lunedì 1 dicembre 2025

Torino Film Festival 2025: Pillion | Eternity | Kiss of the Spider Woman | El Cautivo

Harry Melling, anonimo ausiliario del traffico con l'hobby del canto corale, diventa lo schiavo – sessuale e non solo – del bellissimo motociclista Alexander Skarsgård. Nel loro rapporto i baci sulla bocca, le confidenze troppo intime, le cene in famiglia sono severamente al bando. Ma se i sentimenti ci mettessero lo zampino? A più di vent'anni da Secretary, arriva un'altra commedia indie – nei nostri cinema dal prossimo 12 febbraio – a sdoganare la dipendenza emotiva e il sadomasochismo. Con tutte le carte in regola per diventare un nuovo cult, Pillion parte come una fantasia di sottomissione. Ben presto, però, si trasforma in una parabola sul tabù della vulnerabilità maschile. L'inesperto Melling osa. Può forse dirsi lo stesso di Skarsgård, impietrito dalla quotidianità? Se la loro relazione è rigida e normata, perfino nella trasgressione, l'esordio di Harry Lighton gioca senza regole. E prima diverte, poi imbarazza, infine spezza il cuore, rivelandosi la versione in latex del capolavoro di Todd Haynes. L'amore più struggente dell'anno? Ha un'orgia come festa di compleanno. E insegna che la libertà, a volte, passa dal BDSM. (8)

Il mio primo film del Torino Film Festival, la mia prima sorpresa. Perché Eternity, a breve in sala, resterà la romcom più riuscita dell'anno. Garbato, elegante, divertente senza rinunciare a un po' di struggimento, è la storia di un triangolo amoroso ultraterreno. Morta ormai anziana e in un letto d'ospedale, Elizabeth Olsen si scopre nuovamente desiderata in un aldilà variopinto e dettagliato in cui i trapassati hanno una settimana per scegliere dove trascorrere l'eternità. Il paradiso avrà le fattezze della Florida o di una baita in montagna, delle Hawaii o della Francia degli anni Trenta? Indecisa tra mille proposte, in un gate che somiglia a una giornata dell'orientamento, dovrà anche districarsi tra il burbero marito Miles Teller e l'indimenticato primo amore del fascinoso Callum Turner. Accanto a loro, sempre in equilibrio tra emozione autentiche e sfumate, c'è la premiata all'Oscar Da'Vine Joy Randolph come spalla comica. Prendete la serie TV The Good Place. Conferitele l'estetica di The Truman Show. Sceneggiatela come una commedia teatrale della Golden Age. E la delizia, targata al solito A24, è presto servita. (7,5)

Se il cinema è evasione, il musical è il genere più cinematografico tra tutti. Ma si può trasformare una pagina nerissima di storia contemporanea in un abbagliante incanto in technicolor? L'ultima trasposizione del romanzo di Manuel Puig canta di dittatura e lustrini, amori e rivoluzioni, oscillando dal dramma carcerario al musical degli anni Cinquanta. Siamo in Argentina, durante la dittatura militare. Due prigionieri – un omosessuale accusato di atti osceni e un rivoluzionario – combattono le violenze fisiche e psicologiche raccontandosi la Hollywood degli anni d'oro. Le coreografie sono trascinanti, ma le canzoni poco memorabili. Le fantasie metacinematografiche non sempre si amalgamano al resto, e la patina delle danze spesso sconfina anche in cella. Jennifer Lopez, splendida come non mai, è una diva che interpreta una diva. Sempre in parte Diego Luna, qui affiatatissimo con il querulo e struggente Tonatiuh – quest'ultimo, esordiente, affronta a testa alta il ruolo che valse l'Oscar a William Hurt. Nonostante siano tutti intonatissimi, qualche stonatura c'è. Ma quando la vita imita l'arte, e viceversa, che shock l'accendersi delle luci in sala e l'arrivo dei titoli di coda. (7)

