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giovedì 16 novembre 2023

Recensione: Giù nella valle, di Paolo Cognetti

| Giù nella valle, di Paolo Cognetti. Einaudi, € 16, pp. 124 |

Quella di Paolo Cognetti è una scrittura che ha trovato negli opposti la sua segreta armonia. È calda, ma freddissima. È delicata, ma scabrosa. La sua massima espressività? A sorpresa, in una storia come questa: apparentemente senza sorprese. Lungo poco più di cento pagine, Giù nella valle è un romanzo breve ma compiuto – spietato, convulso, intenso. Questa volta siamo nei primi anni Novanta, a novembre. Non fra le cime svettanti, ma a valle. Considerata il pisciatoio d'Italia, la Valsesia è un imbuto asfissiante in cui proliferano nebbie, alluvioni, bettole mal frequentate. I camion scaricano rifiuti industriali nelle cave abbandonate, il fiume è inquinato dai solventi chimici, l'illuminazione è costituita dai neon delle insegne dei bar. Il tasso di alcolisti e suicidi è alle stelle. Più cupo, questo Cognetti ha il fascino ombroso del fondovalle e fa spazio al dramma di due fratelli agli antipodi.

Lo sai cosa vorrei, invece? Un bell'abbraccio da mio fratello. O anche fare a pugni, scegli tu. Ma qualcosa di vero.

Luigi fa la guardia forestale: pallido e ordinato, somiglia al larice piantato dal padre. Alfredo, invece, è un abete: pungente e frondoso, ha conosciuto il Canada, si è spinto fino al Mar Glaciale e infine è tornato indietro, complice un'eredità da impugnare. Fra di loro ci sono: una belva che semina cani sbranati; una donna un tempo contesa, Elisabetta, che fa il bagno nuda nel fiume e ha preparato uova sbattute a suo suocero fino al giorno in cui il vecchio non l'ha fatta finita; una casupola a 1800 metri d'altezza che presto confinerà con una pista da sci. Mentre la conta dei morti cresce, il progresso fa timidamente capolino: per lasciare spazio al divertimento dei turisti, toccherà abbattere oltre cinquemila alberi. Non ci vuole molto a cogliere analogie con i romanzi precedenti: i protagonisti dai caratteri opposti ricordano gli amici lontani di Le otto montagne; Fontana Fredda e la vita selvaggia facevano già capolino nel più fiabesco La felicità del lupo. Cognetti ormai scrive sempre la stessa storia? Forse sì, ma ancora una volta la scrive meravigliosamente bene, pur auspicandomi un ritorno in città per il prossimo romanzo. A dispetto della ripetitività delle tematiche e della debolezza dei personaggi femminili – le donne di Paolo sono tutte forestiere, detentrici di valori familiari e calore: non persone né personaggi; candidi archetipi piuttosto –, è impossibile non lasciarsi incantare da una voce carezzevole che omaggia il Bruce Springsteen di un famoso album datato 1982.

Era piccola, la sua valle, eppure c'erano ancora posti che non aveva mai visto. Sceso dall'argine, lasciò andare avanti l'uomo e osservò il paesaggio di pioppi e betulle, una conca dove la Sesia faceva un'ansa, tra i banchi di ghiaia modellati dalla corrente. Adesso che era in secca, il fiume si diramava creando isolotti e spiagge. Gli venne in mente che dieci anni prima ci avrebbe portato Elisabetta a fare il bagno, ma per i bagni nel fiume c'era una stagione, nella vita, che poi chissà perché passava. Poi veniva la stagione dei figli, delle case da comprare e ristrutturare, dei vantaggi di un lavoro salariato.

Sinceramente grato, Cognetti cita le canzoni e gli scrittori del cuore: sono tutti americani. Ma è alla provincia italiana che deve gli incisivi spaccati per le troppe birre aperte con i denti, il vino rosso e lo spezzatino in tavola, i misantropi un po' romantici che preferirebbero una tenda nel bosco al tepore del talamo, i fiumi che vogliono rigorosamente l'articolo determinativo declinato al femminile. Il suo personale Nebraska è una partita a mosca cieca. Un girare in tondo animato da furia e tenerezza, in cui Luigi e Alfredo, divorati da una struggente tensione verso l'alto – gli occhi sempre puntati lì, sull'abbacinante Monte Rosa –, si inseguono sulla scia di una domanda. Il larice e l'abete crescono bene fianco a fianco, o si fanno troppa ombra a vicenda? Una lite, un incendio, li ha fatti ardere qualche anno prima. La neve caduta ha spento le fiamme soltanto all'apparenza. Il fuoco è penetrato nel terreno, l'incendio è soltanto dormiente. Basta un soffio di vento, e Luigi e Alfredo torneranno a bruciare. E, forse, a volersi bene.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Bruce Springsteen – The River

lunedì 8 novembre 2021

Recensione: La felicità del lupo, di Paolo Cognetti


| La felicità del lupo, di Paolo Cognetti. Einaudi, € 18, pp. 152 |

Come il Fuji nelle vedute dell'artista giapponese Hokusai, il Monte Rosa è ovunque i protagonisti sollevino lo sguardo. Gigante placido e silente, fa da sfondo a quadretti domestici capaci di pacificare mente e cuore; a storie di vita vissuta che hanno un mastice comune, ossia il desiderio di ricominciare. Ha ricominciato anche Paolo Cognetti, autore bravissimo che dopo aver raccontato Milano e New York ha trovato sé stesso ad alta quota: le Alpi gli hanno portato fortuna. Reduce dal successo di Le otto montagne, torna sulla scena del suo nuovo grande amore con un romanzo meno indimenticabile del precedente, ma incantevole nella sua semplicità. In quel di Fontana Fredda c'è chi chi viene e c'è chi va. Si succedono le genti e le stagioni, dall'inverno all'estate. E c'è chi torna soprattutto: come quei lupi che seminano dappertutto tracce di un'irrequietezza contagiosa. Ai lupi somigliano anche i protagonisti: malinconici forestieri che si reinventano seguendo i bollettini meteorologici, la vocazione, la vocazione degli altri.

