Misteriosamente
passata in sordina in Italia – arriverà su Netflix a dicembre –, è già arrivata alla terza stagione in patria. Perché la serie TV
tratta dai romanzi di Anne Rice sta facendo così fatica a trovare il suo
pubblico? Perché io stesso ho recuperato le prime due stagioni dopo
anni di rimandi, per poi rimanere abbagliato da una trasposizione che
– nell'anno dei fasti di I peccatori – brilla per
eleganza di scrittura, efferatezza e sensualità? La storia, già
raccontata in un film con Tom Cruise e Brad Pitt, cambia forma e
dinamiche, ma mantiene immutati il gusto scenografico e le
elucubrazioni. Jacob Anderson e Sam Reid – che nulla,
notorietà a parte, hanno da invidiare al duo originale –
ripropongono l'eterno conflitto tra creatore e creatura, all'interno
di una relazione tossica minata dall'arrivo di Claudia: figlioccia
adolescente avida di libertà. Nella seconda stagione, ci si sposta a
Parigi e, in fuga dalla solitudine, ci si unisce a una congrega. Tra
canti, balli e mattanze, lo spettacolo si fa più
spettacolare ancora e, mentre subentra il nuovo amore per Assad Zaman –
più anziano, più saggio, più costante di Lestat –, si gettano le
basi per uno degli episodi più belli dell'anno. La memoria
di un immortale è sempre infallibile? Si può vivere onestamente,
nonostante il troppo sangue versato? Da questo trio, in una serie opulenta e
imprevedibile come un ballo in maschera, chi non si lascerebbe
azzannare? (8)
È un grande anno per il cinema horror. Per non essere da meno, anche Feltrinelli si è messa al passo con un romanzo citazionista e dalle atmosfere vintage, che farà la gioia e il terrore degli amici cinefili. Ambientato nel cuore degli anni Novanta, in un sobborgo residenziale ormai in decadenza, racconta di una banda di amici con l'hobby dei film di genere e delle bravate. A sedici anni, la morte è un pensiero incidentale. Al TG: qualche incidente stradale, suicidi in sordina, la piaga dell'Aids. Medhi, membro dell'unica famiglia straniera del quartiere, è vittima del bullo della scuola. Alex ha da poco sepolto la madre, divorata dal cancro. Tom, ossessionato dagli insetti, vorrebbe aizzare una scolopendra contro il patrigno. Max, fidanzato con la bella del liceo, è attratto dal gemello di lei. Lena, l'ultima arrivata, è in fuga da un passato violento.
A volte era sembrato a Lena che lei e i suoi amici sarebbero stati in un certo modo eterni e che l'universo esistesse solo per loro, semplicemente perché erano là a posarvi lo sguardo. Ma ormai era consapevole della loro fugacità, fragilità e impermanenza, aveva acquisito quella consapevolezza del tempo che passa, preleva quello che gli devi e non offre in cambio che un po' di oblio.
Tutti hanno le proprie ombre. Tutti sono attratti dalla casa nell'impasse des Ormes. È lì che si manifestano le fobie e i desideri più sfrenati, in un budello infernale a metà tra il sonno e le veglia. Il folgorante Jean-Baptiste Del Amo, colpevolmente scoperto qui e ora, è la luce in un mondo prigioniero della penombra, dove gli incubi si mescolano ai sogni erotici e i bassi istinti prendono il sopravvento. In un angosciante gioco di specchi e doppelganger, sarà impossibile distinguere una dimensione dall'altra e arginare le conseguenze. Derivativo sin dalle premesse, appesantito da una cinquantina di pagine di troppo e non sempre fedele alla sua dimensione corale, La notte devastata resta comunque una lettura sinceramente spaventosa in cui riecheggiano le grida di It, Nightmare, Amityville Horror.
L'innocenza può essere un inferno.
A elettrizzare, tuttavia, non sono soltanto gli insetti giganti, i parti mostruosi, gli sfondi lovecraftiani, ma la descrizione di un'adolescente sensoriale e irrequieta che tanto somiglia a quella dei romanzi del connazionale Nicolas Mathieu. Divisi tra frustrazione, fumo e noia, i protagonisti si scoprono prigionieri di un film horror con la colonna sonora dei Nirvana, in cui l'incanto infantile è ormai spacciato e la consapevolezza del tempo, della diversità e dell'oblio, conducono sulla soglia del più spaventoso dei mondi: quello degli adulti. Si sopravvive alla morte dell'innocenza?
Un laboratorio cavernoso. Un corpo a pezzi, ricucito con rattoppi di fortuