Visualizzazione post con etichetta Romcom. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Romcom. Mostra tutti i post

lunedì 1 dicembre 2025

Torino Film Festival 2025: Pillion | Eternity | Kiss of the Spider Woman | El Cautivo

Harry Melling, anonimo ausiliario del traffico con l'hobby del canto corale, diventa lo schiavo – sessuale e non solo – del bellissimo motociclista Alexander Skarsgård. Nel loro rapporto i baci sulla bocca, le confidenze troppo intime, le cene in famiglia sono severamente al bando. Ma se i sentimenti ci mettessero lo zampino? A più di vent'anni da Secretary, arriva un'altra commedia indie – nei nostri cinema dal prossimo 12 febbraio – a sdoganare la dipendenza emotiva e il sadomasochismo. Con tutte le carte in regola per diventare un nuovo cult, Pillion parte come una fantasia di sottomissione. Ben presto, però, si trasforma in una parabola sul tabù della vulnerabilità maschile. L'inesperto Melling osa. Può forse dirsi lo stesso di Skarsgård, impietrito dalla quotidianità? Se la loro relazione è rigida e normata, perfino nella trasgressione, l'esordio di Harry Lighton gioca senza regole. E prima diverte, poi imbarazza, infine spezza il cuore, rivelandosi la versione in latex del capolavoro di Todd Haynes. L'amore più struggente dell'anno? Ha un'orgia come festa di compleanno. E insegna che la libertà, a volte, passa dal BDSM. (8)

Il mio primo film del Torino Film Festival, la mia prima sorpresa. Perché Eternity, a breve in sala, resterà la romcom più riuscita dell'anno. Garbato, elegante, divertente senza rinunciare a un po' di struggimento, è la storia di un triangolo amoroso ultraterreno. Morta ormai anziana e in un letto d'ospedale, Elizabeth Olsen si scopre nuovamente desiderata in un aldilà variopinto e dettagliato in cui i trapassati hanno una settimana per scegliere dove trascorrere l'eternità. Il paradiso avrà le fattezze della Florida o di una baita in montagna, delle Hawaii o della Francia degli anni Trenta? Indecisa tra mille proposte, in un gate che somiglia a una giornata dell'orientamento, dovrà anche districarsi tra il burbero marito Miles Teller e l'indimenticato primo amore del fascinoso Callum Turner. Accanto a loro, sempre in equilibrio tra emozione autentiche e sfumate, c'è la premiata all'Oscar Da'Vine Joy Randolph come spalla comica. Prendete la serie TV The Good Place. Conferitele l'estetica di The Truman Show. Sceneggiatela come una commedia teatrale della Golden Age. E la delizia, targata al solito A24, è presto servita. (7,5)

Se il cinema è evasione, il musical è il genere più cinematografico tra tutti. Ma si può trasformare una pagina nerissima di storia contemporanea in un abbagliante incanto in technicolor? L'ultima trasposizione del romanzo di Manuel Puig canta di dittatura e lustrini, amori e rivoluzioni, oscillando dal dramma carcerario al musical degli anni Cinquanta. Siamo in Argentina, durante la dittatura militare. Due prigionieri – un omosessuale accusato di atti osceni e un rivoluzionario – combattono le violenze fisiche e psicologiche raccontandosi la Hollywood degli anni d'oro. Le coreografie sono trascinanti, ma le canzoni poco memorabili. Le fantasie metacinematografiche non sempre si amalgamano al resto, e la patina delle danze spesso sconfina anche in cella. Jennifer Lopez, splendida come non mai, è una diva che interpreta una diva. Sempre in parte Diego Luna, qui affiatatissimo con il querulo e struggente Tonatiuh – quest'ultimo, esordiente, affronta a testa alta il ruolo che valse l'Oscar a William Hurt. Nonostante siano tutti intonatissimi, qualche stonatura c'è. Ma quando la vita imita l'arte, e viceversa, che shock l'accendersi delle luci in sala e l'arrivo dei titoli di coda. (7)

Che fine ha fatto Alejandro Amenàbar? Ormai lontano dai trionfi di Apri gli occhi, The Others e Mare dentro, torna al cinema a un decennio dall'ultimo film. La sua ultima fatica è la biografia romanzata dell'autore di Don Chisciotte, con tutti i pregi e i difetti che ci si aspetterebbe da una coproduzione Rai e Netflix. Pop, godibile e ammiccante, racconta la prigionia del giovane Miguel De Cervantes. In fuga da Madrid con l'accusa di omosessualità, finisce catturato ad Algeri. In pugno ai mori, che vorrebbero convertirlo all'Islam, mette a frutto le sue doti oratorie per rabbonire il crudele Bajà. Ben presto, il carceriere – al vertice di un dissoluto  harem al maschile – si scoprirà attratto sia dalle storie del prigioniero galantuomo, sia dalla sua bellezza. Diviso tra amore e libertà, nostalgia per i mulini della Mancia e interesse verso i costumi orientali, Julio Peña Fernandez - classe 2000, e già stella dei teen drama spagnoli – è il protagonista di un dramma storico non sempre accurato e dall'esotismo a tratti stucchevole, ma con un Alessandro Borghi degli occhi bistrati per fiore all'occhiello. L'ode al potere seduttivo delle storie? Piace, in fondo: anche quando le storie, come in questo caso, sembrano frutto di Wattpad. (6)

venerdì 1 dicembre 2023

Per trenta minuti: Beef | Tore | The Lovers | Still Up | Heartstopper S02

Lei è artista e mamma: la classica moglie trofeo. Lui è nel ramo delle costruzioni, ma non riesce a costruire una casa per i genitori lontani: nel frattempo fa da padre al fratello minore. I protagonisti si incontrano e si scontrano nel parcheggio di un supermercato. Uno sgarbo da poco creerà una stori di vendetta lunga diversi anni e dieci episodi. Le premesse sembrano quelle di una commedia romantica. Il prosieguo, degno di un un purissimo dramma introspettivo, sfocia perfino nel thriller sparatutto. Beef è una commeda. È un crime. È tutto quello che c'è nel mezzo. È, a oggi, tra le serie dell'anno. Merito di un cast come Dio comanda, in cui Ali Wong e Steven Yeun fanno continuamente a gara di bravura; merito di una sceneggiatura che unisce il nichilismo di un Bojack Horseman a tutta la freschezza del cinema asiatico. Quando fa bene a Hollywood la carica sovversiva delle penne coreane? Un po' fuori posto in Occidente, ognuno alla ricerca del proprio spicchio di sogno americano, i personaggi sono il frutto bacato della società aggressiva dei self-made men. Ai due estremi del ring, benché curiosamente simili nei tormenti, si combattono a sangue. Ma si specchiano, nel frattempo, l'uno nell'altra. Può lo scontro frontale tra due solitudini non rivelarsi mortale? La risposta è in un finale tanto assurdo quanto memorabile, capace di regalare un sorriso commosso all'indomani di un'allucinazione alla Wertmuller. (8)

Tore ha ventisette anni, una sessualità ancora inesplorata, una libertà di cui non sa bene cosa fare. Improvvisamente orfano e indipendente, senza più l'amato padre a fargli da guida, si divide fra il lavoro in una ditta di pompe funebri e una vita sociale fatta di droghe e locali notturni. Cerca l'amore della vita. O, forse, semplicemente sé stesso. Sempre livido, ammaccato, sanguinante, s muove come il Piccolo Principe in una serie svedese brevissima ma folgorante che ha la disperazione tragicomica di Fleabag, la colonna sonora elettro-pop di Euphoria, le riflessioni esistenziali di After Life. Il protagonista conosceva realmente il defunto genitore, che progettava in segreto una nuova vita accanto alla compagna? Perderà la verginità col primo che passa, o aspetterà i comodi del romantico fioraio di turno? Lo faranno riflettere un'amica provata dalla maternità, una vecchina con frequenti istinti suicidi, una drag queen dalla voce struggente, un cane prima ceduto e poi preteso indietro. Protagonista di un racconto di formazione e deformazione, qualche volta si perderà per il gusto di ritrovarsi. Ma non perderà mai il suo incantevole candore, né il ritmo con cui vive questa bellissima giostra di prime volte. (7,5)

