Visualizzazione post con etichetta Recensione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Recensione. Mostra tutti i post

venerdì 7 novembre 2025

Recensione: La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo

 La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo. Feltrinelli, € 20, pp. 432 |

È un grande anno per il cinema horror. Per non essere da meno, anche Feltrinelli si è messa al passo con un romanzo citazionista e dalle atmosfere vintage, che farà la gioia e il terrore degli amici cinefili. Ambientato nel cuore degli anni Novanta, in un sobborgo residenziale ormai in decadenza, racconta di una banda di amici con l'hobby dei film di genere e delle bravate. A sedici anni, la morte è un pensiero incidentale. Al TG: qualche incidente stradale, suicidi in sordina, la piaga dell'Aids. Medhi, membro dell'unica famiglia straniera del quartiere, è vittima del bullo della scuola. Alex ha da poco sepolto la madre, divorata dal cancro. Tom, ossessionato dagli insetti, vorrebbe aizzare una scolopendra contro il patrigno. Max, fidanzato con la bella del liceo, è attratto dal gemello di lei. Lena, l'ultima arrivata, è in fuga da un passato violento.

A volte era sembrato a Lena che lei e i suoi amici sarebbero stati in un certo modo eterni e che l'universo esistesse solo per loro, semplicemente perché erano là a posarvi lo sguardo. Ma ormai era consapevole della loro fugacità, fragilità e impermanenza, aveva acquisito quella consapevolezza del tempo che passa, preleva quello che gli devi e non offre in cambio che un po' di oblio.

Tutti hanno le proprie ombre. Tutti sono attratti dalla casa nell'impasse des Ormes. È lì che si manifestano le fobie e i desideri più sfrenati, in un budello infernale a metà tra il sonno e le veglia. Il folgorante Jean-Baptiste Del Amo, colpevolmente scoperto qui e ora, è la luce in un mondo prigioniero della penombra, dove gli incubi si mescolano ai sogni erotici e i bassi istinti prendono il sopravvento. In un angosciante gioco di specchi e doppelganger, sarà impossibile distinguere una dimensione dall'altra e arginare le conseguenze. Derivativo sin dalle premesse, appesantito da una cinquantina di pagine di troppo e non sempre fedele alla sua dimensione corale, La notte devastata resta comunque una lettura sinceramente spaventosa in cui riecheggiano le grida di It, Nightmare, Amityville Horror.

L'innocenza può essere un inferno.

A elettrizzare, tuttavia, non sono soltanto gli insetti giganti, i parti mostruosi, gli sfondi lovecraftiani, ma la descrizione di un'adolescente sensoriale e irrequieta che tanto somiglia a quella dei romanzi del connazionale Nicolas Mathieu. Divisi tra frustrazione, fumo e noia, i protagonisti si scoprono prigionieri di un film horror con la colonna sonora dei Nirvana, in cui l'incanto infantile è ormai spacciato e la consapevolezza del tempo, della diversità e dell'oblio, conducono sulla soglia del più spaventoso dei mondi: quello degli adulti. Si sopravvive alla morte dell'innocenza?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are 

martedì 7 ottobre 2025

Recensione: Le notti di Salem, di Stephen King

| Le notti di Salem, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 14, pp. 656 |

Per un lungo periodo della mia vita — tra la fine delle elementari e il liceo —non ho letto altro che Stephen King. Nella mia vecchia camera, sul letto, ho una mensola con schierati tutti i suoi romanzi più famosi. Anzi: avevo. Quest'estate ho riposto tutte le mie cose, smantellando scaffali e ricordi, per l'imminente trasloco di papà. La mia adolescenza è in un garage — materiale fragile, maneggiare con cura. Ma ho voluto sottrarne una piccola parte, tenendo fuori dagli scatoloni uno dei pochi classici finora mai affrontati: Le notti di Salem. Tra incanto e terrore, proprio come accadeva da ragazzino, ho realizzato che il me adolescente non sbagliava: Stephen King resta il più grande narratore sulla faccia della terra.

Ogni notte bisogna combattere la stessa battaglia e l'unica cura è l'inevitabile atrofizzazione delle facoltà immaginative, quell'evoluzione che si chiama età adulta.

Scritto sul finire degli anni Settanta, il romanzo è cinema allo stato puro. Benché lontano dall'introspezione di It, contiene già traccia del capolavoro che arriverà qualche anno dopo. Anche qui abbiamo una cittadina immaginaria dove i fantasmi del Vietnam, gli scandali e i segreti affollano le confessioni più nere dei parrocchiani. Anche qui abbiamo un ritorno a casa, alle origini del male, e un gruppo di eroi coraggiosi — accanto a Ben, scrittore in cerca di ispirazione, ci sono un professore a un passo dalla pensione e un piccolo boyscot ossessionato da Houdini. Le assi scricchiolano. Le porte cigolano. Le risate argentine dei bambini ghiacciano il sangue nel cuore della notte. Su tutto e tutti, ritta su un poggio come un dio crudele, domina Casa Marsten: teatro di un misterioso omicidio-suicidio dopo la crisi di Wall Street, attira puntualmente uomini malvagi e, questa volta, diventerà testimone di una mattanza senza pari. Sopravvivranno in pochi.

L'oscurità è quando i mostri ti prendono.

Chi sono gli ultimi arrivati, Staker e Barlow, e cosa contengono quelle casse polverose portate dall'Inghilterra? Che fine hanno fatto i fratelli Glick e perché i cadaveri fuggono via dall'obitorio, tenendo in scacco il borgo? Con un montaggio alternato degno dei maestri del cinema, King segue la lotta alla sopravvivenza dei suoi protagonisti dal tramonto all'alba. Ogni scena è sezionata con attenzione autoptica. Ogni personaggio, perfino il più dimenticabile, ha un background indagato nel dettaglio. I ritmi sono implacabili. Ma è nelle lunghe sequenze corali — le migliori — che King sfoggia tutto il talento di cui è capace, spostandosi in volo da una casa all'altra di Lot. Viene fuori, così, il ritratto oscuro di una America provinciale e perbenista, dove gli eredi di Dracula troverebbero tutt'ora terreno fertile. Tra acqua santa, aglio e paletti, King si diverte come un bambino dispettoso. E cinquant'anni dopo non smette di divertirci, con l'omaggio a Bram Stoker che esisteva — e mordeva — prima di Netfix, prima del binge watching, prima dei remake.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Dead Can Dance – The Host of Seraphim

