di casa segnata da profonde cicatrici che, come nel mito di Amore e Psiche, domanda di non essere osservata alla luce dell'abat-jour. Fiaba cupa e minimalista sulle leggi imperscrutabili dell'aldilà, la controparte letteraria di Estranei è come un lungo corridoio angusto. A seconda del nostro stato d'animo, può ispirare smarrimento o terrore.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Pet Shop Boys – Always On My Mind

martedì 31 ottobre 2023

Un Halloween in streaming: La caduta della casa degli Usher | The Last of Us

Dopo aver adattato Jackson e James, Mike Flanagan chiude la sua ispiratissima trilogia gotica cimentandosi con un altro capolavoro dell'horror. Questa volta si rifà al maestro dei maestri, Poe, e lo omaggia in una serie densa di citazioni. Se la cornice narrativa è quella del racconta La caduta della casa degli Usher, ogni episodio si rivela invece una reimmaginazione delle novelle più spaventose. Le puntate sono caroselli di storie dentro storie. Sontuose feste di morte in cui le dipartite, splatter e fantasiosissime, provengono ora da Il gatto nero, ora da Il pozzo e il pendolo. Roderick – un carismatico e fascinoso Greenwood – è il fondatore di un'industria farmaceutica responsabile di un'epidemia di oppiacei. Spietato e senza scrupoli, ha intrapreso una fulminante scalata sociale insieme alla sorella e messo al mondo una progenie corrotta quanto lui. In pochi giorni si troverà a seppellire tutti e sei i figli. Qual è il prezzo da pagare, in una vicenda di avidità, sesso e ambizione? Meno horror delle serie precedenti ma perfino più crudele, con i suoi monologhi caustici e riflessioni al vetriolo sul consumismo, l'ultima scommessa di casa Netflix è una saga generazionale sul male di cui, a volte, le famiglie sono capaci. A interpretare gli Usher tornano i soliti attori feticcio. Su tutti aleggia la presenza seducente di Carla Gugino, la cui bellezza senza tempo la fa muovere fra epoche e travestimenti, offerte e minacce. Chi non berrebbe un cognac con lei? Gli unici incorruttibili: una nipotina idealista e un tuttofare dal passato rocambolesco (di lui parlano Le avventure di Arthur Gordon Pym), interpretato da un inatteso Hamill. Dimenticate la commozione per gli sfortunati eredi di Hill House, per me di una perfezione insuperata; gli spettri – un po' troppo melensi – di Bly Manor. Qui non c'è consolazione nell'aldilà. Non c'è riconciliazione nell'oltretomba. Sono già uno strazio le cene condivise. Chi vorrebbe trascorrere insieme anche la vita dopo la morte? (8)

I videogiochi ispirano pessime trasposizioni: è una legge universale. The Last of Us non è soltanto l'eccezione alla regola, ma è una creatura ibrida che mette d'accordo sia gli appassionati del blockbuster che gli amanti del cinema d'autore. Merito dei suoi ritmi lenti e di un andamento che ricorda gli indie The Road e Light of My Life, e perfino un po' il nostro Anna. Horror on the road ambientato in una America post-apocalittica dilaniata da mostri e banditi, la serie HBO ha per protagonisti un uomo segnato dalla tragedia e un'adolescente misteriosamente immune. All'indomani di un'epidemia tratteggiata con agghiacciante realismo, gli esseri umani vanno temuti più degli infetti. Il dolcissimo Pedro Pascal, stando sempre un passo indietro, sorveglia Bella Ramsey come farebbe un genitore apprensivo e lascia a lei le scene madri più memorabili. La chimica fra i due garantisce emozioni altalenanti, ma innegabili. Dipinti entrambi con luci e ombre, sacrificherebbero la spasimata cura pur di non cedere ai morsi dell'abbandono? Dappertutto aleggia un senso di tragedia. In nome di un pathos inseguito a ogni costo, episodio dopo episodio, la serie dimentica a lungo andare sottotrame intriganti e comprimari creduti, a torto, importanti. Ma mentre il terzo episodio – parabola sulla persistenza di uno struggente amore gay – ci regala un capolavoro romantico musicato a Max Richter, gli altri finiscono per generare uno strano senso di assuefazione davanti all'ennesima morte, all'ennesimo sacrificio, all'ennesimo morso. Bella ma non bellissima, insomma, questa trasposizione videoludica sfida il luogo comune: agli Emmy è già record di nomination. Ma è realmente la serie dell'anno? (7)

