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venerdì 7 giugno 2019

Mr. Ciak in musica: Rocketman | Aladdin

Quanto devono essere state belle quelle vite che approdando al cinema si fanno musical? La riflessione valeva tanto per i circensi di The Greatest Showman – spettacolo spettacolare per tutta la famiglia – quanto per Sir Elton John, idolo generazionale con un cinquantennio di carriera alle spalle. Non è tutto oro quel che luccica. Spesso, dietro la musica leggera, si nascondono i fardelli. In Rocketman lo dimostra bene un incipit che è tutto un programma: insaccato in una tutina rosso fuoco, il protagonista marcia come un drago nel corridoio di una clinica. Elton, a un bivio, sceglie di disintossicarsi. Scenografico anche nel momento del bisogno, lava i panni sporchi in una seduta psicoanalitica che nella sequenza successiva si è trasformata già in fiaba. E c’è più personalità in poche immagini che in due ore di Bohemian Rhapsody. Benché non eguaglierà al botteghino l’agiografia di Mercury, il biopic di Fletcher – sostituto di Singer nelle ultime fasi del film sui Queen – è superiore per resa e impegno. La storia del grassoccio Reginald, brutto anatroccolo che raggiunge la vetta ma perde sé stesso, non ci risparmia l’alcol, le pasticche, un rimpinzarsi di sesso e cibo che portarono alla bulimia. Conta numeri ispiratissimi – il piano sequenza con Saturday Night’s Alright, le struggenti Your song o Sorry seems to be the hardest word,  il tentato suicidio sulle note della canzone eponima –, qualche caratterista bidimensionale – Bryce Dallas Howard e Richard Madden, troppo antipatici per essere veri: tenerezza infinita, al contrario, per l’amico fraterno Jamie Bell – e un’ampia gamma di emozioni, in un evento all’altezza di una carriera di cui in verità poco sapevo. Come il regista di Dolor y Gloria, il cantante inglese si nutre d’affanni e d’applausi. Si perde nel passato, sperando di venirne a capo. A metà tra una seduta degli alcolisti anonimi e una baraonda colorata, Fletcher attinge direttamente al vangelo secondo John: c’è un po’ di autocelebrazione, vero, ma per fortuna compensano tanta brutale onestà e il contrappunto vincente dell’umorismo britannico. Non cronaca scolastica, ma commedia musicale in tutto è per tutto, ha una scrittura semplice e parabolica, ma risulta comunque innovativo. Sono le canzoni dello stesso artista, come fu per i Beatles in Across the universe, a raccontarne gli alti e i bassi e non si respira l’aria viziata, insincera, delle commemorazioni postume. Vivissimo, onnipresente e fiero, il vero Elton può godersi in vita un tributo trascinante che emozionerà fan e non. Dietro gli occhiali da sole, sotto le piume di struzzo, battono il cuore e il talento puri di un Egerton da Oscar. Tragico e festoso, di un’allegria ora malinconica e ora isterica, l’attore indovina il ruolo della vita e non lo spreca. Canta, balla, recita senza diventare mai macchietta. Piccolo, anagraficamente e di statura, è un razzo sul punto di esplodere. Fa fumo, rumore, e la gioia di chi ama la bella musica e soprattutto il cinema solido. Il suo film, che gli è affine, è un razzo. Non puoi che smarriti nella sua scia, e fra gli applausi. (7,5)

Le premesse sono le stesse del recente Dumbo. Ci si aspettava poco. Dall’ennesimo live action stimato non necessario. Dal nuovo film di Guy Ritchie, regista mai apprezzato particolarmente. Ma mi hanno portato in sala il giusto stato d’animo e il biglietto ridotto, insieme a un’adorazione viscerale per il capolavoro di ventisette anni fa. Avrebbe potuto essere uno sfacelo: gli appassionati di lunga data, si sa, sono una brutta bestia. Ma dopo un prologo goffo, a sorpresa, Aladdin ingrana e appassiona. Un diesel che, contro tutti i pronostici, aspettava proprio l’ingresso del Genio Will Smith per superare l’empasse iniziale: criticato a priori sui social, l’attore afroamericano strappa risate a scena aperta grazie ai pezzi scoppiettanti (su tutti, Un amico come me) e alle mosse riciclate dal successo di Hitch, con cui conquistare l’altrettanto buffa ancella di Jasmine o trasformare il protagonista in principe durante una colorata parata trionfale. La seconda metà, con un intermezzo a palazzo tutto nuovo – il culmine, un’esilarante scena di breakdance – e un epilogo che, per quanto fedele, mi sono goduto più del previsto avendone scarsi ricordi, riesce a far digerire la scelta di uno Jafar lontano dal cattivo viscido e sornione della versione originale e quel briciolo di delusione per Il mondo è tuo, duetto compromesso da una fotografia sin troppo cupa. Ritchie, contenuto il giusto, può concedersi rallenty e volteggi in libertà  grazie al fisico atletico dell’azzeccato Mena Massoud e a una trama già di per sé molto frenetica. Poco deve inventare: per essere un cartone, l’originale era pieno zeppo di intrighi. Lì, al solito, si annidano i difetti e i pregi di operazioni simili a questa. Copie stinte che nulla aggiungono ai capostipiti e, se tutto fila liscio, come in questo caso, nel bene nulla tolgono. L’avventura di Aladdin resta magica anche con attori in carne e ossa, sebbene meno incisiva, e al contrario di ciò che succedeva nel pessimo La bella e la bestia poco si ha da dire contro il decoroso adattamento italiano, il casting perfetto dei protagonisti principali e l’inserimento di un’immancabile dimensione femminista che, complice la potenza della splendida Naomi Scott, non risulta mai stucchevole – certo, quanti luoghi comuni nel testo di Speechless, novella Let it go con acuti da pelle d’oca. Il confronto è inevitabile. E, inevitabilmente, questo nuovo adattamento lo perderebbe. Ma approcciato con basse aspettative, per via dell’aria kitsch e posticcia dei trailer, la riscrittura in salsa Bollywood del classico Disney mi ha sinceramente divertito e, su un tappeto volante, ha fatto volare via due ore di visione e i pregiudizi che portavano con sé. (7)

mercoledì 8 maggio 2019

Mr. Ciak: Dumbo, Benvenuti a Marwen, Instant Family, Unicorn Store

Ci si aspettava poco. Dalla riproposizione di un cartone niente affatto apprezzato da bambino. Dall'ennesimo live action di cui in fondo non si sentiva il bisogno, con Aladdin e Il re leone già attesi al varco nei prossimi mesi. Dal ritorno al cinema di Tim Burton, mio regista del cuore, che purtroppo non indovina il film giusto dai tempi del sentito Frankenweenie. Si è andati in sala senza grandi pretese, con il biglietto pagato tre euro in promozione e un pubblico misto di pargoli e nostalgici. La sorpresa, se di sorpresa si può parlare, è che Dumbo risulti efficace nel suo niente di indispensabile. La fiaba animalista, debitamente aggiornata alla luce di una morale necessaria, più che a un adattamento somiglia a un seguito non dichiarato. Cos'è stato dell'elefante bullizzato per le orecchie a sventola, dopo le sue magiche lezioni di volo? La prima parte, a metà fra omaggio e ammodernamento, è il cartone originale: qualcosa resta, come la toccante Bimbo mio o la famosa sequenza degli elefanti rosa; qualcosa si perde, come il topolino per aiutante qui rimpiazzato dal reduce Farrell e dalla terribile bambina protagonista, scelta più per mamma Thandie Newton che per un'espressività che lascia molto a desiderare. Nella seconda, da emarginato a stella, il protagonista attira le attenzioni di Keaton, cattivo bidimensionale con al seguito l'incantevole e ribelle Eva Green: la scalcagnata compagnia di De Vito, già circense nell'insuperato Big Fish, viene inglobata da una multinazionale da sogno. O da incubo? La bestialità degli uomini e l'umanità degli animali emergerann, come da copione, in una chiusa che è la parte debole: un trionfo di fuochi e fiamme, d'ingombrante CGI, che perdeo amaramente il confronto con la riuscita animazione dell'elefantino. Perché il nuovo Dumbo è sempre lo stesso: imbranato e tenerissimo, cerca la mamma tenuta in cattività e minaccia di commuoverci spesso da dietro i suoi grandi occhi azzurri. Perché Burton, nel bene e nel male, è Burton: scolastico ma in discreta forma, nonostante il lavoro alla buona degli sceneggiatori, ripropone con trasporto la classica parabola dell'emarginato: la poetica del freak, che perde d'originalità in casa Disney, ma lascia spunti di riflessione ai giovanissimi. È il compito di un film per famiglie tanto godibile quanto convenzionale, che condanna la barbarie fuori moda del circo, omaggia la tecnologia e la creatività degli artisti tutti e, nel suo piccolo, sa farti volare a mezz'aria grazie alle orecchie di un'attrazione principali davanti cui è impossibile non sospirare, inteneriti. (6) 

Marwen è un villaggio fittizio in Belgio, assiepato dai nazisti e difeso da un esercito di donne armate fino ai denti. Marwen, ancora, è un mondo in miniatura che si rivela essere ben presto lo specchio consolatorio della realtà: l'elaborazione di un uomo sofferente, con la testa spaccata da una gang di teppisti, mentre si perde appresso agli amori platonici e a missioni di salvataggio degne di una spy story. Disegnatore e miniaturista, divorziato, Mark Hogan nutre una venerazione per il gentil sesso e il pallino per le scarpe con il tacco. Un'ossessione mai chiarita, che suo malgrado l'ha reso protagonista di un tragico attacco omofobico. Traumatizzato, adesso vive attraverso i suoi giocattoli. Lì è un soldato valente e fascinoso, che porta con orgoglio le cicatrici di guerra. Lì la sua vicina di casa, una deliziosa Leslie Mann, accetterebbe di sposarlo su due piedi. Apologo per grandi e piccini, a sorpresa flop al botteghino, Benvenuti a Marwen ha la regia di un Zemeckis in forma smagliante benché sottovalutato, effetti visivi ineccepibili – con loro, scenografie e costumi –, un attore protagonista che fa la differenza. Steve Carrell, senza scimmiottare il ben più famoso Forrest Gump, è come Carrey: un attore comico che, cosa ormai assodata, fa faville nei drammi, grazie a un sorriso svagato che riesce ad essere tenero e struggente insieme. Peccato che la sceneggiatura fatichi a decollare. Se l'idea di girare un biopic a confine fra animazione e live action appare brillante, sfortunatamente non segue a ruota una scrittura senza guizzi che lascia fare tutto al comparto tecnico; all'espressività del mattatore Carrell, colto nel divenire di un viaggio che racconta i meccanismi di difesa, la dipendenza da antidolorifici, il velo di Maya dei filosofi moderni. Quello che ottunde i sensi, ammortizza e c'inganna. Insieme a Mark, un superstite, dovremmo perciò imparare a discernere: la vita, infatti, non è una casa di bambole. (6,5)

