Ci
sono estati che vorresti non finissero mai: quelle delle grandi
svolte.
Pensa alla liberazione dopo l'esame di maturità, per esempio, con davanti a te due mesi
– non abbastanza, insomma – per decidere quel che sarà dopo il
liceo.
Alla laurea, ancora, con una corona d’alloro secca per
metà sull’armadio e l’incertezza più totale
verso un futuro faticoso da mettere a fuoco.
Pur essendo un tipo più
adatto all'inverno, anch’io quest’anno l’ho
sperato: poteva questa bella stagione prolungarsi fino al termine
dell’incertezza? Vivo infatti il primo settembre senza esami da
fare, completamente libero e altrettanto sperduto. Ho compilato in
questi giorni il primo curriculum – mandato dappertutto: mi terrorizza la prospettiva di un autunno con le mani in
mano – e le prime messe a disposizione, inoltrate qui e lì in
attesa di un bando di concorso che mi si nega, di una graduatoria che
finora non m’include. Vorrei mettere sotto il materasso i primi
guadagni in cerca d’indipendenza, o forse, amara verità, mi
accontento e basta; nei giorni storti, quando l’umore è basso, mi
butto via. Mi ha raccolto la mano provvidenziale di David Nicholls,
scrittore dal tempismo perfetto, e fra una pagina e l’altra mi ha
fatto conoscere il suo nuovo protagonista. Presentatevi pure, ha
detto: Charlie ti somiglia tanto, e giacché mal comune è mezzo
gaudio, vedrai, a tratti vi supporterete a vicenda. A poco è servito
dichiarare il mio scetticismo – un Charlie uguale a me lo conoscevo
già, quello di Noi siamo infinito –, dal momento che
l’autore di Un giorno ci aveva ormai presentati. E sì, la somiglianza c'era.
La noia era la nostra condizione naturale, però la
solitudine era tabù [...] Costa fatica non
sembrare soli quando lo si è, o sembrare felici quando si è
infelici. È come reggere una sedia in equilibrio su una mano sola:
quando non ce la facevo più prendevo la bicicletta e mi allontanavo
dalla città.
Sedici
anni, votato alla discrezione, il protagonista è un adolescente che
sugli annuari non spicca. Seduto a bordo pista, guarda il mondo con occhi grandi così e cerca di
rubare ricordi in ogni angolo; di immagazzinarli con un battito di
ciglia. È il ballo di fine anno – ghiaccio secco, camicie firmate
a penna, qualche chiazza di vomito per un bicchiere di troppo – ma
lui preferisce estraniarsi. Cosa c’è da festeggiare se gli esami
sono andati malissimo, il college è fuori discussione e l’unica
soluzione per arricchirsi è fare la cresta sui gratta
e vinci? David Nicholls me l’ha reso subito affezionato
descrivendolo mentre scorrazza in bicicletta per le strade di una
città industriale – lì le vie hanno nomi di vecchi poeti, peccato però che la periferia disconosca qualsiasi lirismo – o, come facevo io
stesso dopo la separazione dei miei, mentre tentenna sul
pianerottolo di casa. Dall’altra parte dell’uscio c’è un padre
depresso, inconsolabile quanto il mio dopo il trasferimento di mamma,
al centro però di un doppio dramma: jazzista fallito, fa i conti con una bancarotta economica e
sentimentale.
Conosco il desiderio di evitarne lo sguardo. Ricordo le
cene a base di spinacine e la fine infelice di frutta e verdura,
destinate puntualmente a marcire nel frigo due uomini soli. Ho
presente la tentazione di mascherare la paura del futuro, evitando il
trauma di un ennesimo cambiamento, con la scusa che toccasse restare
fisso all’ovile per fare da ago della bilancia. L’unico
modo di conoscere l’anima gemella, a dispetto dell’apatia, è
fare come nella canzone di Tenco: innamorarsi in mancanza
d’altro da fare. È casualmente che Charlie si stende in un
prato degno del Decameron. È casualmente che la travolgente Fran – una di
quelle bellezze che saresti tentato all’istante di
immortalare in un ritratto – inciampa sull’intruso mentre prova
con una compagnia di attori amatoriali. Metteranno in scena Romeo
e Giulietta, in quegli anni portato al cinema anche da Luhrmann.