Che fine hanno fatto le commedie sentimentali? L'amore è forse passato di moda? Se questa deliziosa miniserie Sky Original fosse stata girata vent'anni fa, il protagonista sarebbe stato il solito Hugh Grant. Vanesio, ambizioso e superficiale, Seamus è un giornalista londinese ben inserito nello star system: la fidanzata è una bionda attrice da rotocalchi e il suo programma TV è stato occhieggiato, pare, da una famosa piattaforma statunitense. A Belfast per un servizio televisivo, fa i conti con le sue origini frastagliate e incontra Janet: lui è in fuga da una gang di teppisti, lei sta per suicidarsi. È l'inizio di un adulterio da nascondere ai tabloid. È il principio di una relazione? Divertente, un po' cinico e, soprattutto, molto romantico, The Lovers è una romcom meravigliosamente recitata dai bellissimi Flynn e Gallagher, in cui si parla di identità, differenze culturali e scheletri nell'armadio all'ombra dei famigerati “troubles” irlandesi. Per fortuna siamo in una commedia, di quelle che facevano una volta. L'unica guerra che conta è quella fra i sessi. L'importante è che finisca bene. (6,5)

Che fine hanno fatto le commedie sentimentali, ci si chiedeva poco fa? Eccone un'altra all'appello. La struttura la conoscete già, no? Lui, affetto da ansia sociale, non esce mai di casa. Qual è il trauma che l'ha segnato al punto da spingerlo a vivere come un recluso e a evitare tutto e tutti, vicini ficcanaso compresi? Lei, mamma piena di energia, ha un compagno premuroso che vorrebbe sposarla e sempre qualcosa da fare. Loro, migliori amici accomunati da un'insonnia che non vuol passare, nelle notti in bianco si fanno reciprocamente compagnia con lunghissime videochiamate. Com'è nata la loro storia? Come finirà? Disponibile su AppleTV, Still Up è una commedia in otto puntate: lieve, a tratti inaspettata, con i bravissimi Antonia Thomas (Misfits) e Craig Roberts (Submarine) a reggere il tutto e i soliti infallibili tempi comici delle serie britanniche a far la differenza. Il finale, sospeso nella friendzone, lascia ben sperare per una una seconda stagione. Danny e Lisa supereranno finalmente il confine fra amore e amicizia? Intanto, la si consiglia a scatola chiusa: è perfetta per scaldarsi il cuore con l'inverno fuori. (7)

Continua la storia d'amore tra Nick e Charlie. Questa volta sono in gita a Parigi e alle prese con una questione importante: come dire a tutti della loro relazione? Immancabile il sostegno di amici e confidente, tutti parte di una grande e colorata famiglia queer: insegnanti compresi. Più che un ritratto veritiero dell'adolescenza oggi, l'autrice e fumettista Alice Oseman continua a dipingere una landa fiabesca dai toni pastello che non c'è, ma che sarebbe bellissimo ci fosse. I suoi liceali non dicono parolacce, non bevono, non sembrano pensare al sesso. Si scambiano lunghi e casti abbracci e combattono il bullismo e i disturbi alimentari a suon di parole, ma senza mai correre realmente ai ripari. Nata come l'antitesi di Euphoria, la seconda stagione di Heartstopper si conferma luminosa, lieve, positiva, di una dolcezza che misteriosamente non viene a noia: anzi, a fine visione ne vorreste ancora, in barattoli, per affrontare il freddo  che ci aspetta. Vero: anche qui, come in Sex Education, tutti appartengono a qualche minoranza, i pochi personaggi etero sono tendenzialmente negativi e nutro seri dubbi sull'efficacia educativa del tutto. Ma mentirei se dicessi di non aver seguito gli episodi con gli occhi a cuore, sentendomi un decennio in meno sulle spalle. Sarebbe auspicabile, un mondo così. Sarebbero belli, quindi anni così. (7,5)

venerdì 8 marzo 2019

Mr. Ciak: Io sono Mia | Lontano da qui | Non è romantico? | Come ti divento bella | Ricomincio da me

Sapete, la gente è strana. Prima l'ha odiata, poi l'ha amata. La sorte di Mimì Bertè, nome d'arte Mia Martini, somiglia proprio all'incipit della sua canzone più celebre. A casa mia andavano spesso. Ho presente i ritornelli, le smorfie e i sorrisi, i tic; quella voce prima grintosa e infine spezzata, in seguito a un'operazione alle corde vocali e alla fine di una relazione che l'aveva prosciugata. La sigaretta immancabile e il cagnetto al guinzaglio, il volto nascosto nel bavero del cappotto. Mia Martini purtroppo la ricordiamo imbruttita. Triste, al punto che la morte precoce è sempre apparsa la diretta conseguenza di un'esistenza tragica. Quanto c'era di vero nell'immagine della cantante roca e maledetta, già diffamata dalle malelingue e stremata dai tira e molla con Fossati? L'ho scoperto in una produzione Rai passata anche in sala: un omaggio di cui potremmo attaccare la scrittura un po' dozzinale, la regia televisiva, se non fosse per la bravura di un'incredibile Serena Rossi. Doppiatrice Disney con un passato nel cast di Un posto al sole, mica nell'Actors Studio, l'attrice partenopea compensa con il cuore e il mimetismo lì dove il timbro è troppo diverso, lì dove la scrittura rischia di scivolare troppo nel melodramma. Attorno a lei, somigliante senza gli sforzi clowneschi di Rami Malek, ruotano gli amici Lauzi e Califano; la sorella Loredana, interpretata dalla dolce metà di Thom Yorke; gli alti e bassi con il compagno storico, sostituito qui da un fotografo fittizio davanti al rifiuto di Fossati di prender parte alla produzione. Io sono Mia è un biopic romanzato, in chiave femminista, su una Janis Joplin nostrana trasformata per colpa di terzi in una maschera di dolore. Perseguitata da accidenti grandi e piccoli, costretta alla fine a cantare nelle sagre di paese, aveva senz'altro bisogno delle scuse ufficiali. Di una commemorazione sentita e rispettosa, emozionantissima, a cui chiunque perdonerebbe l'effetto agiografia: ben vengano i film spiccatamente di parte, purché stavolta siano dalla sua. (7)

Lei è un'insegnante con un disperato bisogno di speranza, lui un allievo prodigio che compone poesie nell'indifferenza generale. Se pensate sia l'inizio di un dramma per famiglie nello stile di Gifted, siete fuori strada. Perché, guidato da un'ottima Maggie Gyllenhaal a proprio agio con i personaggi controversi, Lontano da qui è un film che spiazza: abbastanza da stregare il Sundance e da imporsi, a sorpresa, fra le migliori visioni dello scorso anno. In cerca di una via di fuga dalla routine, di un tocco speciale a una scrittura a cui manca sempre il guizzo, l'irrequieta insegnante scopre accanto al piccolo poeta una vita più incantata, più movimentata, più pericolosa. Lei è la sola a prenderlo sul serio: gli dà corda, prende nota delle sue fantasticherie, lo rapisce letteralmente per portarlo ai reading pubblici, gli presta voce spacciando i suoi componimenti per propri. Non si accorge che c'è del morboso, qualcosa che non va: lo sguardo disarmante e indagatore del pupillo – che in fondo vuole più bene all'altra maestra, e che a giorni premette lo sport alla letteratura – ne metterà a nudo le contraddizioni. La Gyllenhaal preferisce infatti Gael Garcìa Bernal al marito panciuto, l'allievo prediletto ai figli adolescenti ipnotizzati dai cellulari: politicamente scorretta e profondamente umana, a tratti inquieta e a tratti commuove per questa esigenza di bellezza che non possiamo non condividere. Durante la visione dell'ottima seconda prova di Sara Colangelo sospendi qualsiasi giudizio morale – la protagonista va stimata o forse ostracizzata? – e, come se si trattasse di un thriller, ti scopri prima affascinato, poi spaventato dai meccanismi psicologici della protagonista: una poetessa bugiarda, una mecenate aspirante, che passa da maestra a tata, fino a ricoprire il ruolo di stalker ossessiva. Lontano da qui è un enigma pedagogico fra due estremi: la totale disattenzione di alcuni da un lato, e dall'altro le premure esagerate di chi osa sognare un futuro migliore. Ma questo mondo non ha orecchie attente, va di fretta. Troppo pragmatico per i geni incompresi, per le professioniste che fanno della loro missione una questione di vita o di morte, corre il rischio che certe richieste d'attenzione, certi piccoli grandi film, passino inascoltati. (8)

