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sabato 31 ottobre 2020

Pillole di recensioni per Halloween: Bianco (Laura Bonalumi) | Le parole che non posso dirti (Tommy Wallach)

Bianco, di Laura Bonalumi.
Piemme, € 16,50, pp. 239
★★★
Il freddo brucia. Lo ha realizzato Isabella, diciannove anni, davanti alla catastrofe che ha paralizzato il mondo sotto un manto candido. La neve si è palesata a ottobre. Felicissimi, grandi e piccini l'hanno scambiata per un miracolo. Poi ha preso il cielo e la terra. Infine ha mietuto vittime. Sopravvissuta ai familiari, la protagonista vive con l'unica famiglia che le resta in una chiesa vuota: cinque sconosciuti di età diverse, a cui si è aggiunto di recente Giovanni, pasticciere che nel mezzo dell'apocalisse la tenta con qualche sospiro d'amore. Abbagliante, ma non per questo meno spaventoso, il futuro immaginato da Laura Bonalumi ha cieli d'acciaio e lacrime di ghiaccio: i cadaveri di uomini, donne e bambini, a causa delle basse temperature, sono cristallizzati come in una cella frigorifera. È un futuro più vicino che mai. Scritto qualche anno fa ma pubblicato all'alba di una seconda quarantena, Bianco racconta le convivenze forzate e i rari momenti di distensione vissuti lo scorso marzo: quando una festicciola tra le mura domestiche, sporcarsi le mani d'acqua e farina, aiutavano a sconfiggere l'angoscia. Sempre fedele a sé stessa ma sempre diversa, l'autrice affronta per la prima volta un genere internazionale – ho pensato a Snowpiercer – e risulta sorprendentemente attuale. In maniera convincente, ci racconta le tensioni e le relazioni. Nonostante i termometri al collasso, poi, sa come risultare calorosa; come emozionare. Vittima della nostalgia e dell'incertezza, la sua Isabella è una protagonista interessante nel suo continuo interrogarsi: l'autrice conta le sue cicatrici, una per una, e le confronta con quelle degli altri superstiti. Più attratta dal lato psicologico che dalla componente thriller, però, la Bonalumi si concede lunghe riflessioni e brevi incursioni esterne. Ambientato prevalentemente nella chiesa-rifugio, Bianco ha atmosfere brillanti e interrogativi importanti sul senso di Dio, ma altresì il difetto di risultare una lunga introduzione. È previsto un seguito? I messaggi scritti con la cenere troveranno un lettore? Isabella e gli altri sono la speranza di un nuovo inizio? Al pari del pilot di una serie TV, Bianco intriga e suggestiona – perfino in queste pagine, infatti, i colpi di tosse preoccupano –, ma per ora lascia a digiuno di avventure al cardiopalma. Arriveranno nella prossima puntata?

Le parole che non posso dirti, di Tommy Wallach.
Piemme, € 16,50, pp. 272
★★★½
In cima all'armadio custodisco una pila altissima di romanzi per ragazzi. Al liceo hanno rappresentato la mia comfort zone per eccellenza. La pila, purtroppo, è ferma da un po'. Qualche settimana fa sull'armadio se n'è aggiunto un altro. Una storia d'amore e morte, truce e adorabile insieme, scritta da un autore già apprezzato in passato. Ambientato tra Halloween e il due novembre, il nuovo romanzo del bravo Tommy Wallach mi è parso leggero e saggio: un riappropriarmi di uno spazio che in fondo è sempre stato mio. L'incipit, da commedia indie, coglie i due protagonisti nella hall del Palace Hotel. Parker, diciassettenne chiuso dietro una cortina di silenzio, ha marinato nuovamente la scuola: è nell'albergo di lusso in cerca di qualche pollo da spennare. Lei, Zelda, siede da sola con una cascata di capelli argentati e tutt'intorno un'aura di tristezza perfetta: ha una borsa piena di soldi, e nel derubarla Parker finisce per smarrire il taccuino con i suoi pensieri più intimi. Zelda gli fa una proposta: spendere insieme tutto il denaro; dopodiché, a fine giornata, lei si suiciderà gettandosi dal Golden Gate. La ragazza giura di avere 246 anni. Novella Benjamin Button, usa un linguaggio antiquato, balla il Charleston, si fa scortare in limousine. È possibile restituire la voglia di vivere a chi ormai è stanco? Il risultato è uno spassoso tour de forze all'insegna del consumismo, delle prime volte e delle ultime occasioni. Una riflessione agrodolce sul senso del tempo, della gioventù e della vita. Entrambi stufi di stare al mondo, i ragazzi hanno un'inquietudine che li rende unici nel loro genere: peccato che le tappe della loro storia siano convenzionali e comuni, per esempio, ai romanzi on the road di John Green. Ma l'epilogo, insieme alla scrittura dell'autore, per fortuna è tutto fuorché scontato. È forse la scrittura a trasfigurare l'amore in magia? La ragazza tentata dall'abisso resterà la storia più bella mai inventata da Parker? A fine lettura resta il mistero. Resta la speranza. Restano le parole: speciali soprattutto quando non dette.

mercoledì 9 gennaio 2019

Recensione: La segretaria, di Renée Knight

| La segretaria, di Renée Knight. Piemme, € 19,50, pp. 305 |

Leggi segretaria in cima a una copertina conturbante e il primo pensiero non è per la signora di mezza età che nella sala d'attesa del dentista ti fa firmare liberatorie o ti rivolge dal bancone sorrisi di convenienza. Uomo o donna che tu sia, infatti, non importa: penserai comunque a uno sguardo sornione incorniciato da un paio di occhiali non graduati, a una gonna al ginocchio con sotto calze velate e tacchi alti. Colpa del cinema noir, della commedia sexy degli anni Sessanta, che hanno fatto del ruolo di queste figure professionali – riservate, attente, onniscienti – un nostro fumoso sogno erotico. Purtroppo o per fortuna il secondo romanzo di Renée Knight non cade nel cliché. Anche se le confidenze troppo intime tra capo e impiegata – due donne di potere, in definitiva, come negli irresistibili Da una storia vera e Un piccolo favore si sarebbero prestate benissimo. Anche se, a conti fatti, la storia della segretaria bella e manipolatrice immaginata a scatola chiusa avrebbe avuto maggiore appeal sul sottoscritto, piuttosto annoiato invece dall'ultima lettura di dicembre.

Ho mentito “per” Mina così tante volte, capisci? Ma mai “a” lei.

All'inizio del romanzo Christine, mamma poco presente e moglie disposta a rinunciare facilmente al proprio matrimonio per un'ingrata ascesa, non sa di firmare un patto di sangue con la sua datrice di lavoro, Mina: donna, al contrario suo, benvoluta ed emancipata con la fama di essere la risposta femminile a Gordon Ramsey. I giornali parlano con reverenza dell'anziano padre Lord, dell'educazione in Svizzera, di una relazione glamour ma puramente di facciata con un attore di soap opera e, soprattutto, di un'etica professionale assai meno limpida del previsto. Erede di una catena di supermercati, presenza ricorrente sui rotocalchi e presto conduttrice di un programma culinario di successo, quella Mina sempre impegnata lascia impegni e corrispondenze da sbrogliare – colpe comprese – alla sua collaboratrice. Una presenza invisibile che per diciotto anni la assiste negli imbrogli grandi e piccoli senza batter ciglio, e insieme a lei impara ad apprezzare le camicette Armani, i pregi di una dizione perfetta, la vita pubblica rispetto a quella privata.