martedì 30 settembre 2025

Recensione: Mysterious Skin, di Scott Heim

| Mysterious Skin, di Scott Heim. Playground, € 18, pp. 272 |

È possibile raccontare l'indicibile? Scott Heim — autore di culto, nonostante due soli romanzi all'attivo — non conosce tabù. Impavido, chirurgico, cinematografico, affronta a testa alta i trigger warning più destabilizzanti e reinventa il lessico del dolore in una storia che mostra due risposte diverse al medesimo trauma. Il cammino dell'elaborazione non è lineare. Ma lungo, dissestato, tortuoso. Qualcosa di terribile ha segnato per sempre l'infanzia di Brian e Neil. A Hutchinson, Kansas, giocavano nella stessa squadra di baseball. Come si è evoluta la loro sessualità? Quali risposte si sono dati per giustificare le famiglie disfunzionali, i ricordi inaffidabili, le esistente condannate a un eterno limbo? Brian soffre di epistassi e di vuoti di memoria. Fragile e ingenuo, consuma storie di fantascienza da quando ha visto qualcosa di misterioso fluttuare su un campo di cocomeri. Gli alieni esistono e, forse, lo hanno rapito quando aveva otto anni. Neil, da sempre più spregiudicato, ha presto imparato che il sesso è un'arma a doppio taglio — e lui la impugna dalla parte del manico.

A dodici anni avevo visto più tornado che gocce di sangue. Il suo rosso sembrava magnifico e sacro, come un rubino fatto a pezzi.

Sconsigliato ai lettori facilmente impressionabili, Mysterious Skin — diventato anche un film diretto da Gregg Araki — mette subito alla prova con tematiche scabrose e descrizioni di una violenza grafica. Provoca, scoraggia: è un fiume nero, torbido e pericoloso, che non sarà semplice guadare. Ma, dopo un impatto inizialmente scioccante, si apre a una polifonia di voci in cerca di speranza. E si trasforma in un trattato di psicologia, in un giallo, sul più grande dei misteri: la rimozione. I protagonisti hanno dimenticato il passato, ma i loro corpi ricordano — la luce blu di un portico, i lividi, la piovosa estate del 1981. Non tutti i punti di vista appaiono sempre funzionali alla narrazione e, a tratti, l'intensità rischia di disperdersi: sin dall'inizio, infatti, noi lettori sappiamo quanto accaduto. Aspettiamo così che i protagonisti scavino tra le macerie dell'infanzia, che maturino finalmente nuove consapevolezze, in un romanzo che oggi nessuno avrebbe osato né scrivere né pubblicare. Un oggetto non identificato. Una carogna da cui, nonostante le avvertenze di mamma e papà, non riesci a distogliere lo sguardo. 

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead - How to Disappear Completely

martedì 23 settembre 2025

Recensione: Raccontami tutto, di Elizabeth Strout

| Raccontami tutto, di Elizabeth Strout. Einaudi, € 19, pp. 288 |

È destino. Torniamo spesso dove siamo stati bene. E così, dopo qualche anno di lontananza, sono tornato a perdermi nelle storie della bravissima Elizabeth Strout. A Crosby, Maine: una cittadina vista mare, dove tutti conoscono tutti e i personaggi dell'autrice sono soliti incontrarsi. Come parte di un grande universo espanso, i protagonisti dei suoi più grandi successi — Olive Kitteridge, Mi chiamo Lucy Barton, I ragazzi Burgess — si incrociano in un romanzo che farà la gioia di tutti i lettori della prima ora, senza però scoraggiare gli ultimi arrivati. Nonostante sia consigliabile già conoscerli, niente paura: Raccontami tutto non è un romanzo di trame intricate ed eventi spiazzanti, ma un gioiello che brilla della quieta semplicità della provincia.

Olive tacque un bel po'. Poi disse, in tono pensoso: “Strambo, no, il mondo in cui viviamo? Per anni mi sono detta: Mi mancherà questo quando muoio. Ma per come va il mondo di questi tempi, certe volte penso che sarò ben contenta di essere morta”. E rimase seduta in silenzio a guardare fuori al parabrezza. “Invece mi mancherà lo stesso”, disse.

Qual è il senso della vita di noi persone normali? Sembrano chiederselo tutti, mentre Crosby si veste dei colori autunnali e qualcuno si trasferisce lì per sfuggire al Covid. Lucy, la scrittrice arrivata da New York, cerca idee per il prossimo romanzo dopo avere raccontato di un'infanzia infelice e di un matrimonio burrascoso. La sua migliore interlocutrice? L'indimenticabile Olive, novantenne due volte vedova, che ora vive in una casa di riposo e ha imparato a smussare un po' il suo caratteraccio. Accanto a loro, Bob: il mio nuovo personaggio preferito. Penalista in pensione, qui fa i conti con il mistero della morte del padre, la vedovanza del fratello maggiore, la scomparsa di un'anziana il cui figlio è il principale indagato. Soprattutto, con la cotta per Lucy: entrambi sessantenni, sposati ma un po' in crisi, condividono lunghe passeggiate sul fiume in una storia d'amore tenera come poche, ma destinata a rimanere platonica.

Quando arrivarono alle macchine, Bob spalancò le braccia e disse: “Ti abbraccio, Lucy”. E lei spalancando le braccia disse: “Anch'io, Bob.” Ma non si abbracciarono.