Non tutti hanno il fisico per vivere in una commedia romantica. Non di certo Rebel Wilson, goffa e disincantata, che non somiglia affatto a Julia Roberts. Cosa succederebbe se la spettatrice più cinica del mondo, in seguito a uno scippo, si risvegliasse in un mondo parallelo in cui vigono i toni, i colori e i cliché di Pretty Woman? Dai cartelloni pubblicitari scende la splendida Priyanca Chopra per corteggiare l'eterno migliore amico Adam Devine, il vicino di casa spacciatore si evolve nello stereotipatissimo consigliere gay, il minore dei fratelli Hemsworth d'un tratto non ha occhi che per la protagonista. Dal regista di quel gioiellino che fu The Final Girls, altra parodia dal cuore grande, arriva così Non è romantico?. Un collage a fantasia di luoghi comuni e scene topiche, in cui trovare il meglio e il peggio delle romcom di ogni dove. Il risultato è un omaggio autoironico e dalla confezione inaspettatamente curata, con una morale di fondo aggiornata – amare gli altri anziché se stessi rende davvero più completi? – e una Wilson, al solito, vulcanica. Mettete pure in conto coinvolgenti momenti canori degni di un musical, elicotteri privati come se piovessero, un abito elegante per ogni occasione e qualche consapevolezza aggiunta strada facendo: assolutamente, però, niente sesso. Vittime del cinismo diffuso, anche noi abbiamo il dente avvelenato verso il lieto fine. Un po' come le volpi del proverbio, che non arrivano all'uva e fingono allora sia acerba. Che male c'è, invece, a sognare a occhi aperti? A viversi la vita con quest'invidiabile leggerezza, rigorosamente in rosa? (7)

Quanto conta l'aspetto esteriore? L'inadeguatezza ha confinato a lungo Amy Schumer in un ruolo subalterno: è un altro colpo in testa, un'altra epifania, a convincere quest'altra bruttina della commedia americana a vivere a testa alta e sognare in grande. Basta crederci. E piace proprio crederle, sì, mentre invade a gamba tesa gli uffici patinati del Diavolo veste Prada per proporsi come segretaria: se perfino Emily Ratajkowski può essere piantata in asso e una strepitosa Michelle Williams fa i conti con la voce stridula della diva di Cantando sotto la pioggia, allora tutto può succedere. Anche essere a tanto così dallo sbancare una gara disputata fra sexy miss in maglietta bagnata, o svegliarsi in una sorta di Big al tempo dei body shaming. La Schumer non cambia di una virgola. Impara a vedersi irresistibile, e tutti sembrano crederle di conseguenza. L'autostima, la teoria del bicchiere mezzo pieno, sono una potente arma di persuasione per affermarsi in ufficio e in amore. Anche a rischio, quando parte della cerchia dei vincenti, di macchiarsi di egoismo e superficialità? Banalizzato dal titolo italiano, Come ti divento bella è una commedia mediamente divertente, bella più dentro che fuori, con una lodevole morale di fondo e la fisicità dirompente di una Schumer da me eppure poco apprezzata in passato. Funziona e intrattiene, per fortuna, anche quando i centodieci minuti complessivi sembrano troppi; quando l'incantesimo si spezza. (6,5)

Quanto conta il titolo di studio? È il dilemma di Jennifer Lopez – ancora una volta, novella Cenerentola – che lavora come commessa nonostante il fiuto da imprenditrice navigata. Come in una puntata di Younger, le bugie le spalancano le porte di un'azienda di grido: dall'alto del suo falso curriculum, così, brevetta la formula di una crema di bellezza e si scontra con la rivale Vanessa Hudgens, collega sul piede di guerra. Ricomincio da me, ritorno al cinema della popstar che negli anni Duemila era la regina incontrastata di un certo filone di commedie sentimentali, presenterebbe in teoria qualche variazione sul tema: oggi si premette la carriera all'amore, con buona pace di Ventimiglia; ci si vanta di una laurea che non si ha; si custodisce un segreto di gioventù che rischia di tornare alla luce non senza colpi di scena. La pratica, invece, è ben altro paio di maniche: sarà che lo sforzo maggiore richiesto alla protagonista, cinquantenne di una bellezza sconfinata, è fingere di avere dieci anni di meno e rispolverare, all'occorrenza, le pose che per un periodo l'hanno resa una stella anche del botteghino. A dispetto del titolo, quindi, questo è un falso nuovo inizio, una ripartenza soltanto annunciata: lì il suo pregio, se fan di una Lopez che fa una discreta figura in qualsiasi veste; lì il suo difetto, se da Peter Segal, veterano del cinema di genere, ci si aspettava una serata di sorrisi meno tirati. (5,5)

mercoledì 17 gennaio 2018

I ♥ Telefilm: Black Mirror - Stagione IV | The End of the F***ing World

Specchio, specchio delle mie brame, qual era la serie più attesa del reame? L'ho trovata per fortuna già lì, senza aspettarla quasi. Sei episodi – geniali al solito, si sperava – caricati a cavallo fra l'anno vecchio e il nuovo. Tempismo sbagliato per pensare ai listoni, già chiusi e fissati su carta, ma non per darsi all'abbuffata – saltando le feste e i loro banchetti da mille portate, scarsi sensi di colpa da parte mia. Qualche boccone, qualche episodio, mi è andato però di traverso. Ma andiamo con ordine, partendo da una stagione fa: la terza – la prima che ho visto in realtà – magistrale sì ma, con il senno di poi, già in procinto di allontanarsi dall'umorismo british, dalla satira rivoluzionaria delle prime due. Preferendogli qualche volto noto, mano fermissime alla regia e gli amori dell'indimenticato San Junipero. L'impressione va accentuandosi nel corso della quarta. Riflesso confuso di una serie antologica che questa volta ha troppe eroine e pochi spunti vincenti. Di quelle puntate divorate per foga, per curiosità, poche non lasciano l'amaro in bocca. Si apprezzano l'aria vintage e il cast della prima – regata virtuale in stile Star Trek, capitanata da un frustrato e onnipotente Jesse Plemons – ma la fantascienza anni Settanta, forse limite mio, annoia un po' (6,5). La seconda, diretta da una Jodie Foster assolutamente fuori forma, racconta le ansie di mamma Rosemarie DeWitt, diventate ossessione nell'attimo in cui le nuove tecnologie le permettono di spiare costantemente l'unica figlia: una protagonista insopportabile e il taglio da giallo di Rai Due non aiutano (5). La terza, un Fargo al femminile, è la mattanza a opera di un'ottima Andrea Riseborough per proteggere interessi personali, segreti e lacrime di coccodrillo (6,5). La quarta, splendido fiore all'occhiello a metà tra 500 giorni insieme e Equals, ha finalmente del capolavoro: lui incontra lei, si piacciono, ma una società che monitora i cittadini, gli amanti, ha piani imperscrutabili per la loro relazione (8,5). Della quinta, survival horror in un rigoroso bianco e nero, si salva la regia di David Slade: la storia della donna braccata da un cane robot, in un anonimo deserto, non volevamo sentirla, almeno non qui (5,5). Per fortuna, qualche lampo di brillantezza nella chiusa metatelevisiva, in cui però l'ennesima femminista, l'ennesima vendetta, giustificano la grande stranezza, e la riducono ai minimi termini (7). Charlie Brooker è stanco. Lo Specchio Nero, nella stagione che ha meno colpi di scena, meno cose su cui spingerci a riflettere, è appannato. Se contro l'opacità non basta il Vetril, qualcosa possono la straordinaria delicatezza dell'inconsueto invito a cena di Hang the DJ; un museo degli orrori, in memoria dei Black Mirror presenti e passati, in cui non vorremmo che i cimeli esposti fossero vestigia di un futuro che già non c'è più. (6,5)

