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venerdì 21 febbraio 2025

Recensione: I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead

| I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead. Mondadori, € 13,50, pp. 216 |

A lungo ho avuto il timore di leggerlo. Troppo impegnato l'autore, vincitore di ben due Pulitzer a distanza di pochi anni. Troppo drammatico il tema, tra discriminazioni e violenze sullo sfondo di una America non così lontana. I ragazzi della Nickel è un romanzo che disattende le aspettative. E, per fortuna, è la cosa più bella che possa fare. È possibile rendere luminosissima un'orribile vicenda realmente accaduta? Ai piedi di un riformatorio, in tempi recenti, fu rinvenuto un cimitero di morti mai reclamati. Le ossa appartenevano agli studenti – anzi, ai prigionieri – di un istituto della Florida: negli anni Sessanta del Novecento, laggiù, lo schiavismo era un incubo ancora reale.

Era una follia scappare ed era una follia non scappare. Come poteva un ragazzo guardare oltre il confine della proprietà, vedere quel mondo vivo e libero e non pensare di evadere? Per decidere del proprio futuro, una volta tanto. Sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità

Colson Whitehead modifica i nomi, non lo sconcerto, e affida la narrazione a un protagonista che fa la differenza. Dotato di un ottimismo incrollabile, fragile ma resiliente, Elwood è un faro di speranza in una storia nerissima. Studioso, occhialuto, profondamente legato alla nonna materna, è cresciuto con le foto degli attivisti sulle pagine di Life e con i discorsi di Martin Luther King, ascoltati al posto del peccaminoso Elvis. Destinato a studi brillanti, si scontrerà con l'imprevedibilità del destino a causa di un crimine mai commesso. La reclusione nella Nickel Academy, un campo di lavoro nascosto dietro la facciata di scuola rispettabile, cambierà tutto. Non servono cancellate né filo spinato: in un inferno gestito da alcuni dei fondatori del Ku Klux Klan, infatti, nessuno osa scappare. Diviso tra rivalsa e sottomissione, Elwood rispetta a denti stretti le regole e riga dritto, a differenza del più scapestrato Turner: un piccolo truffatore già finito dentro due volte.

Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.

Spesso, tuttavia, sarà impossibile volgere lo sguardo altrove. Il suo spiccato senso della giustizia metterà il protagonista nei guai. E allora, nei meandri di una fabbrica del dolore che si fa magistralmente emblema di tutto il marcio che c'è, sperimenterà addosso le vendetta dei sorveglianti, con un rumoroso ventilatore industriale a coprire le urla. Caratterizzato da una sorprendente delicatezza, nonostante i supplizi a cui sono condannati i suoi ragazzi, Whitehead firma un'opera con il respiro dei classici più intramontabili – di quelli con orfani sfortunati, amicizie salvifiche, fughe mirabolanti. Il lessico, preso in prestito dai romanzi d'avventura. La formazione di Elwood deforma le ossa e disegna sulla schiena una mappa di cicatrici ritorte. Il titanismo non è nel parare le scudisciate, ma nella capacità di abbattere con una risata i muri della segregazione, nelle nobiltà d'animo, nella gentilezza. A volte, come in questo caso, diventa perfino contagioso. Soltanto imparando da Elwood – vincendo il cinismo, ispessendoci la pelle – è possibile sopportare con prontezza di spirito un ribaltamento finale magnifico e agghiacciante insieme, che altrimenti avrebbe fatto più male delle cinghiate del sovrintendente Spencer.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Alex Somers – Stare

lunedì 23 dicembre 2024

Recensione: L'avversario, di Emmanuel Carrère


| L’avversario, di Emmanuel Carrère. Adelphi, € 17, pp. 169 | 

Ho scoperto la tragedia greca negli anni del liceo classico. Personaggi oscuri, argomenti tabù, epiloghi sanguinosi. Ma, al termine di un'inarrestabile catena di nefandezze, ecco sopraggiungere la catarsi. Ci si può sentire liberati dopo una lunga esposizione alla violenza? Può la sperimentazione del male renderci meno estraneo il prossimo nostro? Emmanuel Carrère, oggi autore che non ha bisogno di presentazioni, al tempo dei fatti era conosciuto soprattutto come critico cinematografico. Fu un caso di cronaca nera a ossessionarlo e consacrarlo, facendone un osservatore più attento e, soprattutto, un narratore più empatico. In una comunità tra la Francia e la Svizzera, nei primi anni Novanta, lo stimatissimo Jean-Claude Romand sterminò i suoi cari. Se il gesto non ci stupisce, tristemente assuefatti come siamo a notizie altrettanto agghiaccianti, a farci rabbrividire è il resto della vicenda: la vita dell'assassino (medico presso l'OMS, padre amorevole, figlio devoto) era, infatti, una menzogna. Non era nemmeno laureato.

Una dolorosa lucidità è preferibile a una pace illusoria.

Narcisista patologico, impostore, mitomane, Romand raccontava bugie da vent'anni. E da vent'anni, invano, aspetta di essere scoperto. Come hanno potuto gli amici, i parenti, l'amante, credergli? In che modo ha pagato la scuola privata ai due figli, le macchine costose, i viaggi all'estero? Cosa faceva tutte le mattine quando non andava a lavorare? Sulle sue orme, Carrère gli scrive lettere; lo studia durante il processo, per poi vederlo diventare un detenuto modello; immagina di seguirlo nei parcheggi desolati, nelle stanze d'albergo, nei vuoti di una routine fantasma. Romand aveva una doppia identità o, a ben vedere, nessuna? Come Capote prima di lui, come Lagioia dopo, Carrère mette una scrittura dalla lucidità giornalistica al servizio della verità - sempre che esista. E, in un reportage che ha il ritmo dei migliori thriller, scandaglia una famiglia all'apparenza divorata dalla putredine e gli abissi di un personaggio pirandelliano.

Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.


Additato dai media come l'incarnazione dell'incubo, il protagonista del romanzo custodiva un silenziatore in una confezione regalo e una ricca collezione di maschere. Chi era in borghese, a nudo? Forse nessuno, ci dice Carrère, in un'opera pubblicata dopo cinque anni di tagli, riscritture e ripensamenti. Ha tentato di dare al carnefice profondità psicologica, redenzione, perdono. Ma forse, amaramente, gli ha assicurato soltanto l'ennesimo ruolo da interpretare; un'altra maschera dietro cui schermarsi. “Sono un essere umano”, scriveva Terenzio, “tutto ciò che è umano mi riguarda”. E il disumano, invece?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Talking Heads - Psycho Killer 

giovedì 21 aprile 2022

I film per famiglie degli scorsi Oscar: No Way Home | Crudelia | Luca | Flee | Encanto

[Candidatura per i migliori effetti speciali] Non sono un fan dei film Marvel, ma Spiderman ha sempre avuto uno spazio speciale nel mio cuore. In ogni sua veste, in ogni suo film. Neanche la versione di Tom Holland, fresca e leggerissima, teen, mi è mai particolarmente dispiaciuta, sebbene lontana dallo spirito di sacrificio del fumetto originale. Questo film, complici le attese, le supposizioni, gli spoiler, avrei voluto amarlo: tant'è vero che, a gennaio, ci ho inaugurato l'anno. Furbissimo, pasticciato e fuori fuoco, per me è il peggiore della trilogia nonostante l'innegabile presa emotiva del finale. Può, però, quest'ultima farci ignorare le incongruenze, i difetti sparsi o un'ora introduttiva che sembra una partita a Pokémon (il protagonista, come Ash, acciuffa e isola, infatti, i villain dei famigerati universi paralleli)? Le cose migliorano inevitabilmente nella seconda, incapace di distaccarsi dal purissimo e mal scritto fan service. È il film della maturità per Holland: finalmente ha imparato che da grandi poteri derivano grandi personalità. Ma il film manca di epicità, di pathos e, con ironia forzata, affida un ruolo chiave all'amico pasticcione di Peter Parker. Adulto ma non troppo, questo Spiderman concilia fan nuovi e vecchi. Ma sotto la nostalgia, niente o quasi. Gli si vuole bene comunque, pur constatando quanto il minimo sforzo porti al massimo risultato (al botteghino). (5,5)