Io e Mina fiorimmo insieme. Lei naturalmente, come una specie dominante. Io, invece, come una pianta del sottobosco, che sbocciava alla sua ombra.

Finché un giorno tutto crolla sulla scia dello scandalo. L'insoddisfazione degli agricoltori trascina la Appleton's al completo in tribunale: la segretaria, servile ai limiti della spersonalizzazione e inconsapevole per tutto il tempo di ciò che accadeva sotto il suo naso, è la pedina più sacrificabile. A metà si parla di inchieste e scandali finanziari, di una burocrazia dagli ingranaggi mal oleati e d'intralcio alla giustizia. Temi tutt'altro che accattivanti, se si immaginava purtroppo qualcosa di diverso: un thriller psicologico, magari, che trattava di mobbing e rivincite fuori dalle aule di tribunale. Se un intreccio da dramma giudiziario non assicura né brividi né colpi di teatro, linearissimo nonostante descriva due decenni di taciti servigi, l'isolato punto di forza sta allora in personaggi talmente convincenti da valere una lettura altrimenti senza nerbo. Mancano i ritmi, manca il mistero. Se la protagonista appare sin da subito alla disperata ricerca di approvazione, infatti, l'altra è la classica donna di potere amichevole in teoria ma velenosa in pratica. A un passo dall'invidiata Villa Minerva si consuma così la placida vendetta di una professionista tranquilla e metodica anche nel crimine. Christine, spesso sull'orlo di una crisi di nervi, conosce a memoria password importanti e gli effetti proverbiali dell'ira dei miti: abituata com'è a un lavoro implacabile perché sempre uguale a se stesso, il quale richiede riserbo e spirito di osservazione in cambio di sparute soddisfazioni. Gli stessi compromessi, in fondo, richiede anche la lettura della Knight: una vicenda che si fatica a incasellare, benché non dispiaccia.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: The Hives – Nasty Secretary

venerdì 28 settembre 2018

Recensione: Ogni stella lo stesso desiderio, di Laura Bonalumi

| Ogni stella lo stesso desiderio, di Laura Bonalumi. Piemme Vortici, € 13, pp. 208 |

Arriva a ottobre, a lezioni inoltrate, sovvertendo gli equilibri interni di un classe – una terza liceo, per la precisione – di diciotto studenti, colti alla sprovvista da quell'inatteso più uno. 
Si chiama Guido, è l'ultimo arrivato in città e, timidissimo, non vorrebbe fare troppo rumore. Lo denunciano presto, tuttavia, le assenze frequenti di cui si spettegola tra i banchi di scuola, quando il dramma del cambiamento dei posti a sedere è ormai acqua passata; una tosse aggressiva, soprattutto, che scuote il suo corpo magro e le convinzioni di una diciassettenne acqua e sapone subito incuriosita da un coetaneo che fra i sogni nel cassetto ha quello di pubblicare una raccolta di poesie e innamorarsi. Amelia non sa ancora che leggerà appassionatamente le prime e che, a cuore aperto, lo aiuterà a spuntare il secondo punto della sua bucket list: avere una ragazza accanto, nella buona e nella cattiva sorte.

Sottolineo a matita frasi che mi piacciono, cerchio interi paragrafi che mi emozionano, incollo post-it colorati su pagine che sembrano memorabili. Mi piace pensare che i miei libri vivano. E io con loro.

Scoperta lo scorso anno con Voce di lupo, prezioso romanzo di formazione sul crescere e sul perdonarsi consigliato non soltanto a un pubblico di giovanissimi, Laura Bonalumi è tornata in libreria con un altro titolo per ragazzi: un'altra storia di adolescenti costretti a fronteggiare presto un mondo che non fa sconti, un'altra faccia del dolore. Si parla, infatti, di amore e malattia: binomio amaro, ma che su carta è spesso vincente. 
Il misterioso Guido, infatti, è malato di fibrosi cistica, e a lungo, durante la lettura, sarà ricoverato in ospedale con una flebo nel braccio e una camera asettica tutt'intorno: troppo cagionevole per stare a contatto con gli altri, costantemente in apnea. Amelia, e con lei una Laura armata di speranza e discrezione, lo raggiungono lì. Si parlerà dunque dei dispiaceri dei giovani ai giovani, con la delicatezza di sempre a rispondere all'appello. Sono le modalità, questa volta, a essere purtroppo meno originali, con le relazioni a tempo determinato di John Green, Alessandro D'Avenia e Silvia Montemurro e gli scambi telematici di Le ho mai raccontato del vento del nord. Ci si parlerà, sì, ma per via epistolare, con le e-mail di Daniel Glattauer a rimpiazzare le lettere vecchio stile. Ne nasce una corrispondenza che li fa conoscere, svelare, scoprire indispensabili l'uno per l'altra: i genitori che si preoccupano per il troppo tempo speso in chat, le migliori amiche che non a torto sindacano che il male di Guido potrebbe rovinare la giovinezza di Amelia. Sanno tanto di loro per iscritto, ma non che forma abbia precisamente il naso di cui lei tanto si vergogna; non l'altezza esatta di lui, né la sfumatura nocciola dei suoi occhi belli. Si piacerebbero faccia a faccia, in un ambiente neutrale, dopo essersi confessati l'inconfessabile con l'ausilio di una scrittura che li ha resi affini? Cosa sarebbe della spensieratezza della protagonista, che assorbita dalle problematiche di Guido, dall'inseguimento di un tempo tiranno, rischia di crescere in fretta per sostenere un amico – e molto più – nei momenti difficili?

Se solo il vento potesse regalarmi un po' del suo respiro
Lo userei per raccontare la bellezza della vita
La gioia di svegliarmi ancora vivo
Il timore di dormire per sempre.

Lui ha bisogno all'inizio di un cellulare che prenda, di norme sanitarie rigorose, di mascherina e camice sterili. Lei, che travalica il ruolo di fidanzata rischiando di diventare per forza di cose una chioccia invadente e apprensiva, così facendo rischia di non godersi il poco tempo assieme. Loro, che parlano di sentimenti forse troppo presto citando ora Shakespeare e ora Colpa delle stelle, si scrivono tantissimo e mi si svelano tardi e poco: colpa del filtro delle chat, di frasi ragionate e battute sulla tastiera, che impediscono che a raccontaceli siano i gesti grandi e piccoli; tutta la goffa spontaneità dei diciassette anni. 
Ogni stella lo stesso desiderio, per il resto, non compie passi falsi, tocca la sensibilità dei lettori senza strappare lacrime scontate e mi ha illuminato sui drammi di un male affatto raro – la fibrosi –, che ho la fortuna di non conoscere nella mia vita, se non di nome. Il suo limite isolato: quello di non raccontare nulla che non sia stato già raccontato altrove, pur facendolo bene. L'ultima Bonalumi punta a superare la paura delle vertigini, l'ennesima scarpinata impervia. Mira al cielo aperto, ma portava più in alto grazie alle montagne di un romanzo fa. Quelle che, galeotto l'imprinting del fortunato Cognetti, brillavano ben più di queste stesse stelle avverse.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ermal Meta feat. Elisa – Piccola Anima

