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venerdì 27 dicembre 2024

Made in Italy: The Bad Guy | Storia della bambina perduta | Qui non è Hollywood | Hanno ucciso l'Uomo Ragno

È una delle serie dell’anno corrente, ma lo sarebbe stata anche di quello passato. L’ho recuperata in ritardo, con ben due stagioni a disposizione. The Bad Guy non è ciò che sembra. Vedi Lo Cascio, leggi “mafia”, immagini la solita serie italiana: un giudice coraggioso, una lotta prometeica, una morte gloriosa. Dimenticatelo. Perché Nino, da anni impegnato nella caccia al latitante Suro, viene incastrato. Creduto morto, torna con una nuova identità. Non vuole vendicarsi soltanto del boss, ma dello Stato. Intrigante come il Conte di Montecristo, caustico come Walter White, un brillante Lo Cascio compie una rapida ascesa al fianco dei cattivi. Riuscirà a non sporcarsi le mani, tra pizzi, appalti e clan da aizzare l’uno contro l’altro? Dirige un duo, ma, nonostante lo splatter e l’ironia pungente, non si tratta dei Coen. Vulcanici e con ambizioni internazionali, Fontana e Stasi guidano un cast in stato di grazia – al suo meglio Pandolfi, sorprendente Catania, folgoranti Maenza e Caramazza – in una commedia nera che immagina un covo criminale in un parco acquatico e perfino il ponte sullo Stretto. Tra una risata e l’altra, non mancano cenni all’attualità né invettive. Nemmeno il Ministro degli Interni è senza colpe: ha assoldato il sicario Accorsi per mettere a tacere ogni dissenso. Il più buono, insomma, ha la rogna. Il più cattivo, invece, si è meritato una serie così. (8,5)

Lila e Lenù ci dicono addio per sempre. A sei anni dalla prima stagione, a dieci dall’ultimo romanzo, si congedano. Mazzucco e Girace, troppo giovani per interpretare due quarantenni, cedono il posto a Rohrwacher e Maiorino seminando qualche dissenso in rete. Mentre Maiorino non scontenta, aiutata da una forte somiglianza con l’interprete precedente e da una napoletanità che la rende, a tratti, troppo teatrale, Rohrwacher è stata una scommessa vinta: il suo accento lascia un po’ a desiderare, ma compensa con due occhi parlanti, silenzi pieni di significato e un fascino che ricorda quello di Monica Vitti. La migliore del cast, però, è Vitolo: nei panni dell’anziana Imma è di un’intensità straziante. Dirige Bispuri, finalmente una donna, e si nota dai dettagli. Entrambe nel rione, entrambe madri, le protagoniste tornano inseparabili come lo erano da bambine. Ma, tra le macchinazioni dei Solara e una tragica sparizione, perfino dieci episodi sembrano pochi per contenere i misteri della “smarginata” Lila. Nonostante la cura di regista e sceneggiatori, Storia della bambina perduta non è stata accolta all’unanimità: è l’adattamento più arduo dei quattro. Matura ma imperfetta, densa ma dalla forza altalenante, la quarta stagione ci lascia definitivamente orfani di Ferrante. (7,5)

Perché siamo tutti ossessionati dalle serie true crime, ma ci indigniamo quando a produrle sono gli italiani? Accolta tra polemiche e sabotaggi – troppo brutto il poster, troppo messa in cattiva luce l’innominabile Avetrana –, la serie del sorprendente Pippo Mezzapesa è da vedere senza pregiudizi di sorta. Asciutta e accurata, ma caratterizzata da uno sguardo fortemente autoriale a metà tra il cinema grottesco dei Fratelli D’Innocenzo e i southern gothic americani, non cede a facili illazioni. Qui non è Hollywood vuole raccontare l’irrequietezza adolescenziale, una provincia da Far West, lo sciacallaggio a opera di giornalisti e compaesani: mai proporre nuove ipotesi a proposito di colpevoli presunti o moventi. Quattro episodi, quattro punti di vista, un cast impreziosito da alcuni fra gli attori più intensi dell’annata: le irriconoscibili Perulli e Scalera, al centro di una impressionante trasformazione da Actors Studio, e uno struggente De Vita. Il risultato è un folk horror dall'impianto originalissimo. Un meticoloso scavo psicologico. Un’ode alle gioventù invisibili, mentre i Queen cantano di eternità e gli altri, indifferenti, passano oltre: perché il tuo caso, Sarah, ormai conta più di te. Questa serie, a quindici anni dal delitto, ripristina finalmente l’ordine. (7,5)

Non è necessario essere fan accaniti della musica degli 833 per recuperare e amare la serie TV a loro dedicata. L’ottimo Sidney Sibilia, da sempre appassionato di strane storie vere, utilizza l’ascesa del curioso duo di Pavia per raccontarci la provincia italiana, l’industria musicale degli anni Novanta, la storia di un’amicizia lunga e ispiratissima. Dalla scoperta casuale della musica (tutto per conquistare la ragazza più bella del liceo) alla fatica per imporsi (a dispetto del successo istantaneo riscosso, i nostri eroi erano considerati troppo impresentabili per la televisione), la prima stagione della serie Sky è molto più che un canonico biopic: un feel-good movie lungo otto ore che funziona sia come appassionante romanzo di formazione, sia come juke-box tutto da cantare. Tra disavventure rocambolesche e cameo divertentissimi (i giovani Fiorello, Jovanotti, Maria De Filippi), Hanno ucciso l'Uomo Ragno si rivela un’ode al cuore puro di Repetto. Max Pezzali cantava. Cosa faceva, invece, il danzerino Mauro? Ancora prima che esistessero, era il più grande fan degli 833. Come Elia Nuzzolo, bravo ma acerbo, avremmo tutti bisogno di un motivatore che somigli a Matteo Oscar Giuggioli: è nato un nuovo stato d'animo, è nata una star. (8)

lunedì 28 dicembre 2020

[2020] Top 10: Le mie serie TV

10. Little Fires Everywhere: Washington e Whiterspoon sul ring di un dramma familiare con molta carne al fuoco. Nonostante non sia tutto oro ciò che luccica, lo scontro tra primedonne solleva fumo e scintille. Conturbante, come lo spettacolo del fuoco vivo. 

9. This is us – Stagione 4: Dopo una terza stagione tutt'altro che entusiasmante, era lecito aspettarsi un'ulteriore battuta d'arresto. Con la famiglia Pearson, invece, la magia è sempre di casa. Il loro ritorno in gran spolvero è il miracolo che nessuno si aspettava.

8. La regina degli scacchi: Una ricostruzione storica meticolosa e frizzante per raccontare le gioie e i dolori di una campionessa sulla bocca di tutti. Che Beth Harmon sia un personaggio d'invenzione, francamente, si fatica a crederlo. Il merito spetta alla performance iconica di Anya Taylor-Joy.

7. Sex Education – Stagione 2: Il secondo tassello di un'educazione sessuale e sentimentale per affrontare i tabù senza volgarità. La scena cult: le protagoniste sedute insieme all'ultima fila dell'autobus in nome del girl power, contro le molestie subite.

6. Kidding – Stagione 2: Giunto alla seconda stagione nell'anonimato, cancellato dai palinsesti senza grandi rumori, questo è il gioiello invisibile a cui tutti dovreste dare un'altra possibilità. Dopo un esordio già soddisfacente, il sodalizio televisivo tra Carrey e Gondry torna a regalare lacrime e risate, con un arco di episodi di genialità superiore.


5. Tales from the Loop: Se la pacatezza dei racconti di Kent Haruf conoscesse la fantascienza anni Cinquanta. Una serie poetica e incantevole, senza né incastri né spiegazioni, ma con immagini di un lirismo che commuove nel profondo.

4. We are who we are: Un teen drama d'autore ambientato in tempo di guerra, ma interessato a raccontare l'amore: soprattutto quello verso sé stessi. Il ritratto di una generazione diversissima dalla mia. Non la riconosco, ma mi affascina, al pari degli alieni o degli angeli.

3. Years and Years: Un'affiatata famiglia inglese sullo sfondo di un futuro distopico che somiglia tantissimo al nostro presente. La serie più rappresentativa del 2020, con una morale in cui confidare incrociando le dita: tutto passa – compreso l'irreparabile –, ma noi no.

2. L'amica geniale – Storia del nuovo cognome: Il romanzo è sempre meglio della trasposizione? Costanzo e le sue protagoniste sono pronti a farvi ricredere nella serie che il mondo ci invidia. Ansie e speranze per la terza stagione: il cambio di cast e regista si fa temere.

1. Normal People: Connell e Marianne, Marianne e Connell... Cronaca straordinaria di un amore ordinario, il best-seller della giovane Sally Rooney rivive in tutta la sua piccola epicità in una miniserie così compiuta sembrare un'epopea dei giorni nostri. Romantica, struggente, indie: sui social è già cult.

sabato 21 marzo 2020

Serie da recuperare in quarantena: Storia del nuovo cognome | The Good Place

Se non bastassero una sceneggiatura sopraffina, un cast scelto attingendo a piene mani dall’immaginario dei lettori e una ricostruzione storica curata nei minimi particolari, per suggerire la grandezza della seconda stagione dell’Amica geniale potremmo soffermarci su una scena della prima puntata: la sensibile Lenù, immersa nella volgarità del rione, si accorge all’improvviso della fine miserabile delle donne del quartiere; sfiorite paurosamente appresso a mariti prevaricatori e figli a cui badare. Desidera forse lo stesso per sé stessa? E per l’inseparabile Lila, costretta a sposarsi? È una sequenza d’insieme magistrale, popolosa di comparse e sottotesti, che lascia respirare aria da grande cinema sulla TV generalista – si pensa a Martin Scorsese e Sergio Leone, fino a omaggiare espressamente la Nouvelle Vague negli episodi centrali diretti da Alice Rohrwacher. Perché la serie napoletana, coprodotta da HBO e premiata dallo share, è un evento all’altezza dei best-seller che traspone. Storia del nuovo cognome alza l’asticella: è il romanzo che ho preferito della saga; le protagoniste vivono gli alti e bassi dell’adolescenza, maturano; i ribaltamenti sconvolgono spesso gli equilibri e le affinità. Stanno al passo la regia di Costanzo, a tratti ariosa e a tratti sghemba come un horror, e soprattutto gli interpreti. Il cast di attori emergenti non si lascia spaventare né dalla violenza dei temi – la prima notte di nozze di Lila è uno stupro brutale: un plauso particolare spetta all’interprete di Stefano, Giovanni Amura, che si sporca fino al midollo con un personaggio fragile ma spregevole – né dalle lunghe sedute di trucco e parrucco che il prossimo anno, a malincuore, non potranno far nulla per mascherare i soli diciassette anni di Margherita Mazzucco (silenziosa e riflessiva, con uno sguardo pieno di cose: un’eterna “quasi”) e Gaia Girace (struggente, carismatica, selvaggia: ora incantevole, ora strega dal ghigno beffardo). A causa di un importante salto temporale, come già accaduto in The Crown, gli attori cambieranno. I nuovi sapranno dare comunque un senso ai lunedì di Rai Uno, ormai sfitti? Saranno altrettanto bravi a farsi amare e odiare, al punto da spingere i social a commentare le puntate in tempo reale? Di ritorno da una vacanza indimenticabile, l’estate ischitana di Lenù e Lila è giunta al termine; la loro adolescenza finisce qui. E la loro amicizia singolare, fatta di supporto reciproco e competizione irrefrenabile? Nel dubbio che attanaglia, per fortuna, restano le foto ricordo di questi otto episodi da incorniciare. Li rivedremo e ci commuoveremo, nell’attesa, come accade alla madre di Lenù – Anna Rita Vitolo, straordinaria – davanti ai libri nuovi di quella figlia maggiore che non capisce; in cui non credeva, proprio come noi spettatori al debutto di questo gioiello. (8,5)

Lo spunto  è di quelli brillantissimi. Uno colpo di scena degno del cinema di Shyamalan, piazzato però volutamente in apertura di serie. I protagonisti di The Good Place – comedy fortunatissima, apprezzata da pubblico e critica, e terminata quest’anno dopo quattro stagioni – sono tutti morti. Affiancati da un’anima gemella, popolano un distretto ridente e colorato  guidato dal saggio Michael: un architetto celeste dai papillon a fantasia, con un’esilarante tuttofare – Janet, il personaggio più iconico tra tutti – e il vizio di prendersi troppo a cuore i problemi degli umani. Nella parte buona tutto è possibile. Anche perdonare qualcuno come la peperina Kristen Bell, che in vita ha collezionato peccati grandi e piccoli e lassù ci è finita per un errore del sistema? Circondata da anime pie, la protagonista a lezione di moralità farà di tutto per mimetizzarsi. Ma il lato oscuro la tenterà fino all’ultimo, rischiando di mettere a soqquadro un paradiso molto diverso dal cliché che ci hanno insegnato al catechismo. L’ereditiera dall’accento inglese Tahani, il professore scrupoloso Chidi e l’imprevedibile Jason, monaco buddista che ha fatto voto di silenzio, meritano forse più di lei una seconda chance? Centellinata in poco più di un mese, questa serie – snobbata ai tempi dell’esordio – è una sorpresa instancabile. Cambiano in fretta i ruoli di potere, gli scenari, i punti di vista, gli obbiettivi da raggiungere: al punto che è difficile parlarvene senza dire troppo. Il finale della prima stagione, in particolare, vi lascerà a bocca aperta davanti a un twist degno di Lost. Certo, non è tutto oro quel che luccica; i difetti abbondano. Ad esempio gli si rimprovera un andamento un po’ monotono, fatto di continui andirivieni, o la relazione poco sentita tra due dei protagonisti. Perciò che via vai sia, sì,  purché sullo sfondo di una mitologia accurata e ricca d’inventiva; su un green screen che qualche volta fa storcere il naso e qualche volta sorprende quando dirige Drew Goddard. Si ride tanto, ci si affeziona alle lotte dei protagonisti, ci si stupisce e si riflette. Chi merita davvero l’espiazione? Il male che abbiamo fatto può cadere in prescrizione? Perfino la perfezione assoluta, a lungo andare, può rivelarsi una gabbia soffocante? Per fortuna c’è sempre una giudice clemente, un cavillo tecnico, un’altra porta da varcare, per salvarci tutti dai proverbiali guai in paradiso. Cos’è la morte allora: una tragedia o il principio del lieto fine? (7)

lunedì 15 luglio 2019

Recensione: Storia di chi fugge e di chi resta, di Elena Ferrante

| Storia di chi fugge e di chi resta, di Elena Ferrante. E/O, p. 384, € 19,50 |

Dopo la promessa di rivederci presto, mi sono rimangiato le mie stesse parole: all'appuntamento con Lila e Lenù ho tardato. Mi sono presentato con sei mesi di ritardo, io che lo scorso gennaio mi dicevo eppure pronto, prontissimo, a proseguire nell'immediato. In passato avevo già fatto lo sbaglio di lasciare gli intrighi del rione per un lasso di tempo troppo lungo. Questa volta si sono intromessi a gamba tesa il tempo che scarseggiava sempre più, gli impegni per la stesura della tesi e qualche parere contro – in definitiva, tutt'altro che immotivato – che descriveva il terzo capitolo come l'ostico della serie. Avrei faticato, mi assicuravano tutti, a tollerare gli ennesimi sgarbi fra le due amiche; accanto all'asprezza della rapporto, inoltre, mi toccava mettere in conto anche le difficoltà del contesto storico – non più il dopoguerra, bensì gli anni della contestazione giovanile e del femminismo battagliero, della tentata rivoluzione proletaria. Ho fatto bene a frenare l'impazienza. Ad aspettare la rilassatezza di questi giorni d'estate rinfrescati dai temporali. Sarà perché debitamente avvisato, a sorpresa non ho fatto fatica. Anzi, quando ci sono entrato la cosa più complicata è stato uscirne incolume: tanto grandi sono l'immedesimazione e il trasporto, questa volta, che ho apostrofato le protagoniste con le peggiori parole – soprattutto Lenù, maestra di scelte incondivisibili – e per riprendermi dalla mia arrabbiatura, dai loro passi falsi, mi ci è voluto un po'. Capisco, adesso, la fatica della narratrice a mantenere l'aplomb necessario, le pose innaturali di signora perbene, ritornando in una città che ti tira fuori l'accento meridionale e la voglia di mandare affanculo gli automobilisti incerti. Il rione, il luogo delle radici, ti diseduca all'istante. Tornando a casa per un'occasione o per un'altra, si ha paura di rimanere incastrati per sempre lì. Un quartiere che è lo specchio di Napoli, o forse del mondo. Che la secondogenita dei Cerullo, non uscendo dal seminato, sia stata davvero lungimirante?

Abbiamo troppa roba dentro e questo ci gonfia, ci rompe. […] Puoi copiarmi, farmi il ritratto preciso come fanno gli artisti, ma la mia merda resterà sempre la mia, e la tua la tua. Ah, Lenù, che ci succede a tutti quanti, siamo come i tubi quando l'acqua gela, che brutta cosa è la testa scontenta. Ti ricordi quello che facemmo con la mia foto di sposa? Voglio continuare per quella strada. Viene il giorno che mi riduco tutta a diagrammi, divento un nastro bucherellato e non mi ritrovi più.