sabato 15 luglio 2023

Recensione: Sul lato selvaggio, di Tiffany McDaniel

| Sul lato selvaggio, di Tiffany McDaniel. Atlantide, € 19, pp. 377 |

Fa' diventare bello il lato selvaggio. È la richiesta che la nonna fa alla protagonista, mentre le insegna i segreti dell'uncinetto e, attraverso quest'ultimi, la vita stessa. Per bocca di una narratrice esperta, i traumi e le violenze possono essere addomesticati e prontamente trasformati in fiabe. Arch imparerà a cucire e a imbastire straordinarie bugie: non a vivere. Nata e cresciuta nell'Ohio più rurale, erede di streghe lontane e figlia di tossicodipendenti irredenti, ha usato il potere delle storie per costruire un mondo migliore per sé e la sorella gemella Daffy. Identiche nell'aspetto, hanno sempre fatto tutto di pari passo: disegnare torte sui pavimenti, rasarsi i capelli, farsi scudo contro la violenza degli uomini. Insieme hanno preso anche a farsi di eroina, per cercare di sconfiggere all'unisono il mostro della dipendenza. Sognavano una casa dalle tende gialle, ambivano a un futuro promettente, finché l'abisso dell'annientamento non le ha ghermite. Arch e Daffy hanno fallito perfino nel prendersi cura di un gattino nero; non sono state l'eccezione alla regola.

La nostra prima colpa è stata credere che non saremmo mai morte. La seconda, credere che fossimo vive.

Questo romanzo racconta di una maledizione senza scampo. E di un serial killer che, come un novello Jack Lo Squartatore, prende a colpire indisturbato donne ai margini. Sin dall'inizio sappiamo che Arch è stata una delle sue vittime. Ammazzata, invendicata, insepolta, racconta dall'aldilà una saga familiare tutta al femminile e le tappe di un'indagine poliziesca disperata, che si muove tra aspiranti politici e spaventosi clienti vestiti da clown. C'è il sesso - un sesso scoperto prestissimo, a forza, pagato con un Happy Meal. Ci sono temuti trafficanti, i cui tatuaggi rivelano una sensibilità sconosciuta, e donne dalla pelle bollente che scavano in cerca di punte di freccia con cui contrattaccare. E poi c'è Tiffany McDaniel, con tutto il suo sconvolgente talento, con tutte le sue immagini indelebili, che torna a farsi venerare e temere dopo L'estate che sciolse ogni cosa.

Il problema coi mostri è che a volte, per sconfiggerli, devi avvicinarti abbastanza da mettere a repentaglio la tua stessa anima. Ma per mia sorella ero disposta a tutto: anche ad arrivare così vicino a Satana da sentire battere il suo cuore.

Sono passati due anni dalla lettura di quel romanzo. Ne passeranno altrettanti prima di cimentarmi con altro di suo. Come ci si riprende? Quando? Ancora una volta ha scritto una storia incantevole e scioccante che ha il sapore ferroso delle verità. Un sogno vorticoso, a tinte forti, in cui la scrittura è polvere di fata cosparsa sui bordi dell'abisso. Sul lato selvaggio è un horror asfissiante sul miraggio della sobrietà, dove l'autrice americana getta luce e miele sulle cronaca nera, mescolando i toni trasognati di Amabili resti e i deliri fluo di Euphoria. Estremo, ci bracca fino al colpo di scena della pagina conclusiva. Le eroine di Tiffany si fanno di eroina. Passano dell'ago da cucito a quello ipodermico, perché la droga è un altro dei metodi per anestetizzare i propri demoni interiori. Si bucano, ma per non bucare il velo che ammanta la realtà e, dunque, ne ammorbidisce i contorni. Ora galleggiano, rigide, nei fiumi. Ma, a braccia spalancate, pallide e biondissime, sembrano angeli in volo.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Labrinth – All for Us