mercoledì 8 agosto 2018

Recensione: Io so chi sei, di Paola Barbato

| Io so chi sei, di Paola Barbato. Piemme, € 18,50, pp. 515 |

Io so chi sei come Non ti faccio niente. Due frasi all'apparenza rassicuranti che, a ben pensarci, nascondono dietro un sottile tono di minaccia. Due modi di incutere paura. Due romanzi della stessa autrice che, per perizia e introspezione psicologica, sembrano rendere limitante la definizione di thriller. Torna attesissima Paola Barbato, anche se era stata sul mio comodino appena qualche mese fa con Bilico: esordio da rispolverare, da rivalutare, che non convinceva fino in fondo con i suoi equilibri malsicuri e un gusto per l'eccesso stancante sul lungo tratto. Sapienza narrativa a parte – ora, per fortuna, posso dirlo scacciando l'ombra del sospetto –, nient'altro a che vedere con la complessità delle pubblicazioni successive. Fino a questo momento, infatti, il dubbio poteva essere ragionevole: che la struggente avventura degli ex bambini di Vincenzo, l'indimenticabile rapitore che lasciava paperelle di gomma sulle sue false scene del crimine, fosse un caso isolato difficile da ripetere? Non si supera ma non delude, a questo giro, la sceneggiatrice di Dylan Dog e la musa di Matteo Bussola, compagno di vita che proprio alla loro storia d'amore ha dedicato un'ultima fatica uscita per Einaudi: un intrigo asfissiante, nonostante le ariose ambientazioni toscane, sui pregi e i difetti dell'essere costantemente rintracciabili nell'era degli smartphone. È sempre dal ritrovamento di un oggetto che si parte: un cellulare ripescato nella buca della posta dalle mani tremanti di Lena, trentaduenne con le borse sotto gli occhi e il cuore incrinato per sempre. Strano accumulo di contraddizioni, quella figlia della Firenze bene: la mortificazione dei vestiti informi, il garbuglio inestricabile dei dreadlock al posto della messa in piega delle brave cocche di papà e l'indolente Argo, molosso tenuto a stento al guinzaglio, cozzano infatti con il curriculum di un'universitaria brillante che ha deluso tutti, perfino sé stessa, in nome di una relazione che la ha imposto un nuovo look e nuove frequentazioni, che l'ha imbruttita dentro e fuori. Dal cellulare sconosciuto prendono ad arrivare messaggi dal destinatario ignoto: il primo dice Io so chi sei, e non suona una premessa troppo inquietante all'orecchio di qualcuno come la protagonista. Una giovane donna che si è tradita irreversibilmente, che purtroppo chi sia non lo sa più. È cambiata per Saverio, ma Saverio non c'è a darle ordini, coordinate esistenziali o tormenti: l'eterno ribelle che ha in comune con il Bern di Divorare il cielo le piccole smanie rivoltose, il pallino per l'ambientalismo, le frequentazioni animaliste, è caduto nell'Arno da ubriaco e non è più riemerso. Restano una bara vuota, i segni di una trasformazione radicale di cui ormai a Lena sfuggono i perché e, a due anni dalla scomparsa dell'uomo, un anonimo interlocutore che a distanza la aizza, ci gioca, la maltratta come fosse un cane da combattimento. Lui che ha sempre nutrito rispetto per le bestie, mai per le persone, e che le storpiava il nome con una canzone degli Articolo 31. Lui Saverio, redivivo desideroso di testare la cieca fedeltà della sposa? O a tramare nell'ombra è forse qualcuno che l'ha tenuto prigioniero e affamato per tutto il tempo e che adesso pretende la merce di scambio dell'obbedienza di Lena?

Tutti gli amori sono malati.

Gli SMS mirano a farne una persona diversa e spregiudicata – ricatta, droga, avvelena, brucia, ammazza. Vittima, sempre, anche quando è lei l'artefice sotto costrizione. 
Proprio come quando appariva un corpo estraneo nella ampia cerca degli amici di Saverio, ora decimati uno a uno. 
Proprio come quando, a metà romanzo, interviene un personaggio che ruba la scena a chiunque: lo sgrammaticato Francesco, gigante in divisa affatto buono, le raddrizza il tiro, porta a termine quello che Lena si rifiuta di fare, la usa come esca travalicando una giustizia al solito malleabile. Tutto pur di acciuffare il colpevole, e di farne carne da macello: con la protagonista, così, destinata a passare dal mostro all'orco come in una fiaba nera, in nome della riconoscenza di coloro che vengono salvati da terzi. Doppiamente manipolata, contesa da amori vandalici, in un implacabile stillicidio lungo 500 pagine questa protagonista debole, duttile e inetta fino all'ultimo si mostra a sorpresa esattamente uguale a noi. Ci affascina e ci irrita, vero, ma faremmo lo stesso se intrappolati in un simile labirinto di bugie. In una gabbia a cielo aperto con vista sul Lungo Arno.

«Non ho più niente da perdere» aveva risposto Lena, per poi aggiungere: «Sono una brutta persona.»
«Tutti lo siamo, la nostra è una brutta specie.»

Si incontrano comprimari innumerevoli – su tutti, nella corte dei miracoli di Saverio impossibile non ricordare Alex e Lucio, esempio di un amore che a volte salva – che a colpi di personalità fortissime sfuggono al classico ruolo castrante dei personaggi minori. Si sovrappongono e confondono i buoni con i cattivi, in un'ambigua matassa di supposizioni errate e grigi sfumati. Si parla di stalking e allievi che superano i maestri, di gabbie costruite nello zoo della nostra mente vulnerabile. Qualche dubbio soltanto per il finale, molto aperto, quando ci sarebbe stato forse tutto il tempo per tirare meglio le fila: da uno spunto all'apparenza abusato, infatti, è venuto già fuori un thriller scorretto e solidissimo. C'è abbastanza materiale per la trilogia nei piani di Paola, scrittrice con una prosa magnetica e cattive intenzioni? Ma ci si affida a occhi chiusi al suo imperscrutabile volere, perché sì. L'orecchio teso, pronti a scattare il giorno in cui il trillo di una notifica ci informerà che il secondo capitolo è in stampa; che le minacce scambiate per gentilezze no, non si sono esaurite sulla costa massiccia di Io so chi sei. Per ironia della sorte, dunque, in scacco quanto una protagonista con un caricabatterie Samsung per collare a strozzo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Police – Every Breath You Take

martedì 29 maggio 2018

Recensione: Jonas e il Mondo Nero, di Francesco Carofiglio

| Jonas e il Mondo Nero, di Francesco Carofiglio. Il Battello a Vampore, € 16, pp. 333 |

Da bravo superficiale quale sono, non avrei saputo resistere. All'illustrazione in copertina che prima ancora del passo di It citato a pagina uno faceva respirare atmosfere alla Stephen King. Al nome di uno scrittore molto prolifico – non si tratta di omonimia: Francesco è il fratello minore di Gianrico, altra garanzia di bestseller –, qui alle prese con un romanzo per ragazzi.
Com'era perciò prevedibile non ho opposto resistenza, no, e mi sono concesso con una punta di nostalgia un viaggio lungo una metafora assieme all'ultimo volume del “Battelo a Vapore” – intorno agli otto anni non una semplice branca della Piemme, bensì la mia migliore amica. Con il protagonista, d'altronde, sarei andato d'accordo anche ai tempi. Balbuziente e occhialuto, non brilla né a scuola né negli sport, e a casa, quando non può perdersi in qualche romanzo o nell'inusuale catalogazione dei coleotteri, fa i conti con una mamma che c'è e non c'è, un papà a rischio cassa integrazione, una sorella maggiore che vive di rotocalchi. Nemmeno i bulli, gli stessi che in una segheria abbandonata usano i randagi del quartiere per il barbecue, si curano di lui: anonimo com'è, non ispira grandi angherie. Si chiama come l'eroe della serie distopica di Lois Lowry, sogna mondi sottosopra degni di una puntata di Stranger Things e in una anonima città degli Stati Uniti – tra cenni a fotoromanzi, sceneggiati radiofonici e vecchi tram, non sappiamo bene se collocarla nel presente o nel passato – vede succedere strane cose. Non esistono le ombre di cui parla: i genitori si sono accertati che avesse tutte le rotelle al posto giusto in tempi non sospetti, portandolo a colloquio da uno psichiatra infantile. Non vogliono dirgli niente gli indovinelli alla Lewis Carroll e i regali enigmatici che riceve in dono da conoscenti vicini e lontani. Come convincersene se all'orizzonte non gli si prospetta un bianco Natale, bensì nerissimo? Come fare spallucce, se nella sua stanza compare Melampo, una specie di elfetta biondo platino che viene da una dimensione intermedia?

