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lunedì 10 marzo 2025

Dal Festival di Venezia allo streaming: M - Il figlio del secolo | Dieci Capodanni | Disclaimer

Il 2025 è appena iniziato, eppure sembrerebbe di aver già trovato la serie più rappresentativa di quest'anno, e di tanti anni a questa parte. Specchio nero dei tempi che corrono, M è il figlio del secolo, ma, soprattutto, il padre di una mostruosa progenie ancora tra noi. Ispirandosi a Scurati, Joe Wright mette in scena la banalità del male, e le sue origini, come avrebbe fatto Shakespeare. Accuratissima ma mai didascalica, la serie Sky lascia sedere in cattedra Mussolini in persona. Seduttivo e ributtante, carismatico e insicuro, il Duce di un incredibile Marinelli appare tutto e il contrario di tutto. A metà tra un personaggio slapstick e il sanguinario Macbeth, ci guida fino al delitto Matteotti, in una Roma fuligginosa come Birmingham: con lui Russo, sorprendente partner in crime, e Chichiarelli, fiammeggiante femme fatale. Se il cast è di soli fuoriclasse, la regia è arte futurista. Wright coreografa i voltafaccia, la violenza delle camicie nere, gli assalti come se fossero parte di un musical. La Storia non è la solita storia. M osa con l'ironia della tragicommedia per mostrare l'avanzata di un tiranno con poche idee e molti consiglieri, abilissimo nel tradire tutti — soprattutto sé stesso — quando il vento soffiava contrario. Perseguitato dai presagi e dal senso di colpa, Mussolini si svela nel pubblico e nel privato. E muove un atto d'accusa che nauseerà lo spettatore. L'indignazione non va a lui, ma a noi stessi, inebetiti davanti al suo predominio; complici. Il male peggiore è di chi lo compie o di chi, con le opere e le omissioni, lo nutre? (9)

Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Succede proprio così, come nella canzone di Antonello Venditti, anche ad Ana e Oscar. Si conoscono alla vigilia di Capodanno del 2015, appena trentenni, e si inseguono per dieci anni. Lei intraprendente ristoratrice, lui medico nevrotico, non si ameranno con fedeltà per tutto il tempo. A volte in coppia, altre separatamente, animano con l'assoluta imprevedibilità dei loro sentimenti la serie del premiato Rodrigo Sarogoyen. Presentata in anteprima al Festival Venezia e imperdibile per tutti gli appassionati del cinema di Linklater e Kechiche, resterà tra le più struggenti dell'anno. Se la struttura narrativa ricorda l'iconico One Day, il resto sembra frutto di una magica improvvisazione. Gli attori rivelzione Iria del Rio e Francesco Carril, intimi e intensissimi, sono al centro di dialoghi lunghi interi piani sequenza e di scene di sesso così dettagliate da sembrare reali. Nel passaggio dai trenta ai quarant'anni, cambieranno lavoro, partner, città; vivranno lutti, nascite, perfino la pandemia; guadagneranno un fascino inaspettato, mentre i capelli si tingono inevitabilmente di grigio. Torneranno insieme, stavolta per sempre, in vista del faccia a faccia finale? Sicuramente, al termine di questo splendido tranche de vie che un po' appartiene anche a noi, non si scorderanno mai. (8)

Una documentarista rischia di perdere sia famiglia che reputazione quando un’ombra dal passato minaccia di rendere un suo segreto di dominio pubblico. A sbugiardarla è un romanzo autopubblicato, in cui si racconta la passione di un’estate lontana finita poi in tragedia. Ci si può fidare, però, di un narratore bugiardo? E di una donna spinta al limite? La regia di Alfonso Cuaròn, la fotografia di Emmanuel Lubezki, il cast all stars capitanato da Cate Blanchett. Possibile che, dopo l’anteprima al Festival di Venezia, si sia parlato tanto poco di Disclaimer? Scarsamente pubblicizzata, è un thriller sull’illusorietà delle relazioni e sul potere della scrittura, a tratti erotico e a tratti agghiacciante; una storia di vendette, servite rigorosamente fredde, dove il vedovo Kevin Kline è talmente magnetico da giganteggiare sul resto del pur sempre ottimo cast. Tratto dal romanzo di Renée Knight, bestseller da supermercato coinvolgente ma dozzinale nello stile, l’adattamento Apple trova l’autorialità che mancava alla controparte letteraria. Peccato che la patina eccessiva della confezione, la ridondanza delle voci off e l’esagerato manierismo della regia rendano il tutto troppo lezioso, anche a discapito dell'efficace colpo di scena in agguato. Questo asserragliamento da Oscar avrebbe meritato comunque maggiore attenzione. (7)

lunedì 18 dicembre 2023

Italians Do It Better: C'è ancora domani | La chimera | Io capitano | Le otto montagne | La bella estate

Relegata a leggerissime commedie televisive, Paola Cortellesi prende finalmente parte al suo film migliore: lo dirige lei. Nazional-popolare, brutale e tenerissimo, sorprende per una scrittura in bilico fra la commedia e il dramma e per una cifra autoriale già matura. Si parla di femminismo e discriminazione di genere, di violenza domestica e conflitto generazionale. C'è ancora domani non è, però, l'ennesima storia di female empowerment. Delia è il tipico angelo del focolare. Sempre con il grembiule da cucina, sempre dimessa, sempre con qualcosa da fare. Corre continuamente, ma non va mai da nessuna parte. Il suo eroismo sta tutto nel sopportate a bocca chiusa gli abusi del tirannico Mastandrea. E, nell'impossibilità di denunciarlo, di trasformare i pestaggi in sequenze musical. La solidarietà femminile c'è, ma è nelle sporadiche confidenze in cortile; nell'amara consapevolezza di essere tutte prive di identità. A dar loro voce, ottant'anni dopo, è la comica romana. Che non urla messaggi progressisti, non forza la mano con gli anacronismi del politicamente corretto, ma ci fa sorridere delle sue “piccole donne” grazie alle battute di Fanelli o alle fantasticherie sulle note di Concato, Dalla, Silvestri. Cortellesi mette in scena una rivoluzione discreta e, in un epilogo indimenticabile, celebra un risveglio individuale che si fa anche collettivo. All'improvviso c'è una ragione per mettere il rossetto, la camicia nuova, stringere i pugni. C'è un luogo verso cui correre, con una lettera stretta al petto. Voi correte al cinema. Straordinario nella sua ordinarietà, è l'esordio più significativo degli ultimi anni. (8,5)

Alice Rohrwacher torna e incanta con una nuova fiaba bucolica in cui un tormentato Orfeo vive continue catabasi per riunirsi alla perduta Euridice. A unirli c'è un filo rosso, in una sceneggiatura in cui nessun simbolismo è lasciato al caso e al mito del poeta che commosse Proserpina si mescolano le suggestioni di quello di Arianna, salvezza di Teseo fuori dal labirinto. In una tragicommedia in cui la fotografia fuligginosa e la colonna sonora anni Ottanta riconfermano quanto prezioso sia il miscuglio di eccentricità e lirismo del cinema della nostra Rohrwacher, un ruolo chiave spetta al personaggio di Isabella Rossellini: qui irriconoscibile, è una nobildonna prigioniera della sua sedia a rotelle, dell'ossessione per la figlia scomparsa e di una magione che è un colabrodo. In cambio di qualche lezione di canto, l'anziana tiranneggia su una sua allieva che tratta come sguattera; all'apparenza servizievole, la giovane nasconde piccoli insospettabili segreti e seduce il fascinoso Josh O'Connor, tombarolo ospite di una baraccopoli dalle ore contate. Tutti aggrappati a mondi precari, destinati ora all'ospizio e ora alla galera, i personaggi rubano e vengono derubati, si illudono e vengono illusi, inseguendo ciascuno i propri sogni impossibili. Ma quanto è pericoloso preferire il vecchio al nuovo; i mausolei ammuffiti alle stazioni trasformate in centri d'accoglienza da manipoli di donne illuminate? Strambo e incantevole, forse troppo per un'Italia ostile all'audacia, La chimera è un apologo pieno di morte che, a sorpresa, si rivela uno dei film più vitali dell'anno; un tesoro che, come certi luoghi abbandonati, appartiene un po' a tutti e un po' a nessuno; un sogno agitato sui seggiolini scomodi di un regionale. Ma un sogno, finalmente, possibile. (8)