Chiunque abbia avuto la sfortuna di sedere in un'aula di tribunale ricorderà le sedie sbrindellate, le attese estenuanti, le domande degli avvocati che scavano come vanghe. La sensazione di disagio, la ferrea volontà di non rimetterci mai più piede. Ma una sera, per caso, ho scoperto che i tribunali non servono soltanto alla caccia alle streghe; alle famiglie che finiscono. Realizzarlo, durante la visione dell'inatteso Instant Family, mi ha commosso in poltrona. Questa è la storia di una coppia senza figli, liberamente ispirata alle vicissitudini dello stesso regista, che si sobbarca un'impresa difficile il triplo: adottare, sì, ma un'orfana ormai adolescente. E i suoi due fratelli minori. Con la loro età malsicura, con i loro traumi, con la voglia di riabbracciare ancora la mamma spacciatrice. Sulle orme di Una scatenata dozzina e This is us, a metà fra l'intrattenimento godereccio e i mèlo dai buoni sentimenti, Sean Anders indovina gli equilibri vincenti di una commedia affatto originale, ma a modo suo sorprendente. Un film vecchio stile che è proprio quello che appare, ma anche l'esatto contrario. Ben scritto, recitato con contagiosa armonia – accanto a Wahlberg e Byrne, occhio alle esilaranti caratteriste Spencer, Cusack, Martindale –, in una serata leggerissima mi ha strappato lacrime e risate in quantità. Rischiava di passare inosservato, eppure, per via del solito poster, per colpa del solito cast. Un tema lodevole è affrontato con realismo inatteso, invece, e note scorrette che non guastano. Perché genitori si diventa, si diventa una famiglia. Basta imparare: insieme. (7+)

E se un invito anonimo promettesse di renderti finalmente felice? Succede a una trentenne in crisi, con una carriera fallimentare in campo artistico e una convivenza forzata sotto il tetto di mamma e papà. Si improvvisa a malincuore segretaria, benché nel frattempo punti ai mondi impossibili del proprio inconscio grazie a un pigmalione dai completi variopinti: un Samuel L. Jackson istrionico ai limiti dell'irritazione, che alla protagonista con la testa fra le nuvole spalanca all'improvviso le porte del sogno. Invitandola a prestare fede all'immaginazione. Ma quando è un bene, quando un male, quando alienazione pura? I bontemponi sono definiti eterni Peter Pan, ma le donne si figurano segretamente addestratrici di unicorni. Store Unicorn, commedia strampalate dalle scenografie arcobaleno e le luci iridescenti, ricorre al bagaglio di uno spirito fanciullesco come antidoto a un'infanzia solitaria e a una giovinezza interrotta. In questo bailamme di personaggi dolci e surreali, dotati di un umorismo talmente particolare che potrebbe non piacere a tutti, spicca il “capitano” Brie Larson: qui impegnata in una doppia veste. Che piacere rivederla alle prese con i pregi e i difetti del cinema indie, momentaneamente in pausa dai blockbuster Marvel! Che piacere rivederla alle origini, nei panni di un'infaticabile sognatrice, mentre mette in scena i mostri e le fate negli armadi del suo passato, in una fiaba sui generis tutt'altro che memorabile ma comunque molto sentita! Mentre si prepara ad accogliere l'amico mitologico allestendo una mangiatoia, per la prima volta torna a vivere. Si guarda intorno, e non è da sola. Un po', la aspettavamo noi. (6)

mercoledì 22 marzo 2017

Mr. Ciak: La bella e la bestia, Logan, E' solo la fine del mondo, Rings

Con una videocasetta tutta consumata della Bella e la Bestia scoprii che per i film si poteva piangere. Il capolavoro Disney è tra quelli che ho visto e rivisto fino a distruggere il nastro. A ventidue anni, perciò, faccio parte di quei nostalgici che, sospirando, dicono: ai miei tempi le favole erano tutte un'altra cosa. Con la scusa pronta ho seguito quelle stesse storie farsi film. Nella moda del retelling ci ricasco volentieri. Ultima ma non ultima, è arrivata la trasposizione del mio cartone preferito. Restano le battute, perfino le canzoni, e il minutaggio sfiora le due ore con l'aggiunta di nuove sequenze – il passato dei protagonisti svelato in flashback, quel LeTont omosessuale che ha fatto scattare la censura in paesi da cancellare dalle carte geografiche. La Bella e la Bestia vorrebbe porsi sulla scia dell'incanto di ventisei anni fa. Gotico e opulento, è un conto alla rovescia che spiega il valore del tempo, l'importanza della bellezza interiore, il temperamento di un'eroina femminista venuta prima di qualsiasi Moana. Lo fa cantando e ballando, e con una morale nascosta prima dei titoli di coda. Purtroppo, però, il film di Condon ha difetti che lo rendono godibile il minimo. La pochezza interpretativa di Emma Watson: una Belle con un cachet stratosferico e la perenne espressione da prima della classe, in quel di Hogwarts. I consueti disastri che combina l'edizione italiana quando si parla di musical, tra una metrica sconosciuta e un doppiaggio che cancella le prove vocali degli interpreti (con immenso disappunto, della partecipazione della Thompson, McKellen e McGregor non resta quasi traccia). La sostanziale inutilità di copie carbone come questa. Nella prima parte lo si guarda con un occhio sì e un occhio no, disturbati dalle modifiche dei ritornelli più memorabili. Qualcosa, poi, cambia nella seconda, complice un ottimo Luke Evans e i passi dello storico valzer. Ma nel castello della Bestia ci si innamora in fretta e senza un vero perché. La rosa sfiorisce. Si bruciano le tappe - quel significativo sono amici e poi, uno dice un noi - e la poesia, il senso, si perdono in un compitino copiato al compagno di banco. Quanto impiego di mezzi e figuranti, quanta attesa mal riposta, per una costosissima recita scolastica e poco più. (5,5)

Puntualmente, quando la Marvel torna al cinema, ci pensa la critica a presentare il film di turno come fosse l'eccezione alla regola. Ed eccomi lì a parlarne sempre nei soliti termini, sempre con gli stessi pregiudizi. Applauditissimo in un clima festivaliero, Logan è l'ultimo capitolo della saga del mutante di Jackman. Ho accompagnato mio padre a vederlo più per scommessa che per voglia. Neanche troppo a sorpresa, sono uscito dalla sala toccato e convinto. I mutanti sono costretti a vivere come clandestini. Appartengono a una razza dai giorni contati, o così credono. La piccola Laura è una di loro. Tocca caricarla in macchina verso un Eden che non c'è. Dei supereroi che il mondo conosce non sono rimasti che gli albi. Wolverine pensa al suicidio e fa da badante a Xavier – un Patrick Stewart commovente –, che ha bisogno di aiuto per sedersi sulla tazza. Il suo cervello è un'arma di distruzione di massa, eppure ha i segni debilitanti dell'Alzheimer. Ne viene fuori un western on the road splatter e tenerissimo, che mescola polvere e malinconia. Un Léon che passa il testimone a una nuova generazione. In due ore, botte da orbi e l'introspezione che ti piace. Tempo necessario affinché i personaggi non si affrettino nel momento dei saluti. Mi ci sono affezionato nel mentre, io. Cose che suggeriva il titolo, perfino, con quel nome di battesimo che è sintomo di maggiore intimità. Jackman è granitico, ma mostra delle crepe. Si comporta da figlio e ricerca in sé l'istinto paterno. Vive e fa più in queste poche ore che in una vita eterna, testimone di un tempo qualitativo e non quantitativo. E quando il nostro insieme a lui finisce, calati i titoli di coda, si è incerti se abbandonare la sala o meno. Ci si assiepa alla porta, un piede dentro e uno fuori. E Logan è così che mi piacerà ricordarlo. Con un assurdo senso di attesa, Johnny Cash e l'usciere spuntato dal nulla. Un omino olivastro, straniero, che ci assicura: finisce qui, così. (7,5)