Lila, madre del piccolo Rino e coinquilina senza vincoli del dolcissimo Enzo, lavora nella ditta Soccavo. Abusata e malpagata, schiva le mani viscide del proprietario e si trova coinvolta in una lotta furibonda fra il sindacato e il datore di lavoro. La tensione è la stessa che respirava da bambina, quando il tirannico don Achille dettava legge: l'incubo, nel fermento degli anni Sessanta, è rappresentato dagli scontri sanguinosi fra fascisti e comunisti; dall'ossessione di Michele Solara, innamorato non corrisposto, che potrebbe riscattare la giovane donna introducendo le tecnologie nel calzaturificio – operaia di giorno, infatti, di notte Lila si trasforma in un'autodidatta interessata al funzionamento dei calcolatori. Per una buona causa, è giusto scendere a compromessi? L'amica, trasferitasi a Firenze, la immagina intanto come una fuorilegge da film western. 
Lenù, comprimaria assorta al ruolo di protagonista suo malgrado, prende posto ai margini: mentre gli altri si schierano in prima linea, lei ha i suoi quotidiani da spulciare; i suoi quaderni d'appunti. Reduce dal tour promozionale di un esordio inaspettatamente controverso – come se non bastassero, poi, le nozze con l'integerrimo professor Pietro: scandalose giacché celebrate con il rito civile –, collabora con L'unità e cade vittima della sindrome post parto. Invidiosa, guarda Lila dall'alto al basso. Tutt'intorno va infatti affermandosi un modello femminile che, tanto inconsciamente quanto brillantemente, la spregiudicata migliore amica incarna da anni. Che Lenù possa avere la sua rivalsa, per quanto impigrita dalla maternità e dal blocco dello scrittore, con la comparsa dell'indimenticato Nino?

Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima volta solo in quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo era certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un'ambizione determinata. Ero voluta diventare qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei.

Si parla di piacere sessuale e pari opportunità. Di matrimoni di cui ci si stanca in fretta. Di personaggi meno numerosi che in passato, che qui si muovono però anche su altri sfondi – tutto il mondo, in fondo, è paese. Sono gli anni del terrorismo d'estrema sinistra e della confusione, delle droghe da sperimentare, delle rimostranze in pubblico e in privato. I telefoni fissi non tacciono un attimo, e la bolletta della luce sarà salatissima. Sono le interurbane delle amiche per curiosare nella reciproche vite, gli squilli di un flirt.
Elena Ferrante, spietatissima, le mette in vivavoce. A Lila e Lenù fa le pulci. Ce le rende due serpi antipatiche e opportuniste: sgradevoli ma perfino più che umane, sovrumane. Io, che da grande amerei fare questo mestiere, sarei in grado di raccontare il peggio dei personaggi principali – di una saga, per di più – senza aver paura di allontanare il lettore, che a torto giudica il libro in base alla simpatia del protagonista? Saprei volere male, non soltanto bene, alle mie creature; ai figli miei?

Volevo che si acquietasse ma lei non ci riusciva, mi rovesciava addosso frasi in disordine: non farmi leggere più niente, non sono adatta, mi aspetto da te il massimo, sono troppo sicura che sai fare di meglio, voglio che tu faccia meglio, è la cosa che desidero di più, perché chi sono io se tu non sei brava, chi sono?

Ho terminato Storia di chi fugge e di chi resta affascinato, turbato, ammiratissimo. Per le vie poco concilianti che imbocca, pur apparendo sempre coinvolgente. E per quei lati oscuri che mi metterebbe in soggezione scandagliare. Oggettivamente meno accattivante degli altri, è un plumbeo ingresso nell'età della ragione: mancano le magiche suggestioni di un'infanzia da monelle, o la spensieratezza dell'estate dei diciotto anni in quel di Ischia. Il terzo romanzo, un giro di boa, sa destabilizzare: manca il carisma di Lila, c'è troppa Lenù per i miei gusti, e la stizza indicibile verso l'epilogo ti farebbe dire alla storia grazie tante, a mai più rivederci. Ci si aspettava, infatti, un consolidamento; un capitolo filler. Ma l'autrice, piuttosto, ne fa una prova del nove per testare la fedeltà dei lettori, per vedere se – come da titolo – fuggiranno o resteranno. Signora Ferrante, io resto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Luigi Tenco – Ciao amore, ciao

venerdì 8 marzo 2019

Mr. Ciak: Io sono Mia | Lontano da qui | Non è romantico? | Come ti divento bella | Ricomincio da me

Sapete, la gente è strana. Prima l'ha odiata, poi l'ha amata. La sorte di Mimì Bertè, nome d'arte Mia Martini, somiglia proprio all'incipit della sua canzone più celebre. A casa mia andavano spesso. Ho presente i ritornelli, le smorfie e i sorrisi, i tic; quella voce prima grintosa e infine spezzata, in seguito a un'operazione alle corde vocali e alla fine di una relazione che l'aveva prosciugata. La sigaretta immancabile e il cagnetto al guinzaglio, il volto nascosto nel bavero del cappotto. Mia Martini purtroppo la ricordiamo imbruttita. Triste, al punto che la morte precoce è sempre apparsa la diretta conseguenza di un'esistenza tragica. Quanto c'era di vero nell'immagine della cantante roca e maledetta, già diffamata dalle malelingue e stremata dai tira e molla con Fossati? L'ho scoperto in una produzione Rai passata anche in sala: un omaggio di cui potremmo attaccare la scrittura un po' dozzinale, la regia televisiva, se non fosse per la bravura di un'incredibile Serena Rossi. Doppiatrice Disney con un passato nel cast di Un posto al sole, mica nell'Actors Studio, l'attrice partenopea compensa con il cuore e il mimetismo lì dove il timbro è troppo diverso, lì dove la scrittura rischia di scivolare troppo nel melodramma. Attorno a lei, somigliante senza gli sforzi clowneschi di Rami Malek, ruotano gli amici Lauzi e Califano; la sorella Loredana, interpretata dalla dolce metà di Thom Yorke; gli alti e bassi con il compagno storico, sostituito qui da un fotografo fittizio davanti al rifiuto di Fossati di prender parte alla produzione. Io sono Mia è un biopic romanzato, in chiave femminista, su una Janis Joplin nostrana trasformata per colpa di terzi in una maschera di dolore. Perseguitata da accidenti grandi e piccoli, costretta alla fine a cantare nelle sagre di paese, aveva senz'altro bisogno delle scuse ufficiali. Di una commemorazione sentita e rispettosa, emozionantissima, a cui chiunque perdonerebbe l'effetto agiografia: ben vengano i film spiccatamente di parte, purché stavolta siano dalla sua. (7)

Lei è un'insegnante con un disperato bisogno di speranza, lui un allievo prodigio che compone poesie nell'indifferenza generale. Se pensate sia l'inizio di un dramma per famiglie nello stile di Gifted, siete fuori strada. Perché, guidato da un'ottima Maggie Gyllenhaal a proprio agio con i personaggi controversi, Lontano da qui è un film che spiazza: abbastanza da stregare il Sundance e da imporsi, a sorpresa, fra le migliori visioni dello scorso anno. In cerca di una via di fuga dalla routine, di un tocco speciale a una scrittura a cui manca sempre il guizzo, l'irrequieta insegnante scopre accanto al piccolo poeta una vita più incantata, più movimentata, più pericolosa. Lei è la sola a prenderlo sul serio: gli dà corda, prende nota delle sue fantasticherie, lo rapisce letteralmente per portarlo ai reading pubblici, gli presta voce spacciando i suoi componimenti per propri. Non si accorge che c'è del morboso, qualcosa che non va: lo sguardo disarmante e indagatore del pupillo – che in fondo vuole più bene all'altra maestra, e che a giorni premette lo sport alla letteratura – ne metterà a nudo le contraddizioni. La Gyllenhaal preferisce infatti Gael Garcìa Bernal al marito panciuto, l'allievo prediletto ai figli adolescenti ipnotizzati dai cellulari: politicamente scorretta e profondamente umana, a tratti inquieta e a tratti commuove per questa esigenza di bellezza che non possiamo non condividere. Durante la visione dell'ottima seconda prova di Sara Colangelo sospendi qualsiasi giudizio morale – la protagonista va stimata o forse ostracizzata? – e, come se si trattasse di un thriller, ti scopri prima affascinato, poi spaventato dai meccanismi psicologici della protagonista: una poetessa bugiarda, una mecenate aspirante, che passa da maestra a tata, fino a ricoprire il ruolo di stalker ossessiva. Lontano da qui è un enigma pedagogico fra due estremi: la totale disattenzione di alcuni da un lato, e dall'altro le premure esagerate di chi osa sognare un futuro migliore. Ma questo mondo non ha orecchie attente, va di fretta. Troppo pragmatico per i geni incompresi, per le professioniste che fanno della loro missione una questione di vita o di morte, corre il rischio che certe richieste d'attenzione, certi piccoli grandi film, passino inascoltati. (8)