Un intrepido sedicenne con il sogno del rap e dell'Europa intraprende un estenuante viaggio della speranza dal cuore dell'Africa alle coste della Sicilia. Dirige Matteo Garrone, la cui bravura è ormai indiscussa da vent'anni a questa parte. Commuove l'esordiente Seydou Sarr, che nel primissimo piano finale, come già accaduto a Fonte in Dogman, entra a gamba tesa nell'olimpo del cinema italiano. Ma il problema di Io capitano è il seguente: visto il trailer, purtroppo, visto il film. Le tappe del viaggio del giovane sono tutte contenute in quei pochi minuti pubblicitari, tra dune e onde, prigioni e palazzi. L'esperienza umana, preziosa, si fa raramente anche esperienza cinematografica. E accade soprattutto negli sporadici momenti in cui il regista romano tralascia le tappe della sua canonica odissea per sconfinare nei territori visionari della fiaba. È allora che il film diventa qualcosa di più di un'edificante lezione di educazione civica, rivelandosi una riscrittura sorprendente del suo medesimo Pinocchio. Il nostro eroe dice bugie alla mamma, ha uno sfacciato Lucignolo come compagno di viaggio, viene derubato e sfruttato innumerevoli volte. Infine finisce in mare. All'orizzonte c'è la terraferma. O è forse la sagoma della famelica balena? Per fortuna, sappiamo in anticipo che diventerà un bambino vero. Anche se qualcuno al governo, oggi, lo negherebbe strenuamente proprio al sopraggiungere dei titoli di coda. (7)

Ogni amicizia è una storia d'amore. Non si può pensare che questo riflettendo sull'intensità che si annida nei “sovrumani silenzi” tra Pietro e Bruno; sulla persistenza di un sentimento viscerale, più che fraterno, costellato di lunghe attese e lunghi sguardi. Ispirandosi all'omonimo romanzo di Paolo Cognetti, un topo di città e un topo di campagna uniscono le loro forze – dopo quindici anni di distanza – per rendere omaggio alla memoria del padre che li ha formati un po' entrambi. I registi di Alabama Monroe, coppia tanto nell'arte quanto nella vita, ci portano ad alta quota e riportano sullo schermo un'altra coppia amatissima: Luca Marinelli e Alessandro Borghi, che questa volta giocano con gli accenti dell'estremo nord e recitano con tutta la potenza della loro fisicità. C'è chi va, c'è chi viene. E c'è chi si aspetta. La costruzione della loro amicizia, graduale e faticosa, spezza le vene delle mani. E graduale e faticoso, per qualcuno, potrebbe essere anche questo film: una scalata lunga due ore, da cui si esce però con le mani fredde e il cuore caldo. Le otto montagne è lungo, lento, morbidissimo. Come un abbraccio improvviso, che prima ti spezza le ossa e poi te le rinsalda insieme – o viceversa. (9)

Dal classico di Cesare Pavese, un film modernissimo nella sua fedeltà Proprio come il romanzo che l'ha ispirato, il lungometraggio dell'ottima Laura Luchetti è un inno alla gioia, alla confusione, al piacere femminile. All'importanza del perdersi, a volte, per ritrovarsi. Morbido, delicato e sottilmente erotico, mostra attraverso le espressioni fuggevoli di un'intensa Yile Vianello – anche musa di Alice Rohrwacher – i dilemmi di una giovane sarta scissa fra campagna e città, uomini e donne; le fa da contraltare l'esordiente Deva Cassel, sì acerba, ma perfetta nell'incarnazione dell'ambiguo e bellissimo oggetto del desiderio. La bella estate si prende tutto il tempo che serve. È di una lentezza che avvolge, proprio come l'abbraccio in balera fra le protagoniste; proprio come la regia, materna, che veste di silenzi e verità l'unica scena d'amore. La colonna sonora cresce, così come cresce il personaggio di Ginia. Le stagioni si avvicendano, ma Torino resta sempre magica sullo schermo. L'avvento del fascismo è una notizia da tagliare fuori: basta chiudere le imposte. Piccole magie di un piccolo film, pieno delle simmetrie gelide della mia città d'adozione e delle asimmetrie di un caldo corpo in fioritura. (7,5)

sabato 25 gennaio 2020

Mr. Ciak: Pinocchio | La dea fortuna | Martin Eden | The Nest

Sotto Natale sono stato a vedere Pinocchio in una sala piena di bambini. Solo e sospetto, ironicamente mi ero domandato: mi arresteranno a fine visione? Se io sono tutt'ora in libertà, forse arresteranno per mancanza di idee i cineasti di mezzo mondo. Questo è il pensiero che salta in mente davanti all’ennesimo rifacimento non richiesto, nonostante a dirigerlo sia chiamato un maestro del panorama italiano. Garrone traspone Collodi con fedeltà e rispetto estremi, ma la storia del burattino di legno che si sognava bambino in carne e ossa al cinema risulta piuttosto pesante a causa di una struttura fatta di continui andirivieni e ripensamenti, che rendono le due ore di visione estenuanti e ripetitive. Problema non della sceneggiatura, ma del romanzo stesso: non a caso la storia funziona meglio su carta oppure divisa a puntate, come succedeva già nell’adorata versione di Comencini. Il film nulla aggiunge e nulla toglie alla fama della fiaba e brilla unicamente per la magnificenza del comparto tecnico – trucco, scenografie, costumi – senza quasi mai ricorrere alla computer grafica: la resa di due personaggi – il grillo parlante e il tonno, bruttini – sarebbe stata però da rivedere. Il cast è costituito da grandi caratteristi nostrani, spesso resi irriconoscibili dal make-up, e brillano unicamente il Geppetto di Benigni e il piccolo protagonista, che tra la voce fragorosa e la “s” sibilante offre un’interpretazione sempre naturale. Algido e frettoloso, non aiutato dalla colonna sonora di uno svogliato Marianelli, Pinocchio non ha nemmeno il senso di meraviglia del Racconto dei racconti: film sì divisivo, ma in grado di mescolare con dosi più giuste realismo e magia. Diffidate da chi vi racconta sia bello. Diffidate da chi, al contrario, ve ne dice peste e corna. A entrambi, infatti, si allungherebbe il naso. (6)

La fortuna è cieca. La sceneggiatura dell’ultimo Ozpetek, purtroppo, peggio. A un certo punto si muove a tentoni; arraffa alla rinfusa tematiche, personaggi, scene madri; sbatte contro il ridicolo involontario di un viaggio in Sicilia completamente da dimenticare. Com’è possibile se la prima metà del film, al contrario, brillava di luce propria? Come, ancora, se questa volta il regista italo-turco è molto più nel suo – amicizia, amori, omosessualità, epiloghi da incorniciare? Salutato dai più come un ritorno alle origini, La dea fortuna parte bello e festosissimo nonostante i musi lunghi di Accorsi e Leo: coppia agli sgoccioli che ritrova slancio grazie ai figli di una cagionevole Trinca, di cui nessun’altro a parte loro parrebbe prendersi cura. Costellato di momenti poetici, di dialoghi tanto spietati quanto veritieri, il melodramma ha un cast in stato di grazia – Leo su tutti – ed emoziona quando racconta in tutta la sua universalità il rapporto di una coppia in crisi. A un certo punto, però, s’intromette la bella canzone di Mina a far da spartiacque: e il film trova ville da incubo e nonne streghe, che danno a una produzione per il resto equilibrata toni grotteschi e orrorifici. Si guasta all’improvviso allora, lasciando più arrabbiati che delusi. Passi pure la dimensione corale presto accantonata. Passi il messaggio, per me discutibile, che una coppia abbia bisogno di un figlio per cementificare l’amore. Passi la presenza della malattia, tematica francamente superflua. Ma perché Barbara Alberti in veste d’attrice? Ozpetek è un regista sensibile e un autore attento. Ma le sue fate ignoranti risultavano più moderne – e meno trash – vent’anni fa, quando di uomini e triangoli sentimentali nessuno osava parlare. (6,5)