Silvia rise. E di cosa sa gennaio? Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracoli.

Fausto, alter-ego di Cognetti, è uno scrittore di città cresciuto col mito di Jack London: non potendolo equiparare nella scrittura, ne imita allora la vita avventurosa. Si trasferisce in montagna, si improvvisa cuoco, mette radici. Silvia, girovaga sulla soglia dei trent'anni, migra da un impiego all'altro e sogna di vivere su un ghiacciaio: cameriera, va a letto con Fausto in cerca di calore. Si annusano: lui sa di luglio, lei di gennaio. E poi c'è Babette, ristoratrice a capo di una magica locanda che somiglia un po' a una comune hippy. Cosa la lega a un ex guardia forestale col vizio del bere? Cosa a quelle cime? Cuore della narrazione è il locale in cui tutti si incontrano, in una mescolanza di lingue e vicissitudini: c'è un menu fisso a dieci euro, vino rosso e polenta a volontà, rare variazioni dello chef. Rifugio fisico e metaforico, è tappa fissa prima di macinare chilometri: direzione il cielo. Qualche volta la vita vera costringerà tutti a scendere a bassa quota. E qualche volta metterà paure, tra valanghe, morti accidentali e sparizioni: a dispetto della bellezza incontaminata del luogo, infatti, i pericoli della vita selvaggia sono sempre in agguato.

E così eccoti qui, pensò. Be', ben arrivato. C'è chi parte e c'è chi torna, no? C'è chi crepa, c'è chi scopa e c'è chi va a caccia. Il mondo è di chi se lo prende.

All'altezza delle aspettative, Cognetti coglie infinite sfumature nel bianco della neve e scappatoie dal gelo dell'anima. Non filosofeggia mai, non ricerca simboli o metafore: nella sua asciuttezza c'è tutta la grazia di chi ha imparato a stare al mondo. I nomi delle strade formano una ballata sulla bocca dei gattisti. Le pietre ammonticchiate dai passanti sono un piccolo tempio votivo alla forza di volontà. Le cucine, invece, l'ultimo avamposto dell'umanità. Quanto calore può esserci in un romanzo dalle temperature sotto zero? È possibile trasferirsi tra le sue pagine? Resto un tipo da mare, un topo di città. Ma La felicità del lupo ti spinge a restare un altro po' sotto le coperte, anche se fuori è un giorno lavorativo; a sognare di cambiare vita. Le parole di Paolo Cognetti sono primavera anticipata: fermatevi qui a svernare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matthew Perryman Jones – Land of the Living

venerdì 8 maggio 2020

Recensione: Molto mossi gli altri mari, di Francesco Longo

| Molto mossi gli altri mari, di Francesco Longo. Bollati Boringhieri, € 16, pp. 176 |

Avevo questo romanzo in libreria dal periodo dell’uscita. Ma, a testimonianza di come le letture non abbiano una data di scadenza, ho scelto di conoscere l’esordio di Francesco Longo ora. Il mood, infatti, era di quelli perfetti. Mentre in streaming sono immerso negli amori inconfessati della serie Normal People, il quattro maggio – per inaugurare la fase due – sono finalmente tornato a passeggiare al mare: uno dei miei veri affetti stabili. Tutto preso dagli struggimenti post-adolescenziali e dagli andirivieni in spiaggia, insomma, non potevo non tuffarmi a bomba nelle estati di Santa Virginia. Una località fittizia, a un’ora di treno da Roma, che fa da sfondo alle amicizie rievocate dal narratore. Sarà che il protagonista ha il mio stesso nome, sarà che ho sempre vissuto sulla costa, ma l’immedesimazione è stata istantanea.
Smilzo, occhialuto e cagionevole, Michele è un tipo malinconico e sedentario. Di quelli che si commuovono per la bellezza dei tramonti, scrutano le stelle in cerca di UFO, fantasticano di mostri alati in fondo al lago. Di quelli che hanno fatto dell’attesa il senso stesso della loro esistenza, e non a caso hanno l’abitudine di tuffarsi sempre per ultimi. Nato e cresciuto in una località presa d’assalto dai turisti, non l’abbandona a vacanze finite. Abita in un paese popolato soltanto per tre mesi all’anno e nei restanti nove viene lasciato in balia del mare d’inverno.

Sono stati tutti convocati dal mare, dalla promessa di una mareggiata epica che ha richiamato anche chi non si vedeva più da anni. La spiaggia è a sud del promontorio, è la Baia di Santa Virginia. Lì abbiamo trascorso tutte le nostre estati. Lì l’infanzia era una cosa sola con la sabbia.
L’autore descrive con esattezza la solitudine di cui il suo protagonista soffre, ma è con l’arrivo di giugno che lo fa rianimare: quando, come da tradizione, si ricompone il cosiddetto gruppo della Baia. Anno dopo anno, infatti, Michele ha stretto con un manipolo di coetanei che si riunisce soltanto d’estate. Ci sono Guido, spavaldo ma fedele, che ha portato la moda del surf da un viaggio in California; la bella Silvia, che raccoglie le confessioni di tutti ma raramente si sbottona; il Cicogna, accanito lettore destinato a fare il naturale salto alla scrittura; Gabriele con la sua inseparabile chitarra; e c’è soprattutto Micol, con un cespuglio di capelli ricci e gli occhi più brillanti della luna. Senza dirglielo, il protagonista la amerà fino all’età adulta. Loro come vivono invece l’attesa del mare? Con la stessa pena, con le stesse speranze, con lo stesso languore? Strutturato tra passato e presente, Molto mossi gli altri mari li racconta com’erano e come sono: radunati eccezionalmente per una bufera tropicale che allarma i meteorologi ma promette, d’altra parte, onde altissime. Michele saprà affrontarle di petto, soprattutto davanti alla notizia delle nozze di Micol?

