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giovedì 21 aprile 2022

I film per famiglie degli scorsi Oscar: No Way Home | Crudelia | Luca | Flee | Encanto

[Candidatura per i migliori effetti speciali] Non sono un fan dei film Marvel, ma Spiderman ha sempre avuto uno spazio speciale nel mio cuore. In ogni sua veste, in ogni suo film. Neanche la versione di Tom Holland, fresca e leggerissima, teen, mi è mai particolarmente dispiaciuta, sebbene lontana dallo spirito di sacrificio del fumetto originale. Questo film, complici le attese, le supposizioni, gli spoiler, avrei voluto amarlo: tant'è vero che, a gennaio, ci ho inaugurato l'anno. Furbissimo, pasticciato e fuori fuoco, per me è il peggiore della trilogia nonostante l'innegabile presa emotiva del finale. Può, però, quest'ultima farci ignorare le incongruenze, i difetti sparsi o un'ora introduttiva che sembra una partita a Pokémon (il protagonista, come Ash, acciuffa e isola, infatti, i villain dei famigerati universi paralleli)? Le cose migliorano inevitabilmente nella seconda, incapace di distaccarsi dal purissimo e mal scritto fan service. È il film della maturità per Holland: finalmente ha imparato che da grandi poteri derivano grandi personalità. Ma il film manca di epicità, di pathos e, con ironia forzata, affida un ruolo chiave all'amico pasticcione di Peter Parker. Adulto ma non troppo, questo Spiderman concilia fan nuovi e vecchi. Ma sotto la nostalgia, niente o quasi. Gli si vuole bene comunque, pur constatando quanto il minimo sforzo porti al massimo risultato (al botteghino). (5,5)

[Oscar per i migliori costumi] Siamo negli anni Settanta, ma Crudelia è una Banksy ante-litteram che si muove in un mondo di fake news e spietate primedonne. Di giorno assistente vessata da una stilista diabolica, di notte vandala chiacchierata dall'opinione pubblica, non cerca poveri dalmata da scuoiare (anzi, qui gli indimenticabili cani maculati sono piuttosto feroci!), ma il dolce piacere della vendetta. Si muove a tempo di hit celeberrime, così, in un film glamour e divertentissimo, tragico e bipolare, a metà strada tra un heist movie ed Eva contro Eva (questo, però, è lo show di Emma contro Emma). Dirige con grinta punk Craig Gillesie, regista che di psicopatiche decisamente se ne intende, dopo il cult istantaneo Tonya. Scrive, tra gli altri, lo sceneggiatore dei caustici La favorita e The Great. E per due ore e un quarto, tante ma mai troppe, fanno a gara di bravura la camaleontica Emma Stone – da applausi con accento britannico – e una Emma Thompson più superba che mai. Crudelia è la bomba che nessuno si aspettava in materia di live action. Funziona perché con La carica dei 101 ha poco a che spartire, pur non tradendo mai lo spirito della villain (questa volta non fuma, no, ma è al centro di roghi, rapimenti, omicidi). E perché, soprattutto, non sembra affatto una produzione Disney. (7,5)

[Candidatura per il miglior film d'animazione] Ammettiamolo, è vero: si racconta sempre la solita Italietta da cartolina ferma agli anni Cinquanta. Ammettiamolo, è vero: a metà strada tra La sirenetta e Pinocchio, non c'è proprio niente di nuovo sotto il sole di questa Liguria oleografica, dove si è uniti dal buon cibo, dal pesto fresco e dalle competizioni sportive. Ammettiamolo, è vero: dopo il meraviglioso Soul, la Pixar non si gioca nuovamente la carta di un ennesimo capolavoro. Ma il buon Luca piace proprio perché semplice, nostalgico, dolcissimo. Storia di una creatura marina che sogna la terra ferma, a dispetto dei desideri del resto della famiglia, il primo lungometraggio di Enrico Casarosa è una fiaba vintage sul potere dell'amicizia e sulla ricchezza dell'integrazione: qualcuno, non troppo a torto, ci ha voluto vedere anche tinte arcobaleno alla Luca Guadagnino. Ma ha forse importanza? Negli ultimi venti minuti, è impossibile frenare una pioggia di lacrime. Per il ricordo delle estati più belle, che tristemente finiscono. Soprattutto, per i pregiudizi, le pressioni esterne e le ansie sociali, che sempre ci inibiscono. Prendiamo esempio dallo sfacciato Alberto Scorfano, allora, e in sella a una Vespa a precipizio sul mare gridiamo alle nostre paure: Bruno, silenzio! (8)