Per anni io e Xavier Dolan ci siamo studiati a distanza. Poi è successo Mommy. Una visione è bastata per trasformarlo in uno dei film del mio cuore. Come tornare al cinema dopo una epifania? Il sesto film del regista franco-canadese è ispirato alla pièce di Jean-Luc Lagarce. La mia tesi faceva tappa anche lì. Louis fa ritorno all'ovile in punta di piedi. Lo accolgono Léa Seydoux, sorella minore che pende dalle sue labbra; una remissiva e farfugliante Cotillard; Vincent Cassel, prepotente capobranco; infine, l'appariscente mamma chioccia di Nathalie Baye. E' Gaspar Ulliel, il viso spigoloso e la fronte imperlata di sudore, a guardarsi intorno spaesato e a cercare spesso l'orologio. C'è chi vuole fare colpo, chi mostra il lato peggiore. Nel bel mezzo di una guerra in corso, il protagonista deve dire loro che ha l'Aids. Meglio aspettare il dessert per stemperare l'amarezza? Un profumo, il vento, una canzone – l'improponibile Dragonstea Din Tei, che eppure il montaggio sa incasellare a regola d'arte – lo portano lontano stando fermo. Ulliel fa da testimone muto, da padre confessore, a questo cast di comprimari in stato di grazia. A tavola siede l'incomunicabilità, il non detto, e le parole sperperate, dette a sproposito, ti prendono a schiaffi in faccia. Fedele alla natura del testo, Dolan realizza un dramma che bello lo è, ma non nella tipica maniera clamorosa. L'impianto è collaudato e il regista, castigato, ci si muove piano. Il suo ego, tra quattro mura, non ci sta. E a volte, sotto la sua pressione, la casa esplode in parentesi suggestive in cui trovi il solito guizzo. Altre, invece, Xavier si stringe nelle spalle, addomestica la vanità, e cela al meglio il disagio di chi ama troppo qualcosa per stravolgerla, ma intanto scalpita nel vestito della domenica. Come a dire: vedete, sono un ragazzo educato se mi applico. Non datemi più del bambino prodigio. Però ora mi chiudo la porta alle spalle, c'è Moby in cuffia, e da domani vado a raccontare a modo mio le famiglie infelici a modo loro. (7)

Mai avuto paura delle apparizioni di Samara. La bambina con i capelli in faccia non esercitava timore su un ottenne dei primi anni Duemila. Ho visto il primo The Ring quando non avevo l'età. Lo ricordo con affetto, ma senza brividi. Il cerchio sembrava essersi chiuso con la riscossa di Naomi Watts. Si riapre, inatteso, più di qualche anno dopo. Nel mentre sono cresciuto, i videoregistatori si sono estinti e la mania del sequel a tutti i costi impazza. Ne è passata di acqua sotto i ponti e nei pozzi sperduti. Incurante, ci riprova Javier Gutiérrez. La storia di Rings vede la classica coppia di innamorati – la lei del duo è l'italiana Matilda Lutz, di cui abbiamo visto il potenziale e gli occhi da cerbiatta nell'ultimo Muccino – cercare un'altra via di fuga dalla maledizione. La tecnologia favorisce la scoperta di una traccia segreta: un video nel video. La protagonista, guidata dalle visioni, si lascia condurre dove tutto ha avuto inizio. Teen ma non troppo, Rings ha protagonisti più freschi e una struttura schematica che non si allontana dai sentieri passati. Le svolte non sono tra le più imprevedibili, ma la ricerca non annoia, il mistero irretisce e la regia curatissima offre pochi spauracchi, al solito, ma immagini interessanti: il prologo in volo, la pioggia che scorre al contrario, gli spezzoni mai visti del filmato originale. Rings, come da previsione, non è indispensabile, ma in un panorama di seguiti tanto brutti da non crederci – il pensiero va proprio a Blair Witch – la spunta facile. Diverte e intrattiene l'essenziale, soprattutto se l'effetto nostalgia e i primi piani della bella Matilda possono più dello sguardo che uccide dello spettro orientale. La morte correva sul filo del telefono. Colpiva in sette giorni. La sentenza, persasi nei bombardamenti dei call center e nella progressiva comparsa dei telefoni wireless, si fa perdonare con poco e niente il ritardo. E, a sorpresa, non suona come la morte dell'horror. (6+) 

lunedì 18 luglio 2016

Mr. Ciak: Io prima di te, The Legend of Tarzan, Mon Roi, Cattivi Vicini 2, Sleeping With Other People

Ci sono casi sporadici in cui le trasposizioni rendono meglio della carta stampata: vedasi la lucidità del Green più logorroico e distaccato, quello di Colpa delle stelle, che - per ben due volte – mi aveva fatto piangere fior di lacrime. Da lettore, mi faccio abbindolare sì e no. Ma da spettatore, evviva le pellicole ricattatorie e un po’ ruffiane; pollice insù per le famose lacrime strappate. Poteva il bestseller di Jojo Moyes compensare alla mancata commozione, alla vaga superficialità di fondo, passando dall’altra parte? Con un conciliante Ed Sheeran, l’attenzione quasi filologica al testo e due protagonisti che più perfetti non si poteva ero sicuro di sì. Io prima di te, invece, si segue a occhi asciutti e con un sorriso tirato sulle labbra. Meno furbo del previsto? Addirittura, stravolto? Il lavoro di Thea Sharrock è calzante, rispettoso e puntuale – tralasciando i riferimenti, per me necessari però, ai traumi di lei e mandando avanti veloce le glorie collezionate in salute da lui. La sceneggiatura glissa sui loro tormenti e ammorbidisce gli attimi romantici e le scelte di un epilogo coraggioso, che già fa chiacchierare i benpensanti d’oltreoceano. Come in libreria, però, Io prima di te e i suoi decorosi protagonisti sono a proprio agio con la leggerezza e i buoni sentimenti, meno con la tragedia in agguato: lacrime di coccodrillo da parte dell’adorabile Emilia, secche le spiegazioni di Claflin. E gli inglesi, solitamente sciolti se il politicamente scorretto incontra un tema di spessore (pensiamo all’inedito Miss You Already o allo scanzonato Altruisti si diventa, che british non era, ma adorabile sì), questa volta sono divertenti, ma per nulla struggenti. Tanto negativi quanto inevitabili, gli influssi di una Hollywood che da lontano uniforma, smussa e trova compromessi scontati: i cuori spezzati, le tasche rigonfie di banconote e infermiere che, se belle come la Khaleesi di Games of Thrones, promettono  miracoli – risvegliare i Jon Snow e far camminare i tetraplegici non sono forse abilità contemplate nel suo curriculum? Emilia Clarke, frivola, mora e sbadata, è una deliziosa Lou; Sam Claflin, che interpreta senza grande sforzo il ruolo di un uomo di successo ferito nel corpo, rende piuttosto bene i musi lunghi e l’umorismo sprezzante di Will, senza stravolgere la sua faccia da bravo ragazzo. Espressivi, fin troppo, i due si abbandonano a una recitazione sopra le righe e a sguardi languidi: bellissimi “quasi amici” dai sorrisoni contagiosi, che finiranno per innamorarsi e piangersi addosso, senza però farci innamorare e piangere, con disappunto di chi aveva buoni propositi, aspettative parzialmente infrante e kleenex a portata di mano. (6)

Abbandonava l’Africa, l’uomo cresciuto dalle scimmie, nell’ultima scena del capolavoro Disney – a sua volta ispirato al ciclo di romanzi di Edgar Rice Burroughs. Al suo fianco, Jane; la Londra vittoriana all’orizzonte. Dopo un lungo viaggio di ritorno, Tarzan è diventato marito amorevole e mancato padre di famiglia, attentissimo al destino della casa che ha lasciato. Dopo otto anni, ritorna in Congo in missione umanitaria e la vita in città non l’ha impigrito: da ambasciatore a esca, il passo è breve. Re Leopoldo minaccia di ridurre tutti in schiavitù e il ritorno a casa dell’ex bambino del miracolo, architettato dal perfido Leon, mira a farlo cadere nella tela di un capo tribù in cerca di vendetta. The Legend of Tarzan, variazione sul tema diretta dall’ormai esperto David Yates, è stato accolto con un discreto successo di pubblico e critica, pare. Lo spunto: cos’è stato del personaggio amato da generazioni vicine e lontane? Una leggenda, trapiantata nell’Inghilterra civilizzata, smette forse di essere tale? L’avventura secondo Yates ha coloriture politiche, una cornice storica stranamente accurata e l’impegno che non ti aspetteresti, tra abolizione della schiavitù, riflessioni naturalistiche, messaggi ambientali. Serio e onesto film per famiglie, però, che talora sceglie il linguaggio dei moderni cinecomic e una computer grafica efficace ma onnipresente, mi ha trovato sordo dinanzi al richiamo dell’avventura. Il caratteristico urlo di Tarzan è quello di sempre, un ricordo d’infanzia, ma mi è parso lungo e faticoso – nonostante la canonica ora e quaranta complessiva – e l’impressione di un Io vi troverò d’epoca, con Jane rapita e il fedele sposo sulle sue tracce, non ha giovato. Ben realizzato e coinvolgente il minimo, si affida alla bellezza del lato visivo – e in tale bellezza sono inclusi Skarsgard e la Robbie, mai tanto adagiati sugli allori della loro gran prestanza fisica – e ai siparietti di un pessimo Waltz, che sgrana rosari e scimmiotta se stesso, e di un Samuel L. Jackson senza gloria. Manca la magia, ci si dimentica dei cuori: ci si stanca presto, lo si dimentica subito e, in fretta, ci si aggrappa alla prima liana di strada. Questa giungla mi distrugge. Soprattutto, non mi invoglia a restare. (5,5)

In francese, “ginocchio” si dice “genoux”. In sé, la parola ha i pronomi personali je e nous, che significano io e te. Che l’incidente in montagna di Toni sia perciò una richiesta d’aiuto? Che il ginocchio sia proporzionale a un cuore che ancora soffre? Mentre fa fisioterapia, la protagonista rievoca il tormentato amore con Georgio: lui fascinoso, inaffidabile, pieno di vizi; lei, avvocato di grido e presto mamma, sempre più spossata da una passione che non dà pace e da un uomo che non cresce. Mon Roi è un melodramma lungo e intimo, consueto nella resa, sui frammenti di una coppia scoppiata: in mezzo, un bambino, una ex che si ferisce a morte per cercare attenzioni, gli alti e bassi e le nevrosi di un duo contemporaneo, composto da un uomo impossibile e da una donna irascibile, che non si sente alla sua altezza. Se la canaglia Vincent Cassel risulta più seducente, in parte e, addirittura, più simpatico del solito – quando io non gli invidio i tratti affilati, i ruoli e, inutile dirlo, il caratteraccio –, sarà merito della sceneggiatura o forse della partner, una Emmanuel Bercot sincera, ma insopportabile? Tanto schietta nel portare in scena gli isterismi e le insicurezze del suo personaggio quanto irritante nei modi, l’eppure premiatissima Bercot ha messo in ottima luce lo spigoloso Vincent – che non mi è sembrato così manipolatore, così padre padrone, in relazione a un personaggio femminile antipatico come nessuno – e, se c’è un neo non da poco, è che in un copione scritto da una donna per le donne, contro la dipendenza affettiva e il maschilismo, attenzioni e aghi della bilancia pendano curiosamente verso il monarca capriccioso del titolo. Quello che, nella coppia, spicca per lingua sciolta e ironia. Quello che, soffocato da proteste e scenate plateali, non ha la possibilità di migliorarsi. E la volontà? Mon Roi, umorale e appassionato, traduce in francese quello che Cianfrance ha detto in inglese, quello che Castellitto e la Mazzantini hanno poi ribadito in italiano: il desiderio è una fiamma, e non puoi alimentarlo a forza quando muore, né confidare di maneggiarlo senza scottarti. Quello, con la crudezza del cinema d’oltralpe, gli intraducibili giochi di parole, tanta pesantezza e una sensibilità, questa volta, distante dalla mia. (6,5)