L'autrice Premio Pulitzer, questa volta alle prese anche con un giallo, intreccia con eleganza e levità vicende su vicende. Reduci dalla pandemia, i suoi protagonisti rifuggono l'isolamento e amano essere ascoltati. Condividono così «storie di solitudine e amore, e dei piccolissimi legami che stringiamo nel mondo», in una lettura in cui il superpotere dell'empatia ti invoglia a conoscerli come le tue stesse tasche. E a rimandare il più a lungo possibile il momento del congedo. Perché Raccontami tutto – con le sue “vite ignorate” alle prese con la malattia, il tradimento, l'abuso, la povertà – rende felicissimi. L'esistenza va avanti. La natura segue il solito ciclo. I cuori, perfino quelli infranti, continuano a battere. È la forza delle vita. Ed è in questa umanità ordinaria, ma assolutamente incantevole e ostinata, che risiede la magia di Elizabeth Strout.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Birdy – People Help the People

martedì 9 settembre 2025

Recensione: L'imperatore della gioia, di Ocean Vuong

| L'imperatore della gioia, di Ocean Vuong. Guanda, € 20, pp. 432 |

È considerato una delle voci più significative della sua generazione. Classe 1988, origini vietnamite, si muove con successo tra prosa e poesia. Tutti scrivono di lui — da Oprah a Bjork. Il suo secondo romanzo, però, è molto diverso da come ce lo raccontano oltreoceano. Presentato come un'avventura alla Mark Twain, potrebbe deludere chi confidava in un'epopea densa e rocambolesca. La trama, essenziale, racconta le gioie e i dolori del giovane Hai: alter-ego dell'autore, ha sviluppato una dipendenza dai farmaci e dalle bugie. Mentre pensa di togliersi la vita, lo salva Grazina: ottant'anni, ha bisogno di un infermiere per fronteggiare la demenza e i flashback di una Lituania sotto assedio, divisa tra Hiltler e Lenin.

Il superpotere dell'essere giovani consiste nel fatto che sei più vicino al non essere nulla – e quando sei molto vecchio è la stessa cosa.

Vuong descrive la loro improbabile convivenza, ma anche la routine tragicomica del ristorante in cui Hai lavora part-time. L'HomeMarket potrebbe essere il set di una sit-com. Popolato da personaggi ai margini — prostitute, reduci, eroinomani —, offre cornbread di una bontà leggendaria e un cast di comprimari adorabili. BJ (la manager wrestler), Maureen (rettiliana convinta) e Sony (cugino Asperger con il pallino per la guerra civile) sono gli ingranaggi di un microcosmo umile e dignitoso che diventa emblema del sogno americano. Troppo lirico e frammentario per i miei gusti, ma ispiratissimo, Vuong ha lo sguardo empatico del cinema di Sean Baker.

Le parole sono incantesimi. In quanto scrittore, dovresti saperlo. È per questo, Labas, che si dice “fare lo spelling”, da spell, incantesimo.

Scrive così una fiaba su un battaglione di diseredati — i personaggi sono tutti immigrati, fragili, abbandonati —, che nell'America di Obama porta avanti le speranze delle generazione precedente. Era il 2009, e tutto sembrava possibile: soprattutto reclamare appartenenza. Benché politico e saldamente ancorato al reale, L'imperatore della gioia ha la grazie necessaria per conferire una dimensione favolistica al dramma dell'emarginazione. East Gladness, Connecticut, è un luogo ai confini della realtà in cui l'inverno è lungo sette mesi, la brina ricopre ogni superficie e il fiume gorgoglia inquinamento. Lì, in una baracca sull'argine, è possibile imparare dal nuovo la gentilezza, la collaborazione, la fiducia nel progresso umano. Il segreto, direbbe Grazina, è abbuffarsi di carote: ci vogliono vitamine — e piccoli eroi di questi — per prevenire la tristezza.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Stonemilker - Bjork

lunedì 1 settembre 2025

Recensione: Il Nix, di Nathan Hill

| Il Nix, di Nathan Hill. Bur, € 17, pp. 768 |

Secondo David Foster Wallace, tutte le storie d'amore sono storie di fantasmi. E quelle di famiglia, invece? Per la seconda estate consecutiva, mi sono regalato la lettura di un romanzo-mondo di Nathan Hill. Anche questa volta, un'epopea varia e giocosa, tentecolare e ambiziosissima, sulla vita vera e immaginaria di due generazioni a confronto. Senza sorprese, l'autore di Wellness fa ancora centro — anzi, lo aveva già fatto un decennio fa: Il nix è il suo esordio. Subito opzionato per una serie TV con Meryl Streep, purtroppo mai andata in porto, parte dall'aggressione all'aspirante presidente degli Stari Uniti. Cosa ha spinto una pensionata con un passato da sessantottina a lanciare sassi contro l'alter-ego di Trump?

Se non hai paura, non è un vero cambiamento.

A tentare di scrivere la biografia della terrorista di cui tutti parlano è Samuel, professore sull'orlo del licenziamento: Faye è la madre che l'ha abbandonato. È possibile perdonare ciò che scoprirà? O è proprio in quella conoscenza che si nasconde un’occasione di trasformazione? È così che il romanzo si apre, si espande, si moltiplica. Con invidiabile intelligenza, Hill ci guida tra linee temporali che si rincorrono, cambi di prospettiva, rimpianti a confronto. C’è l’infanzia di Samuel, segnata dall’incontro ambiguo con l'amico Bishop e dalla presenza di Bethany, la gemella violinista. C’è poi l’adolescenza di Faye, tra l’assassinio di Martin Luther King e un poligono sentimentale bruciato tra poesie di Ginsberg e lacrimogeni. Ma prima ancora c’è lui, nonno Frank: un immigrato norvegese che produce napalm, ma rimpiange una casa color salmone affacciata sui fiordi. È da lui che arriva la leggenda del titolo: il nix è uno spirito mutevole, che si manifesta sotto forma di ciò che desideri di più — ma solo per colpirti dove sei più vulnerabile.

Forse accanto al mondo reale c'era questa fantasia, quest'altra vita in cui aveva ereditato la fattoria color salmone. A volte queste fantasie possono essere più persuasive della vita vera, Faye lo sa. Una cosa non è necessario che accada perché sia vera.