Ci sono vari modi di sentirsi soli. Non poter raccontare i propri segreti era uno di quelli.

Jonas era un dodicenne normale, per quanto sui generis: una spasimante di cui non contraccambiava le gentilezze, un compagno di banco che nascondeva i lividi di un genitore manesco, l'amore igenuo per Nina (figlia di pasticcieri, incantevole e spiritata: non vedente). Certo, aveva un nugolo di parenti finiti a picco nell'oceano o in una camera dalle pareti imbottite, ma nel suo microcosmo di hobby, routine e manie ci stava ignaro e contento. Si è arreso: la stranezza sembrava una condanna vita natural durante. Tutto è destinato a cambiare. Ha letto spesso di straordinarie avventure per mari e per monti, di verità che sfuggono e bambini scelti per sbrogliare equilibri instabili: non pensava che i fantasy che ha divorato sotto le coperte, con la neve fuori, parlassero di lui. Che è la chiave della porta che apre il bene e taglia fuori il male, pronta a spalancarsi pericolosamente ogni trentatré anni. Che nell'intercapedine della nostra realtà esiste Extramondo, una Isola che non c'è popolata dai Ragazzi Ombra. Che a mezzanotte le due dimensioni nemiche si incontreranno, e una soccomberà all'altra, fulminandosi come una lampadina in esaurimento. Come può lui avere potere decisionale, se grigiore e malumore diffusi, se l'impressione tutta contemporanea di poter fare a meno di essere felici, testimoniano che il male è un'infiltrazione che non ci abbandona?

Alcune cose, a volte, riescono meglio a occhi chiusi.

Jonas e il Mondo Nero, più vicino al racconto fantastico che all'horror, è un romanzo strano, in parte, come strano ci si presenza il suo adorabile protagonista (i dialoghi superano le descrizioni e, fra le pagine, si respira una durezza del vivere che non ti aspetteresti). Chiariamolo subito: l'originalità non è di casa, di qualche guizzo ironico ho proprio sentito la mancanza, e la risoluzione finale appare piuttosto approssimativa. Non mi sono piaciuti gli “appunto” di troppo, l'esagerare coi puntini di sospensione nelle parti dialogiche, il fatto che molti personaggi – i vicini, la spasimante, il migliore amico – fossero introdotti per poi rimanere sullo sfondo. Mi è piaciuto il resto (gli ex manicomi, i passaggi segreti dappertutto, le stazioni abbandonate), ma soltanto con il senno di poi. Perché Jonas e il Mondo Nero fa parte di quei romanzi che decollano tardi amando la malinconia della partenza, che sono soprannaturali ma non così tanto. Quelli che si accontentano di essere semplici, di cuore, e in cui l'elemento fiabesco resta una scusa per cominciare a raccontare. Troppo, qui?

Dove vanno a finire le cose dell'infanzia? Tipo la collezione dell'Uomo Ragno, le corse a perdifiato, e i racconti di tuo nonno d'estate, all'ombra della grande quercia. Dove vanno a finire le voci, gli odori, la sensazione precisa di essere nell'istante perfetto, che durerà per sempre? Che non finirà mai. Non dura per sempre. E tutta quella roba, a un certo punto, sparisce. La memoria si inghiotte i fumetti, le corse e i racconti di tuo nonno. E improvvisamente sei solo. E improvvisamente, non sei più bambino.

Da piccoli poteri derivano grandi responsabilità. C'è sempre il tempo per ogni cosa: scoprire che le guerre non si vincono mai in solitaria, ad esempio, oppure cambiare. E c'è un ragazzetto cupo per natura che paradossalmente, eppure, fa abbastanza luce da illuminare un viaggio al centro della terra, e della notte, di cui ho percepito a metà l'importanza di quel che c'era in ballo. Crescere, racconta l'adulto Carofiglio con una punta di tristezza a chi adulto si appresta a diventarlo, significa dimenticare la magia. Nell'Extramondo, nell'età di confine tra l'infanzia e l'adolescenza, qualcosa passa di mente e qualcosa no. Restano un origami a forma di suricato (la sentinella del mondo animale) sulla scrivania di una cameretta che si è fatta d'un tratto troppo piccola. Gli ammonimenti, durante una partita decisiva, di chi ci consigliava di colpire la palla di piatto, non di punta. Per abbandonare la panchina e fare goal in una vita nuova. Esultando sotto un cielo che ha smesso di pioverci addosso, e di fare male cane.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Shawn Mendes – In My Blood

martedì 26 dicembre 2017

Recensione: Ti chiamo sul fisso, di Rainbow Rowell

| Ti chiamo sul fisso, di Rainbow Rowell. Piemme, € 19, pp. 352 |

Volevo che le feste e la centesima lettura di quest'anno somigliassero un po' a Rainbow Rowell. Sì, la solita autrice con l'arcobaleno nel nome che, da qualche anno a questa parte, con young adult spassosi e dolcissimi, sta diventando appuntamento irrinunciabile. Come spiegare – senza emoji con gli occhi a cuore però – l'alchimia fra Eleanor e Park? Come dire quanto di me ci fosse nello straordinario mondo di una Fangirl con pochi amici e troppi libri sul comodino? Quest'anno, già in libreria con quel Carry On che regalava chicche e magie, la scrittrice americana torna ancora ma in versione adulta. Senza protagonisti in pubertà. Senza gli mp3 e gli incantesimi messi in musica. Purtroppo, senza entusiasmo.

Ho un telefono magico nascosto nell'armadio. E credo sia collegato al passato. Credo anche di dover rimediare a qualcosa. Di dover sistemare qualche faccenda.

Georgie e Neil stanno insieme da quasi vent'anni. Hanno due bambine, alti e bassi, i biglietti prenotati per passare le vacanze dai genitori di lui. Lei, sceneggiatrice TV con un sudato pilot in rampa di lancio, è costretta a rinunciare al Natale in famiglia per una scadenza dell'ultimo minuto. Un saluto alle figlie con gli occhi già pieni di lacrime e il broncio di Neil, fantasioso vignettista trasformatosi in mammo per amore. L'aereo decolla, la protagonista resta a casa da sola, suo marito suona sfuggente alla cornetta. Il suo matrimonio è davvero finito? Ha premesso una volta di troppo la carriera agli affetti? Smaltire le feste e la nostalgia fra l'ufficio – dove c'è Seth, suo storico braccio destro nonché mancata fiamma – e la casa in cui è cresciuta. Con una mamma che cambia continuamente compagno (e lo pretende più giovane), una sorellastra innamorata del fattorino della pizza (ancora incerta su cosa e chi le piaccia), un carlino con le doglie e un telefono giallo, a disco, forse sbucato dai confini della realtà. Se l'iPhone fa cilecca, chiamare Neil dal fisso – e a sorpresa chiamare il passato. A rispondere, infatti, è il ragazzo di cui si innamorò nei tardi anni Novanta. Prima che due piccioncini come loro diventassero un noioso copia-incolla delle coppie alto-borghesi. Prima che la routine li travolgesse. Quanto, adesso, una parola di Georgie detta al Neil del passato potrebbe cambiare il presente?