Dopo tanto, iniziare come preferisco io. Il ragazzo incontra la ragazza. James, seduto da solo al tavolo della mensa, conosce la scostante Alyssa, ultima arrivata. Lei, annoiata da tutto e tutti, da una famiglia allargata di cui non può sentirsi più parte, vorrebbe fuggire via – e nel silenzioso coetaneo dalla macchina perfettamente funzionante ha individuato un ideale compagno di viaggio. Lui, psicopatico senza se e senza ma, dopo un'infanzia passata a seviziare animali randagi, ha deciso di passare agli esseri umani: perché non partire proprio da quella ragazza che, dal nulla, gli si è gettata fra le braccia? Succede che partono, sulle tracce del papà truffatore di lei. Succede che il male, prima in teoria e poi in pratica, lo sperimentano davvero strada facendo. Assieme a quella tenerezza, a quella specie d'amore che amore non è, che né l'uno né l'altra – troppo anaffettivi, troppo fuori – contemplavano in partenza. Alyssa, alla cieca, si affida a un aspirante serial killer. James, somigliante al protagonista di Atypical ma con in aggiunta la vena di sadismo di Bates Motel, sente presto di non poter fare a meno della compagnia di un'attaccabrighe per natura. Acuto, violento, dolcissimo, The End of the F***ing World è la commedia adolescenziale che si veste di nero. Una scoperta su ruote divorata in tempi record, con i personaggi assurdi a cui mi affeziono per principio, le tavole calde dei boy meets girl di cui non avrò mai abbastanza, una sognante colonna sonora sottratta per rapina a mano armata alla grazia degli anni Cinquanta. Bonnie e Clyde, al giorno d'oggi, hanno grosse questioni irrisolte con mamma e papà. Sfoggiano camicie hawaiane super kitsch e tinte biondo platino. Hanno i volti freschi degli ottimi Jessica Barden e Alex Lawther, il pulp del fumetto d'origine, il mondo intero contro. Se si innamorano, complici d'omicidio e braccati, chi lo sa. Ma di loro, strambi e adorabili, mi sono innamorato un po' io. Perché fanno ridere, fan preoccupare, dall'inizio alla fine: la stessa che purtroppo cala presto dall'alto, sorprendendoli come a metà della corsa. In patria, hanno fatto poco rumore per disseminare veleni, cadaveri e cuori infranti. Le cose, da questo mese, potrebbero andare diversamente su un Netflix non sempre all'altezza delle proprie produzioni originali, vero, ma generoso Mecenate. Sperando vivamente che la fine del titolo sia soltanto l'inizio della loro avventura. E, sì, di una c***o di fantastica storia d'amore. (7,5)

mercoledì 4 gennaio 2017

Mr. Ciak: Animali Notturni, Blue Jay, Passengers, La ragazza del treno

Susan, sofisticata gallerista, riceve un manoscritto inedito da Edward, il primo marito. Lei borghese e lui senza il becco di un quattrino: tra i due, quando la ribellione aveva ceduto il passo alla routine, non era finita bene. A ispirarle un impensato esame di coscienza, a rubarle il riposo, quella lettura che la rabbonisce e la schiaffeggia. Il dolce Edward la turba pagina dopo pagina, con un'opera di cui non lo credeva capace: la parabola violenta, disperata, di un uomo che persegue una lenta vendetta. Animali Notturni è il ritorno di Tom Ford dopo lo struggente A Single Man. A suo agio con le scarpe a specchio e i divi senza un capello fuori posto, qui vuole stupire – e ci riesce, anche se in definitiva gli ho preferito il più scontato melodramma con Firth – con una storia nella storia. Animali Notturni, coinvolgente thriller allo specchio, si divide in due metà perfette e complementari: costruito su piani narrativi opposti, alterna la realtà di Susan – fredda, manierata, brillante come l'acciaio: e lì, in tutta la sua eleganza, c'è il tocco del pioniere delle passerelle – alla fantasia di Edward – al contario polverosa, sporca, selvatica. E, ambizioso, il film è a due generi inconciliabili che guarda: il languore del melodramma, così, viene stuprato dagli energumeni sudici e logorroici del pulp di Tarantino. Tra passato e presente, sparatorie e vernissage, Animali Notturni è essenzialmente l'amara storia d'amore e vendetta di due vecchi amanti – la magnifica Amy Adams, il tormentato Jake Gyllenhaal – che, rancorosi ma presi, si tolgono il sonno a vicenda. Cos'è stato dell'universitaria tanto disgustata dal perbenismo borghese? Cosa dell'artista debole e bisognoso, ora artefice di parole come lame? Le lunghe e soffocanti notti di Tom Ford non sono fatte per l'amore. Il regista con il cognome da eroe western e lo sguardo dell'esteta, cinico e sempre padrone di sé, bilancia le prove del suo cast di fuoriclasse, gli opposti, le gradazioni di colore. La luna sussurra un agghiacciante racconto pulp che, tra le righe, riassume vent'anni di lontananza. E la scrittura, ammaliante e ragionata, onnipotente, è un'arma che assicura finalmente l'ultima parola a chi – contro Cupido e l'ipocrisia – una volta ha già perso. Quando ti innamori di uno scrittore, dicono, vivi per sempre. E quando gli spezzi il cuore? (7,5)

Quanto è bella Sarah Paulson: non ci avevo fatto caso. Quello il primo pensiero, vedendola sorridere per la prima volta senza badare alla dizione perfetta o alle rughe d'espressione. Meno manierata che in passato, sciolta e confidente, mette in scena non un personaggio ipercaratterizzato dei suoi: Amanda ha il suo stesso viso, un marito molto più grande e, tornata nella città natale per aiutare la sorella incinta, consacra un pomeriggio alle spese folli per assecondare le voglie della parente. Tra le corsie del supermercato incrocia il Jim di un sorprendente Mark Duplass: al liceo erano innamorati pazzi, ma ventidue anni di silenzi e lontananza li hanno trasformati. Lei, con un berretto che le schiaccia i capelli e un giaccone trasandato, è tentata di volgere lo sguardo altrove; lui è uscito di casa senza radersi e lavarsi i denti. Ma loro invece si guardano e se lo domandano: com'è possibile ritrovarsi lì, in quell'angolo di California in cui niente – attempati cassieri compresi – è davvero cambiato? Possono fingersi per una notte quelli di sempre, come se non ci si fossero messi di mezzo matrimoni, amarezze e bivii raggirati? Blue Jay è un poco galante invito a cena che nasconde, in realtà, una scusa: viaggiare attraverso gli anni Novanta, dando man forte alle musicassette e alla nostalgia, e ballare scordinati Annie Lennox pestandosi le scarpe. Dramma indie prodotto da Netflix e presentato in anteprima a Toronto, ha quel che cerco in una storia d'amore da Prima dell'alba in poi: lunghi dialoghi che fanno il bello e il cattivo tempo, personaggi che trasformano le reciproche fragilità in vanto – Amanda non sa piangere, mentre l'emotivo Jim deve avere dimenticato come frenare le lacrime – e registi discreti, che ci sono ma non si vedono. Blue Jay, eppure, ha l'esordiente Alex Lehmann a dirigere, e la sua scelta è ricaduta su intensi primi piani e uno struggente bianco e nero. Però la splendida Paulson e il sensibile Duplass, protagonisti di una magica sintonia, chiacchierano senza intralci – intorno a loro è scomparsa la troupe, dev'essere finito anche il mondo – e si abbandonano indisturbati ai ricordi. Maestri dell'improvvisazione, si fingono marito e moglie con accenti posticci e languori che scoppiano in sincere risate. Ma la loro buffa e agrodolce farsa è più vera della realtà: più felice di sicuro. I grigi limpidi e i sorrisi rubati per un soffio a Blue Jay stracciano il cuore. E come dicono di una ballad di Adele che canta la gioventù perduta e seconde possibilità che spaventano, nel mentre puoi sentire perfino la nostalgia delle persone che non hai ancora amato. (8)