Non tutti hanno il fisico per vivere in una commedia romantica. Non di certo Rebel Wilson, goffa e disincantata, che non somiglia affatto a Julia Roberts. Cosa succederebbe se la spettatrice più cinica del mondo, in seguito a uno scippo, si risvegliasse in un mondo parallelo in cui vigono i toni, i colori e i cliché di Pretty Woman? Dai cartelloni pubblicitari scende la splendida Priyanca Chopra per corteggiare l'eterno migliore amico Adam Devine, il vicino di casa spacciatore si evolve nello stereotipatissimo consigliere gay, il minore dei fratelli Hemsworth d'un tratto non ha occhi che per la protagonista. Dal regista di quel gioiellino che fu The Final Girls, altra parodia dal cuore grande, arriva così Non è romantico?. Un collage a fantasia di luoghi comuni e scene topiche, in cui trovare il meglio e il peggio delle romcom di ogni dove. Il risultato è un omaggio autoironico e dalla confezione inaspettatamente curata, con una morale di fondo aggiornata – amare gli altri anziché se stessi rende davvero più completi? – e una Wilson, al solito, vulcanica. Mettete pure in conto coinvolgenti momenti canori degni di un musical, elicotteri privati come se piovessero, un abito elegante per ogni occasione e qualche consapevolezza aggiunta strada facendo: assolutamente, però, niente sesso. Vittime del cinismo diffuso, anche noi abbiamo il dente avvelenato verso il lieto fine. Un po' come le volpi del proverbio, che non arrivano all'uva e fingono allora sia acerba. Che male c'è, invece, a sognare a occhi aperti? A viversi la vita con quest'invidiabile leggerezza, rigorosamente in rosa? (7)

Quanto conta l'aspetto esteriore? L'inadeguatezza ha confinato a lungo Amy Schumer in un ruolo subalterno: è un altro colpo in testa, un'altra epifania, a convincere quest'altra bruttina della commedia americana a vivere a testa alta e sognare in grande. Basta crederci. E piace proprio crederle, sì, mentre invade a gamba tesa gli uffici patinati del Diavolo veste Prada per proporsi come segretaria: se perfino Emily Ratajkowski può essere piantata in asso e una strepitosa Michelle Williams fa i conti con la voce stridula della diva di Cantando sotto la pioggia, allora tutto può succedere. Anche essere a tanto così dallo sbancare una gara disputata fra sexy miss in maglietta bagnata, o svegliarsi in una sorta di Big al tempo dei body shaming. La Schumer non cambia di una virgola. Impara a vedersi irresistibile, e tutti sembrano crederle di conseguenza. L'autostima, la teoria del bicchiere mezzo pieno, sono una potente arma di persuasione per affermarsi in ufficio e in amore. Anche a rischio, quando parte della cerchia dei vincenti, di macchiarsi di egoismo e superficialità? Banalizzato dal titolo italiano, Come ti divento bella è una commedia mediamente divertente, bella più dentro che fuori, con una lodevole morale di fondo e la fisicità dirompente di una Schumer da me eppure poco apprezzata in passato. Funziona e intrattiene, per fortuna, anche quando i centodieci minuti complessivi sembrano troppi; quando l'incantesimo si spezza. (6,5)

Quanto conta il titolo di studio? È il dilemma di Jennifer Lopez – ancora una volta, novella Cenerentola – che lavora come commessa nonostante il fiuto da imprenditrice navigata. Come in una puntata di Younger, le bugie le spalancano le porte di un'azienda di grido: dall'alto del suo falso curriculum, così, brevetta la formula di una crema di bellezza e si scontra con la rivale Vanessa Hudgens, collega sul piede di guerra. Ricomincio da me, ritorno al cinema della popstar che negli anni Duemila era la regina incontrastata di un certo filone di commedie sentimentali, presenterebbe in teoria qualche variazione sul tema: oggi si premette la carriera all'amore, con buona pace di Ventimiglia; ci si vanta di una laurea che non si ha; si custodisce un segreto di gioventù che rischia di tornare alla luce non senza colpi di scena. La pratica, invece, è ben altro paio di maniche: sarà che lo sforzo maggiore richiesto alla protagonista, cinquantenne di una bellezza sconfinata, è fingere di avere dieci anni di meno e rispolverare, all'occorrenza, le pose che per un periodo l'hanno resa una stella anche del botteghino. A dispetto del titolo, quindi, questo è un falso nuovo inizio, una ripartenza soltanto annunciata: lì il suo pregio, se fan di una Lopez che fa una discreta figura in qualsiasi veste; lì il suo difetto, se da Peter Segal, veterano del cinema di genere, ci si aspettava una serata di sorrisi meno tirati. (5,5)

lunedì 11 febbraio 2019

I ♥ Telefilm: Sex Education | La compagnia del cigno | The Kominsky Method

Ai miei tempi c'era la serie di American Pie in videoteca o Melissa P. sfogliata di soppiatto al supermercato. Alle scuole medie un po' di sesso lo si vedeva o leggeva così: con la pudicizia verso il tabù. Molto più fortunati possono dirsi gli adolescenti di oggi: seduti al primo banco, attentissimi, prendono appunti e sollevano dubbi esistenziali a lezione da Sex Education. La versione live action di Big Mouth, essenzialmente, che attinge a tratti a Skins, a tratti al recente The End of the F***ng World. Siamo nel solito liceo di provincia e il solito sedicenne imbranato – Asa Butterfield, cresciuto bene dopo la benedizione artistica di Martin Scorsese – fa i conti con l'imbarazzo della mamma sessuologa e la cotta per una ragazza con la fama da bulla. Perché non mettere a frutto un'infanzia passata a sentir parlare di sesso per racimolare qualche soldo, tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla sempre fascinosa Gillian Anderson e, se tutto va bene, conquistare l'erede lampo di Margot Robbie? A scuola c'è chi apre troppo le gambe e chi non le apre abbastanza. Chi sogna in segreto un'esperienza omosessuale, chi simula l'orgasmo, chi non si prende cura a sufficienza delle proprie zone erogene. Chi ce l'ha piccolo, chi ce l'ha grande, chi non ce l'ha depilata alla brasiliana. Otis, sotto lauto compenso, ha una risposta per tutto, ma non per il suo cuore misterioso. Né per l'inibizione verso la masturbazione, suo grande cruccio, che gli rende di conseguenza difficile anche il contatto fisico. Scorretta, boccaccesca, nuda e cruda, Sex Education non si fa mancare davvero nulla. Dà quello che promette, fra amplessi sbirciati e grasse risate, ma il risultato sorprende per buon gusto e misura. Modernissima ma con un accurato stile anni Ottanta, l'ultima commedia Netflix gioca con furbizia e impensata grazia le proprie carte vincenti. E fa bene, perché la semplicità, il prendi di qua e il prendi di là dai teen drama di ogni dove, si sposa bene con un cast dalla faccia pulita e una scrittura che, lasciati a sbollire i bassi istinti, a sorpresa scalda il cuore. Con le cliniche per l'aborto dagli Smiths in sottofondo. Con gli amici gay che non disdegnano i travestimenti e, per solidarietà, ti spingono a vestirti come Hedwig oppure a ballare un lento in pista. Con la revisione in chiave politicamente scorretta di un femminismo meno banale al suon di: «È la mia vagina!». C'è del vero nel luogo comune: non esiste sesso senza amore. (7+)