[Candidatura per il miglior film d'animazione, miglior documentario, miglior film in lingua straniera] Amin sgambetta per le strade di Kabul ascoltando Take on me. È ancora un bambino, indossa senza imbarazzo una camicia da notte della sorella, ha una cotta per Van Damme: non sa che dovrà correre per tutta la vita. Scappare prima dai talebani, che insanguinano l'Afghanistan con una guerra civile; poi dalla crudeltà dei trafficanti; infine dalla polizia. Separato dalla propria famiglia, sballottato tra Russia e Danimarca, sogna di riunirsi con i parenti in Svezia e inventa, intanto, una vita alternativa. Ormai adulto, si racconta a cuore aperto steso sul lettino di un amico: il regista Jonas Poher Rasmussen. A metà tra documentario e animazione, tra tragedia dell'immigrazione e favola avventurosa, la storia di questa adolescenza odissiaca diventa un piccolo film candidato a tre premi Oscar. Attuale, commovente, delicatissimo, racconta i rastrellamenti, il rimpatrio, le attese spaventose. E, soprattutto, la paura di fidarsi di qualcun altro: un compagno dolcissimo e con il pallino dei gatti rossi, ad esempio, che ama il protagonista pur non sapendo niente di lui. Mettere su casa significa seppellire le proprie origini? Essere felici implica tradire il ricordo dei propri cari? In tempi di guerra, l'amore di Amir ci apre gli occhi. E, qui e lì, promette di riempirceli di lacrime. (7+)

[Oscar per il miglior film d'animazione] Tra le montagne di una splendida Colombia vive una famiglia che potrebbe essere sbucata da una saga della prolifica scrittrice Isabel Allende. Guidata da una severa matriarca, è popolata da diversi tipi di talenti. Tutti i Madrigal, infatti, hanno un potere magico per contribuire alla magnificenza della stirpe. Cosa si prova a essere amaramente la pecora nera della casa? Sprovvista di poteri, la protagonista è una piantagrane che rischia di mandare in malora la tradizione. O così sembra. L'ultima favola Disney, buona giusta in tempo di festività, racconta con discreta originalità le perfezioni apparenti, l'ansia sociale, il perbenismo degli adulti. Ma i numeri musicali senza guizzi (quanto è sopravvalutato Lin-Manuel Miranda?) e uno sviluppo non pervenuto minano alla memorabilità del tutto. Peccato, perché l'esotismo dell'ambientazione e il personaggio dell'iconico zio Bruno, costretto a nascondersi per la sua fama di iettatore, promettevano meraviglia e commozione. Nonostante fosse ambientato a pochi passi da noi – meno ambizioso ma decisamente più riuscito – ci aveva portati più lontano il nostro Luca. (6,5)

domenica 24 febbraio 2019

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Copia originale | At Eternity's Gate | Spider-Man: Un nuovo universo | Gli Incredibili 2

Ci sono biopic e biopic. Quelli sui personaggi da santificare inutilmente e quelli su mine vaganti da assolvere. Copia originale, forse l'unica sorpresa nella piattezza di questi Oscar, è parte della seconda categoria. Chi era Lee Israel? Biografa misantropa, idealista e gattara, non credeva né nel proprio talento né nell'amore. Rispondeva a tono, si vestiva male, non meritava ingaggi o buoni amici. Finché non sono state le soluzioni, gli altri, a trovare lei: prima una lettera d'autore rinvenuta in un volume della biblioteca, e da lì la folle idea di falsificare epistole in serie sfruttando il proprio sapere enciclopedico; poi l'affinità istantanea con un inglese eccentrico e irresponsabile, l'istrione Richard E. Grant, che non sa prendersi cura degli animali domestici, proteggersi dai rischi dell'Aids o dalle domande dei federali, eppure risulta un'indispensabile spalla comica. In un mondo di sedicenti Tom Clancy, autori svenduti alla logica del bestseller, Lee era la pecora nera: costretta infine a esporsi, a metterci la faccia, ma in maniera impensata. A restituirci l'orgoglio, l'umanità e le storture di una truffatrice sui generis con una coscienza tutta sua, è la rivelazione Melissa McCarthy: senza mai strafare, l'attrice comica sposa il cinema impegnato in un passaggio naturalissimo, portando con sé una fisicità irresistibile e quello sguardo già insospettabilmente comunicativo nei film più goderecci. In una New York alleniana, colta e piena di note jazz, c'era una storia che la falsaria non ci aveva ancora spifferato: la sua. Ne viene fuori una commedia dall'impalcatura esile, ma con una scrittura elegante, sardonica e perfino commovente: Copia originale non conosce redenzione, e quello è il bello. Marielle Heller tocca con un crime che sfugge alle definizioni, spiritoso e ritmato com'è, e consacra una grande interprete. Mette in luce uno dei tanti caratteristi a corto di ruoli memorabili. Ci regala abili duetti attoriali e scorci sui sordidi meccanismi editoriali, a cui in particolare i lettori non potranno restare indifferenti. Alcune emozioni, alcune simpatie, non si simulano a comando. Alcune criminali vanno perdonate a occhi chiusi. Alcune copie, come in questo caso, sono migliori dell'originale. (7,5)