C'è chi, nei momenti di sconforto, nel freezer ci trova il gelato al pistacchio. E chi, naufrago verso un pianeta da colonizzare, scongela a piacimento una Jennifer Lawrence per combattere l'incontenibile tristezza che affligge i passeggeri solitari. Jim si risveglia con novant'anni d'anticipo. Il resto dell'equipaggio, immerso in un sonno criogenico, continua a dormire. L'insonne condanna alla sua stessa sorte Aurora, sperando di proteggerla il più a lungo possibile dalla verità. Futuristici Adamo ed Eva su una navicella che cola a picco dopo il romantico idillio iniziale, Christ Pratt e Jennifer Lawrence. Coppia tanto attraente quanto sopravvalutata, i due riempiono il secondo film statunitense di Morten Tyldum di ammiccamenti, litigi e occhiate poco convinte. A scatola chiusa, eppure, Passengers sembrava fantascienza seria. Distribuito nell'imminente stagione dei premi sulla scia del fortunato The Imitation Game, faceva il verso a Gravity con la partecipazione dell'asso piglia tutto Jennifer Lawrence. Furbo e attesissimo, il film prometteva odissee nello spazio e scintille: chi non ha letto almeno una volta le dichiarazioni della protagonista, brilla per combattere l'imbarazzo delle scene più spinte? Passengers ha un sesso immaginario – a qualcuno andrà forse meglio, con una visione passeggera del sedere di Pratt – e una scrittura vittima del ridicolo involontario. Se l'ironia di lui ispira empatia, l'assurda concitazione della Lawrence fa sì che la nave (ogni riferimento a Titanic non è causale) imbarchi altra acqua. Passengers altro non è che una commedia superficiale nello spazio profondo. Da non amante della fantascienza, non posso dire che la leggerezza della traversata mi abbia annoiato. Le esplosioni delle grandi produzione e le potenziali svolte tragiche, però, fanno sorridere. A contendersi la colpa di questo blockbuster in avaria, lo sceneggiatore e, a sorpresa, due divi colti impreparati dalle lunghe e spontaee passeggiate dalle romcom che dico io. Con un bravissimo Michael Sheen al bancone, automa loquace e pettegolo, si beve per dimenticare le fotoricordo di una goffa e pacchiana crociera tra le stelle. (5)

Rachel affoga i dispiaceri in una bottiglia di chardonnay e, dal finestrino del regionale, sbircia le vite altrui. Spia l'ex, felice accanto a un'altra donna, e fantastica su una coppia sconosciuta che associa alla perfezione. Viaggiando assiste a un tradimento che fa vacillare le sue fiabe. E, svegliandosi da una notte di eccessi, insanguinata e piena di lividi, scopre che Megan – la bionda tanto invidiata – è stata uccisa. Rachel ha visto l'assassino in un momento di lucidità? O è lei, gelosa, a essersi macchiata del delitto? La trama la conoscete: è quella del thriller più venduto da due anni a questa parte. La mia opinione, forse, pure: un gonfiatissimo caso editoriale, criticato per lo stile pedestre e il giallo intuibile. La ragazza del treno era raffazzonato, intricato invano. Una trasposizione poteva fare solo meglio. Il film di Tate Taylor, stroncato dalla critica, mi ha convinto il giusto, mostrandosi superiore al romanzo della Hawkins – poco ci vuole, uno dice – e alle mie scarse aspettative. La struttura tripartita resta, e insieme a quella anche i difetti. Le voci narranti, il montaggio che prevede salti indietro tutt'altro che pratici, il ritmo lontano da qualsiasi frenesia si addicono poco alle esigenze del cinema di genere. Se il gioco non vale la candela, se il mistero è modesto come in questo caso, il puzzle di prospettive diverse – schematico ma originale – giova. Se personaggi maschili ridicolmente belli e sospetti fanno da corollario, allora, meglio le donne: sprecata la Ferguson, annoiata moglie trofeo; sorprendente la sexy Haley Bennett, irrequieta e sofferente traditrice; in odore di nomination una farfugliante, stravolta Emily Blunt. La ragazza del treno continua a non avere i segreti diabolici di Gone Girl, ma i pensieri incensurati delle protagoniste lo avvicinano a un dramma psicologico che, tra le righe, convince parlando di maternità e relazioni. Tu togli una pessima scrittura e aggiungi un cast di prime donne: così facendo, anche i prodotti più modesti non escono fuori dai binari. (6,5)

domenica 16 ottobre 2016

Recensione: L'imperfetta meraviglia, di Andrea De Carlo

Ecco la meraviglia imperfetta. Al grado più alto di perfezione che l'imperfezione potrebbe mai raggiungere.