La famiglia Radner, con un altro bebè in arrivo e una bambina che è lì lì per muovere i primi passi (e giocare coi dildo di mamma) è in crescita e sta cambiando casa. Li avevamo conosciuti, un’estate fa, con la ricerca della tranquillità e l’incubo di una confraternita: con Teddy, leader festaiolo e vendicativo, era finita, poi, tarallucci e vino. Ritorna, però, mentre gli amici crescono e lui resta indietro, in quella casa sfitta. E aiuta tre ragazze in cerca della propria indipendenza a mettere su la prima sorellanza del quartiere: il quartetto si amplia presto, però, e nuovi rumori, nuove canzoni e palla e nuovi dispetti sono dietro l’angolo. Soprattutto se c’è da nascondere agli inquirenti la ragione di quel vicinato sexy e turbolento... Sulla scia delle grasse risate e del successo del primo, torna prevedibilmente un nuovo capitolo di Cattivi vicini: da me, che in estate non ho mai abbastanza di comicità spiccia e pensieri lievi, perfino un po’ atteso. Seth Rogen e Zac Efron, agli antipodi ma già affiatati, regalano doppi sensi, pance ballonzolanti contro addominali al vento; Chloe Grace Moretz, di solito abituata a ben altri impegni, si scopre spensierata, ribelle e bellissima, sempre di più. Tra le righe, questa volta, tocchi di serietà a sorpresa: il femminismo secondo le matricole – perché i maschi fanno feste e le femmine no? –, le nozze gay del “compagnone” Dave Franco e un esame di coscienza, a proposito dell’essere mamme e padri. Quasi per scusarsi, però, della piacevole scorrettezza del primo. E, in parte, dare il poco promesso, senza spostarsi d’un passo dal vecchio vicinato - o dal già visto. (6)

Lui si chiama Jake: ha trent’anni e passa, si è arricchito facendo ciò che più gli piace e a mettere la testa a posto non ci pensa proprio. Come sistemarsi, se ha partner occasionali e continue tentazioni? Lei, invece, è Lainey: maestra d’asilo di poco più giovane, ha dato il benservito al ragazzo perfetto per una relazione adulterina e, traditrice patologica, allergica alla serietà, ha deciso di passare a vedere cosa insegnano ai raduni per sex addicted. E’ lì che s’incontrano. Ma è un ehi, guarda chi c’è, non un colpo di fulmine. Loro si sono conosciuti anni prima: hanno perso insieme la verginità. Che in quella prima volta sia possibile rintracciare le cause dei cuori freddi e dei letti caldi? Che Jake sia stato la rovina di Lainey, e viceversa? Si studiano, si stuzzicano: si piacciono. Promettono, però, di essere solo amici e di rimediare fianco a fianco ai classici errori. Qual è il problema, nella monogamia? Qual è il pregio della solitudine? E mentre si danno a lunghi, lunghissimi tête-à-tête e parlano di masturbazione femminile, usando un barattolo di vetro come metafora, si scoprono gli innamorati recalcitranti di una gran bella storia d’amore e i protagonisti delle romcom indipendenti di cui non si ha mai abbastanza. In Sleeping with other people tutti parlano di sesso, qualcuno lo fa, ma la volgarità non è contemplata e c’è da penare, per avvicinarsi al lieto fine tanto sperato. Rilettura, quasi, di Harry ti presento Sally, ha una scrittura briosa, ritmi seducenti e protagonisti dolci ed esilaranti – Sudeikis, verso cui eppure non nutro molta stima, ha una perfetta faccia da suola; la Brie, sfacciata e fragile, è una meraviglia di ragazza, e la cosa non mi era mai saltata all’occhio prima d’ora. Solita storia, sì: ma la commedia osé è più gustosa, se viene dal Sundance, ha toni femministi e, al posto di divi inarrivabili, propone le imprese amorose di due così, che dimostrano che la simpatia è sexy, e non è un bugiardo cliché. (7)

lunedì 13 giugno 2016

Mr. Ciak: La pazza gioia, Alice attraverso lo specchio, Somnia, Friend Request, Krampus

Guardandole non si direbbe. Una che si atteggia da gran signora, l’ombrellino orientale e i vestitini griffati, e l’altra tutta nervi e tatuaggi. Che siano amiche, dico. E, soprattutto, che si siano incontrate nella stessa gabbia di matti, in un rumoroso casolare toscano. Beatrice, vanitosa e aristocratica, ha il numero di George Clooney in rubrica, fa foto con il Presidente, millanta parentele tanto importanti quanto improbabili. Altezzosa e appariscente, starnazza, urla al complotto, ordisce – e intuisce – piani superiori. Donatella, a un passo dall’anoressia e dall’abisso, è tutta il contrario, con i modi rozzi, il fare taciturno, il nome in un articoletto di cronaca nera. Scappano, con i capelli al vento e le macchine rubate. Come Thelma e Louise sotto Valium. Dai guai, dalle vane minacce dell’interdizione: verso una gioia su misura. Per la prima, un bagno caldo, le bollicine, i ristoranti stellati. Per l’altra, che parla poco e piange sempre, il figlio che le tengono lontano. Non sanno tenere a bada gli sbalzi d’umore e le ricadute: cosa combineranno con il cuore tuo, spettatore medio, tra le mani? La pazza gioia, che arriva da noi dopo la calorosa accoglienza a Cannes e il da me poco apprezzato Il capitale umano, è il ritorno e la conferma di un regista che ci rendeva fieri e soddisfatti ancora prima che un Mainetti, un Genovese o un Rovere giungessero in sala, per farci gridare alla novità. Virzì non si smentisce né si svende. E nemmeno sorprende, a mio dire, con una tragicommedia che è perfettamente nelle sue corde, e senz’altro alla sua risaputa altezza. Porta con sé due fedelissime: Micaela Ramazzotti, che l’ha anche sposato; quella Valeria Bruni Tedeschi che mi fa antipatia da un po’. Il pregiudizio, però, lascia il tempo che trova. La prima avrà trovato sì un marito facoltoso, un nome, ma Virzì in lei ha incontrato la sua musa: straordinaria, in particolare, in un monologo sul lungo mare di Viareggio, in abito rosa confetto. L’altra, sorella di “Carlà”, ci sfida a non trovarla esilarante e procace, questa volta, con la parlantina a raffica, le scollature profonde, le arie da parvenu. Sono in sincronia: opposte, ma inarrestabili. Non c’è camicia di forza che tenga, non c’è sbavatura che le faccia sfigurare – qualche ripetizione al centro, ad esempio, e un epilogo poco netto. La pazza gioia fa affidamento su di loro, una scrittura preziosa, un Virzì che per galanteria fa troppo spazio alla Archibugi sceneggiatrice. E non si scappa, davanti a un’ilarità esagerata – quella di chi un po’ ride e un po’ si strugge – e una commozione che, se non fosse stato per un cinema pieno e la mia discrezione, sarebbe giunta onesta e torrenziale. Con il mare al mattino, l’intramontabile Paoli che concilia, tutta la speranza del mondo. Anche se, inclini alla malinconia, i lieto fine non ci piacciono, ma c’è chi – nonostante tutto e nonostante noi – si merita un bene possibile senza pastiglie. (7,5)

Alice, non richiesta, è tornata. Sulla terra ferma, dopo un viaggio presso i confini del mondo. Nel Paese delle Meraviglie, usando uno specchio per portale. In sala, a sei anni di distanza, con un cast riconfermato, un James Bodin che di Tim Burton scimmiotta il kitsch e l’opulenza, un Johnny Depp che, come il suo Cappellaio, è in crisi d’identità. Nei mondi vagamente ispirati ai capolavori surreali di Lewis Carroll, infatti, c’è grande preoccupazione per le sorti di colui che festeggia i non compleanni e anima l’ora del tè. Colpevole non di violenza domestica ai danni della sua bellissima moglie bensì di avere procurato la morte della sua famiglia (o almeno è quello che tra sé e sé si dice), si è immalinconito e va sbiadendo. Ritornare indietro nel tempo, allora, per saperne di più, scongiurare la catastrofe e, per la seconda volta, ricercare un lieto fine che ai matti e ai lunatici non dona granché. Tra i pochi al mondo ad avere abbastanza gradito il primo – quindicenne, lo avevo visto in compagnia, in un pomeriggio in cui ero stato particolarmente felice –, mi approccio al sequel scettico, annoiato e già messo in guardia dalla critica. Come da programma, io che eppure di recente mi sono goduto cosette come Il cacciatore e la Regina di ghiaccio, lo trovo caotico, buonista, pacchiano. Ci sono quei salti nel passato per cui ho un noto debole (e qui si vengono a sapere i segreti del Cappellaio e le gelosie tra le due Regine rivali), e c’è il non trascurabile fatto che la Alice del titolo sia poco più che una figurante, in una trama pretestuosa, raffazzonata, piena zeppa di coincidenze e buchi cosmici. Se una giovane lanciatissima come la Wasikowska, data la pochezza del ruolo, non avrebbe dovuto partecipare, fanno bene – o almeno, il solito – questo Depp in caduta libera, una scoppiettante Bonham Carter, un Sacha Baron Cohen insopportabile. Il resto è la pochezza più totale, infiocchetta ad arte dagli scaltri arraffoni dei castelli Disney: se proprio ti piacciono i ghirigori, i toni iridescenti, gli interpreti sopra le righe di personaggi fuori dal Creato, le bomboniere senza anima e confetti. (5)