Si viaggia dai videogiochi di ruolo ai libri-game, dai beatnik ai gamer, dal Vietnam all'Iraq. Ogni generazione ha il suo linguaggio, i suoi traumi, le sue rivoluzioni. Ma l'America di Hill, oggi, è un paese in cancrena, dove perfino la politica è un’operazione di marketing e il cinismo appare l’unica via di fuga. Eppure il suo è un debutto che vibra di rivoluzione, attraversato dalla consapevolezza che anche la rabbia, la disillusione, la paura siano scosse. Perché niente cambia senza crisi. E nessuna generazione si salva da sola.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles - Come Together

mercoledì 30 luglio 2025

Recensione: La mia ultima storia per te, di Sofia Assante

| La mia ultima storia per te, di Sofia Assente. Mondadori, € 20, pp. 384 |

Com'eravate quindici anni fa? Io somigliavo proprio ad Andrea, il protagonista del romanzo d'esordio di Sofia Assante. Bassino e poco loquace, avido lettore di narrativa americana sin da allora, mi innamoravo dei personaggi femminili di John Green, ascoltavo in macchina Jason Mraz e Avicii, fantasticavo di opportunità di lavoro internazionali e feste esclusive da teen drama. Ambientato tra il presente e il primo decennio degli anni Duemila, questo romanzo è un tuffo negli anni della mia adolescenza a cui, soprattutto se nostalgici, è difficile non volere bene. Conosciamo davvero chi abbiamo accanto? Cosa si nasconde dietro la famiglia perfetta? Sono le domande che riportano Andrea a Roma, dopo il dottorato a New York. Non è bastato mettere un oceano di distanza tra sé e il passato per scordare Elettra, la migliore amica di cui è sempre stato innamorato, e il resto della famiglia Alfieri. Fasciati in abiti di lino pregiato, colti ma inclusivi, belli come stelle del cinema.

Certi eventi, come certi amori, semplicemente non si possono sradicare. Mi passa per la testa questo pensiero: la vera bellezza, il vero amore, hanno sempre qualcosa di terribile.

A metà tra un antropologo e un cavaliere servente, Andrea li ho osservati a lungo, come Nick Carraway contempla l'opulenza di Gatsby tra le pagine del capolavoro di Fitzgerald. Fino, almeno, alla loro caduta. Abbagliato dal loro fascino, non ha mai intuito la tragedia in agguato. Brillante, a tratti perfino divertentissima, quella di Assante è un'avventura post-adolescenziale dal retrogusto malinconico dove partire è solo una scusa per poter tornare. Nonostante qualche pagina di troppo e comprimari dal potenziale non sempre approfondito (i mitici zia Mimì e Arman meriterebbero uno spin-off tutto loro), ha i sospiri delle commedie romantiche e la struttura di un thriller dei sentimenti, con tanto di colpo di scena conclusivo. Imperfetto e strabordante, ma generosissimo, scoppia di storie e passa in maniera sorprendente da un tono all'altro. A volte sembra perdere di vista l'obiettivo. Ma l'autrice, per fortuna, interviene a sciogliere dubbi e nodi, in un finale ambientato nel futuro che verrà tra cinquant'anni. E ci mostra irriconoscibili, invecchiati. Allora avremo forse dimenticato i ritornelli dell'indimenticabile estate del 2008, trascorsa a bere latte e zenzero sul lago d'Orta. Ma il primo amore della Mia ultima storia per te no, mai.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Avicii - Without You
 

martedì 15 luglio 2025

Recensione: La radice del male, di Adam Rapp

| La radice del male, di Adam Rapp. NN Editore, € 22, pp. 544 |

Anni Cinquanta. Elmira, New York. Una modesta casetta costruita all'ombra di un sicomoro, gli infissi verde pisello e l'eco delle campane della vicina chiesa di San Giovanni. Una famiglia come tante. Numerosi, repubblicani, cattolici, i Larkin —un padre silenzioso, una madre devota, sei figli — cenano con un ritratto di Gesù in cucina. Molti dei protagonisti perderanno comunque la retta via. Come nelle grandi saghe familiari, seguiamo i loro trionfi e le loro sciagure fino ai giorni nostri. Dalla presidenza di Roosevelt al secondo mandato di Obama, passando per la guerra in Vietnam, l'AIDS, l'abolizione della sedia elettrica. Ogni capitolo, a punti di vista alterni, è una finestra aperta sulle loro esistenze. A scandirle sono la musica, il football, la cronaca nera.

Siamo tutti qui per poco più che un battito di ciglia, come i polli e le termiti, e se davvero c'è un Dio, è che che se ne frega di noi.

Myra, la primogenita, è un'infermiera impiegata nel braccio della morte: cresce da sola il figlio Ronan e non perde mai la grazia struggente con cui, a tredici anni, scriveva lettere d'amore al Giovane Holden. Fiona, spregiudicata e sessualmente promiscua, si oppone all'accudimento di Joan — la sorella disabile — per inseguire la carriera di attrice. Alec, la pecora nera con un passato da chierichetto, fugge per tutto il Midwest — mai dall'oscurità annidata in sé stesso — lasciandosi alle spalle cartoline macabre e altre briciole nella speranza di essere trovato. Nel frattempo, succede la vita. Splendida e imprevedibile, a volte beffarda, diventa materia viva nelle mani di Adam Rapp. Subito paragonato a leggende della scrittura, possiede la quiete grandezza della grande narrativa americana. La prosa è senza fronzoli. L'intreccio, epico e semplice al tempo stesso, è un gioco di prestigio dove le figurine di football e le prime edizioni del capolavoro di Salinger vengono trasmesse di madre in figlio. Cosa erediteremo, invece, dai nostri padri?

Siamo tutti condannati a essere quello che siamo.

Se lo domanda proprio Ronan, aspirante drammaturgo a New York, che ha ereditato dagli uomini della famiglia gli occhi infossati e i lupi nella testa. La criminalità è una tara genetica? Il serial killer John Wayne Gacy potremmo essere noi? Come nella Derry di Stephen King, qualcosa di malvagio si annida nel sottosuolo americano. La violenza è dappertutto. Nel ragazzo che flirta con te alla tavola calda. Nell'ubriacone molesto della lavanderia a gettoni. Nel prete che paga il tuo silenzio a furia di regali costosi. Nella luce del garage, che ti ordina di sterminate i tuoi cari con un martello. In mezzo a tutto questo male, tuttavia, è impossibile non volere a queste tre generazioni di Larkin tutto il bene del mondo. Anche se, a guardare bene, negli occhi infossati dei figli si intravede ancora il riflesso di quel martello. Sempre lì, sotto il lavandino della cucina. In attesa.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Simon & Garfunkel – The Sound of Silence

giovedì 10 luglio 2025

Recensione: Donnaregina, di Teresa Ciabatti

|Donnaregina, di Teresa Ciabatti. Mondadori, € 19, pp. 228 |

Chi è Giuseppe Misso, detto 'O Nasone? Ex camorrista, ha quasi ottant'anni e vive in una località segreta, lontano dalla sua amata Napoli. Carismatico, colto, bugiardo, descrive al “Corriere della Sera” un'esistenza dai toni picareschi, fatta di lussi sfacciati (gli orologi costosi e le Jaguar), hobby peculiari (l'allevamento di colombi) e relazioni improbabili (la presunta parentela con Leonardo DiCaprio; l'antagonismo con Lovigino, amico divenuto rivale; gli amori per Antonietta, Adele, Teresa, da cui sono nati due figli). Ormai invecchiato, si racconta all'alter-ego di Teresa Ciabatti.