Se in un’altra vita fossi un attore famoso, sognerei gli stessi ruoli da protagonista di Luca Marinelli. Per fortuna mi limito a guardare, e in poltrona ogni volta mi godo la bravura dell’attore romano. E quelle somiglianze caratteriali impercettibili che da Virzì a Mieli, fino ad arrivare a questo film del documentarista Pietro Marcello, ci rendono simili. Avido, ambizioso e sognatore, l'eroe eponimo colleziona lettere di rifiuto e porte in faccia: marinaio dall’istruzione elementare, studia da autodidatta soltanto per amore di Elena ma le soddisfazioni professionale – vorrebbe diventare scrittore – faticano ad arrivare. Né abbastanza acculturato né abbastanza rozzo, eppure senza mezze misure, lavora a racconti sordidi e si lascia tentare dalla vita politica. Quello di Martin è un personaggio che ho amato immensamente. Alla perfetta riuscita della prima parte, però, segue la pesantezza annichilente della seconda. Dove un melodramma raffinato e postmoderno si carica di connotazioni politiche di troppo; di discorsi densi e carichi, che nel bene e nel male gettano il personaggio sotto un’altra luce. E l’interpretazione di Marinelli – protagonista di una corruzione fisica e morale che lo imbruttisce e abbruttisce – si fa affamata, folle, grazie una regia dalle influenze documentaristiche e una colonna sonora un po’ francese, un po’ napoletana, un po’ elettronica. La cultura rende liberi o prigionieri? Si sta meglio nell’ignoranza? Il successo letterario, croce e delizia, è paragonabile a una nave alla deriva? Questo lupo di mare, infine, abbandona il timone per una macchina da scrivere. E forse scopre sé stesso, forse si tradisce. Forse annega, o forse nuota. (8)

Un bambino servito e riverito, protetto ai limiti della prigionia. Una madre imperscrutabile e vendicativa, circondata da domestici e figuranti sinistri. Gli ingredienti della loro convivenza infernale: nebbie perenni, crocifissi, musica classica. Il loro esilio forzato, retto da regole ferree, è una distopia a fin di bene? Nella casa entra presto il rock di Where is my mind. Entra un’adolescente in fuga, bella e ribelle, che tenta il protagonista con l’idea esecrabile della libertà. Il sorprendente e italianissimo The Nest, apprezzato da pubblico e critica internazionali, è un Lanthimos ad altezza bambino dislocato però nei castelli infestati della narrativa gotica Shirley Jackson. Ha sì qualche neo, ad esempio un colpo di scena finale che non convince del tutto, ma anche un buon gusto fuori dall’ordinario: vedasi la fotografia cupa e i costumi impeccabili, le scenografie eleganti come nel migliore cinema asiatico. Se la delicatezza della sceneggiatura ci regala danze incantevoli e sevizie da autentico teatro degli orrori, sono però la regia del trentottenne Roberto De Feo e l’intensità degli interpreti – su tutti Francesca Cavallin, di solito relegata a ruoli televisiva ma qui degna rivale degli antagonisti del Racconto dell’ancella – che ne fanno un esordio da incorniciare seduta stante. Un nido implica conforto, sicurezza, riparo. Ma in cima a un albero contribuisce a renderci isolati e irraggiungibili. Si può ingannare la crescita? Si può frenare la curiosità? Si può dimenticare il mondo? Le risposte, benché siano a volte un po' troppe, costituiscono un incubo familiare da cui non ci vorremmo svegliare. (7,5)

sabato 14 settembre 2019

Mr. Ciak: Il primo re, Il vizio della speranza, Ricordi? e altro Made in Italy

Ci sono film in cui è impossibile separare le prodezze del comporto tecnico da una sceneggiatura che poco cattura, poco esalta. È il caso del Primo re, chiacchierato ritorno al cinema di Matteo Rovere, già finito sotto silenzio nonostante una serie Sky in produzione. Si parla delle origini di Roma. E lo si fa in protolatino, conferendo un fascino arcano a ciascun dialogo fra i bravissimi Alessio Lapice e Alessandro Borghi. I fratelli-nemici Romolo e Remo, dalla magistrale sequenza d’apertura in poi, tenteranno di ricongiungersi nonostante la tragedia annidata in un finale noto. Lontani dall’epica del latino d’età imperiale, i protagonisti sono tanto gloriosi quanto basici e si scorgono rare sfumature nei banchi di nebbia, nei corpi a corpi splatter, nelle notti perenni: il grosso, appunto, lo fa una lingua che suona magica sulle loro labbra, anche se di magie non può farne. Almeno per convincere uno spettatore come me, sensibile alle regie ardite ma anche alla noia diffusa del cinema d’azione. Godibile il minimo, per quanto all’avanguardia, Il primo re è il solito viaggio dell’eroe, ma raccontato secondo stilemi che non hanno né grandi imprese, né antagonisti memorabili. Apprezzabile, purché come prima pietra di un’impresa maggiore. (6)

Siamo in una Campania da terzo mondo. Nascosta sotto un cappuccio, con un molosso al seguito, la protagonista gestisce gli affari di una trafficante di neonati in una landa di extracomunitari e prostitute. Fino a quando non si scopre incinta. In lei, così, si risveglia il desiderio di fare la differenza. Come può portare a termine il travaglio? Come può mettere al mondo un innocente in una folla disumana, fatta eccezione per un giostraio dal cuore d'oro e una ragazzina zoppa? Prendete la violenza morale di Dogman e aggiungeteci i palpiti di Roma. Questo presepe laico ha la crudezza del documentario, infatti, ma sorprende per l’accuratezza delle scenografie e la grazia di una regia ispiratissima, capace di rintracciare la poesia anche nel totale squallore. Pina Turco regge il film con la tempra delle interpreti navigate: le rese dei conti con la spregevole datrice di lavoro, il giro in giostra alla Truffaut e le raccomandazioni al nascituro, per altro, le hanno dato man forte nello strapparmi lacrime di rabbia e gratitudine. Peccato non averlo visto in sala: il ritorno di De Angelis sarebbe finito nel meglio della scorsa annata. Mi ha fatto un male cane, ma gliene sono riconoscente: ci vizia con un altro spaccato indimenticabile. Regalando speranze al cinema italiano, e alle vite prigioniere dei forse. (8)

Passando da Venezia, Valerio Mieli è tornato con un’altra coppia di protagonisti memorabili e una storia d’amore ancora meno incasellabile di Dieci inverni. Quale sarebbe il risultato se Malick potesse mettere mano ai capitoli della nostra convivenza, montandoli in un flusso di coscienza dei suoi? Incantevole e sperimentale, Mieli porta al cinema quella che Freud chiamerebbe libera associazione. Sorretto da una partitura minima, il suo film è fatto proprio della caotica poesia dei ricordi: quelli che affiorano all’improvviso, disordinatamente, e accostano senza un disegno le tessere di una relazione a un crocevia. Il malinconico Marinelli e l’adorabile Cariddi fanno l’errore di bruciare le tappe. Lei è forse pronta a rinunciare alla sua allegria per lui? Lui, invece, è pronto a tinteggiare la casa – la stessa dell’infanzia – per lei? Il melodramma del regista è della stessa materia ingannevole di cui è fatta la memoria: ci attingiamo per conoscerci meglio; ci attingiamo, si spera, per ritrovarci. Lui e lei si rubano il meglio. Si gettano addosso il peggio. Ne escono svuotati, sfitti. Ma cambiati. In amore ci si influenza e ci si limita, ci si perdona in nome della nostalgia: di per sé, il sentimento del passato. Se una relazione, al contrario, è il futuro, la nostalgia sarà abbastanza per costituirne le fondamenta? Lo è senz’altro per realizzare un film imperfetto – troppo allungato, quel finale da orchestra sinfonica – ma unico nel suo genere. (7,5)