Alle medie adoravo High School Musical: conoscevo tutta la colonna sonora, inutile nascondersi, e l'altro giorno meditavo l'idea di un rewatch in nome della nostalgia canaglia. Alle superiori è stata la volta di Glee: serie subito cult, sfortunatamente in caduta libera dopo la collezione iniziale di plausi e premi in patria. Quest'anno, invece, scartato Rise, contro tutti i pronostici gli ho preferito La compagnia del cigno: una scusa per far fruttare il chiacchierato canone Rai e una bella occasione per portare la musica classica in prima serata, realizzando una serie per gli adolescenti di oggi e di ieri. Ivan Cotroneo, già con Un bacio autore di grande sensibilità, conferma di possedere un tocco delicato e nel suo piccolo fa magie con un cast di reali studenti del conservatorio chiamati per la prima volta a suonare, cantare e recitare. Qualcuno, per altro, con ottimi risultati: benché il protagonista sia Leonardo Mazzarotto, studente sopravvissuto al terremoto di Amatrice in fuga dal disturbo post-traumatico, spicca per spigliatezza il personaggio irresistibile di Hildegard De Stefano, un'ipovedente che spezza cuori a destra e a manca e si fa beffe del politicamente corretto. Il titolo: il nome di un gruppo WhatsApp che ha radunato gli emarginati e i talenti incompresi dell'orchestra di un Alessio Boni non meno spietato di J.K. Simmons. Di giorno direttore d'orchestra con i modi da canaglia, di notte giustiziere accanto ad Anna Valle per vendicare una figlia vittima d'omicidio stradale, Boni divide la scena con valenti addetti ai lavoro (Giovanna Mezzogiorno, mamma saggia ed evanescente morta nei crolli; Alessandro Roja, spumeggiante zio gay una spanna sugli altri), partecipazioni trash (i cameo di Mika e Michele Bravi; Marco Bocci che scimmiotta con ironia il Bernal di Mozart in the Jungle) e giovani leve. Peccato che la lunghezza degli episodi, gli inserti musical mal realizzati e la fotografia di un irriconoscibile Luca Bigazzi intrappolino la serie in stilemi televisivi che, a tratti, vedasi la stucchevole gita ad Amatrice del finale, cancellano i pregi diffusi al suon di nasi da storcere. Si apprezzano comunque le buonissime intenzioni, le ambientazioni milanesi, il tentativo di opporsi con la controprogrammazione al pessimo Adrian, e tanto basta per dirsi contenti. In attesa di un ritorno con gli stessi drammi vincenti, ma meno auto-tune nei ritornelli, più cura alla regia e altrettante armonizzazioni. (6,5)

Si conoscono da metà delle loro vite, e sono vite lunghe. Uno attore di scarso successo a capo di un'accademia di recitazione, l'altro suo fedelissimo manager. Il mondo del cinema, però, fra strizzate d'occhio e grandi nomi fatti tanto per vanteria, resta sullo sfondo. Si sceglie di parlare d'altro: delle gioie e dei dolori condivisi, della salute che va e che viene, dei segreti della terza età. Non si smette di fare sesso a settant'anni, lo sa bene il sempre affascinante Michael Douglas, che nelle sfilate sui Red Carpet continua a non stonare con Catherine Zeta-Jones accanto. Non si smette di considerare i propri figli alieni, lo ribadisce uno struggente Alan Arkin alle prese con il vuoto della vedovanza – ogni tanto, eppure, eccolo confidarsi con lo spettro della moglie in camera da letto – e con le bizze della figlia, alcolizzata da scortare in rehab. Aggiungete qualche vecchio problema familiare e nuove fiamme, la prostata che fa i capricci sotto le mani indelicate dell'urologo De Vito, l'amore altalenante ra due irresistibili brontoloni che nonostante tutto non si stancano mai della reciproca compagnia. Otterrete, così, The Kominsky Method: ultima fatica di un Chuck Lorre che gioca pedine fortunate e agli scorsi Golden Globe, complici due straordinari mattatori per fiore all'occhiello, sbaraglia una concorrenza agguerrita. Imprevedibilmente e, se lo chiedete a me, non troppo meritatamente. Vista agli inizi di dicembre durante i pasti, la serie è stata una compagnia rapida e indolore di cui parlare soltanto a vittoria avvenuta. Prima, infatti, non mi aveva tentato il bisogno di abbinare i soliti aggettivi, di raccontarvi la solita comedy agrodolce, per la quale a torto non vedevo un futuro. La seconda stagione è già stata confermata ai piani alti e questa strana coppia non smette di mietere consensi in rete (chiedetelo a Lisa, ad esempio, gerontofila doc). Affezionato all'umorismo nero di Vicious non meno che alla galanteria di The Old Man and the Gun, invece, io mi sono scoperto lontano dall'ironia più godereccia di Lorre; da una serie sulla settima arte a cui il cinema manca, strano ma vero, che nel giorno giusto potrebbe forse strapparvi più lacrime che risate. (6,5)

lunedì 14 gennaio 2019

Recensione: Storia del nuovo cognome, di Elena Ferrante

Storia del nuovo cognome, di Elena Ferrante. E/O, € 19,50, pp. 480 |

Dopo anni di lontananza, io che pecco talora di memoria corta e incostanza, ho inaugurato un nuovo anno di letture facendo ritorno al rione. Il passo finalmente sicuro, uno sguardo più abituato a cogliere la poesia delle piccole cose e a mo' di bussola, tanto di cappello allora alla spassionata fedeltà della sceneggiatura, la miniserie Rai del bravissimo Saverio Costanzo. Ho usato la trasposizione televisiva, con il senno di poi perfetta tanto nella resa visiva quanto nella puntualità dei gesti e delle situazioni, come ripasso generale. E durante questo inverno crudele che porta presso le città costiere la neve a fiocchi pesanti e altri malanni, io come tanti, fra frequenti indigestioni da cenone e raffreddori stagionali, ho scelto volutamente di ammalarmi – ma della febbre Elena Ferrante. Un contagio che in libreria avanza, incalza, martella, a tal punto da vincere i sistemi immunitari dei lettori riottosi. Un'influenza di quelle belle, bellissime, a cui è impossibile resistere rifuggendo la pazza folla: questa volta, tocca ribadirlo, i best-seller hanno ragione. All'indomani di una tesi che mi aveva guidato nella Napoli sismica del teatro post-eduardiano, fra contraddizioni dolenti e pastiere irresistibili, sono tornato alle origini con qualche consapevolezza aggiunta, tutti e quattro i romanzi già sul comodino e una maturata pazienza. Il sangue del Sud, l'accento pure. Nelle orecchie, Lila e Lenù che mi parlavano per tutto il tempo con la voce delle interpreti Gaia Girace e Margherita Mazzucco. Stesse inflessioni, stessi non-detti, stessa fierezza da ingoiare a forza sotto forma di bocconi quanto mai amarissimi. Non le ho lasciate, così, nell'estate di quattro anni fa, ma soltanto lo scorso dicembre: con i titoli di coda che le sorprendevano dal nulla proprio durante quel fatidico matrimonio, protagoniste di una consapevolezza che mortificava all'improvviso il candore speranzoso delle spose novelle.

«Non volevo che mi vedessi.»
«Gli altri ti possono vedere e io no?»
«Degli altri non m'importa, di te sì.»

Se moglie ad appena sedici anni, no, la tua storia non può mica finire lì: può soltanto cominciare. Con un nuovo cognome come da titolo – Carracci –, e nuove conseguenze imprevedibili sulle vite degli altri. Soprattutto su quella di Lenù, nemica adoratissima, che per sua fortuna può dedicarsi allo studio, non ai degradanti doveri del talamo coniugale; al successo professionale, non alla prole da educare. 
Queste cinquecento pagine scarse contengono i sei anni immediatamente successivi. 
All'una tocca accettare a malincuore le leggi non scritte del rione – gli schiaffoni, le logiche economiche, l'aggressività di quel degno erede di Don Achille che in casa getta via la maschera – e, riposta la solita superbia, si scopre che a poco servono il lusso della vasca da bagno, la gigantografia nel negozio a Piazza dei Martiri, i privilegi di scoprirsi la moglie di un munifico salumiere sempre con le mani in pasta, contro la paura e la tentazione della “smarginatura”. Lila si vergogna, si annoia, e per capriccio rovina ogni cosa – le relazioni, i pranzi e le cene, le vacanze al mare – quando non è lei l'anima della festa. 
Quanta verità c'era in quella frase, leitmotiv della loro lunga complicità: quello che fai tu, faccio io? Mentre la sua amica geniale si ferma alla terza elementare, Lenù – raisoneur intellettuale, osservatrice ai margini dell'azione, confidente per eccellenza – punta prima alla maturità a pieni voti, poi a Pisa, infine a Milano. Ci si allontana dal rione, infatti, soltanto per merito o per la leva obbligatoria. E lei ha scelto di brillare studiando per non diventare come le donne del quartiere: vittime dei padri padroni e dei fratelli, dei mariti, e perfino di una forza di gravità che inevitabilmente ne amplia i girovita e ne appesantisce i seni.

Anche se sei meglio di me, anche se sai più cose di me, non mi lasciare.