Film belli come un quadro. Come un quadro di Van Gogh, nello specifico. Un arista irrequieto, dannato e intrigante, che non poteva non meritarsi un biopic errabondo, malinconico e criptico come questo: non necessario, forse, ma all'altezza dell'omaggio. Il pittore è ad Arles: in cerca dell'essenza della natura, alza il gomito, scaccia i bambini molesti e attende visite per scacciare la solitudine che ha nel cuore. Non sono abbastanza frequenti gli incontri con il fratello, un commovente Rupert Friend. Non è abbastanza lunga l'amicizia con Gaugin, di ritorno dal Madagascar. La fine dell'Impressionismo ha portato gli artisti a rielaborare il rapporto fra pittura e realtà, e Van Gogh sognerebbe di creare un movimento intellettuale, di circondarsi di ospiti pur di non patire la sindrome d'abbandono. Sappiamo che in un raptus si taglierà via l'orecchio e lo offrirà in dono al collega Oscar Isaac. Sappiamo che fine farà: merito dell'irripetibile Loving Vincent. Sulle soglie dell'eternità non aggiunge niente di rilevante al mito dell'uomo, non fa chiarezza sulle modalità della sua dipartita, ma coglie lo spirito di un personaggio che affascina ancora: benché indagato a più riprese, proposto e riproposto. Pensavo che il film perdesse in partenza la sfida di eguagliare la bellezza del capolavoro d'animazione, e invece ammalia e rattrista con le sue lunghe passeggiate nel verde e i suoi colloqui ancora più lunghi, dal gusto teatrale. Julian Schnabel ci mette una regia da maestro, che fra soggettive, primissimi piani e un uso marcato della macchina a mano permette una totale immersione sensoriale: i veri coprotagonisti, perciò, saranno gli steli d'erba, le nuvole, il vento e la luce. Un invasamento panico, insomma, retto da un Dafoe gigantesco e dolente, con attimi di impagabile spensieratezza e monologhi struggenti. Intenso, al punto che a volte si fa fatica a reggerne gli occhi grandi e spiritati; le farneticazioni dai toni messianici. Infarcita di riflessioni estetiche e filosofiche non per tutti, con una seconda parte un po' didascalica, la visione è lenta, perturbante, istruttiva. Per guardare attraverso gli occhi di Vincent i demoni, i desideri, i parti creativi, e condividere con lui un fardello pesante. Per sbirciare, dalla soglia del cinema, uno spiraglio d'eterno. (7)

Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. Lo cantava Max Pezzali e alla fine è successo davvero: il supereroe è morto. Questo, almeno, accade nella Brooklyn di Miles Morales: adolescente goffo e adorabile, con il pallino dei graffiti, un padre poliziotto e un affezionato zio pigmalione. Al risveglio, un giorno, si accorge che c'è qualcosa che non va: colpa dei misteriosi terremoti che fanno tremare l'intera città, oppure del morso di un ragno nei tunnel della metropolitana? Il protagonista pensa sia l'arrivo della pubertà, invece sono i superpoteri. È finito in un fumetto. In una dimensione in cui il famoso Peter Parker non ce l'ha fatta, morto sotto i colpi di un Kingpin al solito violento e sentimentale, Miles ha l'onere di sostituirlo: il compito, distruggere la creazione di un villain che scherza con i piani temporali e il destino. Al punto che, contemporaneamente, si daranno appuntamento nella cameretta di Miles gli Spider-Man di tutti i multiversi immaginabili: le conseguenze sapranno come entusiasmare, attraverso quest'apprendistato spassosissimo. Un trio di ottimi registi, utilizzando il meglio di cui l'animazione è capace, ha proposto sotto Natale un'irresistibile variazione sul tema; una curiosa storia delle origini che, in nome di uno spirito malinconico e giocoso insieme, fa faville con gli stili e le teorie quantistiche. Vengono rivoluzionate le identità e i connotati di comprimari e antagonisti – su tutti zia May, armatrice bad-ass, e un Peter fresco di divorzio – e ci si prende gioco con originalità di sequel, remake e reboot, pasticciando a fantasia con intelligenza e colore. Nonostante un epilogo eccessivamente caotico, che conferma il mio scarso feeling con un genere fatto di esplosioni, onde d'urto e laseroni, Un nuovo universo convince appassionati e profani con un'orgia di citazioni nerd e grandi poteri, da cui puntualmente derivano grandi responsabilità: colpi di scena ben dosati, una tecnica all'avanguardia, un cuore eccezionale. Grazie a un eroe vulnerabile e alla mano, che mi piaceva già interpretato da Maguire, Garfield e Holland. E che qui torna a conquistare in tutte le salse, in ogni universo possibile. (7,5)

Avevo dieci anni, amavo già poco i supereroi e l'animazione digitale, e il soggiorno presso la famiglia Parr mi era piaciuto ma non troppo. Avrò collezionato ai tempi qualche gadget dalle merendine, adesivi o calamite a tema, eppure la tentazione di vederlo una seconda volta non mi ha mai tentato. Sono passati quindici anni dagli Incredibili, e perché aspettare tanto per un sequel fuori tempo massimo? Per insindacabile volontà degli sceneggiatori, i protagonisti non sono cresciuti nel mentre. Non si sono allontanati di un passo degli eventi del film introduttivo. È cambiato il target, tuttavia; sono cambiati gli spettatori, all'epoca bambini e adesso pressoché adulti. Gli aggiornamenti, presenti a piccole dosi, non sono dei più felici: la dimensione corale scarseggia, purtroppo, e l'arrivo di una nuova ondata di femminismo ha fatto sì che questa volta sia Mrs Fantastic a ricoprire un ruolo di potere, mentre per il consorte in fermo ci sono i pannolini di Jack-Jack, i compiti di matematica di Flash, i sospiri d'amore di Violetta. Visivamente accattivante, offre due ore che non pesano, nonostante la sensazione di assistere a semplici scenette giustapposte, e un discreto intrattenimento ad alto budget. Ci si è presi del tempo, però, senza una giustificazione valida. Mi ripeto: quindici anni, e per cosa? Verrebbe da chiederselo ancora e ancora, sì, davanti a una trama semplice e prevedibilissima e alle aspettative dei fan, sostanzialmente mal riposte. E io, che fan non ero né lo sono diventato? Gli Incredibili 2 non sorprende, non volta pagina, non matura, e cerca invano di tenere a freno un potere e un potenziale – mi ha illuminato la mostra Pixar a cui ho assistito a Roma lo scorso gennaio – che neppure il bravissimo Brad Bird, alla regia, sa padroneggiare. (5,5)