Avere in mano le sorti degli equilibri internazionali e non poterlo dire a nessuno. È il dramma di un’agile Paola Cortellesi, costretta a mentire a famiglia e amici pur di salvaguardarli: sebbene su carta sia una dipendente del ministero, in realtà è un’agente segreto. Come non dire che è passata a prendere in ritardo la bambina perché inseguiva criminali in Marocco? Costretta all’anonimato, osa durante una rimpatriata fra compagni del liceo: ognuno ha subito un torto, ognuno si è fatto un nemico, e allora perché non vendicarli attingendo alle sue risorse? A Milani, regista degli altrettanto gradevoli come Come un gatto in tangenziale e Scusate se esisto, ha fatto bene il successo precedente. Potendo contare su un budget maggiore, questa volta realizza una commedia più ricca e curata, con frequenti cambi di location – nel finale si punta anche a Siviglia – e un cast popolosissimo, fra comprimari e cameo. Lo spunto è di quelli paradossali, con tanto d’incursioni alla buona nella spy story, ma risulta credibile grazie alla performance di una Cortellesi all’altezza di ogni travestimento. Serve forse essere una spia, però, per combattere la maleducazione del prossimo? Divertente con garbo, Ma cosa ci dice il cervello è un intrattenimento meno incisivo del precedente ma comunque godibile; un’avventura che parte dall’assurdo, e si rivela poi una lodevole lezione di civiltà. (6,5)

Siamo all’inizio degli anni Novanta. È un'estate euforica, quella dei mondiali di calcio. Siamo a Roma: città rumorosa e dispersiva, splendida  e orribile insieme, in cui ovunque ci sono feste esclusive; conversazioni altezzose; nomi altisonanti, reali o inventati. Tre aspiranti sceneggiatori – un siciliano, un toscano, una romana – sono indagati per la morte di un produttore, Giancarlo Giannini, precipitato con la macchina nel Tevere. Sembra l’imitazione del peggiore Sorrentino. Ma, amaramente, siamo invece al cospetto dell’ultimo film di Paolo Virzì: accolto nel migliore dei casi con freddezza, nel peggiore con stroncature spietate, è di ritorno dalla traversata americana di Ella & John. Da bravo illuso, da bravo fan, ho preferito non dare troppo credito alle stroncature: ho fatto male. Storia mal recitata di giovinezze ambiziose, carriere bruciate e grandi speranze, Notti magiche saccheggia i salotti della Grande bellezza e i triangoli del cinema di Truffaut. Il risultato è inqualificabile, non all’altezza delle citazioni e inutilmente ridondante, con un miscuglio di generi incomprensibile. Un giallo stinto, che nelle sue notti non trova magia. (4,5)

Un altro film che parla di film. Un’altra Roma di parvenu e donne fatali. Richelmy, scrittore dalle sfumature imprevedibili, accetta che il villain di un esilarante Barbareschi – accanto a lui, le pericolose Bellè e Gerini: quest’ultima con una scena di nudo già iconica – realizza la trasposizione del suo esordio: il risultato è disastroso. Come salvare un film maledetto se non con tanta pessima pubblicità? L’ingegnosa strategia, ahimè, non ha riguardato questo DolceRoma, passato a torto in sordina. Volutamente esagerato e meta inematografico, rompe la quarta parte e spazia fra i generi: un po’ commedia nera, un po’ noir, mescola verità e finzione, realtà e aspettative. Venirne a capo, insieme a un bel cast, è uno spasso. L’ottimo Resinaro s’ispira  alla regie forsennate di Ritchie e Boyle, e la sfrontatezza dell’impresa fa del film un videoclip psichedelico – non bello, ma fighissimo – visto di rado. Questa Roma dolcissima e metropolitana, di luci al neon e rapimenti inventati, per fortuna sa come non risultare stucchevole. Ma punge, a tratti, come un’ape che a torto sembrava amichevole, quando invece difendeva il proverbiale posto al sole. (7)

Cos’hanno in comune Gassman e Bentivoglio, sesso a parte? Tanto cafone il primo quanto snob il secondo, s’innamorano nonostante le differenze. Ma come conciliare le famiglie, all’oscuro della sessualità dei genitori? Si va insieme in villeggiatura, e sarà la catastrofe annunciata. Il problema sono i figli – su tutti, una straordinaria Trinca: nevrotica e abbandonata – o i protagonisti stessi, opposti destinati ad attrarsi solo per un po’? Riuscitissima commedia dei caratteri, Croce e delizia diverte facilmente con le contrapposizioni, i cliché, il conflitto ideologico e generazionale. Lo fa con più emozione del previsto, schierando in campo alcuni dei migliori attori di casa nostra – raramente, eppure, si sono prestati in passato alla commedia brillante – e riproponendo il sodalizio Godano-Steigerwaltz, già superiore alle aspettative in Moglie e marito. Per rovinare tutto una famiglia media ha forse bisogno dello shock di un outing fuori tempo massimo? No, lo fa naturalmente. Evviva i film che sanno raccontarlo senza pretese e con uno sguardo alle unioni civili. Evviva Simone Godano, che al secondo film ci delizia davvero. (7)

Lui è un aspirante cantautore. Lei è una hippy di ritorno in patria. Lui segue lei a Roma, mettendo i suoi sogni in pausa, e si reinventa intanto autore frustrato di jingle televisivi. Patiranno l’imborghesimento e la città, amandosi, odiandosi e riprendendosi. Ci sono di mezzo le ambizioni di La La Land, da premettere qui all’amore; una gelosia che ispira tanghi alla Moulin Rouge nelle balere di borgata; campi e controcampi, nel finale, che ricordano gli sguardi sui tetti di Across the universe. Se Michele Riondino, convincente anche dal punto di vista vocale, fa sempre una discreta figura, lo stesso non può dirsi purtroppo di una Laura Chiatti antipaticissima e dalla dizione robotica. E il regista Marco Danieli, invece, passato dall’impegno di La ragazza del mondo al musical in salsa italiana? Trainato interamente dalle canzoni sempiterne di Battisti, Un’avventura è un esperimento singolare. Ma, a dispetto dell’idea apprezzabile e della validità del comparto tecnico, risulta goffo e didascalico soprattutto nella parte musicale: imperdonabile, soprattutto, l’amatorialità del montaggio sonoro. Si canta (molto), si balla (poco), si sguazza in un mare di nostalgia (a tratti). Come in ogni avventura, memorabile o meno, degna di questo nome. (5,5)

sabato 24 agosto 2019

I film che leggeremo: grandi classici

Little Women
25 dicembre 2019 (USA)
Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Laura Dern, Meryl Streep, Timothée Chalamet, Louis Garrel. Dirige Greta Gerwig, ormai regista a tempo pieno. Sceneggia Sarah Polley, regista di gioielli come Away from Her e Take This Waltz. Su carta, sembrerebbe tutto così indie; tutto così perfetto. Ma questo connubio, purtroppo, è ben più convenzionale del previsto. Attesissimo dai più, è la nuova – be', si fa per dire – trasposizione di Piccole donne, classico di Louisa May Alcott di cui i miei coetanei ricorderanno la trasposizione del 1994 o la miniserie BBC di appena due anni fa. Se ne sentiva davvero il bisogno? A giudicare dal trailer, fedele alle atmosfere originali e senza guizzi, la risposta è negativa. Mi porterà in sala il cast, trainato da una Ronan con un personaggio – l’indimenticabile Jo – che potrebbe facilmente avere le simpatie dell’Academy.


Pinocchio
25 dicembre 2019
Sono cresciuto con il cartone targato Disney e, da bambino, in biblioteca, avevo preso in prestito la videocassetta dello sceneggiato di Luigi Comencini: insuperabile, se chiedete agli spettatori di qualche generazione fa. Negli anni delle elementari, poi, in gita con la classe in completo siamo corsi a vedere la trasposizione di Roberto Benigni: uno sfacelo ad alto budget, che tale mi era parso anche alla tenera età di otto anni. Ci riprova il fidatissimo Matteo Garrone, nonostante Guillermo Del Toro ne abbia già annunciato da un po’ la sua personale versione. E lo aiutano un cast interessante – questa volta, per fortuna, Benigni è passato dall’altra parte: interpreterà Geppetto – e un’estetica burtoniana, che rendono l’attesa spasmodica. Soltanto a fine visione, magari, ci faremo la classica domanda: l’ennesimo live action, a che pro?