Cody, passato da una famiglia affidataria all'altra, vuole una mamma e un papà che si prendano cura di lui. Jessie e Mark vogliono in casa una piccola presenza che scacci il vuoto – e gli spettri – del figlio defunto. Le carte per l'adozione, una psicologa che fa da tramite e, in poco, la loro storia può avere inizio. Ma Cody, posato e intelligente, ha un segreto miracoloso: di notte, i suoi sogni diventano veri. Il salotto, dunque, è invaso da farfalle variopinte, alberi decorati e, infine, dal riflesso di quel bambino annegato ma che, dall'aldilà, attraverso l'illusione, consola i due protagonisti. C'è un ma: a trasformarsi in realtà, anche i suoi incubi. E, in precedenza, hanno già divorato i vecchi tutori, svaniti nel nulla. Chi è l'Uomo Cancro di cui tanto ha paura? Come fermarlo, se non assecondando i rituali del piccolo: caffè forte, bibite energetiche, luce accesa per non prendere sonno? Somnia, thriller paranormale che giunge in sala nel momento più propizio, ha la firma e la direzione di Mike Flanaghan – molto apprezzato altrove per Oculus e Hush: da me, non troppo – e, nei panni dell'infante del mistero, il prodigio dell'anno: un Jacob Tremblay meno impegnato che in Room, ma che anche con un taglio netto della chioma, una sceneggiatura semplice ma d'effetto e un doppiaggio pessimo, dall'alto del suo metro e un po', assicura empatia e sconfinata tenerezza. Insieme a lui, una buona Kate Bosworth e un Thomas Jane che, al contrario dell'irresistibile Tremblay, avrebbe bisogno sì di cambiare parrucchiere. Il trio, in un'ora e trenta che scorre senza sbadigli o grossi sussulti, con uno spunto narrativo originale sfruttato né al meglio né al peggio, spinge furbamente sulla presa emotiva che, alla lontana, si rifà agli horror del filone più commovente: The Orphanage, Babadook, La madre. Il risultato, sebbene poco memorabile, mi è piaciuto: la fattura è quella dei prodotti di genere che affollano le sale nella bella stazione, né più né meno – comprimari non di prima scelta, sceneggiatura alla buona, riferimenti di cui non si è sempre all'altezza –, ma davanti agli occhi grandi dell'attore dell'anno, troppo profondi per spaventare, e a un risvolto toccante, fiabesco, qualche brivido sparso e qualche farfalla immaginaria, al risveglio in un nuovo mattino, l'ho ritrovata. (6,5)

Laura, bella e popolare, accetta tra le sue amicizie – virtuali e non – la schiva Marina: l’abbigliamento goth, una vita sociale non contemplata, la passione per l’arte e l’occulto. I suoi amici sghignazzano, ma la protagonista, non la solita adolescente superficiale e senza cuore, dà corda alla ragazza che, a lezione, siede sempre da sola. Finché non inizia a diventare invadente, a chiedere troppo: la diplomazia di Laura si esaurisce e Marina, rifiutata, si impicca, lanciando un video che diventa virale. Non va via, però: il suo corpo non viene ritrovato, la bacheca della sua nemica diventa un luogo di video truci postati dall’oltretomba, il portatile – come lo specchio nero delle streghe – potrebbe averne conservato l’anima e la malvagità. Se Somnia poteva essere meglio, da Friend Request, horror estivo ambientato nell’era Facebook, ci si poteva aspettare certamente il peggio. Invece, pur nella sua mediocrità, si guarda con piacere e qualche raro sussulto, fino a un epilogo, a onor del vero, scontato: un’escalation di suicidi, una vendetta, il cyber bullismo della vittima verso la sua aguzzina senza colpe. La ghost story più atipica si muove a colpi di click e “mi piace”; isolamento e orrore, la fobia tutta contemporanea di trovarsi tagliati fuori dai social, sono messi a fuoco da una regia cupa, spunti discreti, risultati dignitosi. Ispirato a Carrie e a un The Ring, meglio di qualsiasi Ouija, ha dalla sua protagonisti tollerabili – il principe di The Royals, il fratello minore di Gossip Girl, la bella di Fearing the Walking Dead – e un’ora e mezza che va, forse non si ricorda, ma lascia comunque intrigati il necessario. (5,5)

Ancora prima che il mio spirito del Natale morisse del tutto, c'è una cosa che ho sempre detestato: il cenone in famiglia. Solo io, tra tombolate per cui uccidere e discorsi che proprio boh, mi sono chiesto: ma sotto quale cavolo mi avranno mai trovato? Se lo chiede anche il piccolo Max che, a dieci anni, continua a scrivere lettere a Babbo Natale e a confidare nelle tradizioni. Tranquillo e sognatore, va in bestia quando iniziano le liti con i cugini più grandi, le frecciate degli zii, i silenzi sospetti di mamma e papà. Strappa la lettera indirizzata al Polo Nord, esprime un fatale desiderio. E sulla casa, al buio, scoppia la bufera: tagliati fuori dal mondo, non sanno che hanno aperto le porte all'ombra di Babbo Natale e ai suoi aiutanti. Perché la nonna, che parla solo tedesco e crede alle leggende, non vuole che il fuoco del camino si spenga? Di chi sono le risate, le minacce e gli squitti che precedono l'arrivo del famigerato nemico delle feste? Krampus, atteso lo scorso dicembre in sala e poi misteriosamente scomparso dalla programmazione, spunta in rete. Odio i film a tema che affollano Canale Cinque nel periodo fatidico, ma anch'io, come tutti, ho avuto un'infanzia piena di cult. Un posto speciale nella mia memoria, dunque, al Mamma ho perso l'aereo che eppure precede di quattro anni la mia nascita. Un'altra rimpatriata, altri parenti che scatenano il peggio di noi, e così il desiderio dell'indimenticabile Kevin McCallister diventava realtà: feste solitarie per lui, festeggiamenti di sangue per la commedia horror di Michael Dougherty, che cita – nel raccontarci l'assedio di Max e dei suoi familiari – il cinema per tutti di Columbus e, soprattutto, Joe Dante. Krampus è un home invasion sotto la neve, essenzialmente, i cui ospiti – omini di pan di zenzero assassini, clown, elfi poco amichevoli – strizzano l'occhio ai celebri Gremlins e ai giocattoli in movimento di Small Soldiers. Se l'idea è stuzzicante, se il mix colpisce nel segno, la scrittura fa il minimo indispensabile: ci sono paurosi cali di tensione a metà, gli spauracchi e i sorrisi scarseggiano, il finale risulta telefonatissimo. Anche Krampus, così affascinante quando mostrato in uno splendido flashback a cartoni, pur essendo l'ospite più atteso, a tratti (nonostante la totale mancanza di ironia e la recitazione amatoriale di quel film lì) lo si preferiva nel b movie A Christmas Horror Story, che non a caso avevo evitato di recensire.  (6)

giovedì 28 aprile 2016

Mr. Ciak: The VVitch, Nonno scatenato, Il cacciatore e la Regina di ghiaccio, The Boy, The Night Before

Allontanata dalla comunità di appartenenza, una famiglia puritana si sposta in una fattoria del New England. Fuori, il granaio e un bosco in cui è vietato inoltrarsi. La sorella maggiore, Thomasin, gioca sul prato con il più piccolo dei suoi fratelli: bubù-settete, e il neonato scompare in un lampo. Le continue sparizioni e i misteri che si rinnovano conducono proprio all'adolescente, pallida e seducente. La madre è sospettosa, il padre pende dalle sue labbra, i gemelli chiacchierano con un caprone nero e accusano la sorella di adorare il Maligno, il fratello in pubertà è segretamente attratto dalle sue scollature profonde. Stregoneria? The Witch, acclamatissimo e subito annunciato come horror dell'anno, ha più di qualche falla nelle trame, colmata però dal potere della fascinazione – che risulta, in definitiva, immensa – e da una colonna sonora che si concede picchi agghiaccianti. Cupissimo, ha una fotografia impeccabile e la quiete apparente del cinema che più stupisce da queste parti: quello indipendente. Pensato come racconto per non dormire, oscilla tra il dramma domestico e la fiaba nera. I quadri sapientemente cesellati di una famiglia che cresce all'ombra di un Dio vendicativo, di un Medievo che ritorna, mi hanno ricordato i quattordici piani sequenza che componevano l'interessantissimo Kreuzweg – Le stazioni della fede e la suggestione di un The Village: ascetismo, superstizione, follia. Flash onirici, brutture, incubi ad occhi aperti. Leggenda o verità? Angoscioso e ambiguo, pretenzioso giusto un po', The Witch è una tragedia a tinte fosche, febbricitante ma preoccupantemente verisimile. Psicologicamente infallibile, anche se già proposta altrove. Comunque, mai così. Nella maniera personale, e forse troppo greve, del cinema di nicchia. Si rimangia la promessa della paura, dunque, ma attrae e destabilizza: meno emotivo di un The Babadook, più sensato di quel buco nell'acqua di It Follows. Per tutto il tempo, così, ti domandi: cosa sto guardando? Ed è così ben realizzato, recitato con tanta di quella naturalezza, che il dubbio è un piacere scellerato. Non il capolavoro annunciato a gran voce, proprio no, ma l'opera prima di un esordiente di razza. Uno di quei rari horror per palati fini, che in sala non troveranno mai posto, d'estate. (7)