Titolo: L'imperfetta meraviglia
Autore: Andrea De Carlo
Editore: Giunti
Prezzo: € 18,00
Numero di pagine: 366
Sinossi: Succede in Provenza, d'autunno, stagione che mescola le prime umide nebbie con un lungo strascico di calore quasi estivo. I borghi e le ville si stanno vuotando di abitanti e turisti. Ancora un grande evento però si prepara. Quasi a sorpresa, sul locale campo di aviazione, si terrà il concerto di una celebre band inglese, i Bebonkers, un po' per fini umanitari, un po' per celebrare il terzo matrimonio di Nick Cruickshank, vocalist del gruppo e carismatico leader. I preparativi fervono, tutti organizzati con piglio fermo da Aileen, futura moglie di Nick. In paese c'è una gelateria gestita da Milena Migliari, una giovane donna italiana che i gelati li crea, li pensa, li esperimenta con tensione d'artista. Un rovello continuo che ruota attorno all'equilibrio instabile del gelato, alla sua imperfetta meraviglia perché concepita per essere consumata o per liquefarsi, per non durare. Milena ha detto addio agli uomini e convive da qualche anno con Viviane. Un rapporto solido, quasi a compensare l'evanescenza dei gelati, l'appoggio di una donna stabile e forte, al punto che, tra qualche giorno, Milena si sottoporrà alla fecondazione assistita. Eppure, in fondo, Milena non ha voglia di farlo davvero questo passo che forse non ha proprio deciso. Incerta senza confessarselo, Milena. Come Nick, che si domanda da quando il suo rapporto con Aileen ha perso l'incanto dei primi tempi.
                                               La recensione
Lei, Milena Magliari, ha aperto una piccola gelateria in una Provenza che, d'autunno, si spopola: italiana trapiantata in Francia, senza radici, ha rinunciato al fare possessivo degli uomini del suo passato e, infine, ha ripiegato sull'amore per le donne e l'alta pasticceria. Lui, invece, è Nick Cruickshank e, se solo non fosse un personaggio d'immaginazione, il suo nome ti suonerebbe familiare: stella del rock sul viale del tramonto, frontman di un'apprezzata band di canaglie bontempone, è in Europa per un concerto di beneficenza in grande e per il suo ennesimo matrimonio – se il terzo o il quarto, mi sfugge. Cosa c'entrano un'italiana e un irlandese in Francia, con un piccolo corto circuito che minaccia di liquefare un accurato lavoro di pazienza e ispirazione, un incontro che cambia d'un tratto i piani a lungo termine, una riflessione sull'imprevisto e sugli attimi da cogliere, come fossero margherite in un prato? Soprattutto, cos'è di lui e lei – insieme, un sorprendente loro -, se i protagonisti hanno appena un weekend per rivoluzionarsi e, a scrivere, c'è uno scrittore che non facevo così romantico, così delicato? L'imperfetta meraviglia, che ha un titolo bellissimo e una copertina che fa gola in qualsiasi stagione, con il caldo e con il freddo, è l'ultimo romanzo di un Andrea De Carlo che leggo solo ora: al passaggio dalla Bompiani alla Giunti; galeotta un'atipica commedia italiana che non immaginavo nelle sue corde, né nelle mie. Autore prolifico e generazionale, inarrestabile tra gli anni Ottanta e Novanta, De Carlo si era fatto conoscere dai più giovani come giudice di Masterpiece, talent letterario destinato a chiudere presto scuri e battenti: su Rai Tre, in tarda serata, con i suoi giudizi spietati e la sua alterigia, lo avevo trovato irritantissimo. Questione di ruolo, indubbiamente; colpa del personaggio del maestro inflessibile e spocchioso che, come Carlo Cracco, si era cucito a pennello. Se lo chef veneto, così facendo, risulta però bello e dannato da svariati palinsesti, Andrea De Carlo mi era parso solo antipatico: addio, così, al buon proposito di leggere Due di due, da anni sul ripiano più alto del mio scaffale. Meraviglia sì, perciò, il ritorno con L'imperfetta meraviglia; scoprirlo gentile, ma meticoloso narratore di questa squisita storia dai toni pastello, in cui un uomo qualsiasi incontra una donna qualsiasi nel momento meno propizio. A capitoli alterni, in terza persona, i protagonisti si svelano. La professionalità di un autore con diciannove romanzi all'attivo è tutta lì: in lunghi scandagliamenti interiori, in rimuginamenti che suonano spesso prolissimi, ma assolutamente autentici.
Milena, compagna della fisioterapista Viviane, è in crisi: la partner preme per la fecondazione assistita, vuole volare in Spagna e diventare genitore, ma la geniale gelataia ha qualche dubbio. Si sente messa alle corde. Pensa che, per l'ennesima volta, la persona con cui divide il letto – uomo o donna, non importa - stia scegliendo a nome di entrambe. Viviane la sottovaluta, Viviane la sommerge di aspettative: rischia di implodere o annegare, mentre elabora nuovi gusti (un esemplare fiordilatte, un cachi irresistibile) nella sua pittoresca bottega di paese e, su ordinazione, sale in auto e porta dieci chili di gelato a un'eccentrica donna dall'accento straniero. Nick, futuro marito della stilista Aileen, ha aperto il suo villino ristrutturato in vista delle nozze imminenti: gli ospiti sono numerosi e invadenti, i membri della sua storica band e le loro capricciose consorti litigano ogni tre per due e, in una casa sconfinata, lui che all'apparenza ha tutto, si trova a non avere spazio a sufficienza per mettersi in un angolo e godersi i benefici della solitudine: un libro dell'Odissea da leggere, senza che nessuno dica, canzonandolo, che non lo faceva tipo da hobby sofisticati; un mandolino da strimpellare, magari, che stonerebbero troppo nelle immutabili sonorità degli ormai stanchi Bebonkers; un altro assaggio delle meraviglie della pasticciera che, mite e solare, misteriosa e affabile, ha bussato alla sua porta con dieci vaschette di gelato, due occhi belli da morire, una storia di cui vuotarsi le tasche. 
Ma sono diversissimi, e non è bene parlarsi, nel chiasso degli invitati parvenu. Non è che si piacciono, non proprio: si capiscono al volo, però. E il loro essere ugualmente inappagati, le loro relazioni ugualmente a un bivio, li renderanno timidi e complici, simili, ma alla maniera di quei boy meets girl in cui si chiacchiera di tutto e di niente, in cui ci si ama ma distanza, all'ombra di suggestive città e finali in sospeso. E io che, in gelateria, richiedo sempre il solito cono nocciola e pistaccio, da sgranocchiare al volo passeggiando; senza andare tanto per il sottile. E io che pensavo che l'impegnato De Carlo non conoscesse la leggerezza, la grazia dei colpi di fulmine; che il divo e la pasticciera fossero dotati di ingegno acuto, palato fine e poco cuore...
Coppetta o cono? E il cucchiaio, ancora: di plastica, legno o metallo? Nei gelati di Milena – per cui, tra l'altro, sembra valere il detto: dimmi cosa prendi al bancone, e io ti dirò chi sei -, trovano posto spolverate di pepe rosa e spezie impensate, lacrime versate e sorrisi conciliatori. Pizzicano il palato, allietano il cuore. Come loro, L'imperfetta meraviglia: curato, ironico, genuino. Una commedia dal piglio inaspettato, rinfrescante e malinconica, in cui gusti e pensieri fanno pendant. Da divorare prima che ci si sciolga in mano e che, nel pugno, restino grani di zucchero che sembrano polvere di stelle. La crema nella barba, i frammenti di cialda addosso, le antiestetiche sbavature di sorta. Per godersela e riconoscerla, la meraviglia - quella delle storie semplici, quella delle narrazioni ad ampio respiro -, finché dura.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Lumineers - Flowers in your hair 


venerdì 2 settembre 2016

Mr. Ciak: The Conjuring 2, Il drago invisibile, La famiglia Fang, Hello my name is Doris, In the deep, Lights Out

I coniugi Warren, cacciatori del paranormale, hanno prestato le loro storie del terrore al cinema già qualche estate fa. Ne era venuto fuori l'efficace The Conjuring: uno dei maggiori successi di quella stagione cinematografica e, a memoria, forse l'horror più valido. In una solita ma solida ghost story, lo spirito di James Wan – giovane portento – faceva la differenza sostanziale. E il già visto, portato in scena da lui, era così sinistro, così affascinante, da cancellare ogni dèjà vu. Nel suo cinema, quella macchina da presa che piroetta, trema e impenna era ed è lo spettro più inquietante. Anche qui, in un sequel che su carta non sembrava indispensabile, si dà alle danze e ai manierismi: l'orrore, se elegantissimo, incanta. Il prologo, che arriva subito al dunque, vuole i protagonisti impegnati presso una famigerata casa infestata: cos'è successo a Amityville? Da lì, il successo mediatico, i talk show e, infine, uno spinoso ingaggio nella periferia londinese. E i cieli in tempesta, le foglie spazzate dal vento, la pioggia battente e le nebbie quanto si prestano al gioco delle evocazioni spiritiche? Il caso, già affrontato in una miniserie dello scorso palinsesto, è quello di Enfield: una madre single e i suoi bambini, terrorizzati da un distruttivo poltergeist. Speculazione o verità? Il caso Enfield, meticolosa ricostruzione storica e persuasivo intrattenimento, è un sequel all'altezza. Un horror della vecchia guardia, con spifferi, sobbalzi e letti che cigolano, parco di splatter e copioso nella scrittura. Due ore: tante, per una pellicola del filone. Eppure scorrono perfette, dispensando momenti di quotidianità (i gesti romantici tra Wilson e la Farmiga, ottimi; i drammi di una famiglia misera e tribolata; Elvis strimpellato in soggiorno per tornare a sorridere) e brividi adeguati (splendida la sequenza dei crocifissi rovesciati in sincrono, ad esempio, e che inquietudine questa monaca che infesta i corridoi kitsch). Troppa distensione nella chiusa però, anche se sembra una promessa di equilibrio: un terzo capitolo sì, ma non per forza. Solo se ci saranno paure recondite, storie vere in cui frode e occulto si mischiano, i guizzi di Wan. Che in un gioco di prestigio, in un'altra estate, tira fuori dal mazzo la carta vincente. E assuefatti, dunque impreparati, veniamo tirati su da una sorprendente riconferma; da un rumore in cantina che suona molto sospetto. C'è del buono – e anche un po' di buonismo – nel male in visita a Londra nord. (7,5)