Di una cosa solo tu puoi essere geloso: del mare.

Questo è un piccolo romanzo generazione che vive non tanto di personaggi quanto di atmosfere. Se gli amici di Michele sembrano spesso schiacciati dall’apatia, poco messi a fuoco nella foga della nuotata e condannati a un finale per me sin troppo precipitoso, a fare la differenza è una natura kantiana in cui scorgere l’ennesima sfida. Piace allora per i cieli coperti, per i braccialetti dell’amicizia al polso, per le pedalate a perdifiato e per le grigliate, per la metafora alla base: l’età adulta come una mareggiata da fronteggiare. Non importa il cosa né il perché. Questa volta importa il come: ossia attraverso una prosa splendida sin dalle allitterazioni del titolo. Questa volta importa il quando: nella stagione che inevitabilmente precede l’autunno degli ideali. Le sensazioni conclusive sono familiari ma altalenanti. Se da una parte la componente sentimentale mi ha ricordato una frustrante partita di ping pong, dall’altra la lettura ha il profumo di brace e risate dei falò di fine estate. Al centro di una storia di attese e devozione, Michele e Micol evitano il presente per paura. Baciano altre persone, si distraggono con altre relazioni. Si crogiolano in un’eterna sospensione. Come se l’estate – della vita, della gioventù – potesse durare per sempre. In attesa che l’onda del secolo o li schiacci, o li faccia volare.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Hola (I Say) – Marco Mengoni feat. Tom Walker


martedì 14 gennaio 2020

Recensione: Senza mai arrivare in cima, di Paolo Cognetti

Senza mai arrivare in cima, di Paolo Cognetti. Einaudi, € 15, pp. 107 |

Su Instagram ho inaugurato l’anno nuovo con un post che non parlava di romanzi, ma di passeggiate. Una foto del tramonto sul mare della mia città e una lunga didascalia per raccontare di me; del desiderio di approfittare del sole del primo pomeriggio per ricaricarsi un po’; di quella voglia, a giorni alterni, di prendere ed evadere camminando. Non sono un viaggiatore, infatti, ma rispetto la mia solitudine e di tanto in tanto coltivo i miei silenzi. Quando su una bancarella romana, qualche giorno dopo, ho trovato una copia di questo libricino di Paolo Cognetti – il suo resoconto di una sofferta scarpinata sull’Himalaya, per festeggiare il compimento dei quarant’anni –, l’ho preso come un segno. Ero in vena di letture brevi ma intense. Speravo in un viaggio fuori porta, comodamente seduto in poltrona.

Sapevo che in montagna si cammina da soli anche quando si cammina con qualcuno, ma ero contento di dividere la mia solitudine con questi compagni.
Non nuovo alle storie ad alta quota, dopo il successo dell’amatissimo Le otto montagne, lo scrittore milanese alza l’asticella e cambia aria. C’è una grande differenza tra le sue Alpi e l’angolo più impervio del Nepal. Cognetti sognava di visitare quei luoghi da quando, a dieci anni, il padre decise di rallegrare un bambino malato con un regalo speciale: una guida alle montagne più alte del mondo. Accompagnato dagli amici Nicola e Remigio, il premio Strega si unisce a una spedizione che conta una cinquantina di membri tra uomini e animali. Con loro c’è anche un’inseparabile cagnetta, Kanjroba, che forse è uno spiritello di quelle stesse vette o forse l’ultima reincarnazione di un poeta viaggiatore. L’avventura dura un mese e gli scarponi da trekking mangiano la terra per trecento chilometri. L’altitudine è una vertigine continua, che oltre i 1300 metri tormenta con la nostalgia di casa e delle donne, con i demoni dell’alta quota. Tra valli, villaggi, templi e riti funebri, Cognetti fa amicizia con i quattro elementi; immortala su un taccuino scorci e dati geografici. Se interrogato da un curioso, ammette, probabilmente non saprebbe rispondere: perché spingersi fin lassù? 
Che si tratti di penetrare i segreti della montagna o di superare una soglia invisibile – quella che separa il mondo civilizzato dalle gioie dell’inesplorato – , il viaggio risulta essere un pellegrinaggio laico e contemplativo come negli scritti di Peter Metthiessen, autore da riscoprire. Ma leggendo questo resoconto sulla poesia del girovagare, salvo qualche passaggio particolarmente ispirato, il lettore inconsapevole qui e lì ha la sensazione di girare a vuoto.

Il vento, il torrente, la luce, la pietra, erano la stessa sostanza del mio sangue, delle mie fibre, dei miei organi, e li mandavano in risonanza così come il tamburo del monaco aveva scosso le mie membrane. Bum, bum, bum: io sono fatto di questo, di questo, di questo. La montagna mi conduceva all’essenziale.
Senza mai arrivare in cima emoziona nei dialoghi con i compagni di tenda, che si scambiano in maniera cameratesca memorie, aneddoti e desideri. Affascina nella resa delle differenze culturali più profonde, con gli indigeni aperti e sorridenti verso lo straniero e la superficialità di quell’Occidente, al contrario, che appare il vero deserto del mondo. Prediligendo le descrizioni dei luoghi, però, il libro risulta verboso sul piano geografico e appena accennato su quello sociale. Smarrito spesso e volentieri, mi sono comunque lasciato guidare dalla bellissima voce di un autore che apprezzo. Basta, però, per consigliarlo? 
Meno immersivo del previsto, l’ultimo Cognetti più che al viaggio della vita somiglia a una brusca toccata e fuga. Gli elementi del successo passato sono tutti all’appello, ma in piccolo: pensate, insomma, a quegli spazzolini da viaggio che vendono in un angolo dei negozi per la casa. Ecco le amicizie al maschile, l’intimismo, le lezioni di respiro, una natura degna della nostra pura contemplazione. A chi ha già adorato Le otto montagne e sente da un po’ la nostalgia di questi mondi, Senza mai arrivare in cima sembrerà la versione esotica e in pillole del precedente. A parte scorci mozzafiato, ha poco altro da regalare. In attesa, almeno, del ritorno ufficiale nelle librerie.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Eddie Vedder - Society