Che fine ha fatto Alejandro Amenàbar? Ormai lontano dai trionfi di Apri gli occhi, The Others e Mare dentro, torna al cinema a un decennio dall'ultimo film. La sua ultima fatica è la biografia romanzata dell'autore di Don Chisciotte, con tutti i pregi e i difetti che ci si aspetterebbe da una coproduzione Rai e Netflix. Pop, godibile e ammiccante, racconta la prigionia del giovane Miguel De Cervantes. In fuga da Madrid con l'accusa di omosessualità, finisce catturato ad Algeri. In pugno ai mori, che vorrebbero convertirlo all'Islam, mette a frutto le sue doti oratorie per rabbonire il crudele Bajà. Ben presto, il carceriere – al vertice di un dissoluto  harem al maschile – si scoprirà attratto sia dalle storie del prigioniero galantuomo, sia dalla sua bellezza. Diviso tra amore e libertà, nostalgia per i mulini della Mancia e interesse verso i costumi orientali, Julio Peña Fernandez - classe 2000, e già stella dei teen drama spagnoli – è il protagonista di un dramma storico non sempre accurato e dall'esotismo a tratti stucchevole, ma con un Alessandro Borghi degli occhi bistrati per fiore all'occhiello. L'ode al potere seduttivo delle storie? Piace, in fondo: anche quando le storie, come in questo caso, sembrano frutto di Wattpad. (6)

martedì 25 novembre 2025

Ritorni di fiamma: Wicked 2 | After the Hunt | Una battaglia dopo l'altra | Bugonia | Materialists

Aspettare il ritorno di Wicked ha scandito il mio anno in maniera precisa. Un'emozione infantile, lieve, che si è rinnovata in una sala con i cosplayer all'ingresso e un pubblico abbigliato a tema. Il prosieguo della storia ha un difetto: anche a teatro, il secondo atto è meno memorabile e più ingenuo. Le canzoni da cantare a squarciagola sono poche. I colpi di scena non mancano, ma, come spesso succede a Broadway, è un deus ex machina — non il Mago di Oz — ad alimentare i triangoli, a trasformare i comprimari in cattivi, a scaraventare Dorothy giù dal cielo. Epico, ma con un eccezionale amore per i dettagli, Chu omaggia il talento delle maestranze — scenografi e costumisti su tutti — e quello di un cast perfetto. Se la forza di Erivo ha già brillato, qui si ha la consacrazione di Grande: incantevole, frivola e fragilissima, punta all'Oscar con una favola politica che ne fa ora una pedina, ora un simbolo. L'attesa di Wicked: For Good è stata più emozionante del film in sé? Forse. Ma perfino l’esplosione di una bolla di sapone finisce per suonare assordante — e magica, come le rivoluzioni. (7,5)

Dopo Queer, Guadagnino torna e divide. Yale trema per un'accusa di molestie. Nella caccia alle streghe, gli interrogativi incalzano. E tutti, pur di proteggere la propria reputazione, diventano capaci di tutto. Roberts, di bianco vestita ma moralmente in chiaroscuro, giganteggia accanto a Stulhbarg in un thriller senza vincitori né vinti. L'istrionico Garfield è davvero un predatore? Adebiri, mai all'altezza del resto del cast, usa la propria vulnerabilità per occultare un plagio? E cosa spinge la Roberts a schierarsi, o a non farlo? Citando Allen - il maggiore regista vittima della cancel culture -, Guadagnino provoca con un film sontuoso e ambiguo. Smaschera le ipocrisie della Gen Z dell'inclusione e dei trigger warning, ma anche l'omertà dei Boomer mai scesi a patti coi loro scheletri nell'armadio. Lo scontro avviene lasciando fuori i corpi: questa volta solo il pomo della discordia in un cinema dove i non detti, come in Anatomia di una caduta, feriscono più dei dialoghi o degli stridori della colonna sonora. «Di' tutta la verità», scriveva Dickinson, «ma dilla obliqua». After the Hunt la dice così, sbieca e tagliente, fino a confondere giusto e corretto. (8)