Non poteva essere una porta temporale. Non era magico. La magia non esisteva (Io non credo alle fate. Mi dispiace, Peter Pan). E comunque non aveva nessuna intenzione di correre un rischio del genere. Georgie non era un Signore del Tempo e non voleva fare nessun viaggio nel passato. Si sentiva a disagio perfino quando pregava per ottenere qualcosa, perché non le sembrava il caso di chiedere a Dio cose che non fossero già previste. E se con quelle telefonate avesse cancellato per sbaglio il suo matrimonio? Se avesse cancellato le sue figlie? Se avesse già combinato qualche pastiggio... se ne sarebbe accorta, almeno?

Una coppia in crisi, un apparecchio come varco spazio-temporale, personaggi adulti ma fermamente nerd nel cuore. Gli ingredienti: quelli sempre cari, e con la variante assai gradita dei viaggi nel tempo. A metà fra Canto di Natale La vita è meravigliosaTi chiamo sul fisso è un miracolo a tema che bene non ha fatto al mio arido animo da Grinch. Commedia poco fantastica che manca di originalità e spigliatezza, ha la fissità di alcune sit-com (purtroppo non la verve) e l'ingombro del filo. Una Rainbow Rowell che sin dall'inizio ho faticato a riconoscere, con pagine prolisse, protagonisti antipatici (fa eccezione il paffuto e contraddittorio Neil, soprannominato "Hobbit" in gioventù) e uno spunto che fa da furbissimo specchietto per le allodole. Il telefono, la penna: scarichi. Se di paradossi temporali vuol parlare, che allora l'autrice torni ragazzina come l'abbiamo conosciuta. Rainbow, carissima, questo genere ti invecchia e ci annoia. Farò finta di non aver sentito cosa (non) hai detto, con la scusa delle interferenze. Caduta presto la linea.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Cyndi Lauper – Time After Time

mercoledì 8 novembre 2017

Pillole di recensioni: Il cacciatore di sogni (Sara Rattaro) | Mangiare la paura (Antonio Ferrara)

Titolo: Il cacciatore di sogni
Autrice: Sara Rattaro
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 173
Prezzo: € 15,00
Il mio voto: ★★
A Sara Rattaro, autrice scoperta e apprezzata più di qualche anno fa, ho rimproverato negli ultimi romanzi – storie al femminile, solitamente, con cuori messi a nudo e sentimenti intensi – il troppo indugiare sugli stessi temi, negli stessi dolori. Esisteva una Sara leggera, serena, diversa? Dopo L'amore addosso, piaciuto ma con moderazione, l'autrice torna a distanza di qualche mese con l'inatteso Il cacciatore di sogni. Un romanzo diverso, finalmente, perché pensato per un pubblico di ragazzi. La biologa abile con i casi di coscienza e i drammi, con la complessità della natura umana, racconta partendo da uno spunto semplicissimo il suo primo amore: la scienza. Chi era Albert Bruce Sabin, e quanto gli dobbiamo? Quale sorpresa poteva trovare su un aereo in volo un adolescente dei primi anni Ottanta, se infortunato e con passeggeri interessati unicamente alla presenza del Pibe de oro a bordo? Luca, di ritorno da Barcellona con mamma e dispotico fratello maggiore, ha il sogno del pianoforte, un braccio rotto e un vicino di posto d'eccezione. L'uomo, barbuto come Babbo Natale, racconta e si racconta. Le proprie origini ebraiche, la fuga negli Stati Uniti, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e il desiderio di vincere la morte – nella New York raccontata da Philip Roth in Nemesi, la poliomelite causava infatti più stermini del conflitto a fuoco. Ho saputo di più sul padre del vaccino, mi sono confrontato con la Rattaro inedita in cui confidavo da un po', ma Il cacciatore di sogni – brevissimo, anche se impreziosito qui e lì da belle illustrazioni – è un romanzo che non fa sognare. Divulgativo, sintetico, agiografico. L'effetto Wikipedia: sfiorato, ma vinto dai parallelismi tra le infanzie lontante di Luca e Albert, e da pagine più ispirate, in corsivo, collocate in apertura e in chiusura. Ai tempi del giornalino scolastico avevamo questa rubrica intitolata "Intervista impossibile". Il confronto a quattr'occhi con il medico polacco somiglia troppo a quel timido esperimento di un liceale che ora chiacchierava con Dante, ora con William Shakespeare. Non sa uscire dall'omaggio, per quanto importante e sentito. Non sa allontanarsi dal confine limitante dei banchi di scuola.

Titolo: Mangiare la paura
Autore: Antonio Ferrara
Editore: Il battello a vapore – Vortici
Numero di pagine: 144
Prezzo: € 12,00
Il mio voto: ★★½
Irfan, tredici anni, viene allevato per diventare un martire della fede. Per lasciarsi morire a comando e distruggere i nemici dell'Islam col fragore di una detonazione. Prega, studia, cucina, guida. Ultimo di tre figli, con una mamma cagionevole e un nonno che ha perso la voglia di raccontare favole, alla scuola coranica sperava di imbrogliare la povertà. Trova invece percosse, violenze fisiche e psicologiche, e un'idea di religione diversa da quella che gli hanno spiegato in famiglia. Dove Allah non voleva il male di nessuno, non di certo l'odio che i suoi maestri gli insegnano quotidianamente a suon di scudisciate: piegando, così, la religione a loro uso e consumo. Ci sono personaggi che scappano da una guerra all'altra, nel romanzo di Antonio Ferrara, e tutto appare loro come un gioco pericoloso. Una routine fatta di versetti e di levatacce faticose, una porta serrata da cinque lucchetti che nessuno dovrebbe aprire. Farsi esplodere procura gloria, centomila rupie e un biglietto di sola andata per il Paradiso. La tragica educazione del protagonista ha lo stile stringato e lapidario di un mantra, di chi tenta disperatamente di autoconvincersi di una cosa sbagliata. Simula la naturalezza del parlato rinunciando al lirismo, o banalizza forse troppo? Ferrara non fa male quanto dovrebbe. In Mangiare la paura c'è il tema, infatti, ma non il resto: una scrittura che sia all'altezza. L'idea perde così la sua importanza, la sua potenza, a causa di un approccio semplicistico e di pagine inconsistenti. Più che il romanzo di un ragazzo kamikaze, sembra il suo compito per casa; un tema. Bastano le buone intenzioni, mi domando, per cambiare il mondo di Irfan? Bastano, soprattutto, per scrivere un buon libro per ragazzi? 

sabato 2 settembre 2017

Coming This Fall - Parte 1

Young Adult
Turtles all the way down, John Green. € 17, Rizzoli, 10 ottobre 2017;
Ti chiamo sul fisso, Rainbow Rowell. € 18,50, Piemme, 7 novembre 2017;
The Stone, Guido Sgardoli. € 18, Piemme, 12 settembre 2017;
La casa di vetro, Len Vlahos. € 17, Piemme, 26 settembre 2017.