venerdì 1 marzo 2019

Recensioni a basso costo: La vegetariana, di Han Kang

| La vegetariana, di Han Kang. Adelphi – La biblioteca del mondo, € 9,90, pp. 168 |

La scelta del vegetarianesimo: perché? Domanda d'obbligo, a tavola, quando un commensale rifiuta con un po' di imbarazzo le portate principali e alla cuoca domanda porzioni più generose di contorno. La curiosità è tanta, e fra una forchettata e l'altra si parte con una trafila di interrogativi di rito – la classica lista di alimenti da confermare o smentire, la messa al vaglio dei motivi etici alla base della nuova dieta –, pretendendo di sapere se si tratti di animalismo militante, intolleranze o allergie, astensioni severe per gli amanti del fitness. Cosa comporta, tuttavia, astenersi dai piaceri e dagli obblighi della carne nell'odierna Seul, dove quel rifiuto condotto allo stremo potrebbe essere la metafora difficile da decifrare di un malessere radicato più a fondo? La vegetariana, romanzo tanto premiato quanto controverso, racconta con una prosa chirurgica e una struttura pressoché implacabile l'ascetismo di Yeong-hye: moglie alto-borghese in una metropoli della Corea del Sud, che gradualmente passa dal rifiuto dei ravioli al vapore all'alimentarsi con un sondino nel naso; dal vegetarianesimo al totale digiuno. Con tutto quello che la sua scelta provocatoria comporta, in una famiglia, in una società a sorpresa non troppo lontana, dove la convivialità e la sottomissione sono imprescindibili. A suggerire alla protagonista il nuovo stile di vita è un incubo splatter, di sangue e assassini senza volto; una suggestione talmente forte da mandare a monte cinque anni di matrimonio, la buona educazione, qualsiasi raziocinio. Yeong-hye ambisce all'essenziale e alla purezza, a uno stato febbricitante simile all'estasi, ma a raccontare questa sua dieta di acqua e sole, il desiderio folle di trasformarsi in pianta, non sarà mai la diretta interessata in prima persona. Resterà, al contrario, un mistero fino alla fine.

Aveva scambiato il pavimento di cemento dell'ospedale per la soffice terra dei boschi? Il suo corpo si era trasformato in un tronco robusto, con bianche radici che le spuntavano dalle mani e si ancoravano al suolo nero? Le sue gambe si erano allungate in alto, verso il cielo, mentre le braccia si spingevano fino al nucleo stesso della Terra, con la schiena rigida a sostenere quella duplice crescita? Mentre i raggi del sole le bagnavano il corpo, l'acqua che impregnava il suolo era stata assorbita dalle sue cellule, per poi farle sbocciare dei fiori tra le gambe?

Meglio non aspettarsi parafrasi e risoluzioni neanche dai personaggi che ruotano intorno alle prese di posizioni radicali e ai gesti scellerati della scioperante. Il primo capitolo è dedicato al punto di vista del marito, uomo d'affari piccolo e prevaricatore con una scarsissima stima verso la consorte – un'ottima cuoca, un corpo caldo da ghermire a letto con le stesse modalità dello stupro – e la tentazione infantile di lamentarsi con i suoceri di quella secondogenita che li disonora impunemente, astenendosi con l'imperturbabilità di una martire dai doveri coniugali: il sesso va preteso con le cattive, allora, e i pranzi diventano una barbara costrizione. Il secondo, invece, segue le fantasie erotiche del cognato di Yeong-hye, un artista all'avanguardia attratto dalla magrezza esagerata della parente acquisita e dalla persistenza di una macchia mongolica proprio sulla curva delle natiche, che fanno di lei prima un sogno proibito e poi un'istallazione artistica vivente: l'uomo vuole che posi per lui nuda e sfacciata, che si lasci dipingere il corpo di fiori bellissimi, magari in previsione di un amplesso futuro da immaginare pittorico e surreale. L'ultima parte, ambientata a tre anni di distanza dall'inizio della narrazione, ha la voce della sorella maggiore della digiunante: moglie tradita, ma mamma e professionista appagata, che si spinge in una struttura nel cuore della foresta sferzata di pioggia per portare frutta e dolci a una Yeong-hye arrivata a pesare trenta chili appena.

La sua calma accettazione di tutte quelle cose gliela faceva apparire come qualcosa di sacro. Che avesse una natura umana, animale o vegetale, non si poteva definire una “persona”, ma non era nemmeno esattamente una creatura selvaggia – più un essere misterioso che possedeva le qualità di entrambe.