Cats
Natale 2019
È uno dei musical più fortunati e longevi di Broadway. Ma in pochi, forse, sanno che a ispirare il genio di Andrew Lloyd Weber – anche autore del Fantasma dell’opera, Evita e Jesus Christ Superstar – c’è una raccolta di poesie firmata dall’insospettabile T.S . Elliot: Il libro dei gatti tutto fare. In scena dagli anni Ottanta, noto anche ai profani del musical grazie alla struggente Memory, è diventato un film a quasi quarant’anni dalla prima. Pronto a conquistare le sale sotto Natale – e la stagione dei premi, a giudicare dal regista e dal cast: Tom Hooper dirige, infatti, le stelle Judi Dench, Idris Elba, Ian McKellen e Jennifer Hudson –, sta facendo già chiacchierare per l’aspetto dei suoi gatti antropomorfi. Secondo voi, sono affascinanti o soltanto spaventosi? Creepy con sentimento, lo si andrà a vedere.


Ophelia
28 giugno 2019 (USA)
Essere o non essere, questo è il problema. Folle e affranto, con un teschio in mano, immaginiamo il Principe di Danimarca così: solo su un palcoscenico buio. Protagonista di infinite trasposizioni, trova un nuovo punto di vista nell’era del novello femminismo: quello della sua fidanzata nell’ombra, Ofelia. A rubare la scena al giovane George MacKay (mentre i ruoli infidi della madre e dello zio spetteranno a Naomi Watts e Clive Owen) sarà la bellissima Daisy Ridley. Lontana dai mondi di Star Wars, come se la caverà con un personaggio pensato dal Bardo e immortalato in un capolavoro di Millais? La sua tragedia finirà allo stesso modo, sott’acqua? Discretamente accolto al Sundance e in cerca di una data di distribuzione italiana, potrebbe essere un rimodernamento di cui aver fiducia.


Vita & Virginia
13 febbraio 2019 (USA)
Purtroppo non l’ho mai letta, ma ho imparato a conoscerla e stimarla grazie alla visione di The Hours. Interpretata da una Nicole Kidman da Oscar, Virginia Woolf appariva geniale e sfuggente. Infelice, accanto a un marito di facciata, ma già anticonformista. Se nel film di Stephen Daldry si parlava della stesura di Mrs. Dalloway, nel più modesto Vita & Virginia si ricordano la pubblicazione di Orlando – caposaldo della narrativa LGBTQ – l’appassionata storia d’amore fra la donna e la poetessa Vita Sackville-West. Entrambe sposate, costrette ad amarsi di nascosto, ci hanno regalato un epistolario recentemente pubblicato in Italia dall’editore Donzelli. Ma il film, che attinge in parte alla loro corrispondenza, interessa soprattutto per la performance di Elizabeth Debicki: da applausi, pare, al contrario del taglio televisivo del tutto.


Martin Eden
4 settembre 2019
Dici Jack London e pensi immediatamente ai romanzi d’avventura, a Zanna Bianca. Istruzioni per farcela in situazioni difficili, al limite della sopravvivenza. Dici Jack London e, ti accorgi, lo conosci poco e superficialmente. Il suo romanzo più apprezzato, finito subito in whishist, è Martin Eden: la storia di un marinaio che durante una rissa difende il rampollo giusto e, accolto in casa sua come ospite d’onore, finisce per innamorasi della sorella di lui, Ruth. Ci si sposta eccezionalmente in Italia, prima al Festival di Venezia e poi al cinema. Cambia qualche nome, vero, ma non il messaggio di fondo: la riflessione amareggiata su un sentimento messo in dubbio dalle disparità sociali del primo Novecento. Il film di Piero Marcello, liberamente tratto da London, schiera in campo Luca Marinelli. Uno che non sbaglia un colpo, uno con lo sguardo malinconico adatto al ruolo dell'eroe del titolo. 


Mademoiselle
29 agosto 2019
Non è un classico, no, eppure non sfigura affatto in questa carrellata d’abiti d’epoca e nomi altisonanti. Ispirato a Ladra, straordinario romanzo gotico di Sarah Waters letto prima della fondazione del blog, trasferisce l’intreccio sensuale e pericoloso della scrittrice britannica nella Corea invasa dai giapponesi. Presentato al Festival di Cannes, raggiunge scandalosamente le sale soltanto a fine agosto. Com’è possibile che un film di Park Chan-wook passi così in sordina? Come giustificare, inoltre, un clamoroso ritardo di quattro anni – si tratta infatti di una produzione del 2016? La storia, per fortuna, distrarrà i fedelissimi con misteri ancora più grandi e scene di sesso bollenti. 

sabato 7 aprile 2018

Mr. Ciak - (Non solo) David di Donatello: La ragazza nella nebbia, The Place, Una questione privata, Puoi baciare lo sposo

Aspettavo Donato Carrisi nel fitto del bosco, al varco. Nato in origine come sceneggiatura, il best-seller che corteggiava i meccanismi dei thriller anni Novanta è diventato un film per mano del suo stesso autore, qui atteso per la prova del nove. Assiepata dai paparazzi, l'immaginaria Avechot è una fortezza in cui nessuno entra e nessuno esce. Sembra un indovinello, quasi: chi ha rapito la sedicenne Mary Lou, così come trent'anni fa ci si domandava che fine avesse fatto Laura Palmer. Il teatrale Toni Servillo, a colloquio con lo psichiatra Jean Reno e la spietata cronista Galatea Renzi – unica interprete femminile convincente, tocca ammetterlo, accanto all'irriconoscibile Scacchi –, richiama i giornalisti in paese e gli spettatori in sala. Se l'agente in questione è però un irresistibile sciacallo per cui la verità è un optional, l'indagine diventa una messa in scena: caccia alle streghe ai danni del mite e intenso Alessio Boni, capro espiatorio al posto sbagliato nel momento sbagliato. La ragazza nella nebbia, nerissimo e verisimile, racconta un voyeurismo all'estremo, le trasmissioni che investono sul dolore e le ronde notturne, gli interrogatori a destra e a manca, che diventano presto coreografia a effetto. La morte si fa spettacolo al tempo dei mass media. La suspance, in Italia, non è solo Dario Argento. Via le soggettive e le mani che stringono coltelli. Via il gore, i detective improvvisati, i finali semplici. Dato il minutaggio, si sentiva forse la necessità di qualche sforbiciata qui e lì – soprattutto per gli stilemi televisivi con cui vengono introdotte le vicende di Boni –, ma le lungaggini di sorta sono il peccato di vanità di un genitore che vuole troppo bene alla sua creatura per cambiarla. Puntando sul fascino naturale delle atmosfere, su un intrigo di punti di vista che convince più che su carta, Carrisi svecchia il genere e lo riporta in sala. Con l'accuratezza della scrittura che ho già ampiamente sperimentato in passato – i backstage preferiti alla violenza della scena del crimine, i colpi di scena ben ponderati. Con un gusto internazionale, già maturo, che si nota nella cura della messa in camera e nella varietà dei referenti (il rigore del giallo scandinavo, ma anche l'umanità di Vinterberg). Strano ma vero: c'era bisogno della nebbia, nel thriller all'italiana, per tornare a vedere la luce. (7+)