Vedovo di fresco, un pensionato convince il più giovane dei suoi nipoti a seguirlo in uno spensierato viaggio verso una landa tropicale piena di sole, alcolici e modelle in bikini. Non è forse un paradiso la lontana Daytona, durante lo spring break? Di certo non per il responsabile Jason, trascinato dal nonno in una delle sue ultime missioni: istruire il nipote sui miracoli del carpe diem e, soprattutto, darsi al sesso riparatore con un'universitaria a caccia di facoltosi attempati. Dirty Grandpa è stato definito, e non a caso, un trito, sboccato e spiccio cinepanettone statunitense: sbronze, doppi sensi, chiappe al vento, peti fragorosi e chi ne ha più ne metta. Zac Efron viene spogliato, deriso, croficisso: gioca al meglio le sue carte – fisico scolpito e karaoke che ricordano a quelli della mia generazione, con un moto di vergogna sottile, i duetti di High School Musical – e, a sorpresa, si rivela una buona spalla comica. Con lui, parte fondamentale della strana coppia, il nonno sporcaccione del titolo: un Robert De Niro trashissimo, al meglio del suo peggio, che in camicia hawaiana e in una libera interpretazione dei ruoli di Boldi, rischia di mettere una pesante pietra tombale sopra i capolavori che costellano la sua carriera; piace di più, tuttavia, che nei panni di vecchi mafiosi o, ancora, dell'antipatico feticcio di David O. Russel. Meglio fermarsi, caro Bob, prima di un altro passo falso che somiglia preoccupantemente a un'altra commedia da poco come questa? Per alcuni, non c'è dubbio: la risposta è sì. Per me, che lo reputo autoironico e furbissimo, non proprio: come dicevano i latini, “pecunia non olet”. Condiscono qualche gag politicamente scorretta, trivialità e mercanzia in mostra, tre bellezze: l'adorabile Zoey Deutch, la leziosa Julianne Hough e, su tutte, una maialissima Aubrey Plaza. La commedia demenziale su un demente per patriarca è ritrita e spiccia, becera. E, qui e lì, mi son proprio ma proprio divertito. (6)

"Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?" Quattro anni fa, lo specchio dava ben due risposte – le punte kitsch di Mirror Mirror, l'epos non per palati fini di Biancaneve e il Cacciatore – e, a lasciare stupiti, era quella che vedeva vincere, in una gara di bellezza e acume, la principessa guerriera di una Kristen Stewart che non aveva ancora preso lezioni di recitazione. Come poteva, inespressiva e mascolina, sconfiggere la splendida Charlize Theron? Serviva un prequel/sequel, con il per sempre felici e contenti già agguantato, la strega assassinata e l'ex Bella Swan che, nel frattempo, si è data con stupore generale ai film da festival? Scontata la risposta, esile il pretesto. Lo specchio di Ravenna, all'interno del quale è imprigionata la sua anima, rende folle chiunque vi sia vicino. Come l'anello per Frodo, porta tormenti e avventure alla squadra che, seguendo gli ordini di un Sam Claflin di passaggio, devono distruggerlo. L'impresa è nelle mani di Eric, ancora una volta impersonato da un Chris Hemsworth che si destreggia discretamente tra martelli e scuri: cos'è successo alla sposa del Cacciatore e dove è stato allevato per diventare chi doveva diventare? Si introduce, allora, la storia della Regina di ghiaccio: una variante psicotica e fragile della Elsa di Frozen, interpretata da una buona Emily Blunt in lotta, però, con l'ancor più b(u)ona Theron. Nonostante la presenza di un'altra rossa da me amatissima, quella Jessica Chastain qui troppo sprecata, a vincere la disputa è la modella sudafricana, che, senza l'accigliata Kristen nei dintorni, non solo tiranneggia ma porta questo secondo capitolo dalla dubbia utilità a risultare un po' più coinvolgente del precedente. Perché, sì, a me Il cacciatore e la Regina di ghiaccio ha regalato due ore che non richiederei indietro: movimentato, dark e, complice la presenza del nano di Nick Frost, spassosissimo. Una scatola di star infiocchettata con stile, con un terzetto di prime donne che sono una gioia per gli occhi - e per i costumisti di ogni dove. (6)

Greta trova lavoro nella casa sbagliata. Cosa c'è di meglio di una villa nella campagna inglese, di un ruolo da tata che comprende vitto e alloggio e di due padroni di casa affabili e generosi? Gli Heelshire nascondono un segreto: il bambino di cui Greta dovrà prendersi cura è un fantoccio. Ci sono regole ferree da seguire, e una di queste prevede che la protagonista tratti Brahms come fosse un bambino di carne e ossa. The Boy, thriller d'atmosfera firmato da un giovane regista che già ha fatto danni nel mondo dell'horror, è trascurabile ma non pessimo. Spiccano una regia stranamente raffinata, gli interni labirintici della villa, sprazzi affascinanti. Ha un'idea bella, ma mal gestita. L'incipit, canonico ma citazionista, ricorda le prime pagine dei romanzi d'appendice ottocenteschi: giovane di belle speranze in un mausoleo di misteri. Le scenografie, allo stesso modo, strizzano un po' l'occhio ai deliziosi orpelli gotici di un Del Toro e il tentativo di fare del silenzioso Brahams la nuova Bambola assassina, per fortuna, non è stato azzardato. The Boy, così com'è, ma spostato al passato, sarebbe stato un prodotto gotico senz'altro più accattivante. Mancano la volontà e la consapevolezza, mancano le eroine di Henry James. Lauren Cohan, che ha un sorriso bellissimo e poco altro, interpreta un personaggio dalla psicologia spiccia. In lei, reduce da una gravidanza interrotta, il senso materno si risveglia bruscamente e per caso. I comprimari, inservibili, non hanno la scintilla. Tra ricercati cliché, un andamento prevedibile e qualche spauracchio non andato a buon fine, questo The Boy né bello né brutto, ma scritto troppo di fretta, tenta l'effetto sorpresa con un twist ad effetto, anche se già visto in un horror piccino, australiano, che però non vi svelo... Annacquato il finale, furbastra l'idea di lasciarsi aperta la porta di un sequel che vedrei aspettandomi solo il peggio. L'inanimato Brahms, spettrale e maestro degli sguardi in camera, offre comunque la performance migliore. (5)

La festività per eccellenza che prevede imbarazzanti reunion e tradizioni familiari da cui mettersi in fuga, a volte, presenta delle costanti che fanno eccezione, perché non infastidiscono e, miracolo, non vengono a noia. Qual è il segreto di tre amici che si prendono un notte per rinforzare il loro legame e tornare per un po' i ragazzini brilli e leggeri dei bei tempi andati? Essenzialmente, ci dice The Night Before, droghe libere, cicchetti a volontà e feste blindatissime. Trentenni ed eterni Peter Pan, i protagonisti danno il via a un alcolico amarcord che sembra qui e lì una riscrittura demenziale (ma non troppo) di A Christmas Carrol. C'è chi si prepara a diventare papà; chi, giocatore di basket, non si rassegna al pensionamento a suon di anabolizzanti; chi, musicista senza arte e senza legami, rivive il trauma della morte dei genitori. Per fortuna, ci sono le sostanze stupefacenti – e le risate assicurate. Destinato all'homevideo e ribattezzato Sballati per le feste, The Night Before, con quel popò di cast e alla regia lo stesso autore del toccante 50 e 50, da noi non passa in sala – quando invece il mio spirito del Natale agonizzante avrebbe assai gradito – e viene bollato come un The Hangover a tema. Me lo aspettavo dai neuroni affumicati e caricaturale, sconclusionato, e da amante della comicità di un The Interview la cosa mi andava pure a genio: i cameo che non ti aspetti, le battute antisemite e un politicamente scorretto che si tempra con il romanticismo, però, non mancano. L'esilarante Seth Rogen e un Joseph Gordon-Levitt dai tempi comici a me sconosciuti formano un affiatato terzetto insieme ad Anthony Mackie, e inseguono Lizzy Caplan, Mindy Kaling e il destino, in una barzelletta sotto sotto un po' vera in cui Miley Cyrus fa da damigella d'onore, un bicurioso James Franco invia foto oscene al solito "compare" Rogen, e Michael Shannon, mai così inedito, fa da pusher e angelo custode. (6,5) 

domenica 20 marzo 2016

Recensione: Qualcosa di vero, di Barbara Fiorio

"Qualcuno ha ordinato una fiaba?"