Chase Infiniti è una figlia che non ha mai conosciuto la madre. Leonardo DiCaprio è una padre sempre in hangover, con un passato da sovversivo per amore. Sean Penn è un militare repubblicano che, a dispetto dei segreti feticismi sessuali, vorrebbe sedere fra i suprematisti bianchi. Ambientato in una polveriera a ridosso del confine messicano, Una battaglia dopo l'altra è un film tra il thriller e la commedia nera, l'impegno politico e il grande intrattenimento, i fratelli Coen e Breaking Bad. Esilarante a dispetto dell'urgenza delle tematiche, frenetico nonostante la durata fiume, adatta Vineland di Thomas Pynchon ai giorni nostri e, in mezzo ad assalti, guerriglie e inseguimenti, non dimentica di indirizzare una lettera di speranza alle nuove generazioni: la meglio gioventù che erediterà dai padri il gusto della disobbedienza civile, ma non la mascolinità tossica. Se l'antieroe DiCaprio è un boomer lontano dai cliché action, l'Oscar sembra brillare per un Penn iconico come non mai. Il cinema è una cosa meravigliosa, soprattutto quello di un Paul Thomas Anderson in forma smagliante. Quando fa la rivoluzione, di più. (9)

Emma Stone (in sala anche con il brutto 
Eddington) è un'aliena sotto copertura con l'obiettivo di portare il genere umano all'estinzione? È la teoria del complotto di un imprevedibile Jesse Plemons, che insieme al cugino autistico progetta un rapimento in cui l'emergenza ambientale si mescola alla vendetta. Con un pugno di attori fidati, Yorgors Lanthimos torna con una commedia nera dalle derive splatter in cui mancano i suoi vezzi stilistici (grandangoli, fish-eye, campi lunghi o lunghissimi) e, soprattutto, il graffio vero nella scrittura. Sarà perché, questa volta, si tratta del remake di un piccolo cult coreano? O forse è per via della vaga noia per i soliti nomi, i soliti registi che sfornano un film all'anno, i soliti film appesantiti da venti minuti troppo? Nel dubbio che ci accompagna fino a fine visione, si sorride comunque al pensiero di ciò che i protagonisti sarebbero capaci di fare. Bugonia - il cui titolo spoilererà il finale ai secchioni del classico - è il Lanthimos meno disturbante e più sopra le righe. Ma anche quello inedito, perché finalmente divertente. (6,5)

Che fine hanno fatto le commedie romantiche: quelle leggere e patinate, a lieto fine, tipiche degli anni Novanta? Celine Song, reduce dal successo dell'intenso ma sopravvalutato Past Lives, risponde con un triangolo sentimentale degno dei classici di Jane Austen. La splendida Dakota Johnson è una novella Emma divisa tra lo scapolo d'oro Pedro Pascal e il cameriere di belle speranze Chris Evans, ragione e sentimento, in un film ambientato nell'inferno del dating, degli algoritmi e del consumismo sfrenato. I soldi non faranno la felicità, forse, ma garantiscono una serena vita di coppia. È la tesi di un film classico, ma diversissimo da come gli spot promozionali e il discutibile titolo italiano ce lo hanno raccontato. Cinico, contemporaneo e calcolatore, Materialists fa del matrimonio un contratto e dell'amore merce di scambio. La nostra affascinante eroina newyorkese troverà il suo principe azzurro, o rischierà il burnout? Inevitabile, a fine visione, sentirsi un po' più brutti, soli, poveri e bassi rispetto all'inizio. Celine, diccelo, per favore: cosa ti hanno fatto di male gli uomini alti soltanto uno e settanta? (7)

