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martedì 28 marzo 2023

Recensione: Le sorelle Hollow, di Krystal Sutherland

 
| Le sorelle Hollow, di Krystal Sutherland. Rizzoli, € 17, pp. 360 |

A prima vista sembrano “le vergini suicide” del film di Sofia Coppola. Pallide, bellissime, inquietanti: senza paura. Hanno nomi di quattro lettere ciascuno e un legame viscerale, che misteriosamente va al di là del sangue. Le hanno unite il bosco e il trauma. Sparite durante la notte di Capodanno quando erano bambine, furono trovate un mese dopo nello stesso luogo in cui erano scomparse: nude, con una cicatrice a mezzaluna alla base del collo. Sane, non salve. Crescendo si sono allontanate. Grey, bellissima e spregiudicata, posa sulle copertine di Vogue e mescola l'alta sartoria con l'imbalsamazione; Vivi, bassista in un gruppo rock, sciupa la sua avvenenza con piercing e tatuaggi e provoca continuamente; infine c'è Iris, la minore, che vorrebbe passare disperatamente inosservata ma deve convivere con i non detti della madre e l'eredità ingombrante delle sorelle. Di loro si dice che siano sirene, streghe, alieni. Esercitano una misteriosa fascinazione su uomini e donne. Hanno una fame vorace, insaziabile. Vengono realmente da mondo ultraterreni, o hanno forse ereditato la follia del padre, morto suicida?

Eravamo sorelle. Sentivamo il dolore delle altre. Provocavamo dolore alle altre. […] Ci difendevamo. Ci mentivamo. Fingevamo di essere più grandi, diverse: travestirci era un gioco per noi. Ci spiavamo. Ci possedevamo come oggetti luccicanti. Ci amavamo con furia ardente e intensa. Furia animale. Furia mostruosa. Le mie sorelle. Il mio sangue. La mia pelle. Che legame raccapricciante condividevamo.

Dopo due bellissimi romanzi sulle fragilità del cuore adolescente, una irricoscibile Krystal Sutherland sposa l'horror a sfondo esoterico e le atmosfere crepuscolari di Shirley Jackson. Il suo ritorno in libreria è mellifluo e respingente, bello e spaventoso: un intreccio di ghirlande e incubi, fanciulle incantevoli e uomini-bestie, che diventa un'ossessione irrinunciabile una pagina dopo l'altra. Ambientato tra l'Inghilterra e la Scozia, prende avvio dalla scomparsa della sorella maggiore alla stregua di un giallo e si snoda, poi, in una caccia al tesoro senza esclusione di svolte spiazzanti. A tratti, mette una paura matta. Cosa finisce nella fessura del divano, dove si annidano monetine e briciole di popcorn? Cosa si nasconde nelle intercapedini della nostra realtà? È stata una lettura lontana dalla mia comfort zone soltanto all'apparenza. Le sorelle Hollow è un ritorno alle coccole e agli orrori della mia adolescenza. A quando vivevo per storie così e, in segreto, ne scrivevo di mio pugno (una l'ho perfino pubblicata).

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey - Gods & Monsters

giovedì 15 settembre 2022

Recensione: La notte scorsa al Telegraph Club, di Malinda Lo

La notte scorsa al Telegraph Club, di Malinda Lo. Mondadori, € 20, pp. 456 |

Come in Carol, lo splendore intramontabile degli anni Cinquanta fa da sfondo all'amore proibito fra due donne. Come in Victor Victoria, la maggiore attrazione di un nightclub è una cantante che si esibisce in abiti maschili e, seducente, ammicca alle spettatrici sedute in prima fila. Come nella Fantastica Signora Maisel, la vita notturna della città offre sorprese e talenti: peccato che i raid della polizia siano all'ordine del giorno. Risulta semplice immaginare il frusciare delle gonne a campana, l'odore della lacca, le luci e le ombre delle insegne al neon. Ma siamo nella multietnica San Francisco, in una famiglia cinese tutta d'un pezzo. Allevata con rigore per diventare una brava donna di casa, la diciassettenne Lily sogna le dive del cinema e di andare sulla luna. Ritaglia fotografie di Katherine Hepburn sui giornali, occhieggia le donne prorompenti sulle copertine dei romanzi rosa, custodisce gli articoli sulla artista di punta del Telegraph Club. Bravissima nella resa di un contesto storico attendibile e dettagliato, Malinda Lo firma una storia per giovani lettori che racconta i primi palpiti, le gioie del contatto fisico, lo sconcerto dello scoprirsi diversi dagli altri. Per farlo si affida ai suoi personaggi, lasciandosi guidare alla scoperta della loro identità – di genere, sessuale, culturale. Ma talora ne risentono i ritmi, piatti soprattutto nella seconda metà, e appesantiti da qualche tematica di troppo. Accanto ai classici espedienti del genere (il ballo scolastico da organizzare, una migliore amica da sostenere per un concorso di bellezza a Chinatown, l'attrazione ricambiata per una coetanea con il mito di Amelia Earhart), infatti, ci sono gli sconvolgimenti politici (la minaccia di russi e giapponesi, la caccia ai simpatizzanti comunisti) e i flashback sugli immigrati di prima generazione (i genitori di Lily, la zia paterna). Combattuto al pari della sua protagonista fra senso d'appartenenza e desiderio di ribellione, La notte scorsa al Telegraph Club è la cronaca discontinua ma toccante dell'ultimo anno di libertà prima del college. Cosa comporta uscire dai confini angusti del proprio quartiere? Cosa significa, oggi come ieri, sentirsi parte di una minoranza? Bisogna spingersi fino a Marte, colonizzare un altro pianeta, per trovare il coraggio di mostrarsi senza maschere? In un momento storico in cui appariva più plausibile un'odissea nello spazio che la parità – nel 1969 Armstrong volerà sulla luna, ma bisognerà aspettare il nuovo millennio per la legalizzazione delle unioni omosessuali –, Lily scoprirà con meraviglia che non è necessario spingersi troppo lontano per liberarsi dalla forza di gravità e dalle convenzioni sociali. Basta un bacio in un vicolo deserto. O la luce rivelatrice di un torbido locale notturno.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Ronettes – Be My Baby

lunedì 20 giugno 2022

3 romanzi social: Il profilo dell'altra | Non è al momento raggiungibile | Radio Silence

| Il profilo dell'altra, Irene Graziosi. E/O, € 16,50, ★ |

Chiacchierato e altamente instagrammabile, si è imposto – prematuramente – come novello caso editoriale. Se lo avessi identificato a colpo d'occhio per ciò che è, ossia l'ennesimo esordio narrativo trainato dalla popolarità dell'autrice, me ne sarei tenuto distante. Il pregiudizio mi avrebbe protetto dalla delusione. Ventisettenne senza arte né parte, sorella di una giovane suicida e compagna di un pretenzioso accademico, Maia si improvvisa collaboratrice di un'influencer. Gloria ha diciotto anni e nessun talento, a parte quello di apparire avvenente in foto. I suoi sorrisi sono vacui, o forse tristi? Il profilo dell'altra rimesta tra le tematiche più disparate (ambientalismo, femminismo, linguaggio inclusivo, disturbi psichici, revenge porn) come se si trattasse del cestone delle grandi occasioni: spaccia il suo rimestare, però, per alta moda e vorrebbe imporsi – invano – come analisi antropologica. Per riflessioni conturbanti sul potere illusorio della bellezza nella società dell'apparenza consiglio la visione di Personal Shopper e The Neon Demon: i corpi di Kristen Stewart e Elle Fanning, ritratte con toni horrorifici da due grandi registi, sono indimenticabili. Quelli di Maia e Gloria, invece, si frantumano tra le schegge di un romanzo che si interroga sul concetto di identità e, paradossalmente, ne è sprovvisto.