Titolo: Qualcosa di vero
Autrice: Barbara Fiorio
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 249
Prezzo: € 15,00
Editore: A rincasare ubriachi nel cuore della notte si rischia di inciampare in qualsiasi cosa: un gradino, i lacci delle scarpe, uno stuoino fuori posto. Ma se ti chiami Giulia, sei una pubblicitaria di successo e per te l'infanzia è solo una nicchia di mercato, puoi anche inciampare in una camicia da notte con una bambina dentro: Rebecca, la figlia della nuova vicina. Allora, tra i fumi dell'alcol, puoi persino decidere di ospitarla per una notte sul tuo divano. Salvo poi rimanere invischiata in sessioni di fiabe da raccontarle ogni volta che la madre, misteriosamente, non c'è. Da Cenerentola a Pollicino, da Raperonzolo alla Sirenetta, purché siano sempre le versioni originali: quelle di Perrault, dei Grimm e di Andersen, dove i ranocchi si trasformano in principi soltanto se li lanci contro un muro, e non sono certo i baci a risvegliare le più belle del reame. Se invece ti chiami Rebecca e sei arrivata da poco in città, puoi provare a conquistare i compagni di classe con le "fiabe vere". Salvo poi imbatterti nelle temibili bimbe della Gilda del cerchietto, pronte a screditarti con le versioni edulcorate della Disney. E forse, nonostante i tuoi nove anni, cercherai di far capire a Giulia, la tua amica del pianerottolo, che, anche se i principi azzurri nella realtà non esistono, l'uomo giusto a volte è più vicino di quanto si pensi. Ciò che ancora non sai è che la verità costa cara. E non solo perché certe cose è meglio non raccontarle, specie quando ci sono di mezzo i segreti degli adulti.
                                                     La recensione
In tempi recenti, ho scoperto che Barbara Fiorio faceva al caso mio, che la biblioteca comunale della mia città aveva riaperto allegramente i battenti mesi fa (facciamo anni) e, con la scusa vaga di reperire qualcosina per la tesi, potevo guardarmi attorno e, nell'angolo degli ultimi arrivi, portare a casa registrandomi titoli nuovi e nuovissimi. Mentre la bibliotecaria all'accettazione, confusa dalle bizze del computer e dal funzionamento dell'archivo elettronico, cercava per me qualche testo universitario battendo sulla tastiera – lei poco convinta che potessi trovarli lì, io addirittura meno di lei -, mi sono guardato in giro. E siccome tornare a casa a mani vuote sembrava brutto, no?, ho preso in prestito il mio primo libro. Aveva un fungo a pois in copertina, mi faceva tanto sorridere, me ne parlavano con entusiasmo e, nel farlo, ricambiavano di conseguenza il sorriso. Torno con Qualcosa di vero sotto il braccio un giorno, e il successivo ne vivo uno così sfortunato, così pieno e assurdo, che mio padre, prima di coricarsi, chiosa con un saggio: “Se un gatto nero ci taglia la strada, è lui che deve grattarsi le palle. Altroché.” Combattuto da sensazioni opposte, incerto tra il pianto a dirotto e le grasse risate, boh, mi metto a letto, non prendo sonno ed è così che conosco Giulia, Rebecca e le figure bizzarre che stanno loro attorno. Ed è così che, ventidue anni ad aprile, mi godo una favola o due, le coperte rimboccate, il conforto di un romanzo – non bello come dicono, forse, ma comunque molto carino – nel momento propizio. Appisolandomi piano, leggo di una pubblicitaria rampante che vive del proprio lavoro e di cene galanti, offerte da corteggiatori random che, dopo averla accompagnata sotto casa, con lei non avranno futuro. Tutta tisane calde e scadenze, Giulia non è aperta né ai sentimenti né all'idea dei figli. Il suo orologio biologico ticchetta ossessivo, tic tac tic tac, ma pazienza. Così come non è mai stata portata per le lezioni di pianoforte, altrettanto non è tagliata per i bambini, le esigenze da Telefono azzurro, le carezze a comando: in carriera, burbera ma con tatto, inchiodata al pc. Finché una sera, brilla, non inciampa nella nuova vicina di casa. Una bambina di nove anni con un peluche in braccio, una mamma infermiera a lavoro, il bisogno di un riparo per la notte – è rimasta, infatti, chiusa fuori – e la voglia di chiacchierare del trasferimento, di com'è la vita lì, delle prepotenze alla scuola elementare. La piccola è stata esiliata all'ultimo banco dalla famigerata Gilda del cerchietto, accanto a un taciturno novenne che disegna tutta la mattina draghi sputafuoco; l'adulta, invece, inventa slogan fianco a fianco al grafico Lorenzo, di qualche anno più giovane, che la ama in silenzio mentre lei, maestra nell'arte della dissumulazione, finge di non notarlo per non spezzargli il cuore e rovinare per sempre la loro invidiabile, invidiata sinergia. 
L'incidente sul pianerottolo darà il via a una tenera amicizia intergenerazionale, in cui scambiarsi sogni, racconti e segreti, ma tenendo rigorosamente all'oscuro le mamme troppo fragili, i coetanei e chiunque non sia pronto ad accettare la notizia che a lungo ci hanno mentito. Bugia più clamorosa dell'esistenza di Babbo Natale, infatti, i finali riscritti dalla Disney, per proteggere i bambini, tutt'altro che sprovveduti, dalla dura verità: le principesse sono esseri stupidissimi, i principi appartengono a una brutta razza, i ranocchi assumono forma umana se lanciati contro una parete, il per sempre felici e contenti è una consolazione da poco. Perché Giulia, tra lubrificanti intimi da lanciare, e-reader da studiare a fondo, cibi precotti in quantità, ha il coraggio di trattare la sua piccola ospite con intelligenza e rispetto: qualcuno deve spiegarle come stanno le cose, come gira il mondo. Perché non lei, realista e disincantata? Perché non i Grimm, Perrault e Andersen, con le loro favole censurate, le sirenette che diventano spuma di mare e i baci appassionati che non servono a un bel niente? Rebecca, dunque, imparerà a socializzare, conquistando amici con il gusto del macabro e pestando i piedi a qualche nemica che a Carnevale può vestirsi a pieno titolo da principessa, sia per via dei capelli lunghi, sia di una mente poco brillante. 
Giulia, d'altra parte, realizzerà che giusto è il realismo, ma più giusto ancora, a volte, è tornare a crederci. Anche a quarant'anni. Qualcosa di vero, in verità, ci intrattiene a suon di fiabe grottesche raccontate un po' come viene e con quelli che sono tutti gli stilemi della commedia brillante americana: le professioni che solo nei film, l'input di un About a boy al femminile, un epilogo - eccezion fatta per un episodio a bruciapelo che ci invita a riflettere sulla violenza domestica, e a denunciarla – come da copione. Più che qualcosa di vero, ci trovereste dentro qualcosa di buono. Buonissimo. E' infatti un romanzo leggero, fantasioso e ironico di un'autrice che mi verrà in soccorso, lo prevedo già, nei momenti scuri e quando il blocco del lettore mi attanaglierà. Rassicurante, nel suo essere esattamente come lo immagini. Tutto va come deve andare. Rimpiangerò di non averne una copia tutta mia, domandate, io che non rileggo ma accumulo e, affetto da smania di possesso, voglio voglio e voglio? Onestamente no, ma mi ha ho sciolto un nodo qui, tra pancia e sterno, e già è tanto. Il continuo andirivieni delle protagoniste, le porte che sbattono nel cuore della notte e un segreto che doveva rimanere tale metteranno sull'attenti maestre bigotte, genitori single, l'esilarante dirimpettaio attore e, da un passato a tinte fosche, un losco figuro in cachemire. Ci destano dai nostri doveri un colpo al muro, poi un altro. Cadenzati e soppesati, come se chi sta dall'altra parte conoscesse il linguaggio del codice Morse. La musica da intenditori in salotto ha palesato, ancora prima che ricambiassimo il colpo, il battito, la nostra presenza. Ci desta, Rebecca, ma il sogno inizia allora. Da lei. Che parla alla maniera di Barbara Fiorio, delicata e metaforica, e ti spiega, alla fine, che le favole e le persone speciali sono come le fate in Peter Pan. Se ci credi, non muiono.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Malika Ayane – Senza fare sul serio 

domenica 13 marzo 2016

Mr. Ciak: Lo chiamavano Jeeg Robot, The Dressmaker, Victor Frankenstein, Regression

C'è solo una frase che, in vita mia, ripeto ancora più spesso di “ciao, cosa leggi?”, ma tant'è. Ripetiamola per chi fa orecchie da mercante e per il leggero disappunto di chi, scalpitante, attende di rincontrare in sala, questa primavera, Batman, gli Avengers, i prodigiosi allievi della scuola del Professor X. A me il cinecomic tradizionale, sogno di infanzia dei tanti, sembra più un mezzo incubo. Non mi piace, dura quanto un lungo film da festival, mi trova annoiato e chiuso a riccio. Dopo la delusione Deadpool, autocompiaciuto e ben poco brillante, ero in cerca della mia eccezione alla regola. Se l'eroe da fumetto americano ti lascia freddo, cosa potrà mai dirti o darti quello nato e cresciuto tra i palazzoni fatiscenti di Tor Bella Monaca, direte voi, che tra l'altro parla solo e soltanto romanesco, ha una maschera fatta all'uncinetto e, per mirabolanti avventure e salvataggi spettacolari, può affidarsi a un budget con una manciata di zeri in meno? Il primo eroe nostrano, uscito qualche Natale fa, faceva in realtà le medie e scompariva nel vento. Portava la firma del buon Salvatores e si chiamava come me. Il ragazzo invisibile, pellicola ibrida sull'infanzia e per l'infanzia, era stata frainteso da chi, prevenuto, non ne aveva saputo apprezzare la delicatezza, le citazioni, quel po' di magia. Se l'intrattenimento per famiglie, il bollino verde alla tivù non fanno per voi, magari dovreste passare a conoscere Enzo Ceccotti. Preceduto da una fama lampo ma non dal solito pregiudizio, che ha la sua da dire lo sapete già. Serve dirlo ancora, perciò? Serve davvero sforzarsi di trovare nuove aggettivi? Lo chiamavano Jeeg Robot, folgorante esordio alla regia di Gabriele Mainetti, è quel che avete già letto ma anche qualcosa di più che, sotto sotto, non ti aspettavi. Non tanto da una produzione italiana, quanto da un eroe che non sia, almeno, l'affabile e emotivo Spider-Man. La regia è consapevole, giovanissima: spuntate quella casella lì. Il villain di un Luca Marinelli istrione, che canta Un'emozione da poco e subito è cult, non sfigurerebbe nel folle squadrone del futuro Suicide Squad: altra casella riempita. New York, per una volta, è salva dagli invasori di una nemica cività, ma Mainetti tocca punti nevralgici e paure nostrane: il sacrosanto derby Roma-Lazio; il Tevere, storica fabbrica di malanni; l'allarmismo di un attentato terroristico, dopo Parigi. Sbarrata terza, quarta e quinta casella. A quello che sapevate e, andate sicuri, perché sono spunti e particolarità che troverete per certo, aggiungo quello che forse vi era sfuggito. Lo chiamavano Jeeg Robot, infatti, sta in curiosi e significativi dettagli: il cattivo ha una sessualità assai dubbia, la principessa in rosa e il suo lui consumano un amplesso brusco e corto in un camerino del centro commerciale, il cavaliere senza macchia guarda porno notte e dì e ingurgita solo yogurt alla vaniglia. Il segreto, in un trio di protagonisti fragili, familiari, elaboratissimi. Lo Zingaro, boss locale interpretato da un Marinelli sopra le righe, è impegnato a sedare una guerriglia tra romani e camorristi. Nel frattempo, sogna un ritorno sul piccolo schermo – lo avevamo visto al Grande Fratello, o forse era Buona Domenica? - e spera che, se non le sue doti canore e il look studiato, sia il culto della violenza a condurlo alla gloria mediatica. La lei del falso Jeeg, interpretata dalla deliziosa Ilenia Pastorelli, è sensuale, inconsapevole, matta. Qualcuno l'ha fatta piangere, da bambina, e adesso si imbatte nello scortese Enzo, che purtroppo non sa amarla nel modo giusto. All'ex gieffina, rivelazione in abito confetto, si affianca il corpulento Santamaria della porta accanto, che nelle sequenze iniziali si becca radiazioni e superpoteri. E, paradossalmente, all'inizio incapace di qualsivoglia tenerezza, scortese e misantropo, è con la mutazione – e con la trasognata Pastorelli per mano, come Reno e la Portman nello splendido Léon - che rispolvera l'umanità di cui, in fondo, è capace. A malincuore, mi trattengo mezzo voto – puntavo, infatti, a un otto pieno – per un epilogo che, a tratti, può rivelare la perdonabile modestia della produzione e la parentesi di un'organizzazione criminale che, sulla scia delle cupe crime stories di Sollima e Placido, avrebbe meritato un'indagine maggiore. Splatter, autoironico, hard boiled, tenerissimo, Lo chiamavano Jeeg Robot è tanta roba (la “b”, prego, è doppia): dagli americani prende due professionisti sorprendentemente versatili – com'è noto, Santamaria e Marinelli hanno curato anche le tracce della sconvolgente colonna sonora sanremese – ma agli americani, sottovoce, insegna l'emozione non da poco che mancava. Ha un cuore d'acciaio, nessuna paura e tutti noi, che gli restiamo accanto: perché lui, che corre e va per la terra, che vola e va tra le stelle, è il Jeeg che aspettavi ma non ti aspettavi. Lui, lui che può. (7,5)