venerdì 14 novembre 2025

Il buio in salotto: Interview with the Vampire | Monster: Ed Gein | Il mostro

Misteriosamente passata in sordina in Italia – arriverà su Netflix a dicembre –, è già arrivata alla terza stagione in patria. Perché la serie TV tratta dai romanzi di Anne Rice sta facendo così fatica a trovare il suo pubblico? Perché io stesso ho recuperato le prime due stagioni dopo anni di rimandi, per poi rimanere abbagliato da una trasposizione che – nell'anno dei fasti di I peccatori – brilla per eleganza di scrittura, efferatezza e sensualità? La storia, già raccontata in un film con Tom Cruise e Brad Pitt, cambia forma e dinamiche, ma mantiene immutati il gusto scenografico e le elucubrazioni. Jacob Anderson e Sam Reid – che nulla, notorietà a parte, hanno da invidiare al duo originale – ripropongono l'eterno conflitto tra creatore e creatura, all'interno di una relazione tossica minata dall'arrivo di Claudia: figlioccia adolescente avida di libertà. Nella seconda stagione, ci si sposta a Parigi e, in fuga dalla solitudine, ci si unisce a una congrega. Tra canti, balli e mattanze, lo spettacolo si fa più spettacolare ancora e, mentre subentra il nuovo amore per Assad Zaman – più anziano, più saggio, più costante di Lestat –, si gettano le basi per uno degli episodi più belli dell'anno. La memoria di un immortale è sempre infallibile? Si può vivere onestamente, nonostante il troppo sangue versato? Da questo trio, in una serie opulenta e imprevedibile come un ballo in maschera, chi non si lascerebbe azzannare? (8)

Dopo le stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e ai fratelli Menendez, la serie di Ryan Murphy abbandona l'asciuttezza del dramma processuale per sposare i toni dell'horror. Benché molto patinata, potrebbe mettere alla prova con scene gore e voyeurismo: niente, tra nefandezze e feticismi, ci è risparmiato. L'obiettivo, ambiziosissimo, è non tanto realizzare il biopic di Ed Gein, ma raccontare un'epoca; un Paese. Non sempre all'altezza, gli episodi mettono troppa carne al fuoco e peccano di una direzione incerta. In disordine, si parte dal mondo interiore di Gein (gli abusi materni, il trauma della Shoa, la disforia di genere) per poi fare tappa a Hollywood (Psycho, Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti sono alcuni dei film ispirati al suo modus operandi) e negli uffici dell'FBI (Gein, infatti, avrà un ruolo chiave nella cattura di Ted Bundy). Ne emerge un ritratto non sempre accurato, ma multiforme e personale, che trova una sua identità nel corso degli ultimi episodi: quelli meno sanguinosi e più lirici, dove un Charlie Hunnam da Emmy conferma un'intensità perfino superiore alla sua avvenenza e l'irriconoscibile Vicky Krieps ruba a molti la scena nelle vesti di una sadica nazista. Quando abbiamo fatto di un serial killer un'icona pop? Quando abbiamo trasformato un uomo schizofrenico in un mostro? (7)

Alle porte di Firenze, ha ucciso otto coppie nell'arco di diciassette anni. L'incubo di una generazione di innamorati — già al centro di una miniserie Sky con Ennio Fantastichini e di innumerevoli podcast — torna in una produzione attesissima, con la firma di uno dei registi più internazionali del nostro cinema: Stefano Sollima. Lontano dallo sperimentalismo a cui ci ha abituato, sceglie una maggiore asciuttezza — in cui, però, si fatica a scorgere la sua impronta — e un taglio inedito ma discutibile. Più che di una serie sul Mostro, si tratta di un prequel sul delitto di Barbara Lonci e Antonio Lo Bianco: a collegarli alle altre morti, l'utilizzo della stessa pistola. Frammentario e confuso, Sollima si muove tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, la Sardegna rurale e una Firenze assediata, col risultato che le indagini facciano semplicemente da contorno alle vicende della famiglia Mele: un marito pavido, una donna sottoposta a violenze esasperanti, le frequentazioni ambigue coi fratelli Vinci. Pacciani e i famigerati compagni di merenda faranno capolino nella seconda stagione? In questa storia di misoginia e repressione sessuale, per ora, non c'è spazio per gli eventi più noti né per un cast di nomi altisonanti: a spiccare, nell'anonimato imperato, è il solo Valentino Mannias, sinuoso e spietato come un lupo. (5,5)

venerdì 7 novembre 2025

Recensione: La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo

 La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo. Feltrinelli, € 20, pp. 432 |