| Non è al momento raggiungibile, Irene Farinaccio. Mondadori, € 18, ★★★½ |

Non fatevi ingannare dalla copertina: promette a torto una commedia romantica. Non è al momento raggiungibile è un romanzo piccolo e terapeutico per guarire dall’ossessione che maggiormente ci attanaglia: la conta spasmodica di Like, followers e calorie. Trentasei anni e nessun progetto a lungo termine, Vittoria racconta alla nutrizionista/psicologa la sua dipendenza: ingozzarsi, di cibo e sguardi. Le basta una foto rubata accanto a un cantante famoso per trasformare la sua pagina Instagram in una vetrina per panini con la porchetta, cotolette surgelate, vestiti griffati: il suo parere, riassunto in una didascalia, è denaro. Arriverà perfino in TV. A ritroso, il soliloquio di Vittoria pennella il ritratto di una donna nella morsa della solitudine: ha un nome augurale, ma macchie d’unto sulla maglia e rapporti irrisolti col sesso maschile. Connessa con il mondo ma disconnessa da sé stessa, ricorderà l’equilibrio per andare in bici? Flusso di coscienza tanto brillante quanto severo, il romanzo di Valentina Farinaccio ha il respiro dell’autofiction e una specie di lieto fine, benché sudatissimo, sul palcoscenico più famoso d’Italia. A fine lettura, ho scritto una dedica in prima pagina e ho regalato la mia copia a un'amica ritrovata: esaurito su di me il suo potere lenitivo, quest'elogio al fallimento andava condiviso con il prossimo.

| Radio Silence, Alice Oseman. Mondadori, € 15, ★★★ |

Lei, rappresentante d’istituto destinata a Oxford, è una macchina di successi scolastici. Lui, studente laconico ferrato sui logaritmi, vive all’ombra del popolare migliore amico. Spersonalizzati dalle divise scolastiche – tutti grigi, tutti uguali –, i protagonisti di Alice Oseman vivono una doppia vita: quella pubblica e quella nerd. Frances è una maga delle fan art e, a dispetto delle aspettative altrui, vorrebbe studiare belle arti. Aled, protetto dall’anonimato, è invece l’artefice di un misterioso podcast YouTube sulla bocca di tutti. Mentre gli adulti pretendono l’eccellenza a ogni costo, i giovani – amici, ma innamorati mai – si scoprono combattuti tra senso del dovere e vocazione, l’esigenza di essere invisibili e quella di essere sé stessi. Già autrice della serie Heartstopper, Oseman è in libreria con una nuova storia ad alto tasso di adorabilità: una riflessione agrodolce sulle gabbie del sistema educativo americano, in cui si parla di abusi psicologici, libertà di espressione e fluidità sessuale. Bravissima nel maneggiare temi tanto sensibili, l’autrice si perde però in lungaggini di troppo e in una scrittura sì immediata, ma senza lampi di interesse. Anche se fuori target, mi sono goduto le maratone dei film di Sofia Coppola e Miyazaki sul divano. Ho invidiato le felpe extralarge e le scarpe dai lacci fluo dei protagonisti. Ho ascoltato con empatia le voci di Frances e Aled: domandavano di considerarli speciali, non famosi.

lunedì 4 ottobre 2021

Recensione: Albicocche al miele, di Elisa Pellegrino

| Albicocche al miele, di Elisa Pellegrino. Mondadori, € 17, pp. 200 |

Quando ho finito l'università, non mi si sono aperte porte: soltanto la terra sotto i piedi. Ero inutile e laureato. La corona d'alloro seccava su una mensola in camera insieme alla mia voglia di fare. L'arrivo del lockdown, perciò, non ha modificato la mia routine: anzi, vedevo il resto del mondo sprofondare finalmente nel mio stesso immobilismo; allinearsi al mio passo strascicato. È stato grazie a Cortomiraggi, in prima linea con carrellate di film bellissimi contro la tristezza, che ho trovato un nome per il malessere che mi affliggeva: quarter-life crisis. Perfetto ritrovo generazionale, la pagina Instragram di Elisa Pellegrino somiglia al suo romanzo d'esordio: una commedia corale leggerissima nei toni, ma tutt'altro che superficiale negli argomenti, a proposito del doloroso smarrimento seguito al termine degli studi. Cosa succede dopo che un professorone in toga ti proclama dottore? Dopo aver radunato baracca e burattini, tocca ritornare all'ovile con la coda tra le gambe in attesa che il futuro si compia. Gli alloggi universitari vengono rimessi sul mercato immobiliare. Gli amici e i coinquilini si separano, consolandosi con videochiamate su Skype o appuntamenti saltuari.

Essere giovani è difficile, è doloroso. Scegliere lo è. Non mi vergogno a dire che i miei anni più belli sono quelli che sto vivendo ora. Mi piacerebbe avere meno pancia e più capelli, ma il mio cuore sta meglio adesso.

I quattro personaggi di Albicocche al miele non sono l'eccezione alla regola. L'autrice dedica loro un lungo capitolo a testa e per ognuno sceglie una stagione dell'anno, un film a tema. Meglio il romanticismo sognante di Before Sunrise o il bagno di realismo di Before Midnight? Intrappolata in una relazione di lunga data e in un noioso lavoro in azienda, Greta – ragazza con un pessimo rapporto con il proprio corpo – usa Hawke e Delpy come metro di paragone. Se all'improvviso sbucasse un'altra terra come in Another Earth, chi non proverebbe sincero terrore davanti a un ventaglio di infinite possibilità? È un pensiero di Giulia, leonessa ambiziosa e all'apparenza realizzata, che comincia a mostrare punti di rottura in una città più grande di lei. La parabola amara di A proposito di Davis fa più bene o più male? Il laconico Diego, non ancora laureato e fermo sulla soglia della friendzone, temporeggia per paura dei cambiamenti. Gli errori commessi sono uno stigma indelebile, o dovremmo imparare a guardarli con affetto alla maniera della vulcanica Frances Ha? Caterina, musicista in terapia per via di qualche problema irrisolto con la madre, sogna a occhi aperti un mondo in cui nessuno la faccia sentire incompresa.

Nell'arte c'è qualcosa che nella vita manca. C'è una logica anche quando l'obiettivo è la mancanza di logica, c'è confusione strutturata, c'è quella parola in quel momento, quel gesto in quella situazione. Qualcuno ci ha pensato prima, capisce? Nella vita invece non è così e se ti capita per caso di afferrare qualcosa devi essere preparato a perderla. […] A volte penso che il cinema mi permetta di capirmi, di accettare certi meccanismi. La finzione mi serve.

Ricordano i coinquilini delle sit-com del nostro cuore. Parlano al suon di citazioni. Filosofeggiano davanti alle pellicole indie. Si imbarcano negli erasmus, negli stage, nei tirocini non pagati. Vivono in un perenne stato d'ansia. Aspettano un'occasione per svoltare, e nel frattempo ti insegnano l'arte della pazienza. Un vecchio legge Il giovane Holden in treno e, guardandoli struggersi, affannarsi, ammette di non rimpiangere la giovinezza. Ma li avvisa di non perdere mai il contatto con la realtà: che l'arte, oltre che un rifugio sicuro, diventi soprattutto una porta. Ora angosciati, ora euforici, i personaggi di Elisa hanno saccheggiato la mia vita e la lista dei miei film preferiti. Si sono appropriati dei miei turbamenti – dei nostri –, e hanno dato loro voce in un romanzo forse un po' acerbo, ma indubbiamente speciale e veritiero. Albicocche al miele è la lettura giusta nei momenti sbagliati. Impossibile aspettarsi uno smaccato lieto fine: per ora, purtroppo, non ci tocca. Ma la consapevolezza di essere parte di una generazione di sfollati, di talentuosi naufraghi stretti su un'unica barca pericolante, è stranamente confortante in queste 200 pagine piene di sincerità. Nella speranza, come diceva qualcun altro, che questo dolore – insieme a queste ansie, questi film, questi libri, queste serie TV – ci sarà utile. Un giorno, sì: un giorno.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: The Lumineers – Sleeping on the Floor

giovedì 5 agosto 2021

Recensione: La nostra furiosa amicizia, di Rufi Thorpe

| La nostra furiosa amicizia, di Rufi Thorpe. Bollati Boringhieri, € 17, pp. 344 |

Siamo in un quartiere di Los Angeles dove tutto, all'apparenza, è in ordine. Ma agli adolescenti, figli di genitori viziosi o obnubilati dall'alcol, pascolano lungo la costa come bestiole braccate e senza padrone. Qui, al liceo, si incontrano Bunny e Michael: giovani vicini di casa uniti ben più che dalle proprietà confinanti. Lei, mite e accondiscendente per natura, è un bellissimo scherzo della natura che scoraggia i ragazzi ma fa gola, al contrario, agli allenatori sportivi: alta quasi due metri, ha un papà-manager privo di scrupoli, una mamma la cui morte è avvolta dal pettegolezzo e una forza inusitata – a questo allude il titolo originale, da tradurre letteralmente con La regina del knockout. In una frazione di secondo spruzzata di sangue, quella brava ragazza potrebbe trasformarsi in carnefice per difendere il migliore amico. Cosa sarebbe disposta a fare, infatti, pur di proteggere Michael dalle malelingue? Lui, sfacciatamente gay, porta l'eyeliner in classe ed è reduce da un'infanzia dickensiana: separato dalla sorella, affidata nel frattempo alla madre fresca di galera, spreca il suo potenziale accademico e rimorchia di nascosto uomini più grandi su Craiglist. Sentendosi un reietto, reputa impossibile essere amato da un coetaneo. Mentre Michael è maestro dell'inazione, Bunny al contrario vibra di una sconcertante volontà di potenza.