Lì, in un colloquio a senso unico, affiorano ricordi, sensi di colpa, pensieri suicidi mai confessati: la rabbia verso un corpo senza spigoli, trasformato eppure da alcuni in oggetto del desiderio; la frustrazione per non aver compreso i conflitti interiori della propria sorella, in balia per tutta la vita degli uomini sbagliati. A ben vedere In-Hye non è forse la copia carbone dell'altra, ma con un modo diverso di (non) opporsi? 
La vegetariana mi ha catturato sin dall'inizio, come accade quando mi cimento con letture che mettono alla prova in quanto morbose, destabilizzanti, piene di stranezze e perversioni. Paragonabile in parte alle visioni di Hungry Hearts Annientamento, il romanzo di Han Kang viaggia per il resto nell'assurdo, nel mai letto, attraverso un intrigo affascinante e respingente dove parlare del ruolo dei sessi – e del cibo – oggi. La ricerca delle purezza confina con il sentiero dell'annullamento. E una punizione all'apparenza gratuita e autoinflitta, per quanto poco condivisibile ci appaia, in realtà è l'unica scelta fatta deliberatamente da una moglie confinata in un angolo, nell'ombra: spogliata, usata e gettata via; pilotata in riunioni familiari che ne evidenziano l'alterità irreversibile; imboccata con le mani, con la forza, da amanti repressi e spregevoli padri padroni.

Perché, è così terribile morire?

La vegetariana è una forma di ribellione, una fuga. Il ritorno simbolico alla Terra, al fango a cui apparteniamo, per affidarsi finalmente a un'entità femminile che soverchia tutti e tutto: patriarcato compreso. Una natura naturans, accogliente e inquietantissima, che negli incubi ti promette di abbracciarti fino a diventar parte di un intrico incantevole di spine e fiori di carne. La prosa della Kang stilla linfa e fluidi vitali, la sua denuncia fattasi fiaba grottesca mette radici nei pensieri e nelle consapevolezze, e in preda a un'estasi pagana fioriscono intanto i corpi femminili e le rivoluzioni silenziose. 
Contro l'inedia sentimentale. Contro una fame vorace che ti spinge a impuntarti, ad affrancarti, attraverso la trasformazione in albero. Proprio come accaduto alla Dafne del mito, sfuggita così alle mani bramose del dio Apollo. Proprio come una figliol prodiga che torna infine a mutarsi in radice, foglia e bocciolo, nella stretta solidale di Madre Natura.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Baustelle – La canzone del parco

lunedì 27 agosto 2018

Recensione: Salvare le ossa, di Jesmyn Ward

| Salvare le ossa, di Jesmyn Ward. NN Editore, € 19, pp. 316 |

Dici uragano, e subito pensi alla tempestività di una catastrofe che non si prende la briga di avvisare. Alle immagini di un film spaventoso, eppure degno di stupore, passato su tutti i telegiornali tredici anni fa di questi tempi. Le case ridotte a miniature per bambole da buttare via, onde di alberi tegole randagi e lavatrici, divani e bare finiti chissà come sul bagnasciuga, una macchina incastrata tra i fili del telefono come un ragno nella tela. Lo sfondo, quel Sud remoto di coccodrilli e riti che tanto doveva affascinare, all'epoca, l'undicenne attonito che una simile quantità di relitti, le stesse macerie, doveva averle viste solo quando le Torri Gemelle erano cadute nel bel mezzo di una puntata della Melevisione. Il titolo: Katrina. I satelliti, in realtà, la avevano avvertita e le previsioni meteo parlato con ampio anticipo: un turbine implacabile, sebbene affatto improvviso, che cresceva come montava il vento. Idealmente ci sarebbe stato il tempo per affrontarlo preparati: lo scatolame da stipare sugli scaffali in dispensa, porte e scuri da rinforzare, gente e ricordi a cui assicurare una fuga certa in casi estremi. I Batiste, famiglia protagonista del primo capitolo della trilogia di Jesmyn Ward, di tempo non ne hanno avuto a sufficienza: impegnati come sono a sbrogliare le proprie vite a un bivio, a disinfettarsi ferite aperte. Ci sono un padre alticcio e dolente, che campa soltanto con la pensione di invalidità; Junior, il piccolo di casa, che di crescere non ha fretta; Randall, promessa del basket in attesa degli esiti di una borsa di studio; Skeetah, il maggiore, proprietario di un pitbull immacolato con una nuova cucciolata sotto le mammelle gonfie di latte. E infine Esch, narratrice interna e unica figlia femmina. Che legge per la scuola dell'amore sbagliato di Medea per Giasone, e di come quest'ultima voltò le spalle al padre, al fratello e ai figli per colpa di un traditore. E che proprio a un traditore a sua volta si è concessa – Manny, la pelle dorata e i denti affilati: il migliore amico di Randall –, scoprendo che fare sesso è come imparare a nuotare e che, se in dolce attesa a quindici anni, non si controllano il vomito e l'urina a fiotti, né la fame incontenibile. Senza età, senza sesso, senza privacy, i Batiste si scambiano i vestiti e si ingozzano di noodles e zuppa di piselli. Vivono precariamente, come sotto assedio, eppure se glielo chiedessi si direbbero contenti così. Questo li rende forse preparati alla calamità?

Sono i corpi a raccontare le storie.

Le loro entrate dipendono dalla salute del pitbull, China: si commettono perciò infrazioni per rubare il vermifugo ai vicini, ci si contende pezzi di legno e linoleum non per le finestre da schermare ma per una cuccia improvvisata, ci si domanda se la maternità abbia reso il molosso troppo cagionevole per i combattimenti clandestini – i cuccioli valgono ottocento dollari ciascuno, infatti, ma la barbarie del cane contro cane paga, e profumatamente. Essenziale ma dalla potenza cinematografica, Salvare le ossa è il ritratto incantevole e terrificante di una famiglia come tante sullo sfondo di un cielo che muta a vista d'occhio faccia e colore. Ora ringhia, ora uggiola e infine canta, insieme alla prosa di vento di una scrittrice bravissima. L'allerta meteo è un pensiero accidentale, una preparazione lentissima. Le poche scorte non bastano. Katrina arriva soltanto negli ultimi capitoli, e li fa disintegrare e ricomporre nel buio di un solaio divelto; in una catena di braccia lunghe e affetti commoventi, che lasciano in strada falò alti così per guidare a casa i dispersi e in tasca cocci di vetro e bottiglia, un pezzo di mattone. La proverbiale quiete dov'è che sta, prima o dopo la tempesta? Nella frenesia della routine degli inizi, o nella pacifica rassegnazione che interviene poi, quando ci si scopre un niente, sì, ma con il cuore in pace?

Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra al letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. [...] Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.

Gli indimenticabili fratelli Batiste sono neri, tenaci, ben piantati sulle gambe. L'uragano, pensavano, non li avrebbe mai spostati. Perché la loro natura non è meno prevedibile di quella lì fuori. Ce ne racconta la sopravvivenza da una prospettiva d'eccezione Esch, infiltrata in un microcosmo maschile che maschio non può fingersi ormai più, eludendo le richieste di un corpo già in metamorfosi. Ciò che ha radici profonde resiste, non rischia la deriva: a Bois Sauvage, Mississipi, dove gli uomini portano i pantaloni e le forze della natura, intanto, nomi di donna.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Alicia Keys – Girl on Fire (Acoustic)

mercoledì 18 aprile 2018

Recensione: La manutenzione dei sensi, di Franco Faggiani

| La manutenzione dei sensi, di Franco Faggiani. Fazi, € 16, pp. 250 |

Leonardo – cinquantacinque anni, vedovo da dieci, giornalista affermato nella Milano da bere – abbandona tutto, nell'esordio nella narrativa di Franco Faggiani. Si lascia dietro lo smog della città, i ricordi di una vita prima e fra i monti della Val di Susa, un po' roccaforte e un po' trappola, costruisce per sé e un ospite speciale un piccolo paradiso privato che somiglia tanto a un mio sogno ricorrente: un casetta ristrutturata di fresco affacciata sugli alberi, sui pascoli, in cui scoprirsi più sereni e più forti. Nel corpo, temprato dal lavoro fisico, e in quella mente finalmente in pace, se immersa nella bellezza dell'incontaminato. Chiara, la moglie stroncata nel letto da un aneurisma cerebrale, non avrebbe voluto niente di diverso per lui. Stessa cosa l'impegnatissima Nina, sua unica figlia, a Boston per un lavoro di prestigio: sapendolo in buona compagnia, è partita però senza sensi di colpa. Leonardo, infatti, condivide casa e silenzi con Martino: adolescente in affido temporaneo, che ha poche chance di trovare il suo posto nel mondo prima della maggiore età. Ha la sindrome di Asperger e, per il sistema, è una mela bacata. Può scoprirsi indentico agli altri, nel suo, mimetizzandosi in alta montagna. Dove intagliare il legno e raccogliere quel che si è seminato conta più del rendimento scolastico. Dove, soprattutto, non c'è differenza alcuna fra i modi spicci del ragazzo – che da copione non amerà il contatto fisico, le metafore, chiacchierare del più e del meno – e quelli degli abitanti locali: prendiamo l'anziano Augusto, ad esempio, che presto diventa un datore di lavoro e saggio migliore amico. Oltre la valle, un mondo sconosciuto di cui imparano subito a non sentire la mancanza. In altitudine, amori, avventure e pericoli per sfatare insieme un infondato luogo comune: quella vita solitaria no, non li isola affatto.

A lui piaceva andare, ma soprattutto ritornare. Dopo ogni assenza, appena sceso dalla macchina, adempiva un rituale che lui stesso si era inventato: correre verso il borgo sopra casa fino a una piccola radura, allargare le braccia e dire a voce alta agli alberi, agli animali e alle montagne.
Ehi, sono qua, sono tornato, mica sono stato via tanto”.

Ho portato La manutenzione dei sensi con me a Pasquetta, per una foto a tema in un borgo alle pendici del Gran Sasso. L'ho voluto, l'ho avuto e l'ho messo da parte, infine, per il momento giusto. Ho visto quanto bene stesse accanto agli altri titoli Fazi, che custodisco gelosamente in libreria. Ho fatto l'errore di associarlo a colpo d'occhio, per assonanza, alle Otto montagne di Paolo Cognetti. Sperando invano di trovarci all'interno la stessa delicatezza e la stessa morsa allo stomaco che le amicizie maschili – straordinariamente sincere, rare – non si sa perché mi ispirano, da qualche anno a questa parte. Gli ingredienti c'erano: tutti, giusti. Ma qualcosa con me non ha funzionato. Questione di stili che non piacciono, di emozioni mancanti. Ancora, di pura soggettività. Faggiani scrive correttamente, con leggerezza e ironia, ma non si imprime: a tratti annoia forse un po' nel tentativo di ricercare bei dialoghi da libro stampato, scorci naturali da fotografare a suon di descrizioni particolareggiate. Parla di morte e rinascita, di guarigione, ma non ci sono né la tristezza esistenziale né la malinconia auspicate. La colpa, probabilmente, più mia che dell'autore, quando una lettura non ha grandi difetti, eppure non convince. Con un narratore che, strano ma vero, è il meno interessante dei personaggi (come possa un giornalista con incarichi all'estero ignorare cosa abbia fatto Alan Turing o quali siano le peculiarità dell'Asperger, poi, proprio non lo so). Con i suoi protagonisti privilegiati e benestanti che passano la vita in vacanza, come nel tormentone sanremese dello Stato Sociale.

Forse hai ragione. Siamo stati noi a scegliere un posto e un modo di vivere che ci fa stare bene. Insieme. Tu stai bene?