È un grande anno per il cinema horror. Per non essere da meno, anche Feltrinelli si è messa al passo con un romanzo citazionista e dalle atmosfere vintage, che farà la gioia e il terrore degli amici cinefili. Ambientato nel cuore degli anni Novanta, in un sobborgo residenziale ormai in decadenza, racconta di una banda di amici con l'hobby dei film di genere e delle bravate. A sedici anni, la morte è un pensiero incidentale. Al TG: qualche incidente stradale, suicidi in sordina, la piaga dell'Aids. Medhi, membro dell'unica famiglia straniera del quartiere, è vittima del bullo della scuola. Alex ha da poco sepolto la madre, divorata dal cancro. Tom, ossessionato dagli insetti, vorrebbe aizzare una scolopendra contro il patrigno. Max, fidanzato con la bella del liceo, è attratto dal gemello di lei. Lena, l'ultima arrivata, è in fuga da un passato violento.

A volte era sembrato a Lena che lei e i suoi amici sarebbero stati in un certo modo eterni e che l'universo esistesse solo per loro, semplicemente perché erano là a posarvi lo sguardo. Ma ormai era consapevole della loro fugacità, fragilità e impermanenza, aveva acquisito quella consapevolezza del tempo che passa, preleva quello che gli devi e non offre in cambio che un po' di oblio.

Tutti hanno le proprie ombre. Tutti sono attratti dalla casa nell'impasse des Ormes. È lì che si manifestano le fobie e i desideri più sfrenati, in un budello infernale a metà tra il sonno e le veglia. Il folgorante Jean-Baptiste Del Amo, colpevolmente scoperto qui e ora, è la luce in un mondo prigioniero della penombra, dove gli incubi si mescolano ai sogni erotici e i bassi istinti prendono il sopravvento. In un angosciante gioco di specchi e doppelganger, sarà impossibile distinguere una dimensione dall'altra e arginare le conseguenze. Derivativo sin dalle premesse, appesantito da una cinquantina di pagine di troppo e non sempre fedele alla sua dimensione corale, La notte devastata resta comunque una lettura sinceramente spaventosa in cui riecheggiano le grida di It, Nightmare, Amityville Horror.

L'innocenza può essere un inferno.

A elettrizzare, tuttavia, non sono soltanto gli insetti giganti, i parti mostruosi, gli sfondi lovecraftiani, ma la descrizione di un'adolescente sensoriale e irrequieta che tanto somiglia a quella dei romanzi del connazionale Nicolas Mathieu. Divisi tra frustrazione, fumo e noia, i protagonisti si scoprono prigionieri di un film horror con la colonna sonora dei Nirvana, in cui l'incanto infantile è ormai spacciato e la consapevolezza del tempo, della diversità e dell'oblio, conducono sulla soglia del più spaventoso dei mondi: quello degli adulti. Si sopravvive alla morte dell'innocenza?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are 

mercoledì 22 ottobre 2025

Recensione: Frankenstein, di Mary Shelley

| Frankenstein, di Mary Shelley. Feltrinelli, € 10, pp. 320 |

Un laboratorio cavernoso. Un corpo a pezzi, ricucito con rattoppi di fortuna. La scintilla di un lampo. Poi, un’esclamazione di trionfo: è vivo. Eppure, questa e altre scene — radicate, ormai, nell’immaginario collettivo — non esistono nel romanzo di Mary Shelley. Nessun cimitero viene profanato in nome della scienza. Gli omicidi avvengono fuori scena. L’epilogo, struggente, è una promessa di morte poco prima del sipario. Filtrato interamente dallo sguardo di Victor, il romanzo segue la sua biografia dall’infanzia fino alle estreme conseguenze dell’esperimento. Ubriaco di conoscenza, lo scienziato flirta con l’alchimia: non trova la pietra filosofale né l’elisir di vita eterna, ma riesce comunque a imbrigliare la morte — e a restituire respiro alla materia inerte.