Perché volevamo essere visti così disperatamente? Io la vedevo. Bunny mi riempiva gli occhi. Ma non era abbastanza e questo non mi feriva più. Neanche il modo in cui lei amava me era abbastanza. Forse l’amore non sarebbe mai stato abbastanza. 

Formazione inquieta e pericolosissima, popolata da personaggi spesso indimenticabili, La nostra furiosa amica è un romanzo Young Adult a tinte crime che sorprende sin dalla prima pagina: in esergo, infatti, leggiamo citazioni tratte da Hannah Arendt e RuPaul. Come si possono conciliare una filosofa tedesca e un'icona della TV americana, celebre per la sua sfida tra drag queen? Con uno stile folle e immaginifico, cruento ma pieno di poesia, la bravissima Rufi Thorpe passa dalle riflessioni ossessive sul bene e sul male, sulla predestinazione e sul perdono, alle maratone di reality show che in poltrona mettono finalmente il cuore in pace. Nel corso della lettura, Bunny deve imparare a essere donna e fuori posto – a scuola, purtroppo, è solita scusarsi con tutti per lo spazio che occupa. Michael, invece, a essere uomo e omosessuale. 

Eppure non potevo smettere di stare dalla sua parte. Avrei continuato ad amarla, anche se mi inorridiva. Avrei continuato ad amarla perché era mia.

Sullo sfondo, la cartolina paradisiaca di un luogo lontano da ogni luccichio: una America alla Bret Easton Ellis, dipinta tra tragedia greca e MTV generation, erosa nel profondo dalle dipendenze, dalla violenza domestica, dal bullismo, dall'omofobia. E, perfino, dall'omicidio. Questa polveriera, che nei sogni incendiari del protagonista maschile brucia spietatamente fino alle fondamenta, è connessa a doppio nodo alle scelte di due amici combattuti tra idealismo e ferocia, incanto e repulsione. Sul lungo tratto, le decisioni prese d'istinto minacceranno di unirli e dividerli al tempo stesso. A cosa serviranno le promesse, i “per sempre”, se ci si mette di mezzo la vita? Ce lo ricorderà un epilogo struggente. Anche se pesti, ammaccati e guasti, anche se spinti alle corde dall'incessante divenire del mondo adolescenziale, Bunny e Michael sono elefanti in un negozio di cristalli orgogliosi della distruzione che seminano tutt'intorno.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Video Games

lunedì 29 marzo 2021

Recensione: Blu, di Giorgia Tribuiani

 
| Blu, di Giorgia Tribuiani. Fazi, € 16, pp. 250 |

Dopo Guasti, opera prima in cui i cadaveri diventavano opere d'arte – il tema, macabro ma affascinante, era quello della plastinazione –, Giorgia Tribuiani torna in libreria alzando l'asticella dello sperimentalismo, della provocazione, dell'inquietudine. Frammentario, singhiozzante, disordinato, il nuovo romanzo è un'immersione letteraria senza capitoli e senza pause, senza respiro. Probabilmente avrei apprezzato un simile flusso di coscienza a piccole dosi, sul breve tratto. Blu intriga nella prima parte, invece, e finisce poi per trascinarsi nella seconda. Fedele a sé stesso, non cambia registro neanche quando la protagonista sembra man mano riappropriarsi della propria identità. E, affaticato da uno stile poco scorrevole e dalle atmosfere asfissianti, sono arrivato al punto da sperare che finisse il prima possibile: non perché sia una lettura sconsigliabile, ma perché – cercate gli effetti collaterali sul bugiardino – potrebbe suscitare spesso frustrazione e claustrofobia. La mente a soqquadro della protagonista, d'altronde, non è un posto piacevole in cui soggiornare. Come biasimare chi non vede l'ora di essere sputato fuori dal suo piccolo mondo matto?

Vorrei che non piangessi, dici, davvero, ma sai che la solitudine ti infetta il sangue, e che hai bisogno di (feritoie) ferite per entrare nel cuore degli altri come una malattia.

Geniale ed emarginata, smarginata, Ginevra – detta da sempre Blu – frequenta il liceo artistico ed è una cattiva ragazza. O tale si percepisce. Un po' vittima, un po' carnefice, avverte il peso del mondo sulle spalle e si crogiola in antiche ingiustizie. Sporca, ma in realtà piena di candore, è attratta dal dolore degli altri: vorrebbe farsi amare portando loro conforto. Figlia di genitori divorziati, cresciuta in una normalissima cameretta affollata di peluche e medaglie di nuoto, Blu ha un fidanzato che non la soddisfa sessualmente e una sorellastra diffidente. Cronicamente insicura, tiene conto maniacalmente dei respiri, dei battiti di ciglia, dei getti dell'erogatore del sapone. Ma la sua ultima ossessione, all'improvviso, è Dora Leoni: un'artista dalla vita sentimentale scandalosa, che sulla scia di Marina Abramovic si rende protagonista di performance spiazzanti. È possibile imparare da lei? È possibile carpirne i segreti, mentre si lava in pubblico in una vasca da bagno dai piedi leonini? È possibile avvicinarla abbastanza da farsi notare? Filtrata interamente dall'io caotico di Blu, la trama appare poco più di un abbozzo evanescente da inseguire fino all'epilogo aguzzando la vista. Il punto di forza della lettura, ma per me anche il suo difetto, è un approccio immersivo che o si ama o si odia.

Tutto ciò che di brutto hai vissuto non è stato che una prova per arrivare fin qui: l'esclusione, la solitudine, il dolore, nient'altro che ostacoli da affrontare per godere appieno di questo momento, una preparazione necessaria per essere scelti da Dora, ora lo sai, e ti levi in piedi e torni a girare tutte le stampe coi volti e i corpi dei performer, guardatemi, io sono Blu e sono una di voi.

Delirante, ipnotico, confusionario, il romanzo raggiunge spaventosi picchi di erotismo – la masturbazione con una penna, in scene a confine con l'autolesionismo – e sfocia poi in una storia di attrazione fatale, con tanto di stalking. Da un lato originalissimo, dall'altro faticoso, mi è parso un mirabile esercizio di scrittura forse più godibile nel formato del racconto. La compagnia di Blu è stata spiacevole, soprattutto in questi giorni di cambiamenti lavorativi, ma al sollievo per il sopraggiungere dei ringraziamenti finali si è affiancata anche una vaga tristezza: noi due non siamo andati d'accordo, no, ma non avrei voluto lasciarla sola. Anche nelle stramberie, anche negli eccessi, la protagonista è un'adolescente come tante. Che fa pensieri strani, cupi, scomodi. Chi non ne ha mai fatti? Chi non ne fa tutt'ora? Giorgia Tribuiani invita all'apertura, alla condivisione. E ci dice che quando smetteremo di essere isole disegnate a casaccio sulla tela grigiastra della nostra solitudine, perfino il dolore tornerà utile come ci prometteva un bellissimo romanzo di Peter Cameron. Il nostro brutto passato si farà performance e, allora, finalmente, arriveranno gli applausi.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Madame – Mami Papi

lunedì 18 gennaio 2021

Recensione: Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron

| Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron. Adelphi, € 11, pp. 206 |

Da quando sei triste? Quando gli pongono questa domanda, James fa spallucce. Vorrebbe rispondere che triste lo è da sempre. Paragona il raggiungimento della felicità a una fatica erculea; essere in pace con sé stessi gli appare un'impresa agonistica, un po' come attraversare a nuoto il canale della Manica. Perché questo pessimismo cosmico, per di più alla tenera età di diciotto anni? C'entrano forse il divorzio dei genitori, i dubbi legati a una sessualità ancora inesplorata, la paura di un salto nel vuoto chiamato futuro? Scuote energicamente la testa. Poco importa se l'incostante mamma gallerista sia tornata da un viaggio di nozze a Las Vegas già in procinto di divorziare nuovamente o se il papà affarista, eterno Peter Pan, inganni lo scorrere del tempo con qualche ritocchino di chirurgia estetica; poco importa se qualcuno lo pensi gay, dopo un'adolescenza problematica e solitaria; poco importa dell'iscrizione a un college esclusivo, se all'improvviso medita di mollare gli studi per comprare una casetta isolata nel Midwest. James ha visto crollare le Torri Gemelle senza riportare grossi traumi, è fisicamente in salute, appartiene alla classe privilegiata che beve acqua Evian e spende diciotto dollari per un piatto di pasta. Ma in una metropoli popolata di squali e avvoltoi, percependosi alla stregua di un coniglio candido e indifeso, prevedibilmente non si sente a proprio agio. Ci si può sentire soli a New York? A colloquio con una psicoterapeuta che ha il brutto vizio di rispondere a una domanda con un'altra domanda, James verrà a capo di un viaggio a Washington che l'ha condotto sull'orlo del suicidio. Cos'è successo in gita scolastica? Cosa non è successo?