Siede al solito posto. In vetrina, al tavolo in fondo. Distinto, elegantissimo, con un misterioso taccuino davanti e una tazza di caffè sempre piena. A ben vedere, questa volta, l'uomo – forse Satana, forse un angelo custode – sembra diverso; ha lo sguardo meno sornione di un silenzioso Valerio Mastandrea. Cambiano, anche se di poco, gli scenari. L'insegna luminosa, il juke box nell'angolo che suona Fausto Leali e Sunny, l'Italia fuori. Cambiano i volti – di casa nostra, numerosi, eppure non ce n'è uno che appaia fuori posto – che si avvicendano al tavolo, sebbene restino sostanzialmente immutate le storie, i drammi, i desideri. Un Giallini in cagnesco vorrebbe riconquistare la fiducia del ribelle Muccino, suor Rohrwacher cerca Dio ma incontra il non vedente Borghi, Papaleo deve proteggere la bambina minacciata da Marchioni, la Lazzarini mette bombe come cura per l'Alzheimer e l'infelice Puccini fa scoppiare coppie in nome dell'egoismo e dell'amore. Al centro di significativi siparietti, dietro il biancone, Sabrina Ferilli: cameriera in bilico sui tacchi alti che, assieme allo spettatore, si chiede chi sia, cosa faccia, quel genio della lampada in grado di realizzare qualsiasi desiderio in cambio della tua anima. The Booth at the End, serie sperimentale che parlava di misfatti e miracoli su sfondi fissi, scopre il cinema e la tentazione del remake. Dopo i fasti di Perfetti sconosciuti – singolare colpo di genio, sospetteremmo col senno di poi un Genovese forse già a corto di idee si affida alla brillante idea di qualcun altro. Se le due stagioni con Xander Berkeley avevano atmosfere accoglienti, familiari, il restauro poco necessario di questa tavola calda ai confini della realtà la mostra più fumosa, elegante, notturna. Non manca qualche nuovo incastro, qualche nuova richiesta, qualche difetto – la meccanicità delle dissolvenze in nero, nonostante la grande precisione della regia, e l'utilizzo di una colonna sonora che vorrebbe enfatizzare invano svolte ed emozioni. Per il resto, nessuna aggiunta sul menu. Ogni azione ha pro e contro. Tutti, corruttibili nel profondo, un prezzo da pagare. Ciascuna riproposizione tanto fedele all'originale, tanto pedissequa, presentia i difetti soprattutto delle copie carbone che funzionano, magari, ma non osano affatto. Attento a ciò che desideri, si dice: potrebbe avverarsi. Attento alla ricerca di un cinema eticamente impegnato, di uno spunto degno del successo di una commedia nera fa: caro Genovese, potrebbe intrappolarti. (6,5)

Milton, Giorgio, Fulvia. Il malinconico che parla l'inglese, il bello dai pigiami di seta, la civetta che prima promette e poi si nega. Un triangolo sentimentale in erba, accennato appena, nell'afa della campagna torinese. La guerra all'improvviso, poi separarsi – non per l'amore per Fulvia, ma per quello di Patria. Rivedere la casa in cui si sono conosciuti, con i partigiani che inseguono i fascisti nella nebbia delle Langhe, accende nel protagonista i ricordi. E il dubbio. Giorgio e Fulvia si sono amati alle sue spalle? Si parte alla ricerca dell'amico d'infanzia, caduto in mano alle camicie nere. Liberarlo, o almeno tentare, in nome di una questione privata. Dopo Shakespeare e Boccaccio, i Fratelli Taviani adattano Fenoglio: un romanzo breve, irrisolto, postumo, sospeso nella bruma e nell'incompiutezza di una pagina a metà. Trasposizione snella e fedele, con microscopiche aggiunte da apprezzare e una corsa finale che manca purtroppo dello slancio vitale, il dramma bellico dei registi pisani – presentato prima a Toronto, poi a Roma – è sommesso, intimo, lattiginoso. Troppo. I dialoghi teatrali si susseguono meccanicamente, rigidamente. Mancano, nel finale soprattutto, l'ardore, il tarlo che rode, la passione. Potremmo chiederci dove sia il pathos, a questo punto, se soltanto la freddezza del tutto non fosse un tentativo di rendere sul grande schermo la scrittura cruda e secca di un narratore che non amava i fronzoli e il tanto rumore per nulla. Dramma italiano inconsueto perché senza urla né lacrime, originale cronaca di una guerra senza più sangue da mostrare, ha un Marinelli dallo sguardo naturalmente malinconico e una Bellè che ammicca svelando le mutandine sui rami dei ciliegi in fiore. Accanto ai due, già insieme nel sopravvalutato Principe Libero, un manipolo di volti da fiction – giovani, sbarbati: una generazione perduta – per una guerra mostrata per vie traverse. Se ne apprezzano, infatti, le sequenze liriche (la bambina che va a dormire come se nulla fosse fra i cadaveri dei propri cari, l'assolo del percussionista impazzito, l'esecuzione di Riccio). Più il taglio stilistico (fotografia e scenografie, bellissime, e Somewhere Over the Rainbow a fare da spettrare leitmotiv) che l'umanità. Ripulita del sangue, del fango, della pioggia battente, la crociata di Milton la si segue sì, ma senza entrarci mai per davvero. (6)

Cristiano Caccamo e Salvatore Esposito, aspiranti attori a Berlino, decidono di convolare a nozze. Il problema, annunciarlo a casa durante le vacanze di Pasqua: in un sud Italia chiuso ai migranti e al nuovo. Facilissimo, infatti, vivere alla luce del sole nel capoluogo tedesco; condividere un appartamentino con la Del Bufalo, spassosa ereditiera, e un Abbrescia in transizione. L'outing è solo l'inizio, se la mamma dal pugno di ferro di una strepitosa Monica Guerritore, facendosi beffa dell'intolleranza del marito Abatantuono, sogna un grosso grasso matrimonio gay. In un suggestivo borgo medievale, si susseguono le vicende e gli sketch della godibilissima commedia di Alessandro Genovese, sul delicato tema delle unioni civili. Semiserio, buono di cuore e innegabilmente un po' buonista, Puoi baciare lo sposo è nel suo complesso ben recitato e diretto, con tanto di scena musical in chiusura. Il difetto: una scrittura frettolosa, dalle idee non del tutto sfruttate, che piace e diverte nonostante le sbavature a un passo dal finale. Lì, in un epilogo troncato di netto, tutti i limiti e l'inspiegata fretta dei suoi novanta minuti di durata. Lontano dalla poesia di Mine Vaganti e, con un sospiro di sollievo, dalle arie da cinepanettone mancato di Io che amo solo te, il film a tinte arcobaleno è meno sciocco di quanto appaia. Non così disimpegnato negli intenti – lodevoli più in teoria che in pratica – e popolato da allegre macchiette a cui, fra il boss di Gomorra che scopre l'autoironia e un conducente di autobus en travesti, si vuol bene a prima vista. Sarà per questo – il romanticismo delle soggettive iniziali, la spensieratezza diffusa a manciate generose – che è purtroppo impossibile perdonargli l'amarezza lasciata dalla chiusa. Coi fiori d'arancio e i confetti, noi preferivamo un'altra fetta di dessert. Un'altra risata leggera leggera, prima dei titoli di coda. (5,5)

domenica 31 dicembre 2017

[2017] Top 10: Mr. Ciak


10. Il padre d'Italia
Mollo, con uno sguardo indie che conquista e l'alchimia di due personaggi vivissimi, parla d'appartenenza e istinto, di omogenitorialità, senza sollevare polveroni. Di miracoli che, nella mano grinzosa di una figlia, fanno riaffiorare il volto di una madre. Dell'emozione di sbagliare strada, scoprendosi lo stesso a casa.

9. Tito e gli alieni
Al Torino Film Festival l'universo qualche volta risponde. E ha la voce delle commedie fantascientifiche, quelle un po' americane e un po' napoletane, con un po' di Little Miss Sunshine e un po' di Her, e delle persone che hai amato e sempre amerai. Lontane dagli occhi, lassù tra le stelle, ma mai dal cuore. 

8. A Monster Calls - Sette minuti dopo la mezzanotte
Un'esagerata cura del lato visivo senza però scordarsi la commozione. Un angelo custode che si fa mostro, di questi tempi, per fugare i mostri del cancro, i bulli, l'insensatezza tutta umana del senso di colpa.

7. Blade Runner 2049
A caccia di replicanti, e della loro progenie segreta – un po' frutto dell'amore, un po' dei calcoli della scienza. A caccia di sequel felicissimi, e di film da guardare con occhi grandì così – che non siano poi miracolosi come gli eredi di Deckard e Rachael, troppo perfetti per scoprirsi anche emozionali, poco importa se al cospetto di un capolavoro visivo tanto straordinario. 