giovedì 6 luglio 2023

Recensione: Dove nascono le ombre, di Lavinia Petti

| Dove nascono le ombre, di Lavinia Petti. Mondadori, € 20, pp. 367 |

In estate ho guadagnato centimetri in altezza. Ho iniziato a preferire i boxer in spiaggia, imbarazzato dalla prima peluria. Mi sono innamorato. L'estate resta il tempo in cui si cresce. Ho iniziato a odiarla, forse, da quando ho smesso. Cristallizzato in questa anonima forma adulta, ho preso a lamentarmi soltanto dei difetti dell'afa in città. Ma le cose belle succedono nella bella stagione. E, da ragazzino, non ho fatto eccezione neanch'io. Dai miei nonni leggevo Harry Potter sui gradini e mi sentivo già grande. Ma sotto il sole della controra bramavo poi di sentirmi piccolo, piccolissimo, appresso agli altri bambini del circondario: randagi che sarebbero andati via come me, a settembre, e di cui non avrei avuto più notizie. Recentemente ho chiesto di loro a mio fratello – il solo testimone di quei giorni lontani, a parte me – per sincerarmi che non fossero tutti parte di un lungo sogno. A mettere in moto questa eccezionale macchina del tempo fatta di ricordi e disincanto, curiosità e nostalgia, è stato l'ultimo romanzo di Lavinia Petti: amatissima sin dall'esordio, mi ha sempre portato lontano. Questa volta, invece, mi ha portato vicino: più vicino a me stesso.

Ho fatto sogni che mi sono sembrati più veri dell'estate dei miei dodici anni.

Sono tornato ad avere dodici anni in un paesello della Campania e a credermi il re di una tribù selvaggia. Ho corso a perdifiato, costruito un fortino, origliato i segreti degli adulti. Ho sperato, invano, di non diventare uguale a loro. Questo romanzo è per i fan di Ferrante e King. Per tutti coloro che hanno barattato un bosco per un giardino di cemento, e ne stanno ancora smaltendo il trauma. Abbarbicato in cima a una collina, il Paradisiello ha leggi tutte sue e le cicatrici profonde della Seconda guerra mondiale. Siamo negli anni Sessata. Elia fa le scuole medie, ha appena perduto la sorellina, è attratto dai brividi freddi di Edgar Allan Poe e Ai confini della realtà. I suoi nuovi amici lo chiamano il “poeta”. Cova in sé un gusto per il macabro che li seduce tutti e ha un occhio attentissimo con cui rimesta a piacimento fra le violenze, i peccati e gli amori degli altri condomini. Nell'affidarlo alle cure della zia Giovanna, il padre gli ha promesso che vivrà l'estate più incredibile della sua vita. Lavinia Petti tiene fede alla parola del genitore. Dove nascono le ombre ama scorrazzare nei venti ettari di un rigoglioso giardino condominiale, di cui tuttavia è severamente vietato cogliere i frutti, e spingersi oltre i confini di un bosco grande quanto l'oceano. Si mormora che laggiù, vent'anni prima, sia sparito il giovane Nino Basile: fu opera del diavolo? I protagonisti, per ammazzare il tempo, cercano risposte fra gli alberi. Ma il loro gioco, oltre a scomodare una tragica verità, li porterà allo scontro con la generazione precedente e, soprattutto, a perdere l'innocenza primigenia. Gli adulti sono guasti. È possibile ingannare le lancette dell'orologio e restare bambini? Niente dura per sempre. Amaramente, ce lo ricordano l'autrice partenopea e la sua inconfondibile voce da cantastorie.