[Oscar per i migliori costumi] Siamo negli anni Settanta, ma Crudelia è una Banksy ante-litteram che si muove in un mondo di fake news e spietate primedonne. Di giorno assistente vessata da una stilista diabolica, di notte vandala chiacchierata dall'opinione pubblica, non cerca poveri dalmata da scuoiare (anzi, qui gli indimenticabili cani maculati sono piuttosto feroci!), ma il dolce piacere della vendetta. Si muove a tempo di hit celeberrime, così, in un film glamour e divertentissimo, tragico e bipolare, a metà strada tra un heist movie ed Eva contro Eva (questo, però, è lo show di Emma contro Emma). Dirige con grinta punk Craig Gillesie, regista che di psicopatiche decisamente se ne intende, dopo il cult istantaneo Tonya. Scrive, tra gli altri, lo sceneggiatore dei caustici La favorita e The Great. E per due ore e un quarto, tante ma mai troppe, fanno a gara di bravura la camaleontica Emma Stone – da applausi con accento britannico – e una Emma Thompson più superba che mai. Crudelia è la bomba che nessuno si aspettava in materia di live action. Funziona perché con La carica dei 101 ha poco a che spartire, pur non tradendo mai lo spirito della villain (questa volta non fuma, no, ma è al centro di roghi, rapimenti, omicidi). E perché, soprattutto, non sembra affatto una produzione Disney. (7,5)

[Candidatura per il miglior film d'animazione] Ammettiamolo, è vero: si racconta sempre la solita Italietta da cartolina ferma agli anni Cinquanta. Ammettiamolo, è vero: a metà strada tra La sirenetta e Pinocchio, non c'è proprio niente di nuovo sotto il sole di questa Liguria oleografica, dove si è uniti dal buon cibo, dal pesto fresco e dalle competizioni sportive. Ammettiamolo, è vero: dopo il meraviglioso Soul, la Pixar non si gioca nuovamente la carta di un ennesimo capolavoro. Ma il buon Luca piace proprio perché semplice, nostalgico, dolcissimo. Storia di una creatura marina che sogna la terra ferma, a dispetto dei desideri del resto della famiglia, il primo lungometraggio di Enrico Casarosa è una fiaba vintage sul potere dell'amicizia e sulla ricchezza dell'integrazione: qualcuno, non troppo a torto, ci ha voluto vedere anche tinte arcobaleno alla Luca Guadagnino. Ma ha forse importanza? Negli ultimi venti minuti, è impossibile frenare una pioggia di lacrime. Per il ricordo delle estati più belle, che tristemente finiscono. Soprattutto, per i pregiudizi, le pressioni esterne e le ansie sociali, che sempre ci inibiscono. Prendiamo esempio dallo sfacciato Alberto Scorfano, allora, e in sella a una Vespa a precipizio sul mare gridiamo alle nostre paure: Bruno, silenzio! (8)

[Candidatura per il miglior film d'animazione, miglior documentario, miglior film in lingua straniera] Amin sgambetta per le strade di Kabul ascoltando Take on me. È ancora un bambino, indossa senza imbarazzo una camicia da notte della sorella, ha una cotta per Van Damme: non sa che dovrà correre per tutta la vita. Scappare prima dai talebani, che insanguinano l'Afghanistan con una guerra civile; poi dalla crudeltà dei trafficanti; infine dalla polizia. Separato dalla propria famiglia, sballottato tra Russia e Danimarca, sogna di riunirsi con i parenti in Svezia e inventa, intanto, una vita alternativa. Ormai adulto, si racconta a cuore aperto steso sul lettino di un amico: il regista Jonas Poher Rasmussen. A metà tra documentario e animazione, tra tragedia dell'immigrazione e favola avventurosa, la storia di questa adolescenza odissiaca diventa un piccolo film candidato a tre premi Oscar. Attuale, commovente, delicatissimo, racconta i rastrellamenti, il rimpatrio, le attese spaventose. E, soprattutto, la paura di fidarsi di qualcun altro: un compagno dolcissimo e con il pallino dei gatti rossi, ad esempio, che ama il protagonista pur non sapendo niente di lui. Mettere su casa significa seppellire le proprie origini? Essere felici implica tradire il ricordo dei propri cari? In tempi di guerra, l'amore di Amir ci apre gli occhi. E, qui e lì, promette di riempirceli di lacrime. (7+)

[Oscar per il miglior film d'animazione] Tra le montagne di una splendida Colombia vive una famiglia che potrebbe essere sbucata da una saga della prolifica scrittrice Isabel Allende. Guidata da una severa matriarca, è popolata da diversi tipi di talenti. Tutti i Madrigal, infatti, hanno un potere magico per contribuire alla magnificenza della stirpe. Cosa si prova a essere amaramente la pecora nera della casa? Sprovvista di poteri, la protagonista è una piantagrane che rischia di mandare in malora la tradizione. O così sembra. L'ultima favola Disney, buona giusta in tempo di festività, racconta con discreta originalità le perfezioni apparenti, l'ansia sociale, il perbenismo degli adulti. Ma i numeri musicali senza guizzi (quanto è sopravvalutato Lin-Manuel Miranda?) e uno sviluppo non pervenuto minano alla memorabilità del tutto. Peccato, perché l'esotismo dell'ambientazione e il personaggio dell'iconico zio Bruno, costretto a nascondersi per la sua fama di iettatore, promettevano meraviglia e commozione. Nonostante fosse ambientato a pochi passi da noi – meno ambizioso ma decisamente più riuscito – ci aveva portati più lontano il nostro Luca. (6,5)

mercoledì 19 gennaio 2022

Recensione: Cara Rose Gold, di Stephanie Wrobel

| Cara Rose Gold, di Stephanie Wrobel. Fazi, € 18, pp. 360 |

Quali sono i confini dell'amore? Quali, ancora, quelli della follia? Patty e Rose, madre e figlia, ne saggiano i limiti – spingendosi fino al punto di non ritorno – nell'esordio narrativo di Stephanie Wrobel. Noir familiare parzialmente ispirato all'omicidio di Dee Dee Blanchard, già raccontato nella serie TV The Act, Cara Rose Gold prende spunto dalla cronaca nera ma immagina un prosieguo diverso: perfino più sadico. Quando la figlia adolescente osa rivoltarsi contro la madre-carceriera, artefice di soprusi e bugie, è soltanto l'inizio di un nuovo incubo. L'autrice, infatti, immagina l'incontro tra le due dopo un lustro di reclusione. Mentre Patty confida nel perdono, Rose medita vendetta trasversale.

Il legame fra una madre e una figlia è sacro. Lei, meglio di chiunque altro, sa che, a prescindere da quando siano orribili, troveremo ancora nel cuore le forze di amarle.

Raccontato a voci alterne, il romanzo è un'esilarante guerra di logoramento che descrive il reintegramento della prima – guardata con legittimo sospetto dall'intero vicinato – e la maturazione della seconda, spesso combattuta tra nostalgia e rancore. Rose Gold è la vera protagonista, disposta a tutto – anche a far leva sul proprio status di vittima – per trovare un posto nel mondo. Cresciuta con la consapevolezza di avere un difetto cromosomico in realtà inesistenze, sempre cagionevole e malnutrita, è diventata una giovane donna con un sorriso guasto di cui si vergogna profondamente, un neonato da accudire e una rabbia repressa che, talora, esplode in sanguinose fantasticherie. Ancora incredula davanti alla violenza psicologica subita dalla madre, si guarda intorno con irrequietezza: su cos'altro le ha mentito Patty? Suo padre è davvero morto per overdose? Quale segreto nasconde la casa dei suoi nonni materni, tornata nuovamente sul mercato immobiliare? È forse possibile fidarsi di un fidanzato virtuale, di un'amica scostante, se perfino i parenti stretti le hanno fatto del male?