6. Arrival
L'ennesimo tassello di quella fantascienza minimal, umanista, in cui l'elemento perturbante – in questo caso, un'invasione di eptapodi venuti in pace – è un'ottima scusa per parlare di noi. Al pari di un dramma borghese in cui un ospite s'intrufola nella casa di una coppia e ne invade gli spazi, lascia il bagno in disordine, studia chi gli ha aperto la porta. Spingendoci o scoppiare, o a riconciliarci.

5. Moonlight
Storia distante per contesto, ma dal respiro universale. L'inquietudine di chi fugge, si maschera da gigante cattivo, ma poi si ritrova. Nel mare, che un caro amico ci ha insegnato ad affrontare anni fa. Nella luce della luna, che tinge la pelle nera di blu. Nell'amore, che è casa.

4. A Ghost Story
Il fantasma con la sindrome di abbandono commuove e angoscia. Sotto il lenzuolo nessuno può vederlo piangere. Domandare al vuoto cosmico che senso abbia questo suo esistere, e questo nostro resistere.

3. The Florida Project
I piccoli di Sean Baker non dovrebbero diventare mai adulti. Se il dramma irrompe, si prendono per mano e corrono più veloce del pensiero di crescere allontanandosi. Ti porto via io, promettono, e puntano all'arcobaleno. A riprendersi l'infanzia che finalmente spetta a noi, bambini grandi.

2. Manchester By The Sea
Straziante via crucis, sullo sfondo di città di mare che a dicembre soffrono l'abbandono. Mentre il lutto si scioglie e la speranza, chissà, fa primavera

1. La La Land
Una bolla di sapone, una campana di vetro, una dimensione dell'anima. Una fiaba postmoderna, acre, incastonata nella miracolosa cornice di un “se”. Il cinema che unisce e perdura. Quello con la lettera maiuscola.

giovedì 16 novembre 2017

Recensione: Una questione privata, di Beppe Fenoglio

| Una questione privata, di Beppe Fenoglio. Einaudi, € 12, pp. 192 |

Al liceo, di malavoglia, imparavo a memoria i versi dell'Orlando Furioso. Le donne, i cavalieri, l'arme e gli amori, le audaci imprese. Di Ariosto, anni dopo, ricordo l'avventura di Astolfo sulla luna ben più delle passioni della contesissima Angelica. In sella all'ippogrifo del mito, il cavaliere volava in cerca dell'ingegno che l'amico Orlando aveva smarrito: racchiuso in un'ampolla e della stessa consistenza di un liquido sottile e scivoloso. Facile lasciarselo sfuggire dalle mani, dalla testa, se pazzi d'amore e di gelosia. All'università, anche se per vie traverse, sono arrivato a leggere il romanzo postumo di Beppe Fenoglio – in questi giorni, potreste incrociare il titolo su un poster del vostro multisala di fiducia: è diventato un film dei Fratelli Taviani, con Luca Marinelli per protagonista. Come il paladino di Carlo Magno, anche Milton ha perso la testa. Vive una doppia guerra, combattuta dentro e fuori se stesso. Vaga senza meta da una parte all'altra di quelle Langhe cupe, sotto assedio, di una storia breve e appassionata mossa da violente forze centripete. Galeotti, ora come allora, una ragazza impossibile e un rivale inatteso.

E cose allegre non ne traduci mai?” “Mai”. “E perchè?” “Nemmeno mi vengono sott'occhio. Credo che scappino da me, le cose allegre.”

Probabilmente però, figlio di un macellaio di paese e accanito lettore di letteratura americana, Fenoglio – come il suo protagonista, partigiano nel 1943 – ai sospiri e alle rime del ciclo carolingio non dovette pensare mai. Una questione privata, incompiuto e parzialmente autobiografico, è il racconto di un'ossessione che fa infangare le suole degli stivali e impazzire l'ago della bussola. Si inizia e si finisce con i piedi in moto, un ritmo marziale, e la nebbia. Quella che si posa come un drappo pesante e confonde i percorsi, le intenzioni, i contorni. La guerra, vissuta in prima persona, non è soltanto fuoco e rumore, ma disorientamento. La violenza – dei sentimenti, dei gesti – ti fa brancolare. Ti travia. C'è la nebbia, sì, quando Milton indugia all'ingresso della villa di Fulvia. Lui di una bellezza spiacevole, malinconica, con un talento per la scrittura e le lingue straniere, due occhi assolutamente spiazzanti e troppo in comune con me. Lei, irresistibile civetta con i vestiti leggeri, una sigaretta tra le labbra e infiniti balli sulle note della Garland. Tra loro c'era Giorgio, aitante figlio di papà contro cui Milton nulla ha mai potuto: perché suo unico e migliore amico, perché sconfitto in partenza.

Io non sopporto più di non ballare mai con te.

Il conflitto interrompe il loro triangolo. La resistenza e una domestica con la lingua lunga portano poi dubbi su dubbi. Dov'è adesso Fulvia? Lei e Giorgio, soprattutto, si sono amati per tutto il tempo alle sue spalle? Ha inizio, così, una ricerca che minaccia di interrompersi con la notizia che l'amico dal pigiama di seta – ora, ufficialmente rivale – è caduto in mano ai fascisti. Milton non si arrende, invece, e parte da qui. I suoi compagni non sanno che non è questione di eroismo, bensì di cuore. Sempre in allerta, tra calorosi gesti d'ospitalità e il cameratismo con commilitoni con cui scambiarsi soprannomi e aneddoti, Fenoglio e il suo Milton abbandonano il lirismo dei primi due capitoli per un prosieguo meno godibile, secco e quasi spionistico, con il bellissimo contrappunto della gelosia di lui tra le righe. Gli altri personaggi, mai presenti in scena se non attraverso il ricordo, accompagnano l'affannarsi solitario e disperato del partigiano.

Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto... Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come non mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso.

In Una questione privata, per fortuna, si parla più del cuore che del fucile, nonostante la frenesia e la crudeltà prendano il sopravvento in un finale misterioso che finale non è. Per me, eppure, è perfetto così. L'anti-eroe dello scrittore piemontese cerca un ostaggio per fare a cambio con Giorgio. Un senso all'amore suo e alla guerra degli altri. Cerca in lungo e in largo, bagnandosi nella pioggia e rotolando sui fianchi delle colline, per il gusto di continuare a correre e cercare ancora. Per la paura di morire fermandosi. Di scomparire al levarsi di una foschia densa, imperitura, costante, in cui si trattiene il respiro peggio che sotto il fuoco incrociato della trincea. E forse trova tutto, Giorgio e Fulvia, un senso e il ristoro, il coraggio di frenare finalmente la sua corsa, da qualche parte oltre la nebbia. Da qualche parte, oltre l'arcobaleno.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - La canzone dell'amore perduto

venerdì 4 agosto 2017

Mr. Ciak: Spider-Man: Homecoming, Slam, Covenant, Una, 2:22

Non inizierò nella solita maniera. Quando mi hanno proposto Homecoming non ho protestato. Spider-Man, infatti, fa eccezione in tutte le salse. Sentivo come mie le sfortune, la timidezza e le porte in faccia di Peter Parker ancora prima di incrociare, crescendo, avversità, musi lunghi e sonori no. Certo, da buon nostalgico, il Peter che intendo io è quello della trilogia di Raimi – checché se ne dica, però, ho sempre trovato generosissima dal punto di vista emotivo la serie tronca con Andrew Garfield. Fa eccezione, a modo suo, anche l'adolescente di Jon Watts: meno me, meno solitario, ma tre lustri e cinque film dopo non chiedevamo altri copia-incolla. Il nostro eroe di quartiere, sprovveduto e pasticcione, si mette sulla strada di un contrabbandiere di armi iper-tecnologiche. In ballo meno del solito, in questo reboot umoristico e ben scritto, a confine con il teen movie – da cui prende in prestito gli amori non corrisposti, i buffi amici nerd e, purtroppo, quell'esagerazione tutta americana di inserire minoranze etniche a sproposito in nome del politicamente corretto (che passi Zendaya nei panni dell'amata, ma non un Flash Thompson guatemalteco e sprovvisto del physique du role). La gara di decathlon o acciuffare i cattivi? Il prom o sventare un piano criminale? Homecoming ti precede, sa dove andrai a parare, e si difende con autoironia: i commenti a proposito della bella zia Marisa Tomei non si contano; il protagonista, per molti troppo giovane, è ribattezzato “Bimbo ragno”; Keaton ritrova le ali dopo Birdman ma coglie in contropiede, sul finale, con un gustoso colpo di scena. Riuscito apprendistato per entrare tra gli Avengers e nelle grazie di spettatori scettici, l'ennesimo Spider-Man sceglie la spensieratezza dell'adolescenza e tutto l'entusiasmo di cui Tom Holland è capace. Da grandi poteri, questa volta, piccole responsabilità. Ma, a quindici anni, sarebbe un peccato bruciare le tappe. (7)