So di pensare e di parlare nella stessa lingua, e so che in teoria non c’è ragione per cui io non possa comunicare i miei pensieri appena si formano o immediatamente dopo. Eppure la lingua in cui penso e quella in cui parlo sembra spesso talmente lontane che mi pare impossibile colmare il vuoto sul momento o anche retroattivamente. […] Credo che nel mio cervello ci sia un setaccio che impedisce un rapido (e tantomeno simultaneo) travaso di parole. Un po’ come il filtro nello scarico della vasca da bagno. C’è qualcosa che trattiene i pensieri nel cervello e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati.

Da quando sei triste? Se me lo chiedessero, risponderei anch'io da sempre. Anch'io, come James, non avrei altre argomentazioni. Prendendo in prestito uno dei passi più veritieri scritti da Peter Cameron, potrei aggiungere che a certe domande non c'è risposta; che qualche volta le parole non bastano. Un conto è pensarle, le cose, e un conto è esprimerle a voce alta. Nel passaggio dal cervello alla bocca si perdono sfumature sostanziali, come nelle traduzioni simultanee; i contenuti finiscono per suonare ridotti all'osso, banali. Il disagio di James somiglia al mio. Dal momento che purtroppo o per fortuna l'identificazione è stata istantanea, ho finito per affezionarmi a un romanzo destinato a dividere: o lo si ama o lo si odia. Diviso tra frustrazione e speranza, lieve e filosofico insieme, Un giorno questo dolore ti sarà utile è composto da episodi e dialoghi giustapposti. Manca una trama portante, manca perfino un epilogo. Nonostante tutto, avrei voluto sottolinearlo da cima a fondo, acquistare un diario Smemoranda e trascrivere a penna le pagine in cui mi sono sentito prima spiato, poi tradito, infine compreso. Eccomi qui: stimo noiosa la compagnia dei miei coetanei (James stravede per la nonna); vorrei saltare a pie' pari le tappe, essere già vecchio e avere il peggio alle spalle (come nei dipinti di Thomas Cole); mi vanto di usare al meglio modi e tempi verbali per mettere ordine al caos cosmico (i pensieri sono intrasponibili, perciò le parole vanno dosate con cura); sui social ho una vita parallela ben più interessante di quella vera (iscritto su un sito d'incontri, James si finge colto, di successo e con un pene di ragguardevoli proporzioni).

A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono, un dono crudele, ma pur sempre un dono.

C'è qualcosa che non va? Tutto. Niente. La nostra inquietudine misteriosa è celata dalle acque alte, mentre dall'esterno i più scorgono soltanto la punta dell'iceberg. Essere nella testa ingarbugliata di Cameron è un privilegio. Leggere di James è terapeutico. Non è mai troppo tardi, infatti, per rivivere i propri tormenti adolescenziali. Non è mai troppo tardi, soprattutto, per auscultarsi e scoprirsi così degli adorabili disagiati. A diciotto anni lo avrei considerato uno dei miei romanzi preferiti, ma nella mia vita – prigioniera di uno di quei loop temporali da film – è cambiato poco da allora. Sono irrisolto, confuso, incasinato. Alle vecchie ansie se ne sono aggiunte soltanto di nuove. Ma vado fiero di me e dei dispiaceri grandi e piccoli che mi hanno reso come sono oggi. A quasi ventisette anni, dunque, vado dicendo di essermi imbattuto a scoppio ritardato in una di quelle storie-specchio che riflettono tutte le mie nevrosi; tutte le mie contraddizioni. E anche se sono un personaggio alleniano, cinico e fatalista, non smetterò di prestare fede al titolo. Una frase di Ovidio, una promessa solenne. Perché il dolore non passerà mai, non c'è guarigione né vaccino – non è mal di denti, non è Covid –, ma prima o poi si scoprirà una ricchezza interiore. Vivo con impazienza in attesa di questo giorno, per vantarmi del mio dolore anziché affannarmi a mettergli una museruola.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – En e Xanax

sabato 31 ottobre 2020

Pillole di recensioni per Halloween: Bianco (Laura Bonalumi) | Le parole che non posso dirti (Tommy Wallach)

Bianco, di Laura Bonalumi.
Piemme, € 16,50, pp. 239
★★★
Il freddo brucia. Lo ha realizzato Isabella, diciannove anni, davanti alla catastrofe che ha paralizzato il mondo sotto un manto candido. La neve si è palesata a ottobre. Felicissimi, grandi e piccini l'hanno scambiata per un miracolo. Poi ha preso il cielo e la terra. Infine ha mietuto vittime. Sopravvissuta ai familiari, la protagonista vive con l'unica famiglia che le resta in una chiesa vuota: cinque sconosciuti di età diverse, a cui si è aggiunto di recente Giovanni, pasticciere che nel mezzo dell'apocalisse la tenta con qualche sospiro d'amore. Abbagliante, ma non per questo meno spaventoso, il futuro immaginato da Laura Bonalumi ha cieli d'acciaio e lacrime di ghiaccio: i cadaveri di uomini, donne e bambini, a causa delle basse temperature, sono cristallizzati come in una cella frigorifera. È un futuro più vicino che mai. Scritto qualche anno fa ma pubblicato all'alba di una seconda quarantena, Bianco racconta le convivenze forzate e i rari momenti di distensione vissuti lo scorso marzo: quando una festicciola tra le mura domestiche, sporcarsi le mani d'acqua e farina, aiutavano a sconfiggere l'angoscia. Sempre fedele a sé stessa ma sempre diversa, l'autrice affronta per la prima volta un genere internazionale – ho pensato a Snowpiercer – e risulta sorprendentemente attuale. In maniera convincente, ci racconta le tensioni e le relazioni. Nonostante i termometri al collasso, poi, sa come risultare calorosa; come emozionare. Vittima della nostalgia e dell'incertezza, la sua Isabella è una protagonista interessante nel suo continuo interrogarsi: l'autrice conta le sue cicatrici, una per una, e le confronta con quelle degli altri superstiti. Più attratta dal lato psicologico che dalla componente thriller, però, la Bonalumi si concede lunghe riflessioni e brevi incursioni esterne. Ambientato prevalentemente nella chiesa-rifugio, Bianco ha atmosfere brillanti e interrogativi importanti sul senso di Dio, ma altresì il difetto di risultare una lunga introduzione. È previsto un seguito? I messaggi scritti con la cenere troveranno un lettore? Isabella e gli altri sono la speranza di un nuovo inizio? Al pari del pilot di una serie TV, Bianco intriga e suggestiona – perfino in queste pagine, infatti, i colpi di tosse preoccupano –, ma per ora lascia a digiuno di avventure al cardiopalma. Arriveranno nella prossima puntata?