L'invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos.

Tra lunghe peregrinazioni dalla Svizzera al Polo Nord e lettere alla promessa sposa Elizabeth, Victor tenta di placare il proprio ardore febbrile e di lasciarsi alle spalle il suo famigerato mostro. Ma non è un caso che, ancora oggi, nominando Frankenstein, si pensi prima alla Creatura — in realtà, senza nome — e solo poi al suo creatore. Pur concedendole meno spazio di quanto ci si aspetterebbe, Shelley fa della Creatura un grande attore non protagonista: un mostro incompreso e gentile, che si commuove spiando la quotidianità di una famiglia di contadini, e legge Goethe, Plutarco, Milton per imparare a distinguere il bene dal male. Tagliato fuori dal mondo, ma animato dalla stessa irrequietezza del suo artefice, seminerà una lunga scia di sangue pur di condannare l’altro alla medesima solitudine.

Se non riesco a ispirare amore, causerò paura.

Tra Svizzera, Francia e Irlanda, a lungo andare i viaggi si moltiplicano; gli elementi raccapriccianti degni di Bram Stoker, invece, scarseggiano. Mary Shelley — all'epoca, una geniale diciottenne logorata dall’amore tossico per il poeta Percy — firma un romanzo di formazione elegante e terribile sulla crudeltà del più sapiente tra gli uomini. E continua a dialogare, da due secoli, con la letteratura gotica, il cinema e le serie TV. La nostra immaginazione, infatti, ricama i dettagli sui quali l’autrice sorvola. Perché Frankenstein è vivo, sì. E anima un inseguimento tortuoso e implacabile, disseminando orme e indizi lungo la strada. Forse, vuole solo essere trovato. Perché avere un nemico che giuri di braccarci per sempre — fino in capo al mondo, fino alla fine dei tempi — significa non essere mai più soli.

Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine - Everybody Scream

martedì 7 ottobre 2025

Recensione: Le notti di Salem, di Stephen King

| Le notti di Salem, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 14, pp. 656 |

Per un lungo periodo della mia vita — tra la fine delle elementari e il liceo —non ho letto altro che Stephen King. Nella mia vecchia camera, sul letto, ho una mensola con schierati tutti i suoi romanzi più famosi. Anzi: avevo. Quest'estate ho riposto tutte le mie cose, smantellando scaffali e ricordi, per l'imminente trasloco di papà. La mia adolescenza è in un garage — materiale fragile, maneggiare con cura. Ma ho voluto sottrarne una piccola parte, tenendo fuori dagli scatoloni uno dei pochi classici finora mai affrontati: Le notti di Salem. Tra incanto e terrore, proprio come accadeva da ragazzino, ho realizzato che il me adolescente non sbagliava: Stephen King resta il più grande narratore sulla faccia della terra.

Ogni notte bisogna combattere la stessa battaglia e l'unica cura è l'inevitabile atrofizzazione delle facoltà immaginative, quell'evoluzione che si chiama età adulta.

Scritto sul finire degli anni Settanta, il romanzo è cinema allo stato puro. Benché lontano dall'introspezione di It, contiene già traccia del capolavoro che arriverà qualche anno dopo. Anche qui abbiamo una cittadina immaginaria dove i fantasmi del Vietnam, gli scandali e i segreti affollano le confessioni più nere dei parrocchiani. Anche qui abbiamo un ritorno a casa, alle origini del male, e un gruppo di eroi coraggiosi — accanto a Ben, scrittore in cerca di ispirazione, ci sono un professore a un passo dalla pensione e un piccolo boyscot ossessionato da Houdini. Le assi scricchiolano. Le porte cigolano. Le risate argentine dei bambini ghiacciano il sangue nel cuore della notte. Su tutto e tutti, ritta su un poggio come un dio crudele, domina Casa Marsten: teatro di un misterioso omicidio-suicidio dopo la crisi di Wall Street, attira puntualmente uomini malvagi e, questa volta, diventerà testimone di una mattanza senza pari. Sopravvivranno in pochi.