Avevamo imparato nel modo più difficile che i genitori non hanno tutte le risposte. Siamo stati noi a volere che le avessero. Abbiamo creduto che le avessero per i primi due decenni delle nostre vite, a seconda del tipo di genitori e alle loro capacità di sapersi parare il culo. Ma, alla fine, scoprire che i nostri genitori erano dei semplici mortali non è stato molto diverso dallo scoprire la verità su Babbo Natale e il Coniglietto pasquale.

A metà tra Che fine ha fatto Baby Jane? e uno qualsiasi dei film con Rosamund Pike, il romanzo – scritto senza il minimo guizzo, ma pervaso da una piacevolissima ironia di fondo – affascina grazie ai suoi personaggi disturbati e al continuo ribaltamento dei ruoli. Prevedibile nell'epilogo ma spassosissimo, Cara Rose Gold gioca sin da subito a carte scoperte e vede le sue protagoniste darsi reciprocamente il tormento dall'inizio alla fine. C'è un po' di romanzo, insomma, in questo disagio. Strano che Hollywood, attratta dagli orrori della sindrome di Munchausen per procura anche nel recente Run, non ne abbia già tratto un horror. Quando la proverbiale forza delle donne viene usata per il peggiore degli scopi, ossia la vendetta, come distinguere la vittima dalla carnefice?

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Miley Cyrus - Mother's Daughter

mercoledì 27 ottobre 2021

Recensione: La casa vicino alle nuvole, di Nickolas Butler

| La casa sulle nuvole, di Nickolas Butler. Marsilio, € 18, pp. 380 |

È al termine di una strada sterrata che sembra portare alla fine del mondo. La incorniciano il gorgogliare del fiume vicino, i vapori di una sorgente termale, le rocce aguzze delle montagne. Abbracciata dalla vallata e protetta da un silenzio impenetrabile, La casa vicino alle nuvole è un regno privato. Siamo in un Wyoming senza più cowboy né rancheri, preso d'assalto da capricciosi turisti in abiti griffati: viverci è diventato un lusso. Cole, Bart e Teddy lo abitano come operai, non come degni cittadini. Quando avranno abbastanza stabilità economica per mettere radici? Manovali di umili origini e dai caratteri agli antipodi, hanno fondato una società di costruzioni che fatica a ingranare. Finché l'algida Gretchen, donna d'affari sola al mondo e dai piani misteriosi, non li tenta con un progetto impossibile: costruire una casa in appena quattro mesi e consegnarle le chiavi entro Natale. In cambio riceverebbero assegni stellari. Cosa rappresenta per lei quel progetto? Per quale motivo altri costruttori si sono già tirati indietro? Nonostante la vista paradisiaca, il cantiere ispira una brutta sensazione: mette la pelle d'oca, come la casa infestata di un film dell'orrore.

Com'era possibile, si chiese, non possedere una casa, non avere risparmi, nessuna istruzione universitaria, nessun talento artistico, niente di niente – non una sola attestazione dei suoi quasi quarant'anni su questo pianeta –, eppure trovarsi laggiù, a costruire quel santuario sulle montagne? Quel divario a volte lo lasciava sbalordito e l'unico conforto che provava era che quella casa, in qualche modo, era anche la sua traccia, la sua eredità, benché il suo nome non fosse inciso su nessuna superficie, su nessuna pietra.

Cole, leader ambiziosissimo, non teme la sfida; Bart, una mina vagante dipendente da metanfetamine, si rifugia nelle droghe pur di incrementare le prestazioni lavorative; Cole, mormone e padre di quattro figli, è una voce della coscienza che nulla può contro la tracotanza. Perché sacrificare tutto – famiglia, salute, moralità – per un patto scellerato? Nella storia della True Triangle Construction i giorni prenderanno a confondersi in un'unica matassa indistinguibile. I ritmi diventeranno massacranti, le scadenze rigidissime: il romanzo è un conto alla rovescia, il tempo un tiranno e gli strumenti per raggiungere l'obiettivo, talora, sono illeciti. Come fronteggiare inoltre le giornate che si accorciano, i climi a picco, gli agenti atmosferici? Tratto da una vicenda realmente accaduta che ha dell'incredibile – ricorda un po' quella di L'incredibile storia dell'Isola delle Rose –, il romanzo è la cronaca di un'impresa d'altri tempi in cui il titanismo dei protagonisti sfocia in risvolti scioccanti: la neve è destinata a tingersi di rosso.

L'America è il più grande paese del mondo, a patto di non restare senza soldi.

Non fatevi ingannare dall'apparente gravità del tutto: La casa vicino alle nuvole è sì un'angosciosa parabola di rivalsa sociale, ma è soprattutto il quinto romanzo di Nickolas Butler. Entrato di diritto tra i miei autori del cuore, lo scrittore americano non delude le attese neanche questa volta: per me la sua voce continua a essere una coperta calda e morbida. Amici, soci in affari e infine complici, i tre protagonisti mettono le loro solitudini al servizio dell'avventura. Benché antieroici, conquistano grazie alla consueta umanità con cui vengono dipinti. È impossibile non tifare per loro, non coprire i loro orribili misfatti, non desiderare di proteggerli dal mondo circostante e soprattutto da loro stessi. Sboccati e chiassosi, ma dal cuore tenerissimo, contemplano il cielo stellato – in mutande, con una birra in una mano e una canna nell'altra – e si confessano sogni di gloria e fantasticherie di ricchezza. Uno di loro, ad esempio, vuole trasferirsi a Panama semplicemente perché il nome del paese ha un bel suono. Ciò che resta delle loro fatiche sono i ricordi, e lo scintillio commovente di una tomba lontana. Sporco eccezionalmente di sangue, l'ultimo Butler racconta di un'amicizia che minaccia di erodersi. Come si erodono gli animi, se mangiati dalla cupidigia; come si erodono le montagne. È una lotta contro il tempo, contro la morte, contro la Natura stessa, per erigere un sogno su misura. O forse un incubo?

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Led Zeppelin  - Stairway to Heaven 

lunedì 30 novembre 2020

Recensione: Harvey, di Emma Cline

| Harvey, di Emma Cline. Einaudi, € 12, pp. 104 |

È proprio lui, quello sulla bocca di tutti. Non serve il cognome a identificarlo. Produttore cinematografico dalle intuizioni vincenti, più volte entrato nelle grazie dell'Academy per aver investito sui film giusti, all'improvviso è diventato un bersaglio umano. Un'attrice – una sua protetta, una sua vittima – gli ha puntato il dito contro. E sulla scia della prima donna hanno fatto eco le altre dell'harem, in un coro che a suon di Tweet ha denunciato gli abusi di potere, i provini succinti, i massaggi, le camere d'albergo. #Metoo, per confessare al mondo: ho subito anch'io; a Hollywood non è bastato il talento. Travolto dalle onde dello scandalo, l'uomo trova riparo dallo tsunami nella villa in Connecticut di un amico. L'indomani un giudice lo dichiarerà o colpevole o innocente. Queste imperdibili novanta pagine raccontano il suo ultimo giorno di libertà. Qual è lo stato d'animo di un uomo che sta per perdere tutto? Come investe il tempo in attesa del verdetto finale? La giornata comincia all'alba, in un letto madido di sudore, con piccoli malesseri. Prosegue a colazione poi: succo di pompelmo, muffin ipocalorici, una sbirciata ai quotidiani col suo nome in grassetto. Harvey è sempre al telefono. Cerca notizie su di sé su Google, sperando in un commento solidale; fa telefonate; ne rifiuta altre. Attende le visite del personale medico, che propone cure alternative per i suoi dolori cronici, e l'arrivo di figlia e nipote: purtroppo non si fermeranno dopo cena. In sottofondo, il ticchettio dell'orologio: nella casa semivuota aleggia insopportabile; sembra un frastuono supersonico.

Benvenuto, disse il vuoto. Ti stavamo aspettando.