venerdì 4 agosto 2017

Mr. Ciak: Spider-Man: Homecoming, Slam, Covenant, Una, 2:22

Non inizierò nella solita maniera. Quando mi hanno proposto Homecoming non ho protestato. Spider-Man, infatti, fa eccezione in tutte le salse. Sentivo come mie le sfortune, la timidezza e le porte in faccia di Peter Parker ancora prima di incrociare, crescendo, avversità, musi lunghi e sonori no. Certo, da buon nostalgico, il Peter che intendo io è quello della trilogia di Raimi – checché se ne dica, però, ho sempre trovato generosissima dal punto di vista emotivo la serie tronca con Andrew Garfield. Fa eccezione, a modo suo, anche l'adolescente di Jon Watts: meno me, meno solitario, ma tre lustri e cinque film dopo non chiedevamo altri copia-incolla. Il nostro eroe di quartiere, sprovveduto e pasticcione, si mette sulla strada di un contrabbandiere di armi iper-tecnologiche. In ballo meno del solito, in questo reboot umoristico e ben scritto, a confine con il teen movie – da cui prende in prestito gli amori non corrisposti, i buffi amici nerd e, purtroppo, quell'esagerazione tutta americana di inserire minoranze etniche a sproposito in nome del politicamente corretto (che passi Zendaya nei panni dell'amata, ma non un Flash Thompson guatemalteco e sprovvisto del physique du role). La gara di decathlon o acciuffare i cattivi? Il prom o sventare un piano criminale? Homecoming ti precede, sa dove andrai a parare, e si difende con autoironia: i commenti a proposito della bella zia Marisa Tomei non si contano; il protagonista, per molti troppo giovane, è ribattezzato “Bimbo ragno”; Keaton ritrova le ali dopo Birdman ma coglie in contropiede, sul finale, con un gustoso colpo di scena. Riuscito apprendistato per entrare tra gli Avengers e nelle grazie di spettatori scettici, l'ennesimo Spider-Man sceglie la spensieratezza dell'adolescenza e tutto l'entusiasmo di cui Tom Holland è capace. Da grandi poteri, questa volta, piccole responsabilità. Ma, a quindici anni, sarebbe un peccato bruciare le tappe. (7)

Samuele crede nello skateboard e nell'amore. Quando conosce Alice, capisce che è quella giusta. Ancora al liceo e con un futuro che spaventa, fa i conti con il diventare genitore. Questione di disattenzione. Questione di genetica: i suoi, infatti, l'hanno avuto alla stessa età. Darsi alla fuga, come suggerisce l'esilarante papà Marinelli? Provarci, come consiglia mamma Trinca? L'esordiente Ludovico Tersigni, con una spontaneità che non si insegna, resiste: non vuole che anche quel bambino, come lui, si senta un errore di gioventù. Ispirato all'omonimo romanzo di Nick Hornby, Slam è una commedia adolescenziale ma non troppo; un altro volto felice di un cinema che desidera dedicarsi a progetti nuovi. Le gravidanze indesiderate, un protagonista dubbioso, Roma: stessi temi del recente Piuma. Cos'ha Slam che il teen movie di Johnson non aveva? Una scrittura fresca e intelligente, che conserva la voce narrante di Tony Hawk e si diverte un mondo a giocare con i salti temporali della struttura (Sam si sveglia, a volte, e sono passati mesi o anni: deve rimettersi al passo e scoprire, in fondo, che non ha nessun rimpianto); un cast perfetto, di giovani leve e promesse mantenute; i toni semiseri, i dilemmi realistici, che rendono gli esiti non così scontati. Dirige con energia Andrea Molaioli, braccio destro di Moretti e autore del celebrato La ragazza del lago, e si vede. Produce Netflix. Certo: avremmo voluto più Marinelli e meno finali su finali; una durata più contenuta. Certo: sorridenti e leggeri, spensierati ancora per poco, ci si getta a colpo sicuro lungo una rampa. Si salta in alto, magari si vola. E si atterra in piedi, in un rumore familiare di ruote e risate. (6,5)

La serie di Alien è cara a una generazione che non è la mia. Negli anni mi sono dedicato al recupero di capitoli originali, sequel e spin-off, senza però mai farne miei personali oggetti di culto. Covenant, a voler essere precisi, è il sequel di Prometheus: un Ridley Scott non al suo meglio, una mitologia confusa e poco accattivante ma, con il senno di poi, non il disastro annunciato. Lo stesso, purtroppo, non vale per la regata fantascientifica arrivata in sala la scorsa primavera. Di Convenant dicevano il peggio e io non ci credevo. La solita critica, poco convinta in partenza. I fan dell'indimenticabile Ripley, difficili da rabbonire. Avevano ragione loro: Covenant è brutto. Perché girarci attorno? In due ore che si avvertono tutte nella loro pesantezza, i soliti astronauti risvegliati prima del tempo cercano tracce di vita umana sul pianeta in cui i personaggi del film passato, ovviamente già belli che rimossi, hanno lasciato lo scalpo. Un team anonimo e senza leader carismatici rischia di portare a bordo la solita piaga contagiosa. Alla piattezza della prima mezz'ora, rispondono qualche sprazzo di violenza e un doppio Fassbender – e per quanto sia bravo, per quanto faccia comunque piacere vederlo all'opera, dispiace quest'anno la scelta di progetti inutili quanto o più di questo. Covenant annoia e irrita. In giro, ha trovato le cattive parole che merita: il blockbuster che si atteggia a cinema d'autore e non riesce a essere né una cosa né l'altra, infatti, è un mostro della peggior specie. Freddarlo al mio "via". (4)