Le parole che non posso dirti, di Tommy Wallach.
Piemme, € 16,50, pp. 272
★★★½
In cima all'armadio custodisco una pila altissima di romanzi per ragazzi. Al liceo hanno rappresentato la mia comfort zone per eccellenza. La pila, purtroppo, è ferma da un po'. Qualche settimana fa sull'armadio se n'è aggiunto un altro. Una storia d'amore e morte, truce e adorabile insieme, scritta da un autore già apprezzato in passato. Ambientato tra Halloween e il due novembre, il nuovo romanzo del bravo Tommy Wallach mi è parso leggero e saggio: un riappropriarmi di uno spazio che in fondo è sempre stato mio. L'incipit, da commedia indie, coglie i due protagonisti nella hall del Palace Hotel. Parker, diciassettenne chiuso dietro una cortina di silenzio, ha marinato nuovamente la scuola: è nell'albergo di lusso in cerca di qualche pollo da spennare. Lei, Zelda, siede da sola con una cascata di capelli argentati e tutt'intorno un'aura di tristezza perfetta: ha una borsa piena di soldi, e nel derubarla Parker finisce per smarrire il taccuino con i suoi pensieri più intimi. Zelda gli fa una proposta: spendere insieme tutto il denaro; dopodiché, a fine giornata, lei si suiciderà gettandosi dal Golden Gate. La ragazza giura di avere 246 anni. Novella Benjamin Button, usa un linguaggio antiquato, balla il Charleston, si fa scortare in limousine. È possibile restituire la voglia di vivere a chi ormai è stanco? Il risultato è uno spassoso tour de forze all'insegna del consumismo, delle prime volte e delle ultime occasioni. Una riflessione agrodolce sul senso del tempo, della gioventù e della vita. Entrambi stufi di stare al mondo, i ragazzi hanno un'inquietudine che li rende unici nel loro genere: peccato che le tappe della loro storia siano convenzionali e comuni, per esempio, ai romanzi on the road di John Green. Ma l'epilogo, insieme alla scrittura dell'autore, per fortuna è tutto fuorché scontato. È forse la scrittura a trasfigurare l'amore in magia? La ragazza tentata dall'abisso resterà la storia più bella mai inventata da Parker? A fine lettura resta il mistero. Resta la speranza. Restano le parole: speciali soprattutto quando non dette.

martedì 8 settembre 2020

Recensione: Ragazzo divora universo, di Trent Dalton

| Ragazzo divora universo, di Trent Dalton. € 19, Harper Collins, pp. 548 |

Per via delle oltre cinquecento pagine, ho terminato di leggerlo soltanto nella prima settimana di settembre. A dispetto delle tempistiche sbagliate, però, l’esordio di Trent Dalton resterà la lettura con cui mi piacerà ripensare a quest’estate. Un romanzo variopinto, cangiante e rocambolesco – sulla crescita e altre avventure –, con una galleria di personaggi talmente assurdi da essere veri. Ispirato in parte al vissuto dell’autore, Ragazzo divora universo è una lunga storia di formazione ambientata tra gli anni Ottanta e i Novanta, tra i dodici e i diciannove anni del protagonista: Eli.

Fai fuori il tempo, prima che lui faccia fuori te.

All’inizio poco più che un bambino, vanta un mamma fresca di disintossicazione, un patrigno spacciatore, un papà dalle tendenze suicide pregresse, un fratello – il geniale Gus – che parla per enigmi tracciando lettere nell’aria. Il suo babysitter, per di più, non somiglia certamente a Mary Poppins: si tratta di Slim Halliday, il cosiddetto «Houdini di Boggo Road», più volte entrato e uscito di prigione con trovate a dir poco brillanti. Tra ergastolani per amici di penna, sit-com dopo cena, citazioni di Star Wars e Steinbeck, Eli cresce con consapevolezze granitiche. C’è qualcosa di speciale nella sua famiglia, e c’è qualcosa di marcio nello stato del Queensland. Siamo nel peggiore sobborgo australiano. Le persone tendono a sparire nel nulla, in strada si scontrano baby gag armate di machete, le minoranze etniche campano di espedienti: la polizia si volta dall’altra parte.

Slim dice che questo libro l’ha aiutato a sopravvivere alla prigione. Parla degli alti e bassi della vita. La parte negativa è che la vita è breve e finisce. La parte positiva è che comprende il pane, il vino e i libri.
Attratto dalla cronaca nera e ossessionato dalla bontà, Eli sogna il mestiere di cronista per denunciare il malcostume e per potersi trasferire lontano dalla provincia. Ma fantastica, divaga, ama i dettagli e le coloriture liriche: insomma, gli dicono, a mancargli è l’asciuttezza che si confà allo stile giornalistico. Come frenare però la sua voce, per di più se ci regala pagine tanto preziose? Perché stare a sindacare sul suo abuso di figure retoriche, se ha per le mani un grande scoop? Lo squillo di un misterioso telefono rosso e la scoperta di un traffico di droga lo portano a incrociare spesso Tytus Bonz e il suo spietato sicario, Iwan. Non sarebbe meglio cambiare strada, soprattutto se quel vecchio di bianco vestito – un luminare nell’ambito delle protesi meccaniche – è un pilastro della comunità?

Lo scopo della vita è fare ciò che è giusto, non ciò che è facile.

Sempre di corsa, sempre in fuga, il protagonista anela fino all’ultimo alla pace e si specializza nell’arte di tagliare la corda. Il bello è che pur suscitano le preoccupazioni dei prof e degli assistenti sociali, pur rendendoci partecipi di una sordida storia di criminalità e squallore, ci appare una gran brava persona. Un ragazzo normale. E la sua famiglia strampalata, nel bene e nel male, finisce per somigliare proprio alle nostre. Con una struttura ciclica in cui tutto torna per magia, l’autore incanta con un apprendistato che fa tornare in mente le infanzie miserabili di Dickens e Twain, e nelle sue sfumature più inquietanti – tunnel degli orrori, cadaveri mutilati, presunte resurrezioni – il primo King. Certo, come capita con le narrazioni fluviali, i difetti e le lungaggini non mancano: la vicenda appare forse troppo dilatata nel tempo e ha una natura ondivaga, episodica, che ben si adatta alla serie TV di prossima uscita. Ma tutti noi abbiamo superato l’infanzia con una specie di disturbo post-traumatico da stress. Si diventa grandi, infatti, non vivendo: bensì sopravvivendo. Trent Dalton ce l’ha fatta. Da ragazzino, per sfuggire a pericolosi intrighi alla Breaking Bad, ha cercato eroi e vie di fuga. Questa sua testimonianza, tenera e leggendaria, ci racconta il lato ordinario del crimine e quello, assolutamente straordinario, della maturazione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Woodkid- Run Boy Run

lunedì 18 novembre 2019

I ♥ Telefilm: Looking for Alaska | The End of the F***ing World S02

Avevo sedici anni, John Green era il migliore autore dell’universo ed ero perdutamente innamorato di Alaska Young. Una che accumula libri usati come fossero gioielli. Una che beve, fuma, impreca. Una che la dà a tutti ma non si concede mai a nessuno. Uno di quei personaggi che a una certa età, insomma, segnano l’immaginario: dieci anni dopo non l’ho scordata. Anche se nel frattempo John Green ha scritto altro, superando il successo del suo esordio indie. Anche se non sempre l’ho apprezzato, in salute o in malattia. Ho scoperto una cosa: che la cotta per Alaska è rimasta incorrotta anche sul piccolo schermo. Oggetto di una miniserie Hulu senza una distribuzione italiana, il romanzo di formazione ambientato agli inizi del Duemila funziona alla perfezione anche a episodi con i suoi primi baci, primi strusciamenti, primi dolori. Purtroppo passata sotto silenzio, la trasposizione – un gioiellino di scrittura e recitazione – si è rivelata un impensato terremoto emotivo, capace dal nulla di riaprire vecchie ferite: a volte erano i segni dei dardi di Cupido, infatti, altre traumi insuperati. Pur senza meriti stilistici, Looking for Alaska conquista subito grazie a un’irriverente anima da canaglia, ma con il procedere della visione si rivela infine struggente. Quanti prodotti per ragazzi hanno il coraggio di mettere in scena l’assoluta centralità del dolore? Quanti sanno trattarlo senza l’intromissione del politicamente corretto, ma affrontandolo ora da una prospettiva religiosa, ora da una filosofica? Tutti all’inseguimento di un Grande Forse, i protagonisti fanno a gara di sbronze e sensi di colpa – e se sceneggia il veterano Josh Schwartz, piccole e grandi aggiunte daranno profondità anche ai comprimari: tralasciando un Charlie Plummer non all’altezza del ruolo di protagonista, gli applausi sono per Denny Love (uno straordinario Colonnello), Sofia Vassilieva (la dolcissima Lara), Ron Cephas Jones (il professor Hyde, qui con un amore omosessuale che emoziona). Tra grasse risate e pianti torrenziali, ho ricordato perché all’epoca ne avessi consigliato la lettura in lungo e in largo. E come mai alla protagonista del mio romanzo, più tardi, avrei dato i tratti dello sfuggente sogno erotico di Miles, qui interpretata da Kristine Froseth: bella come Margot Robbie, e per di più già bravissima, farà strada marciando su nuovi cuori infranti mentre il deejay passa Fix You. Lo spettatore, proprio come la matricola protagonista, la osserva e la venera, spaventato da un inquietante conto alla rovescia che avanza. Alaska Young resterà sempre il mistero della mia gioventù. E il giallo dei suoi spericolati anni alla Cobain, tutt’ora, sfavilla fino a farmi lacrimare. (8)