Annoiabile ed estraniato, Harvey non sa di essere spregevole. Anzi: per la classica inconsapevolezza del male, si sente un capro espiatorio. Nel corso della sua routine sonnacchiosa, l'ho immaginato come un incrocio tra il Billy Murray della migliore Sofia Coppola – sornione ma profondamente malinconico – e il cavallo antropomorfo di BoJack Horseman, tutto genio e sregolatezza. Ho letto delle manie, dei tic nervosi, delle piccole pratiche disgustose che tutti noi sbrighiamo quando non visti. Barricata dietro un'algida terza persona, Emma Cline sorprende con il suo piglio caustico, asciutto, lineare. Apparso per la prima volta sul New York Times, il racconto non è la filippica che a giusta ragione ci saremmo potuti aspettare dall'autrice delle Ragazze: una delle narratrici più interessanti di una nuova gioventù femminista e battagliera. Ancora più a fuoco che nel suo bestseller, da me apprezzato a metà, Cline sa muoversi brillantemente nei confini ristretti di questo formato e nelle pieghe di un punto di vista scomodo: capace di grande empatia, eppure mai indulgente, l'autrice emoziona con il ritratto di uno degli uomini più odiati al mondo. In una storia di prevaricazione, sesso e potere, si focalizza eccezionalmente sui postumi. Il risultato è la dipintura di un self-made man rovesciato a forza dal suo trono, che all'improvviso perde sudditi e giullari. Ma non un'ottusa, ingiustificata forma di speranza. Più che spaventato, Harvey è ansioso di tornare in tribunale: confida nell'assoluzione, e allora tormenta in anticipo colleghi, segretarie, investitori. Culla l'idea di un ritorno in pieno stile con l'adattamento cinematografico di Rumore bianco: un romanzo considerato infilmabile. 

Quando le sensazioni iniziarono ad attenuarsi e la stanza cominciò a ricomporsi, provò un dispiacere ben noto, come la tristezza di quando, da piccolo, sentiva avvicinarsi la conclusione di un film, sapendo che presto sarebbe tornato alla dura realtà del mondo. Nel cinema si accendevano le luci, rivelando i popcorn caduti sotto le sedie, le tappezzerie lise, gli spettatori che raccattavano i cappotti scadenti. Perché Harvey non poteva stare così per sempre?

Da un lato mecenate e dall'altro boia, da un lato scaltro e dall'altro puerile, questo Harvey sul viale del tramonto indossa gli stessi calzini rossi di papa Francesco sul rigonfiamento della cavigliera elettronica, ma nasconde magliette sdrucite sotto le ascelle e una carie a cui rimediare quanto prima. Dimagrito bruscamente in seguito a un accidente, ha scoperto che l'annientamento è la dieta migliore contro i chili di troppo. Ha problemi con il correttore automatico, cita a sproposito incipit di cui non ricorda gli autori, suona goffo e pretenzioso alla cornetta, si ingozza di cioccolatini e pasticche guardando Chernobyl in binge watching: ciò che ingerisce potrebbe indurlo al soffocamento o alla disfunzione erettile. Quanti nello show business sapevano davvero delle sue compulsioni? Quanti, nonostante tutto, avevano distolto lo sguardo pur di salire a brindare sul carro del vincitore? Si festeggia insieme, ma ci si lecca le ferite soli. Simbolo del decadimento fisico e morale di una certa America, Harvey è una creatura bifronte. Mantiene integra la sua infida voce da serpente a sonagli, ma si copre di ridicolo involontario con i sogni a occhi aperti sul conto del vicino di casa. Se Gatsby fantasticava sulla luce verde oltre la baia – simbolo dell'irraggiungibile, del futuro, di un'ambizione motivante –, Weinstein spia le mosse di un presunto fuoriclasse al di là di una staccionata bianca. È Don DeLillo? È lui la luce di cui, Harvey come noi, ha bisogno per non spegnersi?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Cola

mercoledì 22 aprile 2020

Quarte stagioni e storie vere: La casa di carta, This is us | Unorthodox, A Very English Scandal

Attualmente ha il primato di essere la serie più vista al mondo. Come da tradizione, sono in molti quelli che amano odiarla: cosa che capita ai successi di pubblico che, al contrario, non riscuotono il consenso unanime della critica internazionale. Accolta con più ferocia del solito, la nuova stagione di La casa di carta è senz’altro la peggiore delle quattro andate in onda, ma il dettaglio non giustifica la pioggia di critiche. Partito negativamente prevenuto, infatti, non mi sono accorto né di cali né di involuzioni. Nel bene e nel male, l’heist movie spagnolo resta il solito: un intrattenimento al cardiopalma, disimpegnato e dai ritmi vertiginosi. Otto episodi che volano, con tanto di irresistibili punte trash – le canzoni di Tozzi e Battiato cantate da un coro di frati fiorentini –, dove vengono subito riprese le fila delle puntate precedenti. Ma dopo lo svelamento di un paio di twist che ci avevano lasciati con il fiato sospeso – come se la caveranno due personaggi dati per morti? –, la serie si concentra sul prosieguo della rapina non aggiungendo nulla alle storie dei singoli personaggi. Una guardia di sicurezza in ostaggio si libera delle manette e semina il terrore. L’azione abbonda, le sparatorie pure, ma tacciono gli attanti: soprattutto i minori. Mentre Rio e Stoccolma restano a corto di battute, con Berlino ormai mostrato in flashback superflui soltanto per amore di fandom, a farci una bella figura sono la spietata Sierra e Nairobi – quest’ultima vero cuore della stagione. Benché si parli di lingotti da fondere, non tutto è oro. Ma l’intrattenimento, se non si è pretenziosi, comunque luccica. (6,5)

Con i Pearson la magia è sempre stata di casa. Ma non si confidava mica in un miracolo. Dopo una terza stagione poco entusiasmante, iniziava a esserci aria di crisi. Deluso, non ho visto la quarta stagione puntata dopo puntata. Ho lasciato accumularle, e nel mentre mi sono giunte all’orecchio voci di corridoio: dicevano che i Pearson erano tornati in pieno stile. Mi sono fidato, ma è servito pazientare. A parte l’introduzione di un paio di nuovi personaggi – cos'avevano da spartire un musicista ipovedente e una soldatessa con tutti gli altri? –, fino all'ottava puntata rari picchi. Quelli, accanto alle lacrime, sono arrivati nella seconda metà della stagione: allora la serie si rende protagonista di una ripresa impossibile. I livelli di scrittura tornano quelli dell’esordio. Gli attori, soprattutto Mandy Moore, sono da premi. Il cuore batte fortissimo. Kate affronta i problemi da neomamma, mentre il marito pensa a rimettersi in forma fisica; Kevin insegue il vero amore e rifugge le dipendenze; Jack, indimenticato, compare a spargere saggezza nei classici flashback. Ma questa, per me, è la stagione ad honorem di Rebecca e Randall: quelli che fanno sacrifici di cui nessuno si accorge; quelli che in silenzio tutelano l’ordine, l’equilibrio e si preoccupano degli altri. Cosa succederebbe se mollassero la presa? Il rischio di scontentare qualcuno, in nome di un bene maggiore, è alto. E allora mi sono rivisto in loro, che ci regalano malinconiche visite al museo o provanti episodi what if, e ci somigliano specialmente nelle imperfezioni; nelle ombre degli stati d’animo. Più umani del capofamiglia Ventimiglia, ormai beatificato. Finalmente, più noi. (8)

È la miniserie di cui tutti parlano. La storia di Esther sta commuovendo grazie alle emozioni suscitate dall’attrice principale. A diciannove anni, già moglie, la protagonista fugge: direzione Berlino. Se la cronaca della sua rinascita sembra già vista – troppo fiabesca, con tutti belli e ben disposti: personalmente ho storto il naso, soprattutto davanti a una vocazione musicale sbucata fuori dal cilindro –, i momenti migliori si nascondono nei flashback che svelano le peggiori sofferenze. Siamo a Brooklyn, in comunità che impone ancora legami e rinunce. Esther si sposa, e il rito nuziale è una sequenza inquietante. Esther è costretta a rasarsi i capelli e a indossare una parrucca, con il taglio immortalato in presa diretta. Esther ha problemi con il sesso, e i suoceri giudicano una donna dai figli che mette al mondo. Girata in yiddish – un misto di americano, tedesco ed ebraico –, la parentesi newyorkese sorprende per l’attenzione documentaristica. E si scontra con un prosieguo sì più positivo, sì più arioso, in cui è forte la cesura tra la storia vera e l’invenzione degli sceneggiatori. Meno lodevole di quel che si legge, a causa di qualche ingenuità in esubero, la miniserie informa comunque e rivela il talento straordinario di Shira Haas. Semiesordiente, si prepara a vincere il vincibile con una performance struggente, retta interamente dal gioco dei suoi occhi meravigliosi; non da meno il marito Amit Rahav, dolcissimo giacché vittima inconsapevole. Logorati da un senso di colpa intrinseco alla loro stirpe, i personaggi vengono a patti con la libertà e il passato in Germania: una vecchia scena del delitto che, per fortuna, qui si trasforma nello sfondo di una rivoluzione. (7)