La proposta è di quelle che non si rifiutano: accettare il ruolo
di Benvolio per condividere con l’intrigante sconosciuta – e con
Alex, Helen, George, Lucy – passeggiate sull’erba, prove
estenuanti, feste alcoliche e, se tutto fila liscio, pomiciate
spinte. Charlie accetta.
Ma
le storie d’amore sono noiose. L’amore è una cosa normale solo
per chi non lo vive, e il primo amore è spesso goffo e ghiandolare.
Shakespeare doveva saperlo: prendete il testo della storia d’amore
più famosa del mondo e provate a stringere fra pollice e indice le
pagine dove gli innamorati sono davvero felici, non il crescendo che
precede l’amore o il conflitto che ne consegue, il lasso di tempo
in cui l’amore è condiviso e sereno. Si tratta di una manciata di
pagine, il breve interludio fra anelito e disperazione.
Adatto
a un pubblico più giovanile, Un dolore così dolce ha unico difetto oggettivo: a
colpo d’occhio è la somma matematica dei successi passati e, pur
essendo vicinissimo al sottovalutato Il sostituto, include i
rimpianti di Emma e Dexter, le famiglie disfunzionali di Noi,
l’effetto nostalgia delle Domande di Brian. Ma dove trovare,
d’altra parte, la stessa brutale onestà nel trattare una
perdita della verginità che ha davvero del tragicomico? Quei
dialoghi brillanti, da sceneggiatore navigato, che con il filtro
dell’autoironia colgano sottili analogie fra le vicissitudini dei
protagonisti e quelle degli amanti di Verona?
La lettura di Un
dolore così dolce ha significato sbirciare in una palla di vetro
per scoprire con il dono della preveggenza, a vent’anni di
distanza, cosa sarebbe stato del colpo di fulmine con Fran. E un po’,
quindi, anche di me. Se Charlie avesse trovato il suo posto nel
mondo, infatti, ci sarebbero state buone speranze anche per il sottoscritto. E
se Charlie rideva – una risata simulata, da palcoscenico – ridevo
anch’io, mentre da recitata la contentezza diventava pian piano
reale. E se Charlie diventava più sé stesso fingendo di essere
qualcun altro, prendevo esempio e pendevo obbediente dalle labbra del
Bardo: colui che talora presta al protagonista in crisi i pensieri e
le parole, diventando suo consigliere personale; un modo di essere. Scorrono le pagine, e assieme corrono gli anni
Novanta. Quelli delle promesse solenni, dei giuramenti fra amici che
impongono di non perdersi mai di vista. Ma il mese dopo ci si
eviterà già in centro, per imbarazzo o antipatia: cosa dirsi,
infatti, come rapportarsi, con il sopraggiungere di settembre?
A
volte ci penso, sai. Penso a come mi sentivo, e non voglio fare la
sentimentale o roba del genere, ma per me il primo amore è come una
canzone, una stupida canzoncina, la senti e pensi, non voglio sentire
più nient’altro, qui c’è già tutto, questa è la melodia più
bella che sia mai stata scritta. Poi cresci e non lo metti più quel
disco, ora sei più tosta, e smaliziata, e hai gusti più raffinati…
Ma quando la senti per radio, be’, è ancora una bella canzone.
I
negozi di dischi stanno già iniziando a chiudere. La crisi
finanziaria miete le vittime iniziali. I cellulari, costosi relitti
senza i miracoli di WhatsApp, mettono spesso nei pasticci per
l’impossibilità di comunicare in tempo reale ritardi o
fraintendimenti. La storia d’amore di Charlie ha lo spirito
gaudente di alcune estati scacciapensieri e, nell’epilogo, infonde
il magone di un’alba sulla spiaggia o di una brutta notizia alla
radio che, dal nulla, interrompe un ritornello di Madonna. E rivela,
purtroppo, che anche le principesse muoiono.
Il
primo amore non si scorda mai, giurano. L’ultimo Nicholls chissà.
Un giorno potrebbe essere dolce perfino dimenticarlo e riscoprirlo,
proprio come accade con quell’amica avvicinata con un misto
d’imbarazzo ed euforia alla rimpatriata a cui non volevamo nemmeno presentarci – meglio non scomodarlo, il vespaio dei
sedici anni. Per fortuna, in pace con noi stessi, alla fine
abbiamo detto sì.
Il
mio voto: ★★★★
Il
consiglio musicale: The Verve – Bittersweet Symphony