Lo abbiamo visto sia con The Handmaid’s Tale, sia con Big Little Lies. Pessima idea cavalcare l’onda del successo, se significa superare a piè pari l’intento originario dell’autore. Entrambe tratte da bestseller, le due serie TV hanno guadagnato stagioni aggiunte e perso infinita credibilità. Quando un romanzo viene annacquato per allungare il proverbiale brodo, infatti, difficile confidare in buoni risultati. Il pregiudizio è toccato anche alla seconda stagione di The End of the F***ing World: ispirata a un fumetto destinato a chiudersi con una scioccante tragedia finale, la fuga dei due sociopatici più amati di Netflix poteva forse avere un degno prosieguo? Al di sopra delle aspettative – pensati senza grandi forzature, ma assolutamente pretestuosi nello svolgimento – i nuovi otto episodi risultano sì superflui, ma hanno il merito di non snaturare la personalità dei personaggi e di allinearsi allo stile della prima stagione. I trascorsi di Alyssa e James, infatti, li hanno resi più buoni, più umani, più cresciuti. Purtroppo, anche meno spassosi. Lei, vestita di bianco, è una sposa in fuga il giorno delle nozze. Lui, impettito dentro un brutto abito elegante, porta un’urna sottobraccio di cui non svelerò il contenuto. Bravissimi e subito iconici, Jessica Barden e Alex Lawther sono diventati tutt’uno con i loro ruoli: tanto algida lei quanto adorabile lui, costituiscono una coppia tenera e mal assortita come poche. Per questo gli si vuol bene. Soprattutto in una stagione a corto di svolte, che gira in tondo e poi torna sui luoghi della prima, retta soltanto dall’innegabile alchimia del duo. Insieme, così, superano le incertezze e le lungaggini di una scrittura che vorrebbe stare al passo ma non può: non abbastanza caustica, non abbastanza memorabile. Brava altrettanto, qui, è colei che vorrebbe farli scoppiare: pazza d’amore, Naomi Ackie viaggia sul sedile posteriore e semina pallottole con incise promesse di morte. Poteva andare meglio. Poteva andare peggio. La decorosa via di mezzo accontenterà comunque i fan, sempre attratti dalla ricercata colonna sonora rètro, dalla regia hipster e dalla promessa di uno spasimatissimo lieto fine. Quest’ultimo non scontenterà nessuno, giuro. Neanche chi, vagamente deluso, non vorrà perdonare alla serie di non essere stata di nuovo la fine del mondo. (7)

mercoledì 18 settembre 2019

Recensione: Un dolore così dolce, di David Nicholls

| Un dolore così dolce, di David Nicholls. Neri Pozza, € 18, pp. 383 |

Ci sono  estati che vorresti non finissero mai: quelle delle grandi svolte. 
Pensa alla liberazione dopo l'esame di maturità, per esempio, con davanti a te due mesi – non abbastanza, insomma – per decidere quel che sarà dopo il liceo. 
Alla laurea, ancora, con una corona d’alloro secca per metà sull’armadio e l’incertezza più totale verso un futuro faticoso da mettere a fuoco. 
Pur essendo un tipo più adatto all'inverno, anch’io quest’anno l’ho sperato: poteva questa bella stagione prolungarsi fino al termine dell’incertezza? Vivo infatti il primo settembre senza esami da fare, completamente libero e altrettanto sperduto. Ho compilato in questi giorni  il primo curriculum – mandato dappertutto: mi terrorizza la prospettiva di un autunno con le mani in mano – e le prime messe a disposizione, inoltrate qui e lì in attesa di un bando di concorso che mi si nega, di una graduatoria che finora non m’include. Vorrei mettere sotto il materasso i primi guadagni in cerca d’indipendenza, o forse, amara verità, mi accontento e basta; nei giorni storti, quando l’umore è basso, mi butto via. Mi ha raccolto la mano provvidenziale di David Nicholls, scrittore dal tempismo perfetto, e fra una pagina e l’altra mi ha fatto conoscere il suo nuovo protagonista. Presentatevi pure, ha detto: Charlie ti somiglia tanto, e giacché mal comune è mezzo gaudio, vedrai, a tratti vi supporterete a vicenda. A poco è servito dichiarare il mio scetticismo – un Charlie uguale a me lo conoscevo già, quello di Noi siamo infinito –, dal momento che l’autore di Un giorno ci aveva ormai presentati. E sì, la somiglianza c'era. 

La noia era la nostra condizione naturale, però la solitudine era tabù [...] Costa fatica non sembrare soli quando lo si è, o sembrare felici quando si è infelici. È come reggere una sedia in equilibrio su una mano sola: quando non ce la facevo più prendevo la bicicletta e mi allontanavo dalla città. 

Sedici anni, votato alla discrezione, il protagonista è un adolescente che sugli annuari non spicca. Seduto a bordo pista, guarda il mondo con occhi grandi così e cerca di rubare ricordi in ogni angolo; di immagazzinarli con un battito di ciglia. È il ballo di fine anno – ghiaccio secco, camicie firmate a penna, qualche chiazza di vomito per un bicchiere di troppo – ma lui preferisce estraniarsi. Cosa c’è da festeggiare se gli esami sono andati malissimo, il college è fuori discussione e l’unica soluzione per arricchirsi è fare la cresta sui gratta e vinci? David Nicholls me l’ha reso subito affezionato descrivendolo mentre scorrazza in bicicletta per le strade di una città industriale – lì le vie hanno nomi di vecchi poeti, peccato però che la periferia disconosca qualsiasi lirismo – o, come facevo io stesso dopo la separazione dei miei, mentre  tentenna sul pianerottolo di casa. Dall’altra parte dell’uscio c’è un padre depresso, inconsolabile quanto il mio dopo il trasferimento di mamma, al centro però di un doppio dramma: jazzista fallito, fa i conti con una bancarotta economica e sentimentale. 
Conosco il desiderio di evitarne lo sguardo. Ricordo le cene a base di spinacine e la fine infelice di frutta e verdura, destinate puntualmente a marcire nel frigo due uomini soli. Ho presente la tentazione di mascherare la paura del futuro, evitando il trauma di un ennesimo cambiamento, con la scusa che toccasse restare fisso all’ovile per fare da ago della bilancia. L’unico modo di conoscere l’anima gemella, a dispetto dell’apatia, è fare come nella canzone di Tenco: innamorarsi in mancanza d’altro da fare. È casualmente che Charlie si stende in un prato degno del Decameron. È casualmente che la travolgente Fran – una di quelle bellezze che saresti tentato all’istante di immortalare in un ritratto – inciampa sull’intruso mentre prova con una compagnia di attori amatoriali. Metteranno in scena Romeo e Giulietta, in quegli anni portato al cinema anche da Luhrmann. La proposta è di quelle che non si rifiutano: accettare il ruolo di Benvolio per condividere con l’intrigante sconosciuta – e con Alex, Helen, George, Lucy – passeggiate sull’erba, prove estenuanti, feste alcoliche e, se tutto fila liscio, pomiciate spinte. Charlie accetta.

Ma le storie d’amore sono noiose. L’amore è una cosa normale solo per chi non lo vive, e il primo amore è spesso goffo e ghiandolare. Shakespeare doveva saperlo: prendete il testo della storia d’amore più famosa del mondo e provate a stringere fra pollice e indice le pagine dove gli innamorati sono davvero felici, non il crescendo che precede l’amore o il conflitto che ne consegue, il lasso di tempo in cui l’amore è condiviso e sereno. Si tratta di una manciata di pagine, il breve interludio fra anelito e disperazione. 