Leggendo di vini rossi e genziana, di sughi saporiti e polenta con selvaggina, li si invidia per la buona forchetta e la vista mozzafiato. Si sorride, ma come davanti a quei film di Natale in cui tutti sono buoni, buonisti, e tutto andrà bene per forza di cose. Manca l'autentica vocazione dell'autore premio Strega, e queste cime poco tempestose fanno da sfondo a un esperimento sociale, a un cambio vita, che avevo immaginato diverso. Romanzo ad alta quota che mi ha promesso le vertigini di un volo e le carezze del conforto, senza mai portarmi in alto.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Arisa – Ho cambiato i miei piani

mercoledì 14 marzo 2018

Recensione: La casa del padre, di Karen Dionne

La casa del padre, di Karen Dionne. Sperling & Kupfer, € 17,90, pp. 324 |

C'erano una volta un papà, una mamma e la loro bambina. C'era una volta un bosco nella Penisola Superiore, in Michigan. Lì, in una casetta nel fitto impenetrabile degli alberi, nessuno al mondo sapeva di loro. Helena, la piccola di casa, aveva ricevuto per il suo quinto compleanno una bambola di sterpaglie e un coltello affilato. Aveva imparato a sparare ai cervi e agli orsi, a sporcarsi le mani di sangue, fra i lunghi silenzi di una mamma eternamente afflitta e le occhiate orgogliose di un padre ferino, abbronzato, tutt'uno con gli elementi e quella forma necessaria di violenza. Helena ha vissuto in quell'isolamento idilliaco, in quella favola selvaggia, per dodici anni. Dove non esisteva nemmeno il tempo, se non quello meteorologico. I National Geographic di mezzo secolo fa per imparare a leggere e scrivere, una natura ora amica e ora nemica, il pensiero innocente che oltre gli alberi e le montagne non ci fosse altro da conoscere. Poi, un giorno, la fiaba di un'infanzia di luci e ombre giunge a una pagina inaspettata. Un colpo di scena. Quel capofamiglia affascinante e avventuroso – che a volte si rivela sadico e vendicativo, che a volte punisce la bambina chiudendola per giorni in un pozzo buio – in realtà è loro nemico, l'aguzzino di sua madre. Un'adolescente appena quando Jacob la rapì, ne abusò, confinandola nel bel mezzo del nulla. Helena è la figlia di una crudele prigionia, il frutto dello stupro.

I ricordi non si basano sempre sui fatti reali. A volte sono legati ai sentimenti.

Ormai donna, la protagonista ha tradito il suo spirito guida per il vivere borghese. Ha un marito, due bambine, marmellate biologiche per lavoro. Ha imparato le buone maniere, a coprire con un velo di trucco i suoi tatuaggi tribali, a mentire. Ha mandato in galera, soprattutto, il genitore cattivo. Ascolta distrattamente la radio quando annunciano che è evaso, assassinando due guardie con un punteruolo modellato con dentifricio e carta igienica. Il fuggitivo punta al Canada, ma è sempre stato un sentimentale. Helena è sempre stata la gioia dei suoi occhi, finché non gli ha voltato le spalle. Vuole rivederla, vuole punirla, e lei gli va incontro con un fucile carico in spalla e Rambo, un cane da caccia, al trotto. Per fermarlo, nel gioco del gatto col topo imparato un'esistenza prima. Per il bisogno tanto inspiegabile quando disperato di riabbracciarlo ancora.

Quello che fece a mamma è sbagliato, lo so. E il fatto che abbia assassinato due guardie è imperdonabile. Eppure una parte di me – una parte non più grande di un granello di polline su un unico fiore, su un unico stelo d'erba di palude, quella parte che rimarrà per sempre la bambina con le treccine che idolatrava suo papà – è felice che sia libero.

La casa del padre è un thriller cinematografico, muscolare, in marcia. Senza tranelli e senza inganni, articolato fra passato e presente com'è ormai norma, può contare su una sola idea – una riunione di famiglia che assume le fattezze di una sfida all'ultimo sangue –, una manciata di personaggi, piste da seguire aguzzando i cinque sensi. Sebbene ridotte all'osso per forza di cose, serratissime, le trecento pagine di Karen Dionne si reggono davvero bene. Merito di un'eroina dalla doppia vita, dalla doppia natura, cresciuta all'ombra di un padre adorato e ascoltando le leggende dei nativi assieme ai due amici immaginari. Merito di un antagonista che a tratti antagonista non è – viene istintivo ripensare a Viggo Mortensen, l'indomito patriarca hippie di Captain Fantastic –, che ha lanciato un inequivocabile richiamo in direzione della sua unica erede. Se soltanto Jack si fosse affezionato al suo carceriere più che a Brie Larson, sembrerebbe di leggere il seguito di Room. Una riscrittura del Re della palude di Andersen, se la protagonista – imprenditrice di successo sì, ma con una passione singolare per la caccia, la pesca, le trasferte in solitudine – fosse così brava a dividere i lati oscuri dal resto. I toni però sono quelli della narrativa d'azione, che procede in tempo reale e precede qualsiasi premeditazione.

Ero stata la crepa nella sua armatura, il suo tallone d'Achille. Mi aveva allevata modellandomi a sua immagine, ma nel farlo aveva piantato i semi della sua fine. Aveva il controllo su mia madre. Ma non lo aveva mai avuto su di me.