Uno non ci pensa mai che i cattivi hanno una normalità, e a forza di pensarli lontani, a forza di relegarli in una dimensione remota, oltre a semplificare, proteggiamo noi stessi, credo.

Cos'hanno in comune un superboss e una scrittrice al centro di una dolorosa crisi familiare e creativa? La narratrice ne sa poco di cronaca, e soprattutto non è napoletana. Più interessata a raccontare l'uomo che il mostro, più concentrata sul privato che sui delitti, instaura con Misso un dialogo tenero e peculiare — è presente perfino all'ultimo matrimonio di lui, intrappolata in un discutibile tailleur arancione. Intanto, però, è costretta a fare i conti con le resistenze dell'editore, con un gemello litigioso e una migliore amica morente, ma soprattutto con Camilla: la figlia tredicenne, nella quale scorge il riverbero delle sofferenza di Bruna, la primogenita transgender di Misso.

Chiunque è un'invenzione di qualcun altro.

Come mai ho letto Donnaregina, lettura a metà tra l'inchiesta e l'autofiction, io che solitamente prediligo la narrativa? Merito della voce di Ciabatti. Empatica ed egocentrica, sprezzante e fragilissima — un'autrice, insomma, che c'entra tutto e niente con le doglianze del camorrista che si credeva Robin Hood. Benché sia lei stessa intrusa nel rione Sanità, mi ha condotto tra i vicoli e le contraddizioni di una storia che esce spesso fuori traccia e proprio per questo risulta irresistibile. Tra lunghi audio su WhatsApp e appuntamenti alla Rinascente, Misso tenta di soggiogare la protagonista per veicolarne le opinioni. Ma, in un lungo braccio di ferro, è lei a imporre la sua personale versione dei fatti — umana e incoerente, surreale a tratti, ma assolutamente vincente. È più temibile fronteggiare un criminale, d'altronde, o convivere con una figlia iscritta in seconda media? Il mistero dell'adolescenza: più impenetrabile della camorra.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Nada – Amore Disperato

martedì 1 luglio 2025

Recensione: L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, di Goliarda Sapienza

|Autobiografia delle contraddizioni, di Goliarda Sapienza. Einaudi, € 20 |

È stata allevata in casa per sfuggire alla propaganda fascista. Staffetta partigiana, attrice, scrittrice, aspirante suicida, icona femminista, Goliarda Sapienza ha vissuto mille vite e flirtato spesso con la morte. A cent'anni dalla sua nascita, il mondo la sta riscoprendo tra letteratura e cinema. Dopo l'amore sconfinato per L'arte della gioia, ho recuperato L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio — entrambi hanno ispirato il film di Mario Martone presentato a Cannes.

Chi non sa che la bellezza è anche protezione dai mali della vita e dagli incubi della notte?

Due racconti autobiografici, brevi e armoniosi, guidati dallo sguardo acuto di Goliarda. In carcere per furto, descrive il suo soggiorno dietro le sbarre. Il silenzio innaturale dell'isolamento iniziale, il latte col brumoro, ma soprattutto la ritualità e i colori di un microcosmo femminile che sembra uscito da un salottino del sud. Le carcerate fumano, giocano a carte, parlano di amori e di delitti. Sciantose come uccelli esotici, si fondono in una voce sola. Disparate — disperate mai —, accolgono volentieri questa sofisticata cinquantenne che indossa camicie di seta e ringrazia per tutto. Il corso accelerato di vita di Goliarda, senza distinzioni di età né di censo, dura poco. Tornata presto in libertà, lotta contro il caldo romano e la nostalgia del “dentro”, dove le convenzioni sociali non contano e tutto è istinto. Tutto è natura. Può l'esperienza del carcere rivelarsi liberatoria? A partire da questa contraddizione, Goliarda — fuori posto nei salotti letterari italiani — rievoca con calore commovente l'intimità con le compagne di cella, la fame delle loro storie, gli andirivieni con Roberta: una detenuta politica sensuale e ipercinetica, molto simile all'indimenticabile modesta.

Perché scrivi, Goliarda?” “Per allungare di qualche attimo la vita delle persone che amo.” “E con loro anche la tua, eh, volpona?” “Certo. Chi odia a tal punto la vita da non desiderare di vederla allungata almeno per un po'?”

Benché attento al materiale di partenza, Martone ha costruito un biopic troppo lirico e frammentario, in cui la bravissima Golino interpreta una versione ben più arrendevole e naïf dell'autrice. Goliarda, invece, era ironica, indocile, a proprio agio sia con l'italiano aulico che col romanesco. Subito dopo l'arresto, dichiara la fantasia sua nemica: in cella, meglio non avere troppi grilli per la testa. Per fortuna, era bugiarda come nessuno. Innamorata della vita, innamorata degli altri, fantastica per tutto il tempo e immortala tra queste pagine un apprendistato lungo un verdetto. Ha rubato una collana. O, semplicemente, la sua parte di gioia?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Città vuota

venerdì 13 giugno 2025

Recensione: Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo

| Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo. Mercurio, € 19, pp. 264 |

In X, primo capitolo della trilogia cinematografica di Ti West, c'è una sequenza in cui la terrificante Pearl — ormai anziana, ma non per questo meno sanguinaria — si intrufola nel letto della pornodiva Maxine. È attratta dal suo calore, dalle sue carni sode ed elastiche, dalla sua giovinezza. Gli spettri del romanzo d'esordio di Matteo Cardillo provano la stessa fame struggente verso la vita che hanno lasciato. È per questo che si concentrano a Bologna, la città universitaria per antonomasia, al piano terra di un palazzone in stile Liberty aperto agli studenti. Mentre un'estate implacabile svuota le strade della città e i mandarini imputridiscono sui rami, nell'appartamento di Viale XII giugno si snodano le esistenze e le relazioni degli inquilini. Storie di sesso e tradimenti, di crisi personali e lavorative, che ben presto rianimano dal sonno eterno gli antichi abitatori. Il risveglio sensoriale di Amarsi in una casa intestata, a confine tra il romanzo di formazione e la ghost story, tra il desiderio e l'orrore, contagia anche i morti.