Come il titolo promette, si tratta di uno scandalo molto all’inglese. E nell’atto pratico – scrittura, regia, recitazione – si conferma essere poi una miniserie molto all’inglese. Raffinata, ironica, confezionata con una professionalità vagamente regale. Recuperata dopo il colpo di fulmine verso la sottovalutata Years and Years – sceneggia la stessa penna –, si era già fatta notare alle premiazioni per menzioni e trionfi inaspettati. Su carta ispirava poco, però, e nei fatti poco mi ha detto. Sfortunatamente non mi interessava affatto conoscere questa storia vera. Jeremy Thorpe, parlamentare, deve proteggersi dalle accuse dell’amante Norman Scott: cosa direbbe l’opinione pubblica della sua omosessualità, e soprattutto del tentato omicidio che ha escogitato? Forte della regia da maestro di Stephen Frears e divisa in tre atti, perfetta nello stile e nella forma, senza grinze, A Very English Scandal ricorda un po’ l’assurdità di I, Tonya. A quegli intrighi, a quegli strafalcioni, a quelle intimidazioni grottesche, quasi non si crede! Eppure è tutto realmente accaduto, parola di Wikipedia. La visione, tuttavia, non lascerà strascichi. La ricorderò per i duetti tra Hugh Grant e Ben Whishaw – il primo, superbo, invecchia lontano dai cliché delle commedie romantiche; il secondo, eppure molto premiato, eccede troppo in smorfie – e per una constatazione quanto mai attuale: la realtà, a volte, supera l’immaginazione. (6,5)

mercoledì 5 febbraio 2020

Recensione: Uomini di poca fede, di Nickolas Butler

Uomini di poca fede, di Nickolas Butler. Marsilio, € 17, pp. 271 |

Ho scoperto che leggerlo è uno dei piaceri della vita. Quando termino una sua storia, ho sempre il desiderio di chiacchierarne con lui davanti a una birra. Di romanzo in romanzo, infatti, è difficile non affezionarsi al suo tono di voce e alla sua compagnia. Ci sono quegli autori a cui, se si potesse, ruberesti a man bassa il segreto dell’ispirazione perpetua. E ci sono altri come Nickolas Butler, più rari ma non per questo meno preziosi, che vorresti avere la fortuna di considerare amici. In un mondo perfetto, saremmo abbastanza in confidenza da scambiarci le esistenze durante le vacanze: lui in Italia, io negli Stati Uniti, per realizzare così il pensiero che ogni volta mi attanaglia a fine lettura. Posso trasferirmi in Wisconsin?
Per favore, faccio sul serio: metto poche cose in valigia, prendo e parto. All’arrivo, in fondo, troverei tutto quello di cui ho bisogno. Ecco le villette degli anni Cinquanta, ecco il profumo di hamburger e crostate fragranti, ecco i cieli immensi. Sui rami ci sono fili di lucine natalizie, anche a festività finite, e nelle grigliate si brinda con una lattina ghiacciata stretta nel pugno. Ma badate bene, non è tutto oro quel che luccica, non siamo in un episodio della Casa nella prateria: si inizia a fumare prestissimo, all’età di nove anni; la noia esistenziale spinge tra le braccia del vizio o in poltrona, a sorbirsi svogliatamente soap opera su soap opera; i giovani tagliano la corta quanto prima, e lo testimoniano le strade spopolate, i negozi sfitti, i banchi vuoti. Il passaggio dei treni, metronomi per eccellenza della vita notturna, inoltre fa vibrare un po’ i letti e le chincaglierie nelle cristalliere. Seppure tra alti e bassi, i personaggi di Butler non saprebbero mai rinunciare al fascino di queste atmosfere malinconiche. E io con loro.

Sempre più spesso, Lyle scopriva di trovarsi a proprio agio nel silenzio, accanto ai suoi cari, senza cercare di risolvere problemi o rispondere a domande, limitandosi piuttosto a imparare a vivere in maniera più leggera, ad amare più intensamente, a mangiare meglio e, di sera, prima di andare a dormire, a leggere gli scaffali e scaffali di libri che, gli era tristemente chiaro, non sarebbe mai vissuto a lungo da aprire, quegli uccelli dalle ali bianche appollaiati sul suo petto alla pallida luce dell’abat-jour, in attesa che un polpastrello inumidito ne scorresse con delicatezza le pagine sottili, le voltasse liberando storie e poesie e miti in esse contenute.
Si parte in medias res, con una scena da film: Lyle – sessantacinque anni, quaranta dei quali passati accanto alla moglie Peg – gioca a nascondino in un cimitero. Conta sulla tomba del primo figlio, morto a nove mesi, mentre il piccolo Isaac corre a nascondersi. L’anziano segue il nipotino fra le lapidi di concittadini un tempo conosciuti e stimati, e inevitabilmente pensa alla vita, alla morte e al mistero che c’è nel mezzo. 
Il protagonista sembra l’eroe della porta accanto di un film di Clint Eastwood. Temprato dal lavoro fisico, è un tuttofare in pensione che non rinuncia comunque a rendersi utile: è un padre e un nonno amorevole – il legame con la figlia Shiloh, adottata in tenera età, non ha nulla da invidiare ai rapporti di sangue –, un amico presente – da quando a Hoot è stato diagnosticato un cancro, le visite di cortesia sono diventate innumerevoli –, un lavoratore instancabile – raccoglie in nero mele in un frutteto, soprattutto per il piacere di mangiare i frutti direttamente dall’albero. Benché alla religione organizzata preferisca i rapporti di buon vicinato, non rinuncia comunque alla routine della messa domenicale: ama il canto corale, la volta dipinta sotto cui ha conosciuto Peg, i sermoni di un prete che prima della conversione era un pescatore in Alaska. Ma l’incostante, detestabile Shiloh, a un certo punto, decide che il credo del padre non è abbastanza: membro di una chiesa aconfessionale e legata a Steven, leader con smanie da rockstar, la ragazza trascinerà i parenti nell’incubo del fanatismo religioso. Il cagionevole Isaac, portato in giro come un fenomeno da baraccone, è davvero un guaritore? La preghiera cura più della medicina? Si può amare una persona pur disapprovandone le scelte? Ha inizio un braccio di ferro straziante, dove credenze diverse diventano motivo di dissidio.