Una. Non come l'articolo indeterminativo, ma come il nome di battesimo di una donna che, un giorno qualsiasi, guida fino a una fabbrica in cui si trema per i tagli al personale. Deve incontrare un uomo, mostra una foto. Lui ha cambiato identità, è sposato, ma il destino l'ha rintracciato ugualmente. I due hanno una questione in sospeso. Un tempo sono stati al centro di un amore sconveniente, di un'ossessione che perdura. Quando lei aveva tredici anni e lui, adulto, era il suo vicino di casa. Di cosa parliamo quando parliamo di pedofilia? La bambina ingenua e l'orco cattivo, con la cronologia del computer piena di brutture. Ci figuriamo la manipolazione, lo stupro. E se quel vicino, condannato a quattro anni di carcere, non avesse mai guardato un altro innocente con malizia? E se la bambina, infatuata ma lucida, avesse voluto seguirlo in una fuga volontaria oltre la Manica? In Una, dramma fedelissimo alla propria natura teatrale, il presunto aguzzino incontra la presunta vittima. L'aggettivo, per dire che sfugge ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per dire che agli occhi della giustizia c'è un colpevole ma non un cattivo, e che il faccia a faccia tra questi strani amanti intriga e destabilizza. Camminano come animali in gabbia, lungo un confine impercettibile. Non si sa cosa vogliano. Soprattutto, non si sa con chi schierarsi. Il tema, spinoso, è discusso con ambiguità. Così tanta che si resta in piedi, confusi, all'insegna di un finale sospeso di quelli che piacciono a me. Parlano fuori dai denti di sesso, e arrivano a un passo così dal farlo. Si rimproverano di essersi rovinati la vita. Tentano di andare avanti, di confrontarsi, perché non si sono mai mossi di un passo dal giorno del processo – lei sopraffatta da una mamma chioccia, lui sempre sul chi va là. Chi dei due ha avuto la peggio? Di cosa la fragile e seducente Rooney Mara, per molti in odore di nomination, accusa un contrito Ben Mendelson: mi hai rubato l'adolescenza, o perché mi hai lasciato sola? (7)

New York. Dove le luci dei grattacieli sono più numerose delle stelle. Dylan crede di poterle leggere. Vede schemi ovunque. Portano a Grand Central; a un balletto in cui conosce Sarah, gallerista nata il suo stesso giorno. A cosa vogliono condurlo le simmetrie? Cosa succede quando l'orologio fa il suo giro e, sulla città, una stella muore? Thriller romantico dagli spunti suggestivi, 2:22 crea una piacevole suspance che si rivela disattesa solo in parte. Più modesto nell'architettura che nella resa, il film sembra poggiarsi su quei paradossi temporali, su quella fantascienza discreta di viaggi nel tempo e amori a scorrimento veloce, che da queste parti trovano sempre un angolino tutto loro. Più Storia d'inverno che Premonition, più sospiri passeggeri che sceneggiature a orologeria, il boy meets girl a incastro ha protagonisti belli in modo assurdo e un triangolo sentimentale che non convince, per l'improponibile taglio di capelli del terz'uomo e l'andare a puntare tanto, se non tutto, su un melodramma in rewind. In 2:22, il ticchettio e le scie chimiche portano su scene del crimine passate, teorie di eterni ritorni, coincidenze che fan parlare di reincarnazioni. Credi che il colpo di fumine sia una storia già scritta? Credi che il destino abbia un piano alternativo per te e per lei, o che il futuro sia tabula rasa? Poco accattivanti ma sufficienti le risposte. Scontato, infatti, che due come Huisman e la Palmer, ora e per sempre, si somiglino e si piglino. Senza additare i déjà vu della sceneggiatura: semplicemente, è selezione naturale. (6)