Via gli occhiali antiquati, via la cadenza campana, via l'imbarazzo dei brufoli. Via una notte, sul bagnasciuga, il fardello della verginità, e purtroppo con la persona sbagliata. Eternamente inadeguata, fuori posto, la narratrice è troppo intelligente per la provincia, troppo provinciale per l'università. Troppo dimessa e troppo fortunata per qualcuno come la signora Carracci, sciantosa e miserabile contemporaneamente. Crescere la costringere a involversi, a mostrarsi orgogliosa e sboccata – insomma, più Lila –, per non essere fagocitata in un giunga di pendolari rumorosi e letterati dalle mani lunghe. E Lila, allo stesso tempo, diventa più lei. Si alternano, si avvicendano, si inseguono. Agli amori dell'una corrisponde l'abbandono dell'altra, al rifulgere lo sfiorire. In principio per superarsi smaccatamente, competitive come lo erano sotto la guida della maestra Oliviero a scuola; qui per darsi forza. Anche a costo di rubarsi a vicenda sogni, libri e fidanzati, per poi fare a metà di tutto.

Com'è facile raccontare di me senza Lila: il tempo si acquieta e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni come valigie sul nastro di un aeroporto; li prendi, li metti sulla pagina ed è fatta. Più complicato è dire ciò che in quegli stessi anni accadde a lei. Il nastro allora rallenta, accelera, curva bruscamente, esce dai binari. Le valigie cadono, si aprono, il loro contenuto si sparpaglia di qua e di là. Oggetti suoi finiscono tra i miei […].

Rispetto al primo romanzo i nomi si calcificano nella memoria, non si corre a sbirciare lo schema riassuntivo in apertura in preda alla confusione. Si snelliscono i collegamenti, le parentele, le rivalità fra Carracci e Solara – Stefano e Marcello diventano soci del calzaturificio Cerullo – e il rione appare un microcosmo ormai familiare. 
Fa bene cambiare aria, però, e c'è il mare che guarisce ogni cosa: i ventri aridi, la nostalgia. Appiana i divari. Le amiche del cuore di Elena Ferrante, benché abbiano cuori enormi e un po' cattivi, si concedono una villeggiatura nella parte più emozionante dell'intero romanzo: la leggerezza che ogni estate dei diciotto anni si merita, le confidenze in una Ischia da viversi non più in solitaria, le onde che restituiscono a riva le apparizioni dell'amato Nino Sarratore e i segni premonitori della tempesta imminente. Lenù resta sotto l'ombrellone, impacciata nel costume intero che stringe impietoso sulla silhouette di cui si cruccia; Lila impara a nuotare. E nuota meglio di lei, forte e lontano: irraggiungibile? 
Storia del nuovo cognome è il tassello immancabile di una saga al femminile che cresce di volume in volume, un sì decisivo. Una scatola salvata alla furia dell'Arno per ricostruire coi brividi a fior di pelle gli amori e gli odi alterni; le sofferenze tenute segrete, i traguardi ostentati, e viceversa; le parole che non si sono mai dette. Quello che sono diventate quando, purtroppo o per fortuna, lontane. Nel cuore dell'azione, nei ventricoli della vita, nel sangue dei ricordi.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Nada – Senza un perché

lunedì 24 dicembre 2018

I ♥ Telefilm: L'amica geniale | Kidding | Daredevil S03

Le abbiamo lette, le abbiamo supportate, le abbiamo immaginate. Perfino io, fermo per ragioni sconosciute al primo romanzo. E le abbiamo riconosciute a colpo d'occhio con commozione nella serie che doveva farcele conoscere in carne e ossa e che, tiriamo un sospiro di sollievo, non ha deluso le attese. Sono nate in un rione alle porte di Napoli. Non parlavano italiano fluentemente, solo dialetto stretto. Erano scapigliate, vestite di poco e ambizione: a volte amiche del cuore, altre nemiche giurate. Quanta strada hanno fatto. Prima nelle librerie di tutto il mondo, poi in anteprima a Venezia: ora sul piccolo schermo di casa nostra, e con cifre record, nell'evento televisivo che ha compiuto il miracolo. Dare loro un volto, un passo spedito, riuscendo a rendere giustizia tanto alla nostra immaginazione quanto alla loro grandezza. Siamo nella Napoli del secondo dopoguerra, la stessa di De Filippo: i Solara e i Carracci si fanno guerra; le donne abbandonate lanciano stoviglie come la sceneggiata comanda; i padri padroni picchiano, i giovani sparano, le ragazze accettano a malincuore il destino di angeli del focolare. In queste atmosfere violente, rischiarate a sprazzi dai bagliori di una striscia blu all'orizzonte o dalle ripetizioni di Latino sui gradini polverosi, si muovono tra l'infanzia e l'adolescenza Lenù e Lila: la prima contemplatrice che poco si sbottona, ma che eppure ha uno sguardo talmente parlante da rendere superflua la voce narrante di Alba Rohrwacher; l'altra, invece, coetanea sfortunata ma prodigiosa – nell'impossibilità di diventare la nuova Jo March si reinventa infatti imprenditrice – che da piccola prende a sassate i maschi, da adulta li fa capitombolare con lo sguardo di chi non dà soddisfazioni. Dirige Costanzo, producono Rai e HBO, e l'ardimento è di casa. Al pari dell'ultimo Cuaròn, la serie è un tranche de vie senza apparenti guizzi che, con la scusa di un'amicizia da rivangare, racconta uno spaccato di Italia a metà tra i coming of age e le cronache agrodolci delle nostre nonne. Abbonderanno dunque i silenzi, gli sguardi profondi – le esordienti Margherita Mazzucco e Gaia Girace, senza scordarci delle controparti infantili Elisa del Genio e Ludovica Nasti, sono meravigliose –, assieme a sequenze censurate poiché di una franchezza scomoda e di una poesia a cui il pubblico generalista è disabituato. Il dialetto regala immediatezza, la colonna sonora di Max Richter i brividi consueti, e la messa in scena – con tanto di citazioni a Rossellini o ai languori di Guadagnino – presenta gli scorci spigolosi di una tela di De Chirico. Si parla di ruoli: quanto contano il genere, l'istruzione e la buona sorte? A volte il talento non basta. Serve fortuna, e conquistarla richiede compromessi inammissibili per uno spirito orgoglioso. A volte non basta nemmeno la fama, se vivere di rendita non aggrada. Elena Ferrante ha tutto: la fiducia dei migliori addetti ai lavori e una schiera fittissima di affezionati. Già al cinema grazie a Martone, Faenza e prossimamente Maggie Gyllenhaal, la scrittrice del mistero conferma in otto episodi la sua energia vitale e il fascino di un microcosmo che voleva farsi costruire tassello per tassello, filmare da un regista d'eccezione, per renderci prigionieri di un quartiere – di una dipendenza nuova – senza vie di fuga. Storia del nuovo cognome è già sul mio comodino. (8)

Ogni mito d'infanzia nasconde degli scheletri nell'armadio. Pensate ad esempio a Michael Jackson o Bill Cosby. Ai sospetti, alle accuse, alla fine del sogno. Purtroppo o per fortuna sulla reputazione di Mr. Pickles – Tonio Cartonio, ma con marionette annesse – non c'è la macchia dello scandalo. È stato vittima di un incidente nemmeno dipeso da lui, che era perfettamente presente a sé stesso, ancorato alla cintura di sicurezza, in regola col bollo e l'assicurazione: chi gli viaggiava accanto, però, non ce l'ha fatta. Suo figlio è morto. Come sentirsi ancora il papà d'America senza? Come fingere l'allegria quando i brutti pensieri abbondano? Jeff ha un altro figlio, finito nel tunnel della dipendenza a soli dodici anni; una Judy Greer fedifraga che d'un tratto vuole andare a convivere con l'amante; la sorella artista Catherine Keener con un marito omosessuale in odore di outing; il papà-socio Frank Langella con programmi alternativi per il loro show. Nel momento del bisogno, così, tutti si reinventano per dimenticare; tutti vogliono rimpiazzare un conduttore sprovvisto della verve di un tempo. Non sarebbe l'ora di aprire gli occhi ai bambini sulle delusioni in agguato, i miracoli dell'ascolto, i qui pro quo del sesso? Se lo chiede disperatamente un Jim Carrey di nuovo in forma smagliante: torna sulle scene in un ruolo che ha tanto di autobiografico, buffo e vulnerabile come solo lui sa, e rinnova su Showtime il vincente sodalizio con Michel Gondry. Il regista francese, qui principalmente impegnato come produttore, ci mette l'intensità del cinema indie, un po' di stop-motion, la malinconia degli ultimi sognatori. Le leggi della messa in onda vogliono rubare al protagonista i sentimenti, perfino l'identità: spersonalizzato, trasformato ora in un videogioco, ora in un giocattolo parlante, Carrey è sull'orlo del collasso. Innamorarsi nel mentre di una malata terminale, nutrire un'amicizia epistolare con un condannato a morte, elargire consigli e donazioni anche all'automobilista incrimianto non sono un'idea troppo brillante. La furia omicida o la rivalsa di chi infine riprende in mano le redini sono nell'aria. Il precipizio è lì, a un passo, ma Mr. Pickles insegna che giù dalla cascata si apre spesso un miracoloso paracadute. Quanto deve durare l'illusione? Soprattutto, quand'è che lo spettacolo deve continuare? Non sono tematiche queste, non sono serie TV – per qualità e impegno –, con cui scherzare. (7)