Ci saremmo di nuovo baciati con affetto come facevamo un tempo, sulle spalle, sulle clavicole, dicendoci ti amo, rispondendoci ti amo anch'io, perché in quello spazio fuori dal tempo, quel luogo della notte, nel tempo dei morti, tutto vale e tutto esiste ancora e non esiste più, e così anche i noi due di una volta.

Aggrappato a quel che resta dei vent'anni e a una relazione ormai al capolinea, il protagonista — per tutto il tempo senza nome — diventa un diapason per gli spiriti intrappolati dietro le pareti e, soprattutto, la voce di una generazione in cerca di risposte: la mia. Alle pareti ci sono poster di Argento. Le sorelle Morelli, le enigmatiche proprietarie di casa, somigliano alle dame velate dei film di Plaza e Balagueró. La campagna emiliana della medium Beniamina è la stessa del capolavoro di Avati. Con una scrittura personale e magmatica, Cardillo attinge a piene mani al cinema di genere, di cui è dichiaratamente fan, ma non dimentica che il linguaggio dell'horror ben si presta alla metafora. Tra le pagine, così, l'autore pugliese ospita un dolente giro di vite dove presente, passato e futuro si confondono e gli amanti abbandonati, insieme ai traumi rimossi, scivolano inesorabilmente nell'intercapedine dei nostri ricordi. Esiste forse tragedia peggiore della bellezza sciupata? I fantasmi ci spiano dalle porte a vetri, scavano nella carta da parati, picchiano contro i muri. Un po' ci tormentano e un po' ci consolano — vittime come siamo del precariato, della schiavitù delle app d'incontri, degli strascichi fisici e psicologici del Covid-19. Sarà proprio il loro fiato gelido a ricordarci che siamo caldi. E vivissimi. Tanto vale, allora, lasciare che i lamenti si confondano coi gemiti di piacere. E dormire insieme, popolando il buio di carezze, per scoprirsi meno estranei e spaventati di quanto non fossimo la notte prima.

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matia Bazar – Elettochoc

martedì 27 maggio 2025

Recensione: Le sorelle Blue, di Coco Mellors

| Le sorelle Blue, di Coco Mellors. Einaudi, € 20, pp. 432 |

Con alcune storie, forse, tocca soltanto litigare per entrarci in sintonia. Mi è successo con il nuovo romanzo di Coco Mellors. Da me attesissimo, si è lasciato leggere per buona parte in perfetto silenzio: non riuscivo ad ammettere nemmeno a me stesso, infatti, quanto mi stesse deludendo. Colpa di dinamiche familiari non sempre credibili — i genitori, all'indomani di un lutto terribile, sono completamente assenti —, di dialoghi talmente verbosi da rubare la scena al cordoglio, di un gruppo di protagoniste descritte tutte con i superlativi assoluti delle donne toste, forti, indipendenti. Per fortuna, ci ho fatto la pace nella seconda metà. Cresciute nel Upper West Side, Le sorelle Blue sembrano le figlie di Cleopatra e Frankenstein.

Ti voglio bene anch'io. Senza “anche”.

Nate da una coppia di genitori inseparabili e disfunzionali, ne hanno ereditato le dipendenze. Fuggite da un capo all'altro del mondo per scappare al dolore e ai rimorsi, si ritrovano nella casa in cui sono state bambine per l'anniversario della morte di Nicky. Da quando una overdose di antidolorifici l'ha portata via, le superstiti si sono trovate a fare i conti con una nuova formazione. Come funziona un terzetto? Avery, la primogenita, si è costruita una vita perfetta in un sobborgo inglese alla giusta distanza dal suo passato di eroinomane: da sempre punto di riferimento per le sorelle, si scopre pietrificata all'evenienza di diventare madre, rischiando di ricascare nelle antiche abitudini. Bonnie, la meno memorabile, è un'ex campionessa di boxe: l'attrazione segreta verso il suo allenatore l'ha spinta a trasferirsi in California, dove lavora come buttafuori. Lucky, la più piccola, è una modella a Parigi nella settimana della moda: dedita alle notti in bianco e agli eccessi, è cresciuta troppo in fretta in un mondo dove gli uomini sono predatori e alle donne è richiesta la massima frivolezza. Rotta per sempre l'armonia di un'infanzia di letti a castello e Spice Girls, possono riuscire a innamorarsi nuovamente della vita?

Si erano scritte pagine e pagine sull'amore romantico, sul legame profondo che unisce gli amanti. Ma anche quest'altro tipo di amore meritava estasi, meritava canzoni. Prima ancora di conoscere il corpo di un amante, lei conosceva già quello delle sorelle: si era specchiata nei loro piedi lunghi, negli occhi chiari, nelle membra eleganti e nelle orecchie arrotondate.

Di gran lunga più convenzionale del romanzo d'esordio, per me malinconico ed effervescente come alcune commedie newyorkesi di Woody Allen, l'opera seconda di Mellors è una parabola esistenziale imperfetta ma vivissima, che la speranza incrollabile e le simmetrie sottili trasformano in una versione contemporanea di Piccole donne. Peccato che protagoniste pretendano tutte indistintamente di essere Jo March. Alleate contro il mondo, ma per il resto acerrime rivali, serbano i peggiori segreti per loro stesse pur di proteggersi. Il rischio: isolarsi. Toccherà salvare un frigorifero rosa dalla nettezza urbana, convertire una lite in piena regola in una toccante occasione di confronto, per rivalutarsi. E rivalutarle. È una storia che parla di rapporti di sangue, d'altronde. Era necessario prima azzuffarsi un po' per diventare parte della famiglia.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Billie Eilish - Birds of a Feather