C'è, adesso, una giovane donna sulle tracce del padre assassino. In fuga, di nuovo, da un passato e da un DNA da zittire. Il terreno è accidentato in certi posti, ma non si fa quasi difficoltà. Karen Dionne e la sua protagonista ne assecondano gli avvallamenti, schivano i rami spinosi. Si prendono il loro tempo. Per esplorare. Per starsene riflessive, per conto proprio. Le cartucce non vanno bruciate infatti troppo presto. La natura è grande: copre il rumoreggiare dei pensieri, e le urla. Le scie – di foglie morte, legnetti spezzati, cadaveri innocenti, flashback – conducono alla resa dei conti. 
Per vivere così, forse, finalmente felici e contenti.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Guns N'Roses – Sweet Child O'Mine

lunedì 30 gennaio 2017

Recensione: Le otto montagne, di Paolo Cognetti

Tu sei quello che va e viene, io sono quello che resta. Come sempre, no?

Titolo: Le otto montagne
Autore: Paolo Cognetti
Editore: Einaudi
Numero di pagine: 199 pagine
Prezzo: € 18,50
Sinossi: Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po' scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l'orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia. Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo "chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l'accesso" ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E li, ad aspettarlo, c'è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche. Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, "la cosa più simile a un'educazione che abbia ricevuto da lui". Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito più vero: "Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino". Un'eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.
                                         La recensione
Ci guardavamo per un secondo. Tutto qui. Non se ne accorgeva nessuno, né succedeva di nuovo nel corso della serata, e io non ero sicuro di interpretare bene il significato di quel saluto. Poteva voler dire: mi ricordo di te, mi manchi. Oppure: sono passati due anni ma sembra una vita, non ti pare?”
Sono nato su un'isola. Ho avuto la fortuna di viaggiare un po', con la scuola, e ho visto in minima parte quello che c'è fuori – Londra, Barcellona e la Grecia, a bordo di un autobus che s'inclinava pericolosamente nelle curve a gomito –, pur conoscendo poco dell'Italia. Non mi sono mai spinto più a nord di Ravenna. Sono del sud. Un topo di città. Un tipo da mare che però odia la spiaggia. La natura non si fida di me, io non mi fido della natura. Mi spaventa, quasi. Perché sono stato un ragazzino grasso e impacciato, che cascava anche da seduto. Perché studio in Abruzzo, vedo il Gran Sasso imbiancato arrivando in treno e so che, per DNA, siamo piccoli e frangibili. Non sono mai stato in montagna, e delle montagne so soltanto che sono quelle rocce alte e appuntite, con le cime innevate, che mi si parano all'orizzonte mentre viaggio per le strade di certe città. Quando ero più piccolo, ha provato a farmi cambiare idea Mauro Corona: uno scrittore avventuroso, che la natura la ama e la racconta da sempre, ma che con me, purtroppo, aveva fatto fatica. 
Una sera di gennaio, però, mi sono ritrovato a leggere un romanzo che la natura ce l'ha perfino nel titolo. A detta dell'autore, una storia di due amici e una montagna. Così tanta la voglia di scoprire il fortunato Paolo Cognetti, però, da vincere perfino le vertigini e l'insofferenza verso la vita all'aria aperta. L'autore – uno di quelli che piacciono a me, che scrive come parla e parla come mangia – presta la sua voce a Pietro: un bambino con due genitori che si sono conosciuti sulle Dolomiti, un appartamento al centro dell'irrespirabile Milano, una serie di estati tutte uguali. Quando le scuole chiudono, mamma (assistente sociale) e papà (operaio) vanno in ferie e alloggiano a Grana, tra le loro amate montagne. Non si somigliano, Pietro e suo padre: così chiusi da non riuscire a trovare punti in comune, se non le esplorazioni e l'arrampicata. Assicurati dalla stessa imbracatura, legati stretti, possono provare finalmente un illusorio senso di familiarità. La montagna regala a Pietro qualche attimo felice con il genitore, malinconico cronico con la testa altrove, e un migliore amico di nome Bruno. Un coetaneo che se ne sta sempre lì, con le mucche e il gregge, cresciuto a pane e romanzi d'avventura, come se a separarlo dalla valle ci fosse una barriera. Si vedranno ogni estate per trent'anni. Non si daranno mai appuntamento e di rado si parleranno da un telefono a gettoni. 
Ogni volta, si incontreranno quasi per caso: come se, lassù, ci si potesse incrociare come tra dirimpettai. Le otto montagne racconta la spensieratezza dell'infanzia, le frenesie dell'adolescenza e, infine, le eredità che ci riportano a casa. Il rivedersi tanti, troppi, anni dopo e il contarsi i capelli grigi in testa, parlando di seppellire padri, costruire casupole, perdere un amore. Prende spunto, nelle sue riflessioni esistenziali, da una leggenda nepaliana. Soprattutto, si intuisce nei ringraziamenti, dalla gioventù dello stesso Cognetti: figlio degli anni Ottanta, uomo concreto e dall'indole nomade, che viene dalla Lombardia e dal racconto breve. Nel suo ultimo lavoro, il primo firmato con Einaudi, ho trovato i ragazzi e le ragazze di quella generazione; il fare pragmatico e i viaggi per trovare sé stessi; il settentrione e quelle parole setacciate, centellinate, coltivate con parsimonia. A me, in teoria, Paolo Cognetti non dovrebbe piacere: non qui, almeno. Non vi nascondo che, a tratti, con la guida di un protagonista errabondo e introverso, rischiavo di restare indietro di qualche passo. Però c'è che Bruno, un personaggio indimenticabile come pochi, compare in scena e ti emoziona. Perché lui, che eppure scuoia gli animali a mani nude, spala letame da mattina a sera, ha dita nodose e comportamenti da misantropo, è artefice di una poesia tutta sua. E c'è che Le otto montagne è un romanzo intensissimo, commovente, dove gli stati d'animo seguono i bollettini metereologici e i bambini vengono al mondo in ottobre, ché l'amore si fa quando i campi riposano. Ti scalda in questo inverno che non ha pietà. E lo sa la testa, e lo sa la pancia.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran - Castle On The Hill