È a questo che servono le storie, poeta? A ricordare le cose dimenticate? A cercare quelle perdute? Ad aggiustare quelle rotte?

Il suo terzo romanzo è una fiaba nerissima di boschi senzienti e cani famelici, in cui la cosa più spaventosa resta l'inevitabile: il divenire. C'è da avere paura degli uomini in giacca e cravatta, non di quelli che portano maschere di cervo. C'è da sperare che la natura sopravviva ai venti della civilizzazione, e che ci sopravviva. Sorretta da una morale ecologista sorprendentemente attuale, la lettura avrebbe incantato il Michele bambino che nel silenzio di una casa addormentata, in mutande e canottiera, era solito divorare romanzi di formazione e gialli. Oggi, invece, ha finito per commuovere un adulto diventato tale senza nemmeno accorgersene: uno che ha perso e si è perso, che ha giurato e poi se l'è rimangiato, che ha preferito il grigiore di Londra alle fate dell'Isola che non c'è. Lavinia Petti ci ricorda che ogni storia di fantasmi è una storia d'amore. E che alcune ombre vanno custodite e coltivate, coccolate, perché temono la solitudine. C'è vita nell'oscurità di certi tunnel; ha vita il buio. Onoriamolo. Ciò che non si dimentica non muore mai.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Madame – Aranciata

mercoledì 3 maggio 2023

Recensione: Lapvona, di Ottessa Moshfegh

| Lapvona, di Ottessa Moshfegh. Feltrinelli, € 18, pp. 270 |

È il romanzo che non ti aspetteresti da qualcuno come lei. Un'autrice un po' radical chic; una da salotti raffinati e sbadigli nei caffè lunghi di Starbucks. Questa volta si sporca le mani e retrocede in un terrificante Medioevo, ma con sé porta pur sempre una curiosa ventata pop. In esergo c'è una canzone di un'ex stellina Disney, Demi Lovato, e subito dopo la descrizione meticolosa dei contorcimenti di un efferato bandito condannato al patibolo. Siamo in un villaggio di un Paese indefinito: la bellezza è una colpa incancellabile, la morte una compagna costante, il dolore un ponte verso Dio. In cima alla collina svettano i cancelli, guai a oltrepassarli, del feudatario. Da lì l'esilarante Villiam guarda il mondo dei villici come se fosse una messinscena: per sfuggire alla noia che lo attanaglia, il sovrano costringe la servitù a ridicole danze e organizza piccoli attentati con cui si sollazza alla stregua di spettacoli. 

Era una ragazza forte, ma aveva la morte dentro. La morte è così. Come un mendicante che ti segue lungo la strada. E ti ammazza.

Tra i suoi sudditi c'è Marek, tredici anni e gravemente deforme: un novello Quasimodo, quasi, figlio del gelido pastore Jude e di una madre dai capelli rosso fuoco, di cui non resta che una misteriosa tomba vuota. A salvarlo dalla miseria potrebbero essere Ina, strega centenaria dai seni copiosi di latte, e una impensata ascesa sociale. Ma tra parenti redivivi, scenografiche nozze in rosso e banchetti luculliani a Natale, nessuno è al sicuro; soprattutto se ci si appresta alla nascita di un nuovo Messia e se ci si allontana dall'innocenza primigenia degli umili. Ne ucciderà più l'ignoranza che la spada. Insomma: prendete le ambientazioni cupissime del Trono di spade e mescolatele all'umorismo caustico, al senso del ridicolo, del cinema del greco Lanthimos. Otterrete un soggiorno a Lapvona: una satira sui (nostri?) tempi bui che, a dispetto dei toni parodistici, si fa prendere tremendamente sul serio.

Certe volte qualcosa di nuovo può ricordarti quello che hai perduto.