«Mi pare di non riuscire a tenermi strette le cose. Mi pare di non riuscire a farle andare più piano». 
«Ti terrò stretto io» affermò Peg. 
Continuarono a dondolare nella notte estiva, con il cemento sotto i piedi caldi e umidi […] Lyle voleva dire: Sentirò la sua mancanza, ma temeva che se avesse pronunciato quelle parole ad alta voce si sarebbe messo a piangere. Così le trattenne fra le labbra, dove si gonfiarono e si espansero; gli parve di avere il cranio appesantito e il cuore fragile, allora chiuse gli occhi e avvertì le braccia della moglie che lo avvolgevano nella maniera in cui un bambino potrebbe abbracciare un albero, e la strinse ancora di più a sé.
Già paragonato spesso al compianto Kent Haruf, Butler trova casualmente lo stesso traduttore dell’amato scrittore del Colorado – Fabio Cremonesi, calzantissimo – e la tematica spirituale già presente in Benedizione. Dopo Shotgun Lovesongs e Il cuore degli uomini, conferma qui il suo dono più grande: l’emozione. Dalla resa vivida dei paesaggi campestri alla quotidianità dei protagonisti, dal filosofeggiare sulle gioie del sonnellino alle riflessione sul divenire della natura, ogni dettaglio vibra di sentimento. E spinge di conseguenza le schiene a vibrare, a palpitare, sotto le scosse di sospiri profondi che nell’epilogo diventano pianti. Questa volta a fare da cassa di risonanza c’è l’aggiunta di un protagonista speciale – uno di quegli anziani da adorare, dolci ma agguerriti –, che alla bellezza dell’elemento rurale affianca un altro tema che su di me ha presa facile:  la senilità. Lyle non si arrende all’inazione della vecchiaia. Il suo cuore non vuole saperne di smettersi di angustiarsi o battere. Lasciarsi andare alla preghiera significa forse tradire il suo senso pratico? Appassiona, allora, il suo tentativo di salvare un bambino dall’ignoranza dei tutori. E commuove oltre il dicibile il tentativo di salvare il meleto dal gelo, alimentando improbabili falò. Nel Wisconsin, all’improvviso, le temperature primaverili possono cedere il passo a una violenta tormenta. Come prodigarsi per salvare il salvabile?
Qualunque sia il vostro rapporto con la chiesa – il mio è pressoché nullo –, non lasciatevi scoraggiare dall’argomento. Uomini di poca fede incoraggia a credere nel prossimo, non nel divino, e ad arrendersi al fatto che – non importa se lo si chiami karma o speranza – il bene che facciamo, alla fine, ci ripagherà con la stessa moneta. Sul solito sfondo irrinunciabile, pur ispirandosi a una brutta vicenda realmente accaduta, Butler sa confezionare il solito romanzo bellissimo. Sulle diverse accezioni della parola gregge. Sui pacifici ma struggenti gesti di opposizione della gente qualunque. Su momenti semplici e perfetti, in cui sarebbe splendido stabilirsi vita natural durante. Aspetterò il suo ritorno in libreria come si aspettano i miracoli.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Johnny Cash – You Are My Sunshine

martedì 17 dicembre 2019

Recensione: Le ragazze, di Emma Cline

| Le ragazze, di Emma Cline. Einaudi, € 13, pp. 334 |

I capelli lunghi, i jeans sfrangiati, le mezzelune delle natiche in mostra. Seducente e bellissima, Margaret Qualley si affacciava nell’auto di Brad Pitt chiedendo uno strappo. Con i piedi nudi appiccicati sul parabrezza, la giovane si lasciava accompagnare in un ranch lontano dallo star system. Vagamente inquietanti, gli abitanti di quella comune orbitavano attorno a un leader al momento assente: nell’ultimo film di Quentin Tarantino – cronaca nera riletta a metà tra il favolistico e il grottesco dal regista che già riscrisse la storia con Bastardi senza gloria –, la figura di Charles Manson mancava all’appello. Forse tagliata in fase di montaggio. Forse ridimensionata da un autore che, a differenza di coloro che si sarebbero aspettati una trasposizione accurata della strage, aveva una visione opposta. Insoddisfatto da aspettative mal riposte, a cinquant’anni dal barbaro omicidio di Sharon Tate, ho preferito allora leggere della Hollywood messa a soqquadro dallo spirito d’onnipotenza della Manson Family. Se l’intoccabile Charlie era la mente, chi era il braccio? Quali erano le origini dei giullari della sua spaventosa corte dei miracoli? L’esordiente Emma Cline ha fatto della confusione di quei disperati un best-seller. 

Tutte le altre ragazze pensavano che fosse il regista a fare la scelta. Invece in realtà ero io a dire al regista, in un mio modo segreto, che la parte doveva darla a me. Io volevo quello: un’onda che corresse da me a Russell. A Suzanne, a tutti quanti loro. Volevo quel mondo senza fine.
Le ragazze è un romanzo di formazione scritto con l’urgenza di un thriller. Sbirciata da una cortina di fumo tossico, la protagonista è Evie: quattordici anni, figlia di genitori divorziati, vittima della noia degli andirivieni che le comporta raggiungere la città in bicicletta. Ha i segni dell’acne, una frangia di cui è scontenta, due occhi non abbastanza azzurri. A settembre partirà per il collegio e, mentre i maschi tremano per la chiamata in Vietnam, l’adolescente scalpita al pensiero della divisa austera, della gonna plissettata, dell’obbedienza a ogni costo. Innamorata non corrisposta del fratello maggiore della migliore amica, un giorno trasgredisce per rifuggire la routine e i pizzichi di zanzara. Sale su uno scuolabus riverniciato di nero; scappa di casa. Tutto per essere all’altezza di Suzanne, hippy languida e selvaggia che fruga nei cassonetti in cerca di cibo e fa sesso con chiunque voglia. A quell’età, a quella latitudine, un’esistenza pericolosa non preoccupa: fa gola. E Russell Hadrick, il leader della comune che non riesce a sfondare nel mondo della discografia, è un attento conoscitore di tentazioni, desideri reconditi e tristezza femminile. Quelle ragazze le usa come prostitute, mezzi, armi. Tutto è in comune. Tutto è lecito. Anche una strage sotto acidi consumata in una villa sul mare, in cui fino all’ultimo sfugge il ruolo dell’ingenua Evie. Ormai adulta, invogliata a rievocare il passato, la narratrice riavvolge il nastro. E ricorda il superamento di una soglia invisibile – quella dell’essere adulti, quella della moralità –, che tanto ha in comune con i boschi di certe favole: posti in cui è vietato spingersi. Romanzo di crescita introspettivo e spietato, Le ragazze arriva con immediatezza. Sin dalle prime pagine non fa mistero né degli eventi né del destino dei protagonisti. Scritto in maniera esemplare, con un andamento sinuoso e oscuro, convince tuttavia più quando lontano dal ranch.

Non gli dissi che rimpiangevo di aver conosciuto Suzanne. Di non essere rimasta al sicuro in camera mia sulle colline aride vicino a Petaluma, con le mensole affollate dai dorsi a lettere d’oro di miei libri d’infanzia preferiti. E lo rimpiangevo davvero. Ma certe notti in cui non riuscivo a dormire e sbucciavo pian piano una mela davanti al lavello, facendo allungare quel ricciolo sotto la scintilla della lama. Con la casa buia attorno a me. A volte non sembrava rimpianto. Sembrava nostalgia.
Russell, alter-ego di Manson, non ha il carisma luciferino del personaggio reale; le sue entrate in scena, anzi, risultano i momenti più noiosi del romanzo. Evie lo guarda stranita, come se reagisse alla battuta di qualcuno che non fa mai ridere davvero, e l’unico fascino che subisce è quello di Suzanne – amica e amante occasionale, al centro di un passionale rapporto simbiotico. Cinquant’anni dopo, Le ragazze di Emma Cline si affrancano dal giogo maschile, e in una riflessione profondamente femminista demitizzano i falsi guru, guardano di sottecchi i fidanzati bugiardi, subodorano le crisi sentimentali dei padri. Sono precoci. Ma a causa di una struttura abusatissima e di personaggi maschili non altrettanto interessanti, al pari di Quentin Tarantino, finiscono poi per parlare d’altro: il passaggio di Brad Pitt, nel bene e nel male, conduce altrove. Al crocevia di una vicenda soltanto ispirata alla storia vera, che tra le righe vive del cinema di Sofia Coppola e delle melodie di Lana Del Rey. A un muro imbrattato, con sopra il disegno di un cuore insanguinato. Opera dei satanisti? No, peggio: di una ragazzina innamorata.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Freak

lunedì 7 ottobre 2019

Dear Old Mr. Lynch: Mulholland Drive, Velluto blu, Strade perdute, The Elephant Man, Una storia vera