Arrivavano con l'alzarsi del vento e con la Quaresima alle porte, mamma e figlia, per scombussolare i fioretti dei parrochiani e gli equilibri di un incantato borgo francese. In Chocolat, la bella pasticciera Binoche seminava zizzania. Si alza il vento anche in The Dressmaker e, in una Australia degli anni cinquanta che sembra uscita dal vecchio west, rotolano in stada le balle di fieno e sbattono gli stipiti delle porte. Spunta di notte, come una strega, la figliol prodiga e prende possesso della casa sulla collina. Un tubino rosso fuoco, i tacchi a spillo, un abito per ogni occasione che attira sguardi di disapprovazione. Tilly Dunnage, stilista alla moda, è una donna in cerca un po' di risposte e un po' di vendetta. L'hanno bandida da quelle terre, alla stregua di un demonio, e spiandola tutti mormorano “assassina” a mezza voce. Però quant'è seducente. Però quant'è rancorosa. Sarà vero oppure no che, da bambina, ha spezzato il collo a un coetaneo, sperando di farla franca? The Dressmaker, presentato in anteprima al Torino Film Festival, è una squisita commedia retrò, sullo sfondo di una polverosa Australia e  cucita sulle misure di Kate Winslet: procace, espressiva, costante nelle interpretazioni. I brutti anatroccoli diventano cigni, saltano i matrimoni combinati e, dagli annales, fanno capolino tresche segrete e scandali. L'eroina senza padre marcia, indomita come un'amazzone, e in cerca della verità mostra che rivalsa e guerriglia non sono cosa da uomini e che il gentil sesso, vedi l'omertà e i colpi proibiti, così gentile non è. Nella sua guerra privata, toni grotteschi, messaggi in filigrana e comprimari irresistibili: una straordinaria Judy Davis, genitrice nevrastenica; l'esilarante sceriffo Hugo Weaving, che dopo Priscilla torna al sogno dei boa di piume e dei lustrini; un galante Liam Hemswort, non il solito marcantonio senza arte né parte. La prima parte, frivolissima e spensierata, trae in inganno; la seconda, con questa protagonista che si attira lutti da ogni parte, prende in contropiede. Esiste la sfortuna? A cosa può spingere provare che il tuo amore e più forte dell'odio altrui? Più che dai colori pastello, allora, The Dressmaker si rivela essere una commedia nera in transizione. Un novello Chocolat, sì, ma più caustico, che avvelena i diabetici e della gramigna, erba infestante, fa un doveroso falò di vanità. (7)

La scintilla del fulmine, un corpo mostruoso che prende vita, uno scienziato che – dall'alto del suo spirito di onnipotenza – urla “è vivo”. Cosa c'era prima della creatura, il suo esperimento più riuscito? Era una professione solitaria quella del medico sui generis di Mary Shelley e com'erano la sua gioventù, il suo passato, prima che inventiva, curiosità e genio lo portassero sulla via del non ritorno? Dopo l'attento Branagh e il dissacrante Brooks, senza voler ricordare infinite miniserie tivù né scomodare i grandi classici della settima arte, da inserire nello stesso filone di retelling in chiave dark (ma non troppo) di Dracula Untold e The Wolfman, arriva Victor Frankenstein. La storia che abbiamo letto e riletto, visto e rivisto, ma in chiave giovanile e parzialmente postmoderna. Un po' prequel e un po' reboot, ha la sua particolarità in un approccio scanzonato, che nella prima parte coinvolge decisamente, e nel narratore: non il Victor del titolo, enigmatico e spregiudicato rampollo, bensì Igor, il suo deforme braccio destro. Chi era e come si conobbero? Con Max Landis, figlio di cotanto padre, a scrivere e Paul McGuigan, da me molto stimato in Slevin e Wicker Park, alla macchina da presa, Igor – salvato dal circo, innamorato di un'avvenente trapezista, guarito dalla sua famosa deformità – diventa socio alla pari, coinquilino e migliore amico. Interpretato da un Radcliffe che sa prendersi poco sul serio e convincere, è lui, in definitiva, la sola creazione senza intoppi di un McAvoy esagerato, carismatico, la cui parlantina lascia francamente ammaliati. Tanto il primo lavora a sottrarre, quanto il secondo ad aggiungere e, soprattutto nella prima ora, si raggiunge un equilibrio che convince, pur coi suoi limiti. E, strana coppia che non sono altro, ricordano moltissimo Law e Downey Jr. nello Sherlock Holmes secondo Guy Ritchie: altrettanto leggeri, fisici, disimpegnati. Le cose funzionano meno, purtroppo, nell'epilogo: una festa di effetti speciali, l'ennesimo e poco necessario trionfo della computer grafica, in cui la sceneggiatura di Landis si riallaccia come può al capolavoro ottocentesco, ma il risultato, con il mostro che ricorda un orco del Signore degli anelli e una o due esplosioni in surplus, lascia a desiderare. Più affascinante e meglio recitato dell'accoppiata Stoker-Luke Evans, meno soporifero di uno sbagliato Benicio Del Toro in versione licantropo, il novello Victor Frankenstein, godibile fino alla fine, non serviva e comunque non meritava il pubblico linciaggio ma, poco ma sicuro, con l'accoppiata coperta e divano, in una visione casalinga e con la pioggia fuori, garantisce una non trascurabile compagnia. (6)

Negli anni, il cileno Alejandro Amenàbar si è rivelato una giovane promessa su cui puntare. Dopo l'esordio con il noir Tesis, che purtroppo mi manca, ha mietuto grandi consensi con l'onirico Apri gli occhi, a cui dobbiamo il per me bellissimo Vanilla Sky; lo psicologico The Others, con una Kidman che sembrava Grace Kelly; il premiato Mare dentro; il rabbioso ma illuminante Agorà. Torna alla base, alle origini, con un thriller a tinte horror scritto e diretto da lui in persona. Ma ne siamo proprio sicuri? Regression segue le indagini dell'agente Kenner: Angela Gray, diciassettenne pietrificata dallo shock, ha accusato il padre di violenza carnale, in una ristretta e bigotta cittadina statunitense. Ma c'è di più. Uomini di nero vestiti, chiamate nel cuore della notte e incubi ricorrenti, potrebbero indicare – come Angela, d'altronde, giura – la presenza del Maligno? Stupro brutale o sacrificio rituale? L'ipnosi, tecnica sperimentale negli anni Novanta, per scovare quel che le vittime hanno rimosso. Regression parla di suggestione, e suggestiona: i suoi protagonisti si muovono infatti tra il sonno e la veglia, nottetempo, e tutto è dubbio e mistero. La resa visiva, ottima, cattura coi toni di grigio, la pioggia perenne, i vetri appannati delle auto. Ma l'ultimo Amenàbar diventa – neanche a farlo apposta – altrettanto grigio, slavato, appannato. Faticoso nell'esposizione, cervellotico e cavilloso invano. Nella chiusa, scontatissimo. Il detective accigliato, l'adolescente vittima di abusi, le ombre lunghe e il sospetto dei riti satanici. Cosa è vero e cosa no? Dov'è che finisce la superstizione e inizia la verità? Regression gioca a carte scoperte sin dall'inizio e, per tutto il tempo, invano, soffia fumo negli occhi. Ethan Hawke, in parte al solito, sfrutta il fascino dannato che naturalmente si ritrova e che io gli invidio. Emma Watson, attesissima in un ruolo distante anni luce da quello dell'indimenticata Hermione, con l'espressione sempre afflitta e l'aria da Santa Maria Goretti, è forse la peggiore attrice dello scorso anno. Un ruolo chiave, un personaggio ambiguo – ora serafico, ora diabolico -, ma lei eccede di smorfie, faccine e la sua bellezza senza fronzoli finisce per convincere più di una prova da recita scolastica. Allieva della stessa scuola di Keira Knightley e Barbara D'Urso, secondo voi? Ancora, Regression parla di fede e credenza. Crederci è la parola chiave. E io, assonnato e irritato dalle lacrime di coccodrillo di lei, non ci ho creduto neanche un po'. (5-)