lunedì 12 maggio 2025

Recensione: Scelgo tutto, di Valerio Mieli

| Scelgo tutto, di Valerio Mieli. La Nave di Teseo, € 22, pp. 432 |

La vita, spesso, ci pone davanti a un bivio. Ecco biforcarsi due strade destinate a non incrociarsi mai. Come sarebbe percorrerle contemporaneamente anziché scegliere? Può sperimentarlo Cosimo — diciannove anni, da sempre fidanzato con Sabina —, che cova il sogno di una vita sbadabam. Accontentarsi? Una parolaccia. Davanti a sé ha due opzioni: restare nella periferia romana, oppure spiccare il volo. Il regista di Dieci inverni e Ricordi?, questa volta in veste di scrittore, ci mostra in un montaggio alternato le vite potenziali del suo protagonista. Perfino l'impaginazione si adegua, per rendere ancora più cinematografico questo novello Sliding Doors. In una vita, così, Cosimo si ritrova padre di due gemelli e impiegato comunale, con un rudere nei boschi da ristrutturare. Nell'altra, parte per Parigi con lo zaino in spalla e frequenta i cenacoli culturali più elitari. Ci sono, ovviamente, delle costanti: è destino, infatti, che una tragedia metta tutto in forse; che la natura preservi un rifugio segreto in cui nascondersi a leccarsi le ferite; che, in un caso come nell'altro, faccia capolino una nuova donna. A metà tra Mary Poppins e Amèlie, Giacoma diventa un personaggio fisso nella seconda parte del romanzo: avventurosa e un po' mistica, figura ora come babysitter e ora come barista, diventando l'alter-ego di Cosimo. Ma mentre lui osa soltanto immaginare vite diverse, lei ne crea in prima persona, collezionando così esperienze e viavai.

Sai una cosa: invece la realtà non è tanto male. Dagliela, una possibilità.

Da Valerio Mieli mi aspettavo qualcosa di simile e di opposto. Nella lettura ho trovato il passo sognante e frammentario del suo cinema — in particolare del secondo film, che mostrava la stessa storia d'amore dalle prospettive di Luca Marinelli e Linda Caridi —, ma anche un gusto per l'accumulo di dettagli e storie, aneddoti e immagini, che hanno reso la lettura troppo prolissa. Felice o infelici, affollate o ascetiche, le vite di Cosimo hanno le gioie e i dolori delle nostre, ma anche piccoli momenti miracolosi che potrebbe ricordare Sandro Veronesi. Irrequieto come Il colibrì, il protagonista si affanna inseguendo l'eccezionalità. Ingegnere con la vocazione dell'architetto, vorrebbe fare della sua esistenza un capolavoro. Ma è impossibile opporsi al caso, al caos, e all'amara consapevolezza che il nostro destino influenzerà anche quello altrui. Esiste davvero il libero arbitrio? Siamo protagonisti del nostro film, o spettatori inconsapevoli? Davanti al famoso bivio, dunque, Mieli posizione una macchina da presa. E la punta sul mondo. Il tempo scorre in presa diretta, incerto e dolcissimo, ma senza un vero plot né un regista a salvare gli attori dall'empasse. Cercavo il cinema, ho trovato la vita.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Olly – Balorda Nostalgia

martedì 6 maggio 2025

Recensione: Il giorno dell'ape, di Paul Murray

| Il giorno dell'ape, di Paul Murray. Einaudi, € 22, pp. 664 |

A casa Barnes non c'è nessuna foto incorniciata a ricordare il matrimonio tra Imelda e Dickie. La colpa è di un'ape che la mattina delle nozze si intrufolò sotto il velo, pizzicando il viso alla sposa. Come può nascere una famiglia felice sotto simili auspici? Siamo in Irlanda. La crisi economica ha intaccato la fortuna dei protagonisti, condannandoli al declassamento, ma non la magia del folklore locale. C'è chi legge i fondi di caffè, chi vede cani neri all'alba delle dipartite più tragiche, chi pensa che alle cerimonie i fantasmi si mescolino agli invitati. Mai trascurare i segni. È l'assunto di partenza del romanzo più chiacchierato dell'anno — per qualcuno, già il migliore. Sempre scorrevole e appassionante, nonostante la mole minacciose, è per me più debitore alla HBO che alle saghe di Jonathan Franzen.

I tempi cambiano, dice Victor. E poi tornano com'erano prima.

Strutturato come una serie TV dal complesso montaggio alternato — immancabili, a tratti forzatamente, le tematiche dettate dall'algoritmo: privilegio bianco, omosessualità, ambientalismo —, Il giorno dell'ape restituisce i punti di vista dei diversi membri della famiglia, senza renderceli amabili a tutti i costi. Ci sono Cassie, la figlia adolescente, ossessionata dai confronti con la migliore amica bella e facoltosa; PJ, il timido secondogenito vittima della disattenzione degli adulti. Poi Imelda, l'indimenticabile madre, che in un flusso di coscienza si racconta come una novella Miss Havisham: sopravvissuta a un'infanzia miserabile, si è resa protagonista di una sudata scalata sociale con il solo passaporto della bellezza. Peccato che alla morte di Frank, il promesso sposo stella del calcio gaelico, sia finita insieme al fratello del defunto. Quanto ci si può sentire soli in un matrimonio? È la domanda che si pone infine anche Dickie — il padre dei suoi figli, il rimpiazzo —, che vende automobili ma preferisce andare in bicicletta e nasconde un ammanco nei conti, un segreto negli anni universitari, un bunker nel bosco.

Immagino che chiunque lo vorrebbe. Essere come gli altri. Ma nessuno è come gli altri. È questa la cosa che abbiamo in comune. Siamo tutti diversi, ma pensiamo tutti che gli altri siano uguali, disse. Se ce lo insegnassero a scuola, il mondo sarebbe un posto più felice, credo.

I capitoli sono personalizzati, lunghi, quasi indipendenti, se non fosse per sottili simmetrie interne rintracciabili soprattutto col senno di poi. Fino a un passo dell'epilogo, i Barnes sono irraggiungibili gli uni agli altri: barricati nelle loro rispettive solitudini. A stringerli insieme sarà un finale fortemente sospeso, angoscioso e polifonico, dove misteriose forze centripete sembreranno volerli nello stesso posto, nella stessa notte di lampi. Se ne scriverà in lungo e in largo: benissimo e malissimo, come capita soltanto ai bestseller. Io stesso, nel corso della lettura, ho rimproverato il manierismo della scrittura e gli ammiccamenti di troppo, tra dialoghi senza virgolette e tematiche calde non sempre approfondite a dovere. Sono sottigliezze, però, nell'ottica di un romanzo che, per il resto, è un invidiabile congegno a orologeria retto interamente dalla bravura di Paul Murray. Con stile acido e brillante, anche capace delle concitazione del thriller, lo scrittore irlandese firma una tragicommedia sull'impossibilità di tornare alla normalità quando la carrozza della fiaba torna a trasformarsi in zucca. Alluvioni, siccità, animali in via d'estinzione: il mondo è alla deriva, e le nostre famiglie ne sono lo specchio esatto. Lo scoiattolo rosso non si trova; la serenità familiare altrettanto. Entrambi appartengono, forse, a un mondo che non esiste più. È possibile però costruire un rifugio contro disastro, chiamarlo “casa”, quando il disastro siamo noi?