Troppo con i piedi per terra per prestar fede ai supereroi, mi piace però credere nelle eccezioni alla regola e nelle buone intenzioni. Nell'arco di un paio di stagioni ho creduto al trionfo e alla caduta di un giustiziere con il mondo contro: folle – anzi, cieco –, e per quello amatissimo da pubblico e critica. Meno da Netflix, che dall'oggi al domani ha deciso di non rinnovarlo nelle proteste generali. Riapprocciarlo allora in ritardo, con parsimonia, e a sorpresa trovarsi davanti una stagione senza sbavature né parentesi da sciogliere. Che fine ha fatto Matt Murdock, avvocato di giorno e paladino di notte? Non è in un'aula di tribunale né nel suo appartamento sfitto. Il suo studio ha chiuso i battenti e, in tredici episodi, non indosserà mai la tuta rossa. Prima creduto morto, poi etichettato come nemico pubblico, si conferma un vigilante atipico perché dolente e umano: l'eroe che piace a chi non apprezza l'universo Marvel. In crisi d'identità, si muove nel sospetto come il Cavaliere di Nolan. Ci sono cose della sua infanzia che non sospetta. Ci sono torti, crimini, che vanno scontati ammazzando e non davanti a un giudice. La fede nel Diritto lo ha tradito, lo ha tradito anche Dio. Mentre il collega Foggy ambisce alla carica di procuratore e Karen fa i conti con mani macchiate di sangue, il potente Fisk ha trovato l'ennesima scappatoia dalla galera. Agli arresti domiciliari in una safe house che ha tutta l'aria di un hotel a cinque stelle, tiene in scacco a suon di ricatti e vendette perfino l'FBI: tutti sono corruttibili – soprattutto Nadeem, agente con famiglia a carico, e Bullseye, nemesi dalla mira perfetta. Sfiduciato, ateo all'improvviso, Daredevil frequenza le chiese – a curarlo è una suora con un segreto scomodo – e si interroga sui passi fatti, su quelli da fare. Uccidere per la prima volta un uomo, o rimetterlo in manette con il rischio che di lì a poco s'imbatta in un altro secondino da assoldare? La serie di Goddard conferma di non avere né effetti speciali né prodigi mirabolanti. Non ha i superpoteri – sanguina, sfoggia i lividi e i punti di sutura –, ma è super. Una granitica crime story che lascia da parte la lentezza della stagione introduttiva, gli affollamenti della seconda, e trova con successo una dimensione noir assolutamente atipica per il genere. Così come atipiche continuano a essere le scazzottate in piano sequenza, l'intensità di Cox e D'Onofrio nei ruoli della vita – sorprendente il villain di Wilson Bethel, bello che non ballava in Hearts of Dixie –, le polemiche per la cancellazione immerita. Sì, perché Daredevil purtroppo si chiude qui. Con il numero perfetto, il tre, e il migliore dei congedi: giù la maschera, fino a svelarci il suo volto più tormentato. E per questo più autentico. (8)

lunedì 19 novembre 2018

I ♥ Telefilm: AHS Apocalypse | I Medici. Lorenzo il Magnifico

Quando si è in caduta libera non resta che un ultimo gesto disperato: tornare alle origini. American Horror Story, da otto anni a questa parte, ha sempre avuto dalla sua ambizioni e difetti esagerati. Dalle case infestate al circo, passando attraverso gli istitutiti di igiene mentale e la politica contemporanea, ha saputo rinnovarsi nel bene e nel male. Prendendo una china sfortunata da cui, tra spettatori che danno forfait e mancati successi nella stagione dei premi, anche gli autori non avranno visto ritorno. Quest'anno si ripiega perciò sulla furbizia, in mancanza di idee brillanti; e a sorpresa, pensate un po', ci si trova a rivalutare in positivo anche le caotiche Hotel, Roanoke e Cult. Si parla di un futuro prossimo in cui, all'indomani di un'apocalisse ordita da una coppia di hacker sopra le righe e l'Anticristo, i sopravvissuti vivono in un bunker arredato come una fortezza medievale: sono parte dell'èlite – un'ereditiera, una presentatrice tivù, una gloria del cinema horror – e per capriccio hanno portato laggiù amanti, parrucchieri e domestiche. Nei primi episodi assistiamo a una convivenza claustrofobica fatta di strepiti, regole ferree e tracolli psicologici. Dal terzo in poi, forse l'unico degno di nota, un ribaltamento a sorpresa trasforma Apocalypse in quello che era stato preventivamente annunciato: un crossover. Non vi dico come né perché – i nessi, fidatevi, sono futilissimi – ma scendono in campo le streghe di Coven, stagione da me tutt'altro che apprezzata, per salvare le sorti della serie e sconfiggere un Diavolo in terra agghindato a metà tra Lady Oscar e un cattivo di Twilight. Che fine aveva fatto la Congrega al femminile e come ha potuto ingannare la morte? Cos'è stato di Michael Langdon, il bambino infernale concepito alla fine di Murder House? Le streghe hanno trovato la passata formazione e cercano la nuova Suprema: appaiono sprecate, a tal proposito, le partecipazioni in sordina di Farmiga, Rabe e Bassett, se a lungo rubano la scena le battute salaci delle sempre straordinarie Sarah Paulson e Frances Conroy. L'incursione sui luoghi maledetti della stagione introduttiva è d'obbligo, ma l'effetto nostalgia fa sorridere senza compiere miracoli: un inchino al cameo di Jessica Lange, il rischio glicemia per il tardivo lieto fine degli amatissimi Tate e Violet, e subito si scappa a far guerra contro l'Anticristo – con una piccola tappa in quell'Hotel Cortez senza più tracce di Lady Gaga. Veli pietosi sui flashback nella Russia dei Romanoff, su una Bates in versione Terminator, sulle trasformazioni camaleontiche di un Peters che cambia pelle ma resta svestito di ruoli memorabili. Compitino presuntuoso e stucchevole, impunemente trash, l'ultimo American Horror Story sembra l'opera di un feticista dello show che si sognava sceneggiatore improvvisato: il risultato, godibile ma spesso involontariamente comico, è una fanfiction fine a se stessa che regala alla premiata ditta di Murphy la sua annata peggiore. Bisogna forse auspicarsi conflagrazioni da fine del mondo per far tabula rasa dello sfacelo in corso? (5)

Dopo l'approccio negativo con la prima stagione e qualche pregiudizio di troppo, lo scorso anno avevo evitato senza rimpianti il soggiorno nella corte più raffinata d'Italia. Non ho conosciuto il Cosimo di Richard Madden, così, né assistito alla progettazione della famosa cupola di Brunelleschi. Qualcuno mi consigliava di tornare sui miei passi, ma la pigrizia e la scarsa attrazione verso le produzioni in costume hanno sempre avuto la meglio sull'idea passeggera di recuperare la fortunata collaborazione tra Rai e Stati Uniti. Approfittando della natura antologica della serie kolossal, non so nemmeno io perché, ogni martedì sera per quattro settimane mi sono ritrovato ad assistere agli intrighi e ai sospiri di due generazioni successive di Medici. Cosimo e Contessina, ancora rimpianti, si sono trasformati in leggenda nel ricordo del popolo toscano. L'antico splendore, però, ha un prezzo salatissimo. Se le strutture desiderate dall'illustre avo sono ancora solide e inattaccabili, lo stesso non può dirsi del potere della famiglia. Fra la secolare rivalità con i Pazzi di Sean Bean – questa volta, statene certi, non passerà a miglior vita troppo presto –, le trattative con gli Sforza e i disperati tentativi di procurarsi i favori di papa Raoul Bova, gli sconvolgimenti sono nell'aria. Con l'arte e la poesia messe ai margini, abbondano le alleanze politiche e matrimoniali, e voltafaccia di cui si finisce per perdere il conto. Il risultato finale non annoia né coinvolge, grazie o a causa delle trame arzigogolate e di parentesi romantiche rubate a man bassa a uno sceneggiato per signore. C'è la volitiva Clarice, non la classica moglie oggetto, desiderosa di imporsi ai danni della fatale e pessima Alessandra Mastronardi. Ci sono i biondissimi Bradley James e Matilda Lutz – rispettivamente Giuliano e Simonetta, in posa per un capolavoro pittorico dell'amico Botticelli –, amanti appassionati nonostante il matrimonio oppressivo e la salute cagionevole di lei; la sorella minore Aurora Ruffino, invece, è innamorata del nemico giurato come in una riscrittura di Romeo e Giulietta. A prendere le redini di tutto con un colpo di stato è il giovane Lorenzo, amato dalle donne e odiato dai restanti altri: il britannico Daniel Sharman, che già rubava la scena in Teen Wolf per una bellezza e una mascella fuori dal comune, si conferma il migliore di un cast miscellaneo – poco convincente, in definitiva, l'interazione fra voti internazionali e nostrani, con gli ultimi penalizzati dal doppiaggio scadente – insieme a Matteo Martari, antagonista dal fascino sinistro. Impossibile farsi bastare l'opulenza di scenografie, costumi, trucco e parrucco. E no, non contano nemmeno la sigla di Skin o le scene di nudo audaci per la prima serata. Avrebbero giovato una sceneggiatura meno romanzata e più solida, i ritmi sostenuti proposti negli episodi conclusivi: I Medici, tocca riconoscerglielo, è una serie che per fortuna migliora strada facendo. Fino a un finale appassionato e violento – la congiura dei Pazzi non poteva che essere il logico congedo –, dove l'azione e il sangue delle vittime sacrificali trionfano sui languori da Harmony e i buchi di una sceneggiatura che distingue fra figli e figliastri. Nella programmatica scena di chiusura, culmine perfetto, arriva infatti la Primavera a rianimare in time lapse una tela squarciata. E assieme a lei, allora, fioriscono le speranze per un prosieguo da attendere perfino con un briciolo di curiosità aggiunta. (6,5)