Mirror Mirror, Cara Delevingne. € 16,90, DeA, 10 ottobre 2017;
The Hate U Give, Angie Thomas. € 14,00, Giunti, 31 agosto 2017;
Unaragazza senza ricordi, Frances Hardinge. € 18, Mondadori, 29 agosto 2017;
Tutta colpa delle meduse, Benjamin Ali. € 13,50, Il Castoro, 21 settembre 2017.

Al cinema 
Dunkirk, Joshua Levin. € 18, Harper Collins, 24 agosto 2017;
Valerian, Christie Golden. € 17,90, Sperling & Kupfer, 5 settembre 2017;
L'inganno, Thomas Cullinan. € 17, DeA, 5 settembre 2017. 

Ritorni italiani
Il mare dove non si tocca, Fabio. Genovesi. € 19, Mondadori, 5 settembre 2017;
Ci vediamo uno di questi giorni, Federica Bosco. € 16,90, Garzanti, 14 settembre 2017;
Arabesque, Alessia Gazzola. € 16,90, Longanesi, 9 novembre 2017;
L'amore mi chiede di te, Lucrezia Scali. € 9,90, Newton Compton, 19 ottobre 2017;
Gli anni del nostro incanto, Giuseppe Lupo. € 16,90, Marsilio, 7 settembre.

mercoledì 21 giugno 2017

Mr. Ciak: T2 Trainspotting, La Mummia, Before I Fall, Gifted

Trainspotting è uscito quando non avevo l'età. Istantaneo cult giovanile, parlava però a una generazione che non era la mia. L'ho rivisto su Iris qualche mese fa, il pubblico in fermento per l'arrivo di un sequel che sembrava fuori tempo massimo e invece no, apprezzandolo meno del previsto. Quattro amici per la pelle, un furto, colori fluo. Tanti buchi sulle braccia e, forse, troppo rumore. Cos'è di loro vent'anni dopo? L'ho scoperto senza ansie e, questa volta, sorprendendomi non poco. Liberamente ispirato a Porno del solito Irvine Welsh, il secondo capitolo è una reunion tra antichi dissapori e nostalgia; un ritorno a casa che tocca, anche chi fan non lo è. McGregor, fuggito ad Amsterdam, prende un aereo per Edimburgo alla morte della madre: unico ad avercela fatta, inventa a beneficio del prossimo una bella vita che non c'è. Il biondissimo Miller ha rinunciato all'eroina: ora sniffa e basta, e non perdona l'amico traditore. Carlyle è a piede libero, pensieroso per via di una vendetta da pianificare nel dettaglio e degli scherzi della disfunzione erettile; Bremmer ci ricasca, tenta il suicidio, e si scopre tenerissimo cantastorie. T2 – coi karaoke brilli, i faccia a faccia, le tentazioni irrinunciabili è malinconico, agrodolce, divertente. Alla soglia dei cinquanta, necessario passare al vaglio i sogni di serie B: aprire un bordello, ad esempio, alla faccia del crescere e dei papponi scozzesi. Ranton e gli altri sono invecchiati bene, sempre fighissimi, ma mettono un po' di tristezza. Un manipolo di bulli male in arnese che non ha mai trovato la sua strada e, in preda al dubbio, fa ritorno dove tutto è iniziato. La coda tra le gambe, la voglia matta di farsi ancora. Perché il mondo cambia, ammette Franco in presenza di un figlio indegno della sua pazzia, ma loro no. T2 giura di andare in rehab, salvo eventuali ricadute. Sceglie la regia strabiliante di Boyle, quei cari quattro amici al bar, una colonna sonora che, sul tappeto, fa battere i piedi a tempo. Sceglie l'effetto amarcord, che non guasta affatto, e corse lungo strade familiari. Sceglie il sequel giusto. E, affezionato al suo motto, sì, sceglie la vita. (7,5)

Il classico della Universal manca all'appello, ma La Mummia con Brendan Fraser è un tassello chiave della mia infanzia. Da allora gli ridò volentieri un'occhiata, nei sabato sera di Italia Uno privi di fantasia, facendo finta che il pessimo La tomba dell'imperatore non esista. Avrei potuto fare altrettanto con questo reboot non richiesto; il corpo del faraone di Sommers ancora caldo nel sarcofago. Se Hollywood sentiva il bisogno di rispolverare certe storie – successi annunciati, con una CGI a buon mercato e sceneggiatori cercasi –, perché non partire piuttosto da qualcos'altro? La conoscenza di questo novello Dark Universe, perciò, inizia sotto una cattiva stella. In sala, nella stagione in cui si nascondono filmetti e filmacci, ci proporranno senz'altro di peggio e immaginavo che c'entrasse un po' la tipica spocchia della critica nostrana, nel massacro al film del semiesordiente Alex Kurtzman. La trama è presto detta: Cruise, soldato in Iraq con l'hobby delle donne e dello sciacallaggio, inciampa nel feretro dell'androgina Sofia Boutella – principessa egizia cancellata dai libri di storia, con il sogno di distruggere il mondo e il guardaroba dell'Incantatrice di Suicide Squad. Tom, che non si arrende al fatto di non avere più l'età, si cimenta con il triathlon – corre, nuota, salta dagli aerei in fiamme senza spettinarsi: solita routine – e brama la vita eterna, galeotto fu Scientology. Con lui, da New Girl, un Jake Johnson che fa da forzata spalla comica; l'anonima Annabelle Wallis, interesse amoroso lungo la bellezza di venti minuti che, non si sa come o perché, ispira in Cruise questo immotivato romanticismo in chiusura; il crossover di Dottor Russel Crowe, affezionatissimo ai carboidrati, ai doppi giochi e ai film di serie B. Brutto non in maniera ignobile, La Mummia è un pastrocchio senza gusto e senza appeal. Godibile il minimo, con una noiosa sceneggiatura di scarti e ritagli e il pregio di non pesare nel mentre. Non è un film d'avventura. Non è un film per famiglie. Di horror, figuriamoci, neanche a parlarne. Nel dubbio: certi mostri, certi progetti, meglio lasciarli sepolti. (5)