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: The National – Sleep Well Beast 

mercoledì 30 aprile 2025

Recensione: Il weekend, di Peter Cameron


| Il weekend, di Peter Cameron. Adelphi, € 18, pp. 177 |

Fine luglio, anni Novanta. Se bianchi, ricchi e privilegiati a New York, può apparire legittima la tentazione di ritirarsi dal mondo per un po'. Magari di trasferirsi in campagna? Lyle, un attempato critico d'arte, prende il treno per raggiungere John e Marian: legati da un'amicizia decennale, hanno in comune anche un lutto da elaborare. Tony, compagno del protagonista e fratellastro di John, è infatti morto di Aids l'anno prima. Un fine settimana di ricordi condivisi all'ombra dei gelsi e di nuotate al fiume è stravolto, però, da due ospiti dell'ultimo momento. Il primo, Robert, è l'ultima frequentazione di Lyle: meno inconsolabile del previsto, infatti, il vedovo si accompagna con un bel pittore con la metà dei suoi anni. La seconda, Laura Ponti, è un'italiana in vacanza: ai ferri corti con la figlia attrice, accetta volentieri l'invito a cena dei vicini di casa. Siamo nel più classico dei romanzi di Peter Cameron. E, con il senno di poi, nel più sottovalutato.

Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella copia carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi, ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore, ma non lo consuma: quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai.

Sono tutti cinici, colti, snob. Parlano troppo, e a sproposito, alimentando aperte ostilità a dispetto del perbenismo diffuso. Per tutto il tempo serpeggia un disagio strisciante. Per fortuna, Cameron si riconferma l'artefice dei dialoghi più belli del mondo. Le lunghe contestazioni dell'esistenza dell'anima gemella, le frecciate al vetriolo contro la vacuità della narrativa contemporanea e le massime vibranti di spocchia — gli immobili sarebbero preferibili agli innamorati — suoneranno acide e assolutamente deliziose alle orecchie di coloro che hanno amato le vite segrete di Perfetti sconosciuti. All'apparenza meno caustico del film del nostro Paolo Genovese, Il weekend è una commedia umana densa di tensioni latenti, dove la vicinanza forzata cambierà per sempre dinamiche e relazioni. Possono due soli giorni essere percepiti come un secolo? Mentre la padrona di casa cerca di scongiurare i silenzi imbarazzanti con considerazioni a sproposito, mentre gli uomini si rifugiano in nuovi hobby per superare il lutto, gli ospiti faranno notare il disgustoso perbenismo dei protagonisti e, forse, troveranno una soluzione ai loro errori di percorso. Secondo Cameron, la vita è una vacanza. Ma chi, nel bel mezzo della villeggiatura, esaurito il divertimento di iniziale, non ha mai sperato di poter tornare immediatamente a casa?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sufjan Stevens – Forth of July

martedì 8 aprile 2025

Recensione: Ava Anna Ada, di Ali Millar

| Ava Anna Ada, di Ali Millar. Sur, € 19, pp. 310 |

Cosa succederebbe se Yorgos Lanthimos dirigesse Saltburn, ma in chiave saffica e apocalittica? Lei, Anna, è una influencer con una ricca rete di follower e un lussuoso faro ristrutturato per casa. L'altra, Ava, è una prostituta adolescente, all'occorrenza anche babysitter. Si incontrano in circostanze scioccanti: Anna sta prendendo a calci il cadavere del suo cane, morto di overdose. Ava la raggiunge, nel suo impermeabile giallo, e il riconoscimento è immediato: quella ragazzina è la copia sputata di Ada, la figlia della protagonista. Ma mentre Ada si è lasciata morire di anoressia, Ava ha fame di tutto. Ha inizio un ménage fatto di collezioni macabre e sadomasochismo, di morsi sul seno e spine sotto pelle, mentre la natura minaccia di prendere il sopravvento: quell'estate elettrica preannuncia realmente tsunami?

Il tempo è una cosa da caderci dentro e attraversarlo, se uno sa come si fa.

Tre personaggi femminili sui generis, tre nomi palindromi, tre maschere che si divertono ad alternarsi e confonderci in un gioco delle parti senza inibizioni né regole. Si può far rivivere chi non c'è più? Nell'esordio di Ali Millar — imperdibile per i fan della letteratura weird di Schweblin, Awad, Rouopenian — tutti, perfino il fratellino minore che fantastica di avere una cerniera per cambiare pelle, vorrebbero essere la compianta Ada. Sullo sfondo della Punta, un non-luogo sospeso tra Inghilterra e Scozia, il romanzo è inscenato in una società distopica in cui le persone sono schedate sulla base del loro Valore: l'apparenza, allora come oggi, conta più di tutto.

La prima volta che io e Leo siamo usciti dopo la nascita di Adam, mi sono resto conto che me ne stavo seduta in mezzo a un pub dondolandolo leggermente, abituata com'ero a cullarlo per farlo addormentare. Una serie di minuscole follie: è questo che significa amare con quell'intensità. Che significava.

Popoloso di donne splendide e crudeli, nonché intriso di un umorismo nerissimo, Ava Anna Ada è una psichedelia sull'elaborazione del lutto, i lati oscuri della maternità e i misteri del piacere, a cui l'autrice scozzese conferisce l'andamento liquido delle onde e una sensorialità sorprendente. Morboso, oscuro, caleidoscopico, mostra la stessa scena da prospettive diverse e fa un uso brillante della prima persona plurale. Il Noi, così, è sintomatico del legame inscindibile tra le protagoniste — dove finisce l'una, dove inizia l'altra? Ma anche il punto di vista degli Dei, a volte annoiati, altre crudeli, davanti allo spettacolo catastrofico della nostra scompostezza. Quest'anno, scommetto, non leggerete niente di simile.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Abracadabra