lunedì 22 ottobre 2018

Recensione: Il ladro gentiluomo, di Alessia Gazzola

Il ladro gentiluomo, di Alessia Gazzola. Longanesi, € 18,60, pp. 304 |

Non fumo, non bevo, non mangio mai fuori pasto. Di vizi, insomma, grossomodo non ne ho. Ci sono appuntamenti annuali, però, a cui neanch'io – studente oculato, lettore paziente – so rinunciare a cuor leggero. Quando, eppure, dotato di una natura facilmente annoiabile, non mi dedico alla leggera a cose come il binge watching su Netflix, troppa infatti la paura di averne abbastanza, e di rado in amicizia o in amore tendo il dito, dicendomi che il mio prossimo desidererà poi la proprietà esclusiva di tutto il braccio. Con i romanzi di Alessia Gazzola, da otto anni a questa parte a prova di blogger incostante, per fortuna non ho mai corso il rischio, anche se, in realtà, di rischio ce n'era uno sin dall'inizio: imparare, in un autunno indefinito, a stare senza. Non abbiamo conosciuto alti e bassi di sorta; non ci siamo persi di vista come succede negli anni in cui la vita ci mette lo zampino, né traditi: entrambi, per l'appunto, distratti e affaccendati; entrambi, davanti a un'altra macabra avventura, diventati adulti di pari passo. Ho scoperto la compagnia di Alice appena diciassettenne, mentre io sgomitavo al liceo e lei si dava ai primi gialli, ai primi incorreggibili batticuori. Da lì in poi è nata quasi da sé una lunga amicizia che ci ha colti nella buona e nella cattiva sorte, in forma e derelitti, matricole e laureandi. Quest'anno, nella tappa fissa in libreria, uno studente della magistrale con meno due esami all'orizzonte – la laurea, se tutto va bene, prevista per al massimo aprile – ha conosciuto un'altra faccia del medico legale ficcanaso, che a giorni, nonostante la mia indifferenza per la trasposizione tivù, tornerà anche su Rai Uno.

Caro destino, è inutile che mi metti alla prova. Non ci casco, non mi cambierai.

Eccezionalmente, tuttavia, qualcosa è cambiato. Scalzata dalla propria comfort zone, la protagonista fa i conti con le conseguenze di un capriccio un po' infantile dei suoi: delusa dall'ennesimo sgarbo di Claudio, nel finale di Arabesque aveva fatto domanda di trasferimento. Inconsapevole che la Wally, direttrice dell'Istituto all'indomani del pensionamento dell'amatissimo Supremo, cogliesse la palla al balzo per farle imparare la lezione. Che trasferimento sia, allora, anche se nel frattempo il volubile Conforti si sarebbe perfino ravveduto abbracciando dopo tante titubanze l'idea della convivenza: meta, Domodossola. Il grande Nord è pronto per Alice, decisa anche lì a sventare l'immancabile mistero di sorta e a dare nuova linfa a una squadra arrugginita per l'inazione – ricordiamo il dolce Velasco, innamorato non corrisposto di una Wally finalmente più umana, e il sornione Malara, PM calabrese che non conosce rifiuti? Quei mesi da fuori sede, soprattutto, fra disastrose lezioni di sci e malinconici paesaggi lacustri, sono una punizione o un'opportunità? Con un futuro lavorativo e sentimentale in forse, per una Alice nuovamente punto e a capo è tempo di imparare a camminare da sola, benché le sette ore di distanza da Roma spaventino. Via la voce conciliante di Lana Del Rey in cuffia: meglio tenere a mente il motto speranzoso di Rossella O'Hara. Basta considerare l'obitorio e la statistica nemici giurati: a volte, infatti, la routine somiglia a un porto sicuro. Facile, per di più, se i guai non si dimenticano di venirci a cercare al nuovo indirizzo: qual è il prezzo effettivo e simbolico del Beloved Beryl, diamante tanto sfavillante quanto maledetto recuperato prima nello stomaco di un piccolo rapinatore dell'Est, poi consegnato per sbaglio al sedicente truffatore Alessandro Manzoni?

Non ho mai pensato che la fiducia fosse un sentimento così volatile. Un attimo c'è, quello dopo non c'è più. Magari funzionasse così anche con l'amore.

Da un lato, così, ci si addentra nell'avidità della famiglia Megretti Savi, sulle tracce di un ladro alla Cary Grant – attraente, l'incarnato olivastro, i modi signorili – già noto nella Capitale. Ma la risoluzione del giallo, a opera di terzi e ricostruita in quattro e quattr'otto, questa volta non soddisfa. Dall'altro, invece, leggiamo emozionandoci l'evoluzione del rapporto fra due che si lasciano e si pigliano come, da tradizione, spetta alle coppie storiche: Alice sogna a occhi aperti il principe azzurro, peccato che Claudio somigli però più all'orco burbero e villano. A modo suo, eppure, fra un romanzo e l'altro, ha imparato ad amarla nonostante lo scarto fra le fantasie di lei e la realtà dei fatti. A sufficienza? Per Alice, così, sono da mettere in conto cicatrici in più; una “sindrome da cuore in sospeso” ormai fattasi dolore cronico. E spetta propria a un Claudio inedito – sapevamo poco, infatti, delle sue origini provinciali, degli sforzi per conquistare dal niente una camera con vista ai Parioli – un compito talora ingrato: farle male a fin di bene. Aprirle gli occhi, insegnandole le dosi necessarie di cinismo e disincanto. Per essere un medico legale migliore, e una giovane donna resistente agli urti. Aggiungete, poi, i commenti di un'affittuaria impicciona che, in uno spassoso easter egg, millanta una straordinaria somiglianza tra Contorti e l'attore Lino Guanciale; una nonna che non si perde una puntata di Poldark, specchio stando a lei di qualsiasi storia d'amore; l'immagine divertentissima di una Alice intabarrata come Totò e Peppino a Milano, che davanti a un assortimento a fantasia di cupcake si consola come può per le nascite, gli sposalizi, le dipartite.

Ricorderò sempre questo giorno come quello in cui per seguire la mia strada ho fatto cose assurde. Il momento in cui le sliding doors stanno per chiudersi e io ho infilato il piede. E le ho riaperte. Certo, la caviglia mi farà un male cane. Ma le ho riaperte.

Alessia Gazzola e la sua eroina hanno fatto le valigie e, a giudicare dal tono dell'arrivederci, potremmo non leggere di loro per un po'. I diamanti saranno anche i migliori amici di qualcuno, cantava Marilyn, ma qui sono intanto sette carati a generare amarezze e velenosi scontenti. Si preferisce loro sempre un bel romanzo, a scanso di delusioni. E si preferiscono i ringraziamenti sinceri di Alessia e la mancanza di cerimonie di Claudio, che non credono alle etichette ma alle promesse solenni sì. Soprattutto se fatte ai lettori, croce sul cuore, e a un'allieva per cui gli esami (autoptici e di coscienza) non finiscono mai.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Levante – Le mie mille me