È un piacere smarrirsi nella sua gustosissima (ma irrisolta) galleria di personaggi borderline, prostrati da pestilenze, ansie e avidità. È un orrore soffermarsi sulle descrizioni più truculente (sadomasochismo, squartamenti, stupri, cannibalismo), rese però irresistibili dalla bellezza sublime delle scrittura. A una prima parte da incorniciare, morbosa e fiabesca com'è, ne segue una seconda sfilacciata e inconcludente: ho avuto l'impressione che la narratrice, onnisciente ma troppo indolente per tirare le briglie delle numerose sottotrame, a un certo punto non sapesse più cos'altro aggiungere, chiuso il suo carosello di ammiccamenti e nefandezze. Come la pesca addentata da Marek nel romanzo, Lapvona nasconde difetti sotto la sua buccia succulenta: un verme. È una natura morta. L'apprezzamento della lettura, e del lauto pasto, dipenderanno dalla suscettibilità del nostro palato.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – King

martedì 28 marzo 2023

Recensione: Le sorelle Hollow, di Krystal Sutherland

 
| Le sorelle Hollow, di Krystal Sutherland. Rizzoli, € 17, pp. 360 |

A prima vista sembrano “le vergini suicide” del film di Sofia Coppola. Pallide, bellissime, inquietanti: senza paura. Hanno nomi di quattro lettere ciascuno e un legame viscerale, che misteriosamente va al di là del sangue. Le hanno unite il bosco e il trauma. Sparite durante la notte di Capodanno quando erano bambine, furono trovate un mese dopo nello stesso luogo in cui erano scomparse: nude, con una cicatrice a mezzaluna alla base del collo. Sane, non salve. Crescendo si sono allontanate. Grey, bellissima e spregiudicata, posa sulle copertine di Vogue e mescola l'alta sartoria con l'imbalsamazione; Vivi, bassista in un gruppo rock, sciupa la sua avvenenza con piercing e tatuaggi e provoca continuamente; infine c'è Iris, la minore, che vorrebbe passare disperatamente inosservata ma deve convivere con i non detti della madre e l'eredità ingombrante delle sorelle. Di loro si dice che siano sirene, streghe, alieni. Esercitano una misteriosa fascinazione su uomini e donne. Hanno una fame vorace, insaziabile. Vengono realmente da mondo ultraterreni, o hanno forse ereditato la follia del padre, morto suicida?

Eravamo sorelle. Sentivamo il dolore delle altre. Provocavamo dolore alle altre. […] Ci difendevamo. Ci mentivamo. Fingevamo di essere più grandi, diverse: travestirci era un gioco per noi. Ci spiavamo. Ci possedevamo come oggetti luccicanti. Ci amavamo con furia ardente e intensa. Furia animale. Furia mostruosa. Le mie sorelle. Il mio sangue. La mia pelle. Che legame raccapricciante condividevamo.

Dopo due bellissimi romanzi sulle fragilità del cuore adolescente, una irricoscibile Krystal Sutherland sposa l'horror a sfondo esoterico e le atmosfere crepuscolari di Shirley Jackson. Il suo ritorno in libreria è mellifluo e respingente, bello e spaventoso: un intreccio di ghirlande e incubi, fanciulle incantevoli e uomini-bestie, che diventa un'ossessione irrinunciabile una pagina dopo l'altra. Ambientato tra l'Inghilterra e la Scozia, prende avvio dalla scomparsa della sorella maggiore alla stregua di un giallo e si snoda, poi, in una caccia al tesoro senza esclusione di svolte spiazzanti. A tratti, mette una paura matta. Cosa finisce nella fessura del divano, dove si annidano monetine e briciole di popcorn? Cosa si nasconde nelle intercapedini della nostra realtà? È stata una lettura lontana dalla mia comfort zone soltanto all'apparenza. Le sorelle Hollow è un ritorno alle coccole e agli orrori della mia adolescenza. A quando vivevo per storie così e, in segreto, ne scrivevo di mio pugno (una l'ho perfino pubblicata).

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey - Gods & Monsters