[2001] Stando alla critica è il miglior film d’inizio millennio. In rete abbondavano i frame, le lodi, le spiegazioni, e al solito non mi sentivo all’altezza del recupero. Avrei capito anch’io la grandezza di Mulholland Drive o, come successo con Twin Peaks, sarei stato troppo confuso per dire la mia? Per quanto popoloso di figure grottesche e cospiratorie, degne di un romanzo hard boiled con sprezzo del kitsch, il capolavoro di David Lynch risulta sorprendentemente lineare e coerente nei primi novanta minuti. Mi ha messo a suo agio così. Ci sono un’attrice di provincia in cerca di fama e una sconosciuta senza identità che, forse, proprio a causa di quella stessa fama si è bruciata. Accanto a loro, un regista costretto a obbedire alle manipolazioni dei produttori, che dall’alto gli impongono la stella del suo ultimo lavoro. Tutt’intorno, appare indispensabile una selva tragicomica di sicari pasticcioni, cowboy sibillini, inquietanti compagni di posto e clochard che fanno saltare lo spettatore in poltrona provocando perfino svenimenti. Vistose parrucche platino, nomi scambiati e topless bollenti culminano con l’ingresso delle protagoniste nel club Silencio, dove tocca rivalutare i ruoli delle due donne all’interno della vicenda. In definitiva, un noir su una Hollywood fucina d’illusioni e dissapori. Per affermarsi basta il talento? Per resistere all’ennesimo provino fallimentare è sufficiente l’amore? Le stranezze e le scene di culto si annidano tutte nell’ultima parte – la mia preferita –, dove abbondano i fumi, le sovraimpressioni, le figure simboliche. Lì dove, affascinati da un Lynch capace di un equilibrio insospettabile, siamo portati a cercare un senso – a volte con successo, altre brancolando nel buio – all’intreccio, mettendolo quanto possibile in ordine cronologico.  Se una regia priva di guizzi rivela l’iniziale natura televisiva del progetto, gli applausi sono invece per la scrittura – reale motivo di cotanta iconocità –, capace di spaziare dai personaggi stereotipati ai travagli dei melodrammi LGBT, consacrando nel mentre una Naomi Watts già straordinaria e svelandoci le grazie della prosperosa Laura Harring, finita purtroppo nel dimenticatoio. Tema clou: quei sogni nel cassetto, letterali e figurati, di cui il cinema è una macchina instancabile. Il risveglio, traumatico, sarà un testacoda su Mulholland Drive. La strada su cui morì più di qualche aspirante star, assieme alle belle speranze di una ragazza dell’Ontario che, a occhi aperti e chiusi, sognava la gloria, l’amore e altre chimere inconciliabili. (8,5)

[1986] Gli uccellini cinguettano beati. Le staccionate bianche sono state riverniciate di fresco. I giardini sono un fiorire di rose rosse. Come esemplifica bene la sequenza d’apertura, però, in quel quartiere residenziale dalle villette a schiera non è tutto oro quel che luccica: sotto c’è del marcio. Serpeggiano blatte e vermi, di cui si nutrono perfino i pettirossi – simbolo d’amore e speranza. Si rinvengono, in passeggiate nel cuore della natura, orecchie mozzate e altri scomodi segreti. A fare da detective per caso è un acerbo Kyle MacLachlan, poi ritrovato con pistola e distintivo nei panni del detective Cooper, di ritorno all’ovile dopo anni da studente fuori sede: inciamperà accidentalmente nella morte e nei drammi di una cantante jazz dalle tendenze sadomasochistiche – l’indimenticata Isabella Rossellini, per me né così bella né così brava –, così diversa dalla ragazza della porta accanto con il volto della giovane Laura Dern. Venerato da Quentin Tarantino, questo scandagliamento del sogno americano ha il voyeurismo dei patinati thriller erotici che ci si aspetterebbe da Lyne o De Palma. Sprovvisto di clamorosi colpi di scena, con una risoluzione smaccatamente lieta che oggi fa un po’ storcere il naso, invecchia con estrema classe ma deve aver smarrito in parte la sua carica eversiva. Di grande atmosfera, con una regia più elegante che altrove, ha tutt’oggi il merito di aver contaminato un genere di per sé raffinatissimo con succulenti inserti pulp e un cattivo – il gigioneggiante Dennis Hopper qui a un passo dall'Oscar – decisamente sopra le righe, pur raccontando in definitiva poco di nuovo. Trentatré anni dopo, il pregio di questo morbidissimo velluto blu non si discute; meno la brillantezza del giallo. (7)

[1997] A ben vedere, è l’anello di congiunzione fra Velluto blu e Mulholland Drive. Un tassello indispensabile. Un’opera nella quale, a mente lucida, s’intravedono i germi dei successi futuri. Peccato che la visione risulti di per sé poco memorabile. Il jazzista di un monocorde Bill Pullman brucia di gelosia per i presunti tradimenti di sua moglie, una Patricia Arquette qui al massimo del sex appeal. Accusato dell’omicidio della donna, perseguitato da misteriose cassette e da un uomo dalla bruttezza profondamente disturbante, il protagonista finisce in carcere. Ma i secondini, un giorno, trovano un’altra persona al suo posto. Che ci fa in gatta buia quel meccanico scapestrato e piacione, con una relazione sconsiderata per la moglie di un boss mafioso – sempre lei, una Arquette doppiamente nuda e fatale? Composto da due film all’apparenza sconnessi, nessuno dei quali particolarmente coinvolgente, Strade perdute si è lasciato seguire soprattutto perché trovavo intrigante l’idea della risoluzione finale. Come si sarebbero ricongiunte storie così lontane? Lo fanno a fatica e con le classiche stranezze del regista, davanti alle quali questa volta non ho provato il desiderio di chiedere spiegazioni alla rete o di saperne di più. Si affronta il tema del doppio. Si fa tanto, patinatissimo sesso. Si ascolta una pesante colonna sonora rock ‘n’ roll – con tanto di cameo di Marilyn Manson –, perfetta per gli ambienti malavitosi del film ma lontana dal mio gusto personale. Questa consolidata storia di bulli e pupe, tuttavia, è inserita per fortuna in una cornice che fa la differenza, mirata ad aprire al cinema le porte delle teorie freudiane e a filmare scena per scena le scosse elettriche di un conflitto interiore. A fuoco ma non abbastanza, le strade del titolo hanno il pregio di aver condotto il nostro Lynch a un sostanziale crocevia. Ma il risultato è inferiore alla somma delle sue parti. (5,5)

[1980] Sono gli anni di grigiore e depravazione della Rivoluzione industriale. Hopkins, affascinato dalla deformità di un freak, lo salva dai soprusi del circo e cerca di educarlo. Lo hanno mosso la tenerezza o l’ambizione? Qual è la differenza fra un padrone e un buon samaritano? Soggetto a continue disavventure, l’Uomo Elefante è vittima di una malattia genetica: non può scandire bene le parole, non può dormire disteso sulla schiena senza rischiare il soffocamento, non può a vivere a lungo in una società tanto inospitale. Ma nessuno ha messo in conto i prodigi della sua forza di volontà, né quelli del suo ingegno. Autoaffermandosi, perché non pretendere di vivere un’amicizia, una storia d’amore e un giorno perfetti – soprattutto se un’attrice, la Bancroft, vede in lui il compagno ideale per leggere le tragedie romantiche di Shakespeare? Da copione, il protagonista imparerà le buone maniere, onorerà il rito del tè delle cinque, indosserà il frac. Qualcuno vorrà scacciarlo. Qualcuno vorrà venderlo al migliore offerente. Qualcuno lo accoglierà, ma per mero opportunismo. Fiaba dalla scrittura classica, fra biografia canonica e parafrasi sognante, The Elephant Man è un film di grande maniera, con un Lynch che non perde il suo tocco personale neppure alle prese con i languori di un bianco e nero anni Cinquanta. Poco male se tutto va proprio come previsto. È possibile vederlo, infatti, senza abbandonarsi a scena aperta a un pianto viscerale? Eroe burtoniano non meno di Edward mani di forbice, John Hurt si lascia sfuggire dai pertugi del suo mascherone ingombrante poche parole confuse e lacrime passeggere. È l’umanità dei mostri. E' la mostruosità degli uomini. (8)