Un incidente stradale, un piccolo sopravvissuto, un libro di fiabe sempre appresso. Come vivere cinque anni nel bel mezzo della natura incontaminata? Se lo domandano Grace e il suo compagno, all'indomani del ritrovamento del misterioso Pete in boschi minacciati dall'abbattimento. Chi è l'Elliot da cui il bambino vuole disperatamente tornare? Un frutto della sua immaginazione, o una leggenda diventata realtà? Il drago invisibile del titolo è verde, affettuoso, paterno e, generazioni fa, lo abbiamo già conosciuto. Era a disegni, buffo e con un ciuffo rosa in testa, similissimo al Prezzemolo della Sammontana, e avevo preso in prestito il suo film alla biblioteca comunale insieme a mio fratello. Una videocassetta che risultava sgangherata e fuori moda anche al tempo; io, che non avevo in me lo spirito del rigattiere, nato a vent'anni dall'uscita, non avevo troppo apprezzato. Ho visto il remake con pochi ricordi in mente e, a far da pendant, poche aspettative. Spiazzato, invece, mi sono scoperto preso e perfino commosso, letteralmente, da un intrattenimento da bollino verde: lineare, sì, ma educativo e toccante, in anni in cui si parla di diritti, normalità e famiglie alternative. Come in Room, spettinato e sperduto, il bambino fa il suo ingresso nel mondo – e male non si trova, in realtà – ma con il suo amico, nel verde, lui aveva tutto quel che desiderava. Difficile spiegarlo a chi è spaventato dall'ignoto, a chi abbatte alberi secolari e spezza amicizie straordinarie. E nel tentativo, tra fughe, ripensamenti e salvataggi, dove il mostro è quello capace di reale umanità, Il drago invisibile ci regala una fiaba vecchio stile realizzata con dolcezza, ben recitata, in cui Elliot – anche se con la solita computer grafica, che elimina la poesia del tratto a matita – ha l'espressività dei nostri amici a quattro zampe e dello Sdentato di Dragon Trainer. (6,5)

Annie e Baxter, lei attrice e lui scrittore, sono fratelli. E, sulla quarantina, non hanno ancora trovato la loro strada, nonostante la notorietà non li molli mai. Si muovono all'ombra di due genitori ingombranti, che alcuni chiamano artisti e altri ciarlatani: per anni e anni, hanno messo su scherzi elaboratissimi, performance provocatorie e divertenti, rendendo i loro figli – adesso, a un bivio – interpreti dei loro siparietti. Se a un certo punto mamma e papà scompaiono, lasciandosi dietro qualche mistero, cosa faranno i protagonisti? La famiglia Fang, cronaca di una sparizione, è l'ennesimo tiro mancino di due mine vaganti, o amara verità? Un cast brillante, aria da Sundance, uno spunto particolarissimo. Quel non so che à la Wes Anderson, che, sotto sotto, mi preoccupava un po', evitato dai toni sobri, l'approccio intimista, la regia senza fronzoli di un Jason Bateman che si conferma un bravo attore, anche quand'è semiserio, e un esordiente che, in doppie vesti, guida una trattenuta Kidman e l'istrione Walken come se fosse la cosa più naturale del mondo. Se il comparto tecnico non ha grosse mancante, a meno che poi non siate amanti inguaribili dei colori pastello del padre dei Tenenbaum, a non convincere è qualcosa nella storia. Che rende il film un po' dramma, un po' commedia, un po' giallo: e, di quel di tutto un po', niente allo stesso tempo. Tant'è vero che anche la risposta a un quesito sollevato a mezz'ora dall'epilogo – ossia, cosa è stato davvero dei maghi dello scherzo? - perde d'importanza. Prevale l'indecisione, l'inconsistenza è la sensazione predominante, e i soggetti di questa foto di famiglia con tutte le carte in regola per piacere – attori fotogenici, molta carne al fuoco – appaiono sbiaditi, all'uscita dalla camera oscura. (5,5)

Doris, ultrasessantenne trasognata e inesperta, accumula cianfrusaglie in maniera compulsiva nella sua casetta fuori mano e in quella casetta lì ci vive con una madre che ha bisogno di lei. Cosa succede se la genitrice muore e lei, non è più una giovincella, si ritrova a camminare sulle proprie gambe? Com'è cominciare a vivere nell'età in cui, tra acciacchi e uncinetto, pensione e vedovanza, tutte le sue coetanee si danno già per spacciate? Deliziosa favola hipster, il film va in fermento con romantiche visioni da Harmony e malinconiche riflessioni sulle esistenze che, sfortunatamente, sbocciano tardi. Perché il prossimo ha avuto la precedenza, e i sessant'anni sono perfetti per imbrogliare Cupido, rompere coppie a tradimento e godersi i pregi dell'egoismo. Che importa se spii un tuo giovane collega, lui al momento è in una relazione complicata e, in fondo, potresti tranquillamente essere sua madre? Chi dice che una vecchietta, una di quelle per cui al cinema stravedo, non può mollare cose come le liste, il giardinaggio, gli ultimi giri di boa, i lasciti, per darsi a pensieri da giovani, come una ristrutturazione radicale o l'amore impossibile? Il collega in questione è identico e preciso al Max Greenfield di New Girl e, negli inarrestabili sogni ad occhi aperti della protagonista, ricambia il suo sentimento e appare come un cavaliere senza macchia: l'epilogo le chiederà forse di svegliarsi? Sotto gli occhiali a fondo di bottiglia, c'è una straordinaria Sally Field. Colorata prozia di Bridget Jones e versione indie e newyorkese della cugina francese Odette Tolumonde, l'ex moglie di Mrs. Doubtfire brilla per autoironia, grazia e fragilità, e la sua prova è così fresca in questi caldi rimasugli di stagione da sperare di vederla (ma sarà troppo tardi o troppo presto?) ai prossimi Golden Globes. Realtà e immaginazione, voli pindarici e dolorosi ritorni alla base si confondono, in Hello, my name is Doris. E lei si presenta sin dal titolo: timida e in tiro, educatissima. Ma, in realtà, il piacere dell'incontro è tutto nostro. (7)

Kate e Lisa sono l'una l'opposto dell'altra. Una bionda, l'altra mora; la prima audace, la seconda coscienziosa. Sono sorelle. E, per dimenticare una delusione amorosa, partono all'insegna del Messico. Grande attrazione per i turisti, le immersioni: in una gabbia, al sicuro dagli squali, potranno immortalare e scandagliare la barriera corallina. Ma una fune si spezza, la gabbia scivola sul fondo e l'aria nel serbatoio è in lento esaurimento. Il predatore degli oceani le punta, prede perfette, ma le sciabole del pescecane non sono il solo pericolo a quarantasette metri dalla superficie. Se anche riuscissero a nuotare fin lassù, la decompressione potrebbe ucciderle. E al freddo, in fin di vita, la lucidità potrebbe presto abbandonarle. In the deep, prodotto dalla Dimension e dal francese Alexandre Aja, non ha trovato spazio in sala sulla scia del discreto, ma dimenticabile The Shallows. E che peccato. Compensano all'assenza del bikini della splendida e insanguinata Blake Lively, però, l'ottima fattura, tanto realismo e l'ansia a mille. Carne in scatola per lo squalo, Mandy Moore e Claire Hoult (vista in The Vampire Diaries), emozionanti e spaventatissime. Scordatevi la consueta rivalsa delle scream queens, che rovesciano la situazione impugliando gli arpioni; appendete due pezzi, esagerazioni e sangue pazzo al chiodo; e guardate, a metà strada tra The Descent e Gravity, come corre la storia, la claustrofobia si fa strada e l'ossigeno scarseggia. E l'epilogo del survival horror di Johannes Roberts, drammatico e angoscioso, è l'ultima goccia in un mare di terrore. La tensione traboccherà. (7)