Un'adolescente che si affida a pessimi consiglieri, un incidente automobilistico. Morire e ricominciare. E' eternamente il giorno di San Valentino per Samantha – una Zoey Deutch bella e brava, ai vertici di una cricca di superficiali Mean Girls. Before I Fall, uscito in libreria come E finalmente ti dirò addio e presentato con un buon successo allo scorso Sundance, era ben altro che Un ricomincio da capo in chiave adolescenziale. Toni cupi, da thriller, e una morale semplice ma efficace. La decorosa trasposizione di Ry Russo-Young, giovane regista del circuito indie, sceglie l'estetica di Twilight (e non è una critica: ha, sullo sfondo, un Canada nebbioso e boschivo) e i toni di un Tredici dal punto di vista dei bulli (cenni ai legami familiari, al bullismo e al suicidio, che, purtroppo, cenni rimangono). Non ha il desiderio di andare oltre – ha un epilogo frettoloso e solo in minima parte i personaggi indagati, i momenti toccanti, che giusto un'autrice come Lauren Oliver poteva architettare. Il romanzo, letto cinque anni fa, non lo ricordo nel dettaglio: banalmente, dico, era meglio. Un mattoncino di quattrocento pagine, intenso e verisimile, che al cinema sacrifica struggimento e piccolezze che contano. Before I Fall va in cerca di un senso prima di tornare a dormire. La protagonista stringe e scioglie amicizie, sulla scia delle mode e dei pettegolezzi. Si svende, si tradisce. Fino a non riconoscersi più. Chi è davvero Samantha – una che ha diciott'anni e già si è smarrita? Vivere un giorno solo, perciò, ma renderlo perfetto. Può essere tutto quello che vuole. Una stronza senza peli sulla lingua e senza pudore (non dissimile da quella che meditava di perdere la verginità con il ragazzo sbagliato); la brava ragazza che aveva dimenticato di essere (quella che parla con la lesbica dalle scarpe comode, che rivaluta la tenerezza un migliore amico perso nel marasma della popolarità, che capisce che che quella sbeffeggiata “Carrie”, forse, sarà la sua salvezza). Before I Fall, da noi in uscita a luglio con il titolo Prima di domani, si accontenta di essere realizzato bene, scritto d'un fiato, rapido e parzialmente indolore. Rendendo l'ultimo giorno della Deutch sulla Terra un loop non così perfetto, non così memorabile, ma senz'altro degno. (6,5)

C'è qualcosa di peggio di un bambino costretto a comportarsi da adulto? Se lo chiede anche Frank, zio di Mary: una spigliata settenne che il primo giorno di scuola sorprende tutti rispondendo a tono. Da lontano, drizza le antenne una nonna battagliera che fino a quel momento aveva deliberatamente ignorato l'esistenza della nipote – ma il suo talento, d'un tratto, le fa gola. La genetica non mente. A Mary si addicono più le luci della ribaltà o la normalità? Soprattutto, dalla madre ha ereditato l'intelligenza o anche il mal di vivere? Gifted, diretto da un Marc Webb che abbandona i grattacieli di Spider-Man per tornare alle atmosfere dello splendido (500) giorni insieme, ha toni caldi e una regia pulita. Semplice e di buon cuore, schiera un convincente Chris Evans – non a sorpresa attore di grande sensibilità, quando riposti nell'armadio i panni del supereroe –, la dolcissima Mckenna Grace e tutta una serie di comparse, tra irresistibili gatti rossi e apprensive vicine di casa, che contribuiscono a renderlo quel che è. Tenero, lieve, ironico. Quel di tutto un po' del cinema indie, dei bambini prodigio, che appassiona ma non convince fino in fondo. Gifted fila liscio: in teoria, in sua compagnia si potrebbe ridere e piangere. Ma gli tocca mettersi in coda a una serie di drammi uguali tra loro – nell'approccio poco serioso, nell'ambito delle lotte giudiziare per bambini contesi. Tralasciando i cult Il mio piccolo genio e Kramer contro Kramer, cito i recentissimi Famiglia all'improvviso e Padri e figlie. Si parla di stirpi brillanti e la sceneggiatura di Tom Flynn, per quanto graziosa, brilla di luce riflessa. Si parla di equazioni irrisolvibili e, purtroppo, le operazioni di Webb, i passaggi che portano al risultato finale, sono fin troppo scontati. Gifted è come lo immagini. E se immagini qualcosa di lieto e familiare, sentimenti schietti e una matematica per principianti, perché no. (6)

lunedì 12 giugno 2017

Recensione [libro e film]: iBoy, di Kevin Brooks

Addio normalità. Bello averti conosciuta.

Titolo: iBoy
Autore: Kevin Brooks
Editore: Piemme – Freeway
Prezzo: € 16, 50
Numero di pagine: 245
Sinossi: Prima dell'incidente che lo ha mandato in coma, Tom Harvey era un ragazzo come tanti. Ma ora si è risvegliato con il potere di sapere e vedere tutto. I frammenti di iPhone che sono rimasti nel suo cervello lo hanno trasformato in un super computer, una sorta di mente artificiale iperconnessa. Tom può arrivare ovunque, tutte le risposte a domande che non sa nemmeno di aver posto sono già lì, nella sua testa. E dopo aver scoperto della violenza subita da Lucy, la ragazza di cui è innamorato, Tom usa i suoi poteri per punire le gang che dettano legge nel quartiere. Ma qual è il confine tra giustizia e vendetta?


                                La recensione
I supereroi, se sfigatelli, mi piacciono. A parlare è l'invidia verso il fisico scolpito, le battute che non fanno ridere, la forma preferita alla sostanza. Le eccezioni: Spider-Man, essendo un po' Peter Parker anch'io; lo sfortunato Enzo Ceccotti di Lo chiamavano Jeeg Robot, subito icona. Di fumetti, purtroppo, non ne leggo. Al cinema ne vedo gli adattamenti, se sotto costrizione, ma Raimi e Mainetti appartengono a una specie rara. Come la mettiamo invece con i romanzi a tema? Per qualche giorno mi sono concesso, così, un'avventura intitolata iBoy. Online circolava il film da mesi, ma non mi ispirava – benché esile e modesto, vi scrivo tra parentesi tonde e con il senno di poi, è una visione tutt'altro che spiacevole. La storia dei poteri causati dalle schegge di un iPhone, non dal morso di un ragno radioattivo, mi sembrava stupidissima. Ho aspettato l'estate, confidando nel tocco inglese di Kevin Brooks – uno che scrive cose interessanti, anche quando appare più leggero del solito. Il suo ultimo romanzo, giunto in libreria per Piemme, ha una copertina illustrata in linea con le precedenti e annunciati sprazzi pulp. Difficile avere sedici anni a Crow Town: quartiere londinese nella periferia più profonda e degradata che, con i suoi casermoni e i prepotenti ad ogni angolo di strada, somiglia alla nostra Tor Bella Monaca. Difficile, soprattutto se sei un adolescente timido e allampanato e, come l'eroe di Stan Lee, vivi con una parente anziana – una nonna che sbarca il lunario scrivendo romanzi rosa (nel film, una deliziosa Miranda Richardson) – e a un passo da Lucy, la ragazza dei sogni. Si può essere più che amici? 
Tom fantastica e si arrovella quando alza gli occhi al cielo: qualcuno l'ha chiamato per nome. Dal trentesimo piano gli cade sulla testa un cellulare rubato e gliela spacca in due come un cocomero (stando a Netflix, viene invece colpito da un colpo di proiettile mentre chiama il 911). Il risveglio dal coma è uno shock. La sua tutrice è sommersa dai debiti, la polizia fa domande su domande, Lucy è stata aggredita da una gang. Glielo suggerisce il suo cervello non appena apre gli occhi in ospedale. Ha una brutta cicatrice sulla testa e, dentro, pezzi di cellulare impossibili da estrarre. Gli effetti collaterali, gli spiegano, sono emicranie croniche e percezioni leggermente falsate. Il foglietto illustrativo non parla di poteri magici? Il ragazzo del miracolo ha tutto il sapere del mondo e di internet dietro le palpebre. La sua pelle, volendo, sfrigola e manda bagliori. La sua mente galoppa, connessa ai cellulari e ai pensieri degli altri. A questo punto, perfino una produzione modesta potrebbe far bene: un po' di CGI, ed è facilissimo stare al passo. Come spieghi la presa di coscienza di Tom su carta, il suo sapere infinito? Quel caos di numeri e lettere, quel bombardamento di informazioni, possono starci davvero in un romanzo? L'autore young adult della noia mortale di alcune estati, dei finali monchi e della Londra punk, al solito, sa come fare. 
iBoy fila più veloce della luce e, a modo suo, sembra avere anche fondamento (la trasposizione, cupa nelle atmosfere ma libera nella struttura, sceglie di rimanere dalle parti del teen thriller: Bill Milner, perciò, somiglierà più a un hacker che a un vigilante). La periferia non lascia scampo. Preoccupano i figuranti incappucciati, le loro mani pesanti, la disgustosa legge del branco. Non c'è una Mary Jane da prendere al volo: troppo tardi per salvare una protagonista femminile che odia il suo stesso corpo, i maschi, e non esce dalla sua stanza (Maisie Williams, per quanto insipida, ricopre nel film un ruolo più attivo). Lo stupro l'ha svuotata e non resta che qualche chat in cui confidarsi nell'anonimato; la speranza di una vendetta trasversale (risse o litigi con accoltellamenti finali, in poltrona, si trasformano spesso in scherzi goliardici o in episodi di cyber bullismo usati a fin di bene). Kevin Brooks attinge al cinecomic, ma il suo è un rape and revange – moderno, crudo, diviso tra etica e istinto – dai sensi sviluppati e dal ritmo folgorante. E prende senza interferenze di sorta, finché c'è campo. Ma alcune realtà, certe borgate malfamate, sono gallerie infinite. Lì i poteri fanno cilecca, le tacche del cellulare diminuiscono a vista d'occhio. Imboccarne l'uscita è un'esplosione di segnali e percezioni. Come una canzone alla radio che riprende più forte, alla fine del tunnel. 
Il libro: ★★★½ Il film: 6
Il mio consiglio musicale: Imagine Dragons – Radioactive