Adatto a un pubblico più giovanile, Un dolore così dolce ha unico difetto oggettivo: a colpo d’occhio è la somma matematica dei successi passati e, pur essendo vicinissimo al sottovalutato Il sostituto, include i rimpianti di Emma e Dexter, le famiglie disfunzionali di Noi, l’effetto nostalgia delle Domande di Brian. Ma dove trovare, d’altra parte, la stessa brutale onestà nel trattare una perdita della verginità che ha davvero del tragicomico? Quei dialoghi brillanti, da sceneggiatore navigato, che con il filtro dell’autoironia colgano sottili analogie fra le vicissitudini dei protagonisti e quelle degli amanti di Verona? 
La lettura di Un dolore così dolce ha significato sbirciare in una palla di vetro per scoprire con il dono della preveggenza, a vent’anni di distanza, cosa sarebbe stato del colpo di fulmine con Fran. E un po’, quindi, anche di me. Se Charlie avesse trovato il suo posto nel mondo, infatti, ci sarebbero state buone speranze anche per il sottoscritto. E se Charlie rideva – una risata simulata, da palcoscenico – ridevo anch’io, mentre da recitata la contentezza diventava pian piano reale. E se Charlie diventava più sé stesso fingendo di essere qualcun altro, prendevo esempio e pendevo obbediente dalle labbra del Bardo: colui che talora presta al protagonista in crisi i pensieri e le parole, diventando suo consigliere personale; un modo di essere. Scorrono le pagine, e assieme corrono gli anni Novanta. Quelli delle promesse solenni, dei giuramenti fra amici che impongono di non perdersi mai di vista. Ma il mese dopo ci si eviterà già in centro, per imbarazzo o antipatia: cosa dirsi, infatti, come rapportarsi, con il sopraggiungere di settembre?

A volte ci penso, sai. Penso a come mi sentivo, e non voglio fare la sentimentale o roba del genere, ma per me il primo amore è come una canzone, una stupida canzoncina, la senti e pensi, non voglio sentire più nient’altro, qui c’è già tutto, questa è la melodia più bella che sia mai stata scritta. Poi cresci e non lo metti più quel disco, ora sei più tosta, e smaliziata, e hai gusti più raffinati… Ma quando la senti per radio, be’, è ancora una bella canzone. 

I negozi di dischi stanno già iniziando a chiudere. La crisi finanziaria miete le vittime iniziali. I cellulari, costosi relitti senza i miracoli di WhatsApp, mettono spesso nei pasticci per l’impossibilità di comunicare in tempo reale ritardi o fraintendimenti. La storia d’amore di Charlie ha lo spirito gaudente di alcune estati scacciapensieri e, nell’epilogo, infonde il magone di un’alba sulla spiaggia o di una brutta notizia alla radio che, dal nulla, interrompe un ritornello di Madonna. E rivela, purtroppo, che anche le principesse muoiono.
Il primo amore non si scorda mai, giurano. L’ultimo Nicholls chissà. Un giorno potrebbe essere dolce perfino dimenticarlo e riscoprirlo, proprio come accade con quell’amica avvicinata con un misto d’imbarazzo ed euforia alla rimpatriata a cui non volevamo  nemmeno presentarci – meglio non scomodarlo, il vespaio dei sedici anni.  Per fortuna, in pace con noi stessi, alla fine abbiamo detto sì.
Il mio voto: ★★★★
Il consiglio musicale: The Verve – Bittersweet Symphony

mercoledì 4 settembre 2019

Recensione a basso costo: Tutta la vita che vuoi, di Enrico Galiano

Tutta la vita che vuoi, di Enrico Galiano. Garzanti Superpocket, € 6,90, pp. 414 |

A bordo di un Suv BMW ci sono tre diciassettenni dall’aria sospetta. Il veicolo è rubato e, per di più, nessuno di loro ha la patente. Alla guida c’è Giorgio: vestito a lutto, preso spesso in giro per un’omosessualità mai confermata, incespica nelle parole giacché balbuziente da sempre e poiché, quella mattina stessa, ha sepolto il fratello maggiore: Luca ha portato nella tomba con sé un segreto non così inimmaginabile e una passione per le canzoni di Michael Bolton. Accanto, al posto del passeggero, siede il migliore amico Filippo Maria: uno con il nome da nobile e un’infanzia da disperato, che storpia e inventa parole a caso – è dislessico – ma ne ha di sceltissime quando si tratta di insultare il prof di fisica, corteggiare l’ambita Giada o fare i conti con una madre traditrice che l’ha abbandonato in fasce. Dietro, con il viso che sbuca fra i poggiatesta, c’è Claudia detta Clo: cresciuta in comunità con il mito di Thelma & Louise, sgraffigna cose al centro commerciale per sport – cellulari e pistole – e su foglietti volanti prende nota dei dettagli che rendono questa esistenza degna di essere vissuta. Sono in fuga, e lo erano anche prima di incrociarsi. Il primo punta a San Martino, il secondo a Pisa e la terza direttamente in Francia, tanto grande l’ansia di essere sbattuta in un carcere minorile. 

Al mondo importa poco sapere chi sei e perché fai quel che fai. Al mondo importa solo essere convinto di saperlo. 

Questo folle trio è unito da un piano preciso: realizzare, in giornata, quei desideri indicibili che poco prima si sono sfidati a urlare a voce alta. Ma a raccontarci il sogno di una vita spericolata, a far davvero da collante, è la penna ritrovata di Enrico Galiano: al suo esordio, qualche anno fa, l’insegnante più popolare del web aveva riempito di dolcezza e malinconia con una storia d’amore sui generis che tutt’oggi ricordo con affetto. Sapendolo ormai in libreria con il suo terzo successo, complice la ristampa economica di questo titolo intermedio, ho recuperato a ritroso la sua seconda fatica: all’epoca dell’uscita, fra pareri discordanti e una trama che ispirava meno fiducia, avevo scelto di aspettare il tascabile. Magari l’estate? Letto sotto l’ombrellone in un paio di pomeriggi, un Galiano più leggero e divertito racconta attraverso una baraonda di voci diverse la cronaca di un sabato all’insegna delle effrazioni e dell’ora o mai più. Un’avventura politicamente scorretta, dove sul capo dei personaggi pende un serissimo mandato d’arresto: contro di loro sono infatti state sguinzagliate tre pattuglie dei carabinieri, dal momento che, fra le innumerevoli malefatte, Clo e soci hanno indossato maschere di Shrek per rapinare una trattoria frequentata dai peggiori xenofobi. 

Non è vero che nasciamo una volta sola, possiamo nascere tante volte, nasciamo quando mettiamo per la prima volta un passo dopo l’altro e riusciamo a camminare, nasciamo il giorno in cui finalmente decidiamo di dire qualcosa che ci siamo tenuti dentro per troppo tempo, e poi, e poi, nasciamo quando per la prima volta mettiamo il naso nel cuore di qualcuno e lasciamo che qualcuno metta il naso nel nostro, e ne sono sicura perché è quello che è successo oggi, e quindi lo so. Ecco cosa volevo dirvi, nel caso non ci vedessimo mai più. Che alla fine possiamo nascere infinite volte la prima volta non la decidiamo noi ma le altre sì, quello succede a tutti, ma vivere, quanti vivono per settant’anni senza aver mai vissuto davvero? No, ora lo so, vivere è una cosa che si va a prendere, che si strappa via, con le unghie e con i denti. E nasci ogni volta che te lo ricordi.