Qualche anno fa, matricola, mi vidi condiviso sulla bacheca un video – un corto cinematografico di pochi minuti – da una compagna di corso che avevo conosciuto a lezione parlando di film dell'orrore. Aperto senza sapere bene cosa aspettarmi, a bruciapelo, lo avevo trovato agghiacciante: si spegneva l'abat-jour e saliva un brivido lungo la schiena. Lights Out, cliccatissimo, non ci ha messo molto a diventare un film: prevedibilmente, il primo di un franchising. Chi era la donna spettrale che appariva spegnendo la luce e scompariva riaccendendola? Su di lei, affetta da fotosensibilità e invischiata in un'amicizia ossessiva anche nell'aldilà, la più tipica – e prevedibile – delle ghost story estive. Perché perseguita i familiari di una stravolta Maria Bello, fortemente depressa, e compare nei momenti di difficoltà? Vanno in cerca di risposte la scontrosa Teresa Palmer, accompagnata da un fratellino fastidiosamente saccente e da un fidanzato inservibile. E se le domande allettano e, su carta, il mostro di Lights Out terrorizza facendo leva sull'ancestrale timore del buio, le sentenze sono imbarazzanti e gli unici sobbalzi dipendevano dal molesto viavai di Ciro, il mio gatto, nel corridoio. Il problema è una vicenda tra le mura domestiche che fa acqua, mica paura, e l'immagine di un Attrazione fatale paranormale che insegna che le amicizie troppo intime, e le infiltrazioni infernali, minano alla famiglia tradizionale e alle otto ore di sonno. (4,5)

mercoledì 20 luglio 2016

Recensione: Ti ho trovato tra le pagine di un libro, di Xavier Bosch

Ci sono decenni in cui non accade nulla, e settimane in cui accadono decenni. Questa è la nostra.

Titolo: Ti ho trovato tra le pagine di un libro
Autore: Xavier Bosch
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 290
Prezzo: € 17,90
Sinossi: Quattro giorni per vivere una vita intera. A Paulina e Jean-Pierre non è stato concesso un solo istante in più. Ma in quei quattro giorni hanno abbattuto tutte le barriere delle loro esistenze, per aprirsi a un amore e una felicità mai conosciuti prima. E ineguagliati in seguito. Paulina Homs è una ragazza dalla vita tranquilla quando arriva a Parigi nel 1981 per il matrimonio della cugina. Jean-Pierre è già un uomo maturo, un gallerista della Rive Gauche colto e affascinante, amante della letteratura e delle librerie. A conquistarlo è la sete di avventura che avverte sotto l'aria innocente di Paulina. A incantare lei sono i mondi nuovi che Jean-Pierre sa aprirle con le sue parole e i suoi gesti. Insieme, imparano a vivere ogni istante come se fosse l'ultimo quarto d'ora prima della fine del mondo. Prima del ritorno di Paulina alla sua vita di sempre, a Barcellona, da suo marito e dalla sua bambina. La loro passione breve e bruciante resterà un segreto sconosciuto ai più. Di certo una sorpresa per Gina, la figlia di Paulina, quando trent'anni dopo, ormai adulta, viene a conoscenza di alcune lettere nascoste: senza mittente, scritte in francese e indirizzate a sua madre. Lettere che forse hanno qualcosa a che vedere con un biglietto da visita della stessa Paulina che un perfetto estraneo aveva trovato anni prima dentro un romanzo, in una libreria inglese, con un messaggio scritto a mano sul retro: "Appelle-moi", Chiamami. rappresenti per lui il tuo spazio: "Una libreria è la patria della libertà, il rifugio delle parole, il vero museo del pensiero".

                                                La recensione
Un bambino ricorda quando, a nove anni, scoprì che i genitori non erano creature immortali: a scuola, la piccola Gina fu informata della morte della madre, stroncata da un ictus che non avverte. Nel capitolo successivo, Gina – diventata ormai un’adolescente curiosa e ribelle – va a stare da sola e, per un po’, vive una breve e surreale fuga d’amore con un maturo londinese, che guida autobus e, parlando di segni particolari, ha un moncherino al posto del dito medio. Nel terzo, dieci anni sono già passati: a un passo dai quaranta, in una rimpatriata nostalgica e amarognola, la protagonista rivela al compagno di scuola dell’incipit – ora, impresentabile avvocato perdutamente innamorato di lei – che di quella mamma morta troppo in fretta ha scoperto una vita segreta. Parte così la storia nella storia di Ti ho trovato tra le pagine di un libro, romanzo spagnolo ma ambientato un po’ in Francia e un po’ sul palcoscenico del mondo. Perché il londinese dell’adolescenza di Gina, lo stesso della fuga d’amore lampo, si era presentato alla sua porta con un biglietto di Paulina, la mamma scomparsa: diceva, semplicemente, “Chiamami”. 
L’ha trovato all’interno di un romanzo. Perché quel biglietto non è l’unico esemplare in circolazione: Paulina, reduce da una bellissima e impossibile relazione clandestina, nei suoi viaggi, ha visitato le librerie più suggestive e nelle pagine di volumi – saggi, romanzi, enciclopedie – che parlano di farfalle ha inserito tracce del suo passaggio. Messaggi per Jean-Pierre: gallerista parigino identico a Mastroianni che, nel 1891, ha conosciuto al matrimonio di una parente. Lui fumava la pipa, collezionava libri rari, ballava il sirtaki in strada, aveva dato alla propria galleria il nome della donna che gli aveva spezzato il cuore: era l’ultimo dei romantici. E, nelle sue passioni, aveva coinvolto proprio Paulina: affascinante madre di famiglia, che si era presa un lungo fine settimana lontana da casa, diventando un’altra passione del romantico Jean-Pierre. Forse la più grande? Si promettono amore eterno in quattro giorni, si separano, si parlano attraverso lettere segrete e costose chiamate intercontinentali: lei scegli la famiglia, all’apparenza, e lui la solitudine. La corrispondenza, però, finisce troppo presto... Xavier Bosch, premiato esordiente iberico, intreccia i nodi di una duplice storia romantica: quella di un’orfana di madre in cerca di se stessa; quella di una turista all’ombra della Torre Eiffel.
Dopo trent’anni, nonostante la morte e la distanza, giungeranno a compimento l’una e l’altra. Ti ho trovato tra le pagine di un libro ha trame ad incastro, toni così diversi da confondere, a volte, e uno spunto originale il giusto. Qualche goccia di miele di troppo, a metà, ma che sembra meno dolce, sulle labbra, alla luce di un addio struggente, che conosciamo sin dalla sinossi. Ci sono cose che mi sono piaciute molto, cose che mi sono piaciute meno. Una scrittura a volte diretta e a volte sospirosa, ad esempio, che sembrava il frutto di un romanzo scritto a quattro mani: un lui nell’intrigo accattivante e una lei di quelle che non disdegnano qualche romanzo rosa, nella rievocazione di quei “quattro giorni di fuoco e magia”. Fan di Serendipity, però, ne abbiamo, se le coincidenze sono presenze ricorrenti e gli amori si affidano ai libri? O, ancora, ci sono per caso appassionati di Prima dell’alba in ascolto, con un rapporto dalle ore contate, lo sfondo di una città europea e poco tempo per condensare l’inizio e l’epilogo di una storia romantica? Il bestseller di Bosch ha le sue imperfezioni piccole e grandi, sì; qualcosa che non torna; personaggi femminili non all’altezza di un perfetto galantuomo venuto da altre epoche – sfugge Gina e, sua madre, Paulina, cade troppo facilmente vittima del dio Cupido. Sarà la copertina retrò, sarà un caldo che spira voglia di leggerezza e buoni sentimenti, saranno state le immagini di queste bellissime librerie sparse per il globo o, meglio, il pertinente riferimento al nostro Marcello o a due di quei film che vedo quanto sono giù, però a me – nonostante i ma e, appunto, i però – Ti ho trovato tra le pagine di un libro è piaciuto. Emozionante, fumoso e, a modo suo, triste: come i Lieder di Schuebert. Retorico e ricamato, come solo quelle lettere che nessuno manda più. I postini ritardano, il coraggio dà forfait, il destino fa il suo giro – e a volte, come in questo caso, non imbocca scorciatoie per paura di perdersi lungo il tragitto. Per fortuna, poi, galeotto sarà un libro. “E, dopo averlo letto, forse qualcuno poserà la mano sulla copertina e potrà esclamare: amici, l’amore esiste. L’amore è la risposta. Perché è la risposta, no?”
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Max Pezzali – L’universo tranne noi