[1999] Ha perso sette dei suoi quattordici figli. Ha visto i suoi nipoti venir reclamati dagli assistenti sociali. Costretto a camminare poggiato a un bastone, mezzo cieco, l’anziano Alvin Straight ha un passato tumultuoso – reduce di guerra, alcolista –, un cappello da sceriffo e due occhi spalancati per l'infinita meraviglia. Incurante delle rimostranze della figlia autistica Sissy Spacek, un mattino prende e va: deve andare a trovare il fratello minore colto da un infarto, con cui non parla eppure da dieci lunghi anni. Il suo mezzo di trasporto: un tosaerba malandato. Lungo il tragitto lo aspettano incidenti di diversa natura, tantissimi buoni samaritani, ricordi drammatici. E il tutto sembra così folle da non poter non essere vero – ci è testimone il titolo italiano, Una storia vera. Se le atmosfere sono di quelle affascinanti, splendide come in un racconto di Kent Haruf, alla storia d'altra parte si rimprovera una dose di zucchero in surplus. Agrodolce ma a tratti un po' stucchevole, questa fiaba sulla terza età a cui tutto deve il bellissimo Lucky schiera tanti temi caldi in campo – vedasi la descrizione iniziale della tribolata vita del protagonista – ma fa presa sicura con una storia così poetica, così adorabile, da toccare le corde giuste. Avrebbe fatto altrettanto bene, probabilmente, anche con meno. Mi riferisco alle lungaggini, al patriottismo alla Eastwood, a un troppo che storpia. Ma la verità è che a un certo punto non ho visto più i difetti, con gli occhi pieni di lacrime per colpa della tenerezza di Richard Farnsworth: tutt’oggi non so se sia più struggente la sua ultima performance o la consapevolezza che di lì a poco si sarebbe tolto la vita, vinto da un male incurabile. Com’è grande il cuore di questo insospettabile Lynch, alle prese con il piccolo cinema indipendente. (6,5)

venerdì 19 luglio 2019

I ♥ Telefilm: Chernobyl | When They See Us

Nella primavera del 1986 un reattore nucleare esplode in Ucraina. È notte: disastri e misfatti, fateci caso, succedono sempre con il favore del buio. Quando possono cogliere più alla sprovvista. Le conseguenze, si prevede, dureranno per millenni. L'esplosione infetta la flora e la fauna; il pulviscolo infernale si propaga attraverso l'aria. Scorie radioattive, come fossero coriandoli, si depositano sugli spettatori inconsapevoli: inquietati dallo spettacolo, si sono radunati in strada tutt'altro che pronti alle conseguenze. Si può vivere accanto a una bomba a orologeria all'oscuro dei contro? Il disastro si poteva evitare giocando d'anticipo? Harris, Skarsgard ed Emily Watson sono i membri di un'impegnata task force di addetti ai lavori: scavano fra le lastre di grafite, nel marcio, e ricercano un colpevole da assicurare alla giustizia. Abbondano allora i tecnicismi, i discorsi fitti e settoriali, e il rischio di smarrirsi nel tentativo di decifrarli è alto, in particolare negli episodi centrali. Chiamano a rapporto minatori, esperti, ulteriori vittime sacrificali. Gettano colate di sabbia sul nocciolo e sventano il pericolo maggiore: inquinare la falda acquifera. Ma c'è tanta complessità e, soprattutto, troppa freddezza. Alle loro, quindi, si preferiscono senz'altro le storie delle persone comuni: la gravidanza a rischio di una giovane vedova o il duro apprendistato di un novellino, nell'episodio più potente, chiamato a freddare gli animali domestici infetti. Il KGB vorrebbe mettere a tacere i testimoni. Ma l'ossessione per la verità e il peso delle bugie, per fortuna, porteranno pochi coraggiosi a parlare. Più interessante che appassionante, più importante che bella, la serie di Craig Mazin – autore, in passato, delle peggiori commedie demenziali – è l'ultimo tassello di quei (tele)film d'inchiesta nello stile di Il caso Spotlight, The Post o Sulla mia pelle. Produzioni dall'indiscutibile lavoro documentario, che al pari del migliore approfondimento giornalistico mostrano ricostruzioni fedelissime e rivangano pagine di storia recente, risultando rigorose dal punto di vista tecnico e meno sul piano narrativo. Lente e angosciose, con esterni che ricordano il grigiore spaventoso dell'ultimo Suspiria, le cinque puntate si seguono con le orecchie ben aperte e il cuore altrove. La forse sopravvaluta Chernobyl, miniserie già da record, comunque ci illumina: nato a otto anni dalla tragedia pensavo di essere nelle fila di chi ne sa poco. Amaramente, mi sono accorto, ne sapevamo poco tutti quanti. Di quell'Unione Sovietica che non sbaglia mai o, se succede, è così brava a nascondere i danni sotto il tappeto. Di quell'Unione Sovietica che non vuole ammettere resa, dichiarare l'oscurità dei propri costumi, e pertanto tiene dipendenti e civili nel dubbio. Ignoranti e impreparati, vittime non soltanto delle radiazioni ma anche della legge del silenzio; di una forma ingiustificabile di disinformazione programmata. Che il piccolo schermo, tornato a essere finalmente un mezzo d'informazione, possa istruirci. (7)

Cinque ragazzi, bambini o poco più. Nella maggioranza dei casi, non si conoscono. Si trovano la sera sbagliata nel posto sbagliato, Central Park. Ridono, scherzano, folleggiano. Hanno seguito in corteo una folla di coetanei che prometteva divertimento. Quando gli altri si disperdono, a causa di una retata, restano loro. A sventolare bandiera bianca. A prendersi le colpe di un crimine mai commesso. Poco più là, infatti, una jogger è stata stuprata. Perché mettersi a cercare il colpevole, però, se tutto sembra così semplice; se ci sono cinque monelli dalla pelle scura contro cui puntare l'indice? Ha inizio un'odissea processuale che dura quindici anni. Prima le deposizioni raccolte svogliatamente da una polizia che fa orecchie da mercante, poi il processo con un verdetto shock, infine il reinserimento in società mentre il mondo esterno è andato avanti e loro, in fermo, al contrario sono stati lasciati indietro da famiglie, amori, affari. La lettera scarlatta fiammeggerà sui loro petti fino ai giorni nostri. Quando proprio Donald Trump, lo stesso pagliaccio che proponeva per loro la pena di morte, è diventato presidente degli Stati Uniti. Quando Netflix, in vena d'impegno, promette di fare chiarezza. Molto più che un dramma d'inchiesta, When They See Us è una ferita aperta. La ricostruzione necessaria di un'onta irreversibile, che fa riflettere – in lacrime e scossi dai travasi di bile – sul disinteresse della giustizia di fronte alla verità. Accorato e coinvolgente, al punto che gli si perdona anche la vaga retorica del finale, trasuda intensità in ogni puntata. Cresce l'indignazione, così come la compassione verso cinque ragazzini interrotti, che nel migliore dei casi finiscono in riformatorio e nel peggiore in carcere – commuovo, in particolare, le tribolazioni del povero Korey, che al parco non ci doveva essere, che sedici anni li ha soltanto su carta. Come sopravvivere all'isolamento se non rifugiandosi nei sogni a occhi aperti? Come ripulirsi la reputazione se non aspettando che il vero colpevole si faccia avanti? Tutte le star – da Vera Farmiga a Felicity Hoffman, da Joshua Jackson a Logan Marshall-Green – scelgono così di sacrificarsi, in sordina. I giovani del cast, diventati un tutt'uno con i personaggi, invece sembrano a lungo persone reali anziché attori, al punto che non si è tentati di memorizzarne i nomi o di andare a sbirciarne la filmografia in rete. Se un giudice li condanna, per quel che vale, lo spettatore li assolve. Anche se in ritardo, tifa per loro e sbraita. Con la consapevolezza che non sia inutile; che ci siano altre battaglie da vincere. Fino a quando gli americani, qui alle prese con i lati oscuri del famoso sogno, non guarderanno la proverbiale trave nel loro occhio – e gli sbagli commessi. (8)