Per me inferiore al romanzo che l’ha anticipato, Tutta la vita che vuoi è una vicenda a lungo indecisa fra semplicità – in chiusura, ecco svelate le poetiche voci della lista di Claudia – ed esagerazioni da teen comedy americana. A tratti potrebbe ricordare perfino un po' troppo Città di carta, letto ai tempi con occhi innamorati. Ma c’è del buono, sì: il cenno a un triangolo platonico ma poliamoroso, che affronta con coraggio la sessualità dei suoi protagonisti, e lo spirito da canaglia che non ti aspetteresti mica da un autore all’inizio paragonato – ricordiamolo, sono entrambi insegnanti – al lezioso D’Avenia. 
Per quanto questa volta non mi abbia entusiasmato, galeotta una vicenda con sprezzo del buon senso che a venticinque anni mi ha già fatto sentire un vecchio brontolone, Enrico Galiano continua a piacermi. Non fa partacchioni gigioneggianti, non ti guarda dall’alto in basso, né dà lezioni prestampate – qui non ne dà affatto, forse, e a me è parso un po’ il suo vero limite. Sembra immaturo e divertito tanto quanto il suo trio. Sembra, a colpo d’occhio, che questa sia l’opera prima anziché una sperata riconferma.  
Non è un romanzo perfetto, non il romanzo che aspettavo. Ma è un viaggio che delle sue sbavature, dei suoi atti vandalici grandi e piccoli, delle sue trasgressioni alla piattezza del quieto vivere, va sinceramente fiero. E per questo fa simpatia dall’inizio alla fine, facendoci cadere “eppure felici”, nonostante il posto di blocco al prossimo svincolo.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Achille Lauro - Rolls Royce

venerdì 9 agosto 2019

Recensione: Norwegian Wood, di Haruki Murakami

| Norwegian Wood, di Haruki Murakami. Einaudi, € 13, pp. 380 |

È uno dei maggiori successi orientali di cui si abbia memoria. Acclamato alla stregua di un moderno classico, paragonato ora a Charles Dickens e ora a J.D. Salinger, era uno dei buoni propositi di quest’estate: uno dei tanti romanzi da leggere, uno dei tanti autori da scoprire dal nuovo. Non essendo la classica lettura da ombrellone né amando particolarmente i narratori giapponesi, l’ho affrontato con il timore reverenziale che riservo soltanto ai grandi scrittori. Qualcuno me ne parlava come del romanzo della vita. Qualcun altro, invece, lo trovava sopravvalutato e durante la lettura ammetteva di aver sentito nostalgia del Murakami più surreale. Opera di un autore già affermato, apprezzato soprattutto per i toni onirici e hard-boiled dei romanzi precedenti, ha diviso i lettori di ogni dove come soltanto i successi fanno.  E, a trent’anni dall’uscita, continua a farlo. Come l’ho recepito io? Pesante nelle tematiche, molto meno nella scrittura, il romanzo sorprende per un apprezzabilissimo senso dell’ironia e un’attenzione inaspettata per il calore del corpo umano, per le armonie segrete del sesso. Lontano dalla pudicizia che di solito si associa al Sol Levante, denso di riferimenti alla cultura occidentale, è una passeggiata vitale e gaudente nel cuore di una foresta incontaminata, nonostante il puntuale sollevarsi della nebbia suggerisca a ogni passo mestizia e smarrimento. L’autore lo scrisse di getto fra Atene e Roma, in un tour europeo durato appena tre mesi. Strutturato in un lungo flashback, con un protagonista ormai quarantenne che, galeotta la canzone giusta, rivive con la mente le sue storie d’amore giovanili, mi ha ricordato a tratti l’esuberante intellettualismo di Chiamami col tuo nome: riferimenti alti e bassi, citazioni frequenti, personaggi lontani per chilometri e cultura dai ventenni di oggi ma mossi da una malinconia che alla fine, lentamente, contagia.

A volte ho l’impressione di essere diventato il custode di un museo. Un museo vuoto, senza visitatori, a cui faccio la guardia solo per me.

La struttura è di quelle fragili ed essenziali, al punto che si fa fatica a individuarne il nucleo fondamentale: da copertina, il triangolo sentimentale fra Watanabe, Naoko e Midori. Lui, descritto nell’arco di tempo che va dai diciotto ai vent’anni, è lo studente spiantato e solitario di un collegio maschile: affezionato alla sua solitudine, studia teatro ma senza passione e, in compagnia dell’amico Nagasawa –  dongiovanni ricco e spietato, che tradisce platealmente la fidanzata Hatsumi –, rimorchia ragazze senza trasporto alcuno. Watanabe non sa godere dei piaceri della carnalità. Non sa amare. Sbarca il lunario vendendo dischi e, nel privato, si sbottona pochissimo. Attirato segretamente dallo squilibrio e dalla tristezza, nel caos della rivoluzione studentesca intrattiene una doppia relazione. Appare perlopiù epistolare quella con Naoko, la fidanzata storica del migliore amico morto suicida: ricoverata in una clinica paradisiaca all’ombra dei monti, dove si confondono medici e pazienti, la giovane fa i conti con violente allucinazioni auditive e una depressione dalle radici profonde. Il protagonista, suo unico contatto con il mondo esterno, la aspetta.

- Può darsi che io non guarisca mai. Mi aspetteresti lo stesso? Ce la faresti ad aspettarmi dieci anni, vent’anni?
- Tu hai troppa paura, - dissi. Del buio, dei brutti sogni, del potere dei morti. Quello che devi fare è dimenticarli, se riesci a dimenticarli ce la farai sicuramente a guarire.
- Se riesco, a dimenticare, - disse Naoko scuotendo un po’ la testa.

E nel mentre? Nel mentre c’è Midori, che è calda, vivissima, presente: una femminista sfrontata e irresistibile, con le gonne vertiginose, domande bizzarre sui condizionali inglesi e la masturbazione, una passione incrollabile per i cinema a luci rosse e per il cibo, che non rinuncia a mangiare di gusto perfino alla mensa dell’ospedale. Se la prima è perseguitata dal mal di vivere, l’altra fa i conti con l’ereditarietà della malattia: suo padre, un modesto libraio di provincia, sta morendo per un tumore al cervello, e la stessa tragedia ha colpito anni prima anche la madre. Il protagonista all’università studia Sofocle ed Euripide. Le tragedie dei drammaturghi greci – dolorose e ingarbugliate quanto o più di quelle che accadono ai comprimari – sono sempre risolte dall’intervento provvidenziale del deus ex machina. In attesa che un’entità misteriosa dissipi magari anche la cupezza dei suoi pensieri, Watanabe fa i conti con il senso di colpa dei superstiti e, come nella tradizione dei migliori romanzi di formazione, realizza che vivere, in fondo, significa andare avanti e dimenticare. Altrettanto crescere. A volte la morte divide, ma in Norwegian Wood eccezionalmente unisce. Il protagonista, allora, si dà a lunghi colloqui. Come l’acqua, prende la forma del recipiente che lo ospita e del suo interlocutore. Di domenica, dopo aver fatto il bucato, Watanabe va a zonzo senza bisogno di parole superflue e si nutre di dettagli impercettibili – un fermaglio a forma di farfalla, una lucciola intrappolata in un barattolo, un incendio spiato su un tetto –, storie di perfetti sconosciuti – la quarantenne Reiko, il mio personaggio preferito, un’insegnante di pianoforte con un mignolo che non le obbedisce e una scandalosa relazione omosessuale con una studentessa tredicenne che ha mandato all’aria il suo matrimonio –, baci dati o promessi qui e lì.

Diventerò adulto. Devo farlo. Finora ho sempre pensato che avrei voluto oscillare in eterno tra i diciassette e i diciott’anni, ma adesso non lo penso più. Non sono più un ragazzo. Comincio a sentire le responsabilità. Io non sono più quello che tu hai conosciuto. Ho vent’anni ormai. E devo pagare il prezzo per continuare a vivere.

Seguendolo nel suo cammino, impossibile nasconderlo, a tratti ho provato una certa insofferenza. Forse, un po’ di noia.  Sono un lettore semplice: mi piacciono storie con inizio, svolgimento e fine. Sono un lettore appassionato, a cui piacciono le scritture di cuore. Norwegian Wood è frammentario e ondivago: una reminescenza retta dalla stessa struttura ballerina dei flussi di coscienza. A tratti, è distaccato proprio come immaginavo. Ha troppe pagine; soprattutto troppi suicidi. Ma, a mente fredda, ho collegato la confusione di libri, dischi dei Beatles, biglietti del cinema, bottiglie di whisky e cicche di Marlboro come fossero puntini da unire. E in questo disegno astratto, un collage di intimità spaiate e voci problematiche, ho imparato a scorgere lo spaccato generazionale di un Giappone al passo coi tempi e il profilo di personaggi spesso sgradevoli ma comunque memorabili.  Nel finale, bellissimo, la lettura ha lasciato per fortuna un’eco significativa e l’ombra di un sorriso dolce-amaro. Come una canzone a me finora non nota del leggendario quartetto londinese, meno cantabile di altre perché senza un ritornello orecchiabile, che pagando pegno a Reiko chiediamo venga suonata ancora e ancora per commuoverci insieme sulle note di coloro che «capivano tutta la tristezza e la dolcezza di vivere». 
Sayonara.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Norwegian Wood