martedì 11 aprile 2017

Recensione: Voce di lupo, di Laura Bonalumi

Tutte le partenze lasciano un vuoto enorme e, se parti anche tu, il vuoto sfiorerà l'immensità.

Titolo: Voce di lupo
Autrice: Laura Bonalumi
Editore: Piemme – Vortici
Numero di pagine: 189
Prezzo: € 12,00
Sinossi: Se il bosco potesse parlare, racconterebbe di due ragazzi che amavano respirare il profumo della resina. Se le montagne e i sassi avessero voce, direbbero che lassù, dove le cime graffiano il cielo, a volte il respiro si ferma. Come quello di Giacomo, bloccato dalla terra che all'improvviso frana; come quello del suo più caro amico, che preferisce non ricordare il proprio nome, perché da quando la montagna si è sgretolata niente ha più senso. E parlerebbero anche del respiro di Chiara, amica preziosa che ama i boschi solo in cartolina. Non bastano le parole di genitori, professori o amici per riempire un vuoto che sembra incolmabile: Giacomo se n'è andato e ha portato via il sole. Vivere ancora sembra impossibile, se non passando attraverso ciò che è accaduto. Passando di nuovo attraverso il bosco.
                                           La recensione
A tredici anni ci sono cose che non dovresti conoscere. D'altronde, vivi quell'età in cui specifichi ancora che di anni, in realtà, ne hai tredici e mezzo. Credi ciecamente nel prossimo, nel domani, nelle mezze misure. Stai per finire le medie, e la scelta del liceo dovrebbe essere la tua sola preoccupazione. Speri, magari, di trovarci i tuoi migliori amici. Quelli di sempre. Anche se, crescendo, il rischio di allontanarsi c'è. Anche se siete due ragazzi e una ragazza, e gli ormoni, gli amori, rischiano di mettere tutto sottosopra. Tu e lui, in segreto, amate entrambi lei. Alla faccia della regola dell'amico. Si chiama Chiara, profuma di torta alla vaniglia, preferisce le passeggiate romantiche alle cime tempestose. Ama qualcuno anche lei e, guarda un po', sei proprio tu. Brufoloso, noiosamente normale, reso anonimo e tremante da un dolore che cambia d'un tratto l'adolescenza. Ti ha preferito chissà perché a Giacomo, il carismatico leader del trio: intraprendente, avventuroso, poetico. Un animo nomade che ha amato l'alta quota, il brivido dell'arrampicata, fino a morirne. Quella passione pericolosa e irrinunciabile, infatti, è stata la sua fine. Tu eri accanto a lui quando la montagna l'ha ingoiato. 
Ti è rimasto il suo braccialetto di pelle tra le mani, e da allora quelle mani le nascondi con i guanti pesanti, anche d'estate. Tremano perché non sono riuscite a trarlo in salvo. Voce di lupo è la storia di un dolore difficile da immaginare se per fortuna non l'hai mai provato. Se a descrivertelo, soprattutto, trovi una prosa incapace della giusta intensità. Non è il caso di Laura Bonalumi: autrice per i più giovani, cuore e mente di un libricino denso, personale, potente. Il suo nuovo romanzo è uno dei titoli Vortici: branca della collana Il Battello a vapore, che debutta con storie indirizzate a un pubblico in bilico. A metà tra l'infanzia e l'adolescenza (ma non solo). Quando non sei piccolo e non sei grande, e allora sì che avresti bisogno delle letture giuste, di una guida esperta. Senza troppa sorpresa vi dico che Voce di lupo è una di quelle chicche nascoste in scaffali in cui, specialmente se sei di molto fuori dal target, non curioseresti. Mi ci ha indirizzato la Libridinosa. La storia, semplicissima, inizia con la fuga del narratore. Perché è sopravvissuto a Giacomo? Perché Chiara, che intanto si strugge in privato, ha scelto lui e non il suo migliore amico? 
Il senso di colpa, l'idea di averlo tradito due volte, lo conducono in fondo al bosco. Ha le scarpe pesanti ai piedi, un coltellino multi-uso, uno zaino con l'occorrente. I carabinieri lo cercano. I genitori lo piangono già, temendo un gesto avventato. Nell'abbraccio degli alberi, sotto il tetto dei rami, il protagonista è una ragione per vivere che cerca, non una per morire. Scruta quella natura tanto familiare, legge i segni in cerca del ricordo di Giacomo. Lo chiama invano, e l'eco risponde. Parla con il suo spettro e, tra sé e sé, trova giovamento. Conoscerà il meglio e il peggio della vita di montagna. Si imbatterà negli occhi di un lupo buono. Come lui, in un esilio volontario e terapeutico, si è allontanato dal branco. Può darsi che nei suoi occhi gialli ci sia davvero traccia di Giacomo? Ingannato dalla copertina, all'inizio immaginavo una storia alla Jack London. Ho il pollice nero, non sono tipo da escursioni all'aria aperta o da alta montagna, però quest'anno ho amato moltissimo Le otto montagne di Paolo Cognetti: una storia vera, d'amicizia profonda, in cui gli stati d'animo combaciavano con i bolletti metereologici e i sentimenti, trattenuti come per pudicizia, scaldavano il cuore. Qualcosa di simile l'ho trovata anche qui. In una lettura leggera ma mica tanto, in cui ho avvertito la pena di personaggi troppo giovani e fragili per farsene carico. Mi ha emozionato, moltissimo. L'ho chiuso con un luccichio negli occhi, tanta speranza e la voglia di prendere e andare. Di camminare fino a stare meglio, e poi ricominciare. Perché aveva ragione Seneca: puoi cambiare di cielo, non d'animo. Ma dentro certe storie, in certi cieli, i piedi si stancano e l'anima dimentica. Magari, vola.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Marco Mengoni – Ti ho voluto bene veramente