Samuele crede nello skateboard e nell'amore. Quando conosce Alice, capisce che è quella giusta. Ancora al liceo e con un futuro che spaventa, fa i conti con il diventare genitore. Questione di disattenzione. Questione di genetica: i suoi, infatti, l'hanno avuto alla stessa età. Darsi alla fuga, come suggerisce l'esilarante papà Marinelli? Provarci, come consiglia mamma Trinca? L'esordiente Ludovico Tersigni, con una spontaneità che non si insegna, resiste: non vuole che anche quel bambino, come lui, si senta un errore di gioventù. Ispirato all'omonimo romanzo di Nick Hornby, Slam è una commedia adolescenziale ma non troppo; un altro volto felice di un cinema che desidera dedicarsi a progetti nuovi. Le gravidanze indesiderate, un protagonista dubbioso, Roma: stessi temi del recente Piuma. Cos'ha Slam che il teen movie di Johnson non aveva? Una scrittura fresca e intelligente, che conserva la voce narrante di Tony Hawk e si diverte un mondo a giocare con i salti temporali della struttura (Sam si sveglia, a volte, e sono passati mesi o anni: deve rimettersi al passo e scoprire, in fondo, che non ha nessun rimpianto); un cast perfetto, di giovani leve e promesse mantenute; i toni semiseri, i dilemmi realistici, che rendono gli esiti non così scontati. Dirige con energia Andrea Molaioli, braccio destro di Moretti e autore del celebrato La ragazza del lago, e si vede. Produce Netflix. Certo: avremmo voluto più Marinelli e meno finali su finali; una durata più contenuta. Certo: sorridenti e leggeri, spensierati ancora per poco, ci si getta a colpo sicuro lungo una rampa. Si salta in alto, magari si vola. E si atterra in piedi, in un rumore familiare di ruote e risate. (6,5)

La serie di Alien è cara a una generazione che non è la mia. Negli anni mi sono dedicato al recupero di capitoli originali, sequel e spin-off, senza però mai farne miei personali oggetti di culto. Covenant, a voler essere precisi, è il sequel di Prometheus: un Ridley Scott non al suo meglio, una mitologia confusa e poco accattivante ma, con il senno di poi, non il disastro annunciato. Lo stesso, purtroppo, non vale per la regata fantascientifica arrivata in sala la scorsa primavera. Di Convenant dicevano il peggio e io non ci credevo. La solita critica, poco convinta in partenza. I fan dell'indimenticabile Ripley, difficili da rabbonire. Avevano ragione loro: Covenant è brutto. Perché girarci attorno? In due ore che si avvertono tutte nella loro pesantezza, i soliti astronauti risvegliati prima del tempo cercano tracce di vita umana sul pianeta in cui i personaggi del film passato, ovviamente già belli che rimossi, hanno lasciato lo scalpo. Un team anonimo e senza leader carismatici rischia di portare a bordo la solita piaga contagiosa. Alla piattezza della prima mezz'ora, rispondono qualche sprazzo di violenza e un doppio Fassbender – e per quanto sia bravo, per quanto faccia comunque piacere vederlo all'opera, dispiace quest'anno la scelta di progetti inutili quanto o più di questo. Covenant annoia e irrita. In giro, ha trovato le cattive parole che merita: il blockbuster che si atteggia a cinema d'autore e non riesce a essere né una cosa né l'altra, infatti, è un mostro della peggior specie. Freddarlo al mio "via". (4)

Una. Non come l'articolo indeterminativo, ma come il nome di battesimo di una donna che, un giorno qualsiasi, guida fino a una fabbrica in cui si trema per i tagli al personale. Deve incontrare un uomo, mostra una foto. Lui ha cambiato identità, è sposato, ma il destino l'ha rintracciato ugualmente. I due hanno una questione in sospeso. Un tempo sono stati al centro di un amore sconveniente, di un'ossessione che perdura. Quando lei aveva tredici anni e lui, adulto, era il suo vicino di casa. Di cosa parliamo quando parliamo di pedofilia? La bambina ingenua e l'orco cattivo, con la cronologia del computer piena di brutture. Ci figuriamo la manipolazione, lo stupro. E se quel vicino, condannato a quattro anni di carcere, non avesse mai guardato un altro innocente con malizia? E se la bambina, infatuata ma lucida, avesse voluto seguirlo in una fuga volontaria oltre la Manica? In Una, dramma fedelissimo alla propria natura teatrale, il presunto aguzzino incontra la presunta vittima. L'aggettivo, per dire che sfugge ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per dire che agli occhi della giustizia c'è un colpevole ma non un cattivo, e che il faccia a faccia tra questi strani amanti intriga e destabilizza. Camminano come animali in gabbia, lungo un confine impercettibile. Non si sa cosa vogliano. Soprattutto, non si sa con chi schierarsi. Il tema, spinoso, è discusso con ambiguità. Così tanta che si resta in piedi, confusi, all'insegna di un finale sospeso di quelli che piacciono a me. Parlano fuori dai denti di sesso, e arrivano a un passo così dal farlo. Si rimproverano di essersi rovinati la vita. Tentano di andare avanti, di confrontarsi, perché non si sono mai mossi di un passo dal giorno del processo – lei sopraffatta da una mamma chioccia, lui sempre sul chi va là. Chi dei due ha avuto la peggio? Di cosa la fragile e seducente Rooney Mara, per molti in odore di nomination, accusa un contrito Ben Mendelson: mi hai rubato l'adolescenza, o perché mi hai lasciato sola? (7)

New York. Dove le luci dei grattacieli sono più numerose delle stelle. Dylan crede di poterle leggere. Vede schemi ovunque. Portano a Grand Central; a un balletto in cui conosce Sarah, gallerista nata il suo stesso giorno. A cosa vogliono condurlo le simmetrie? Cosa succede quando l'orologio fa il suo giro e, sulla città, una stella muore? Thriller romantico dagli spunti suggestivi, 2:22 crea una piacevole suspance che si rivela disattesa solo in parte. Più modesto nell'architettura che nella resa, il film sembra poggiarsi su quei paradossi temporali, su quella fantascienza discreta di viaggi nel tempo e amori a scorrimento veloce, che da queste parti trovano sempre un angolino tutto loro. Più Storia d'inverno che Premonition, più sospiri passeggeri che sceneggiature a orologeria, il boy meets girl a incastro ha protagonisti belli in modo assurdo e un triangolo sentimentale che non convince, per l'improponibile taglio di capelli del terz'uomo e l'andare a puntare tanto, se non tutto, su un melodramma in rewind. In 2:22, il ticchettio e le scie chimiche portano su scene del crimine passate, teorie di eterni ritorni, coincidenze che fan parlare di reincarnazioni. Credi che il colpo di fumine sia una storia già scritta? Credi che il destino abbia un piano alternativo per te e per lei, o che il futuro sia tabula rasa? Poco accattivanti ma sufficienti le risposte. Scontato, infatti, che due come Huisman e la Palmer, ora e per sempre, si somiglino e si piglino. Senza additare i déjà vu della sceneggiatura: semplicemente, è selezione naturale. (6)