L'oscurità è quando i mostri ti prendono.

Chi sono gli ultimi arrivati, Staker e Barlow, e cosa contengono quelle casse polverose portate dall'Inghilterra? Che fine hanno fatto i fratelli Glick e perché i cadaveri fuggono via dall'obitorio, tenendo in scacco il borgo? Con un montaggio alternato degno dei maestri del cinema, King segue la lotta alla sopravvivenza dei suoi protagonisti dal tramonto all'alba. Ogni scena è sezionata con attenzione autoptica. Ogni personaggio, perfino il più dimenticabile, ha un background indagato nel dettaglio. I ritmi sono implacabili. Ma è nelle lunghe sequenze corali — le migliori — che King sfoggia tutto il talento di cui è capace, spostandosi in volo da una casa all'altra di Lot. Viene fuori, così, il ritratto oscuro di una America provinciale e perbenista, dove gli eredi di Dracula troverebbero tutt'ora terreno fertile. Tra acqua santa, aglio e paletti, King si diverte come un bambino dispettoso. E cinquant'anni dopo non smette di divertirci, con l'omaggio a Bram Stoker che esisteva — e mordeva — prima di Netfix, prima del binge watching, prima dei remake.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Dead Can Dance – The Host of Seraphim

martedì 30 settembre 2025

Recensione: Mysterious Skin, di Scott Heim

| Mysterious Skin, di Scott Heim. Playground, € 18, pp. 272 |

È possibile raccontare l'indicibile? Scott Heim — autore di culto, nonostante due soli romanzi all'attivo — non conosce tabù. Impavido, chirurgico, cinematografico, affronta a testa alta i trigger warning più destabilizzanti e reinventa il lessico del dolore in una storia che mostra due risposte diverse al medesimo trauma. Il cammino dell'elaborazione non è lineare. Ma lungo, dissestato, tortuoso. Qualcosa di terribile ha segnato per sempre l'infanzia di Brian e Neil. A Hutchinson, Kansas, giocavano nella stessa squadra di baseball. Come si è evoluta la loro sessualità? Quali risposte si sono dati per giustificare le famiglie disfunzionali, i ricordi inaffidabili, le esistente condannate a un eterno limbo? Brian soffre di epistassi e di vuoti di memoria. Fragile e ingenuo, consuma storie di fantascienza da quando ha visto qualcosa di misterioso fluttuare su un campo di cocomeri. Gli alieni esistono e, forse, lo hanno rapito quando aveva otto anni. Neil, da sempre più spregiudicato, ha presto imparato che il sesso è un'arma a doppio taglio — e lui la impugna dalla parte del manico.

A dodici anni avevo visto più tornado che gocce di sangue. Il suo rosso sembrava magnifico e sacro, come un rubino fatto a pezzi.

Sconsigliato ai lettori facilmente impressionabili, Mysterious Skin — diventato anche un film diretto da Gregg Araki — mette subito alla prova con tematiche scabrose e descrizioni di una violenza grafica. Provoca, scoraggia: è un fiume nero, torbido e pericoloso, che non sarà semplice guadare. Ma, dopo un impatto inizialmente scioccante, si apre a una polifonia di voci in cerca di speranza. E si trasforma in un trattato di psicologia, in un giallo, sul più grande dei misteri: la rimozione. I protagonisti hanno dimenticato il passato, ma i loro corpi ricordano — la luce blu di un portico, i lividi, la piovosa estate del 1981. Non tutti i punti di vista appaiono sempre funzionali alla narrazione e, a tratti, l'intensità rischia di disperdersi: sin dall'inizio, infatti, noi lettori sappiamo quanto accaduto. Aspettiamo così che i protagonisti scavino tra le macerie dell'infanzia, che maturino finalmente nuove consapevolezze, in un romanzo che oggi nessuno avrebbe osato né scrivere né pubblicare. Un oggetto non identificato. Una carogna da cui, nonostante le avvertenze di mamma e papà, non riesci a distogliere lo sguardo. 

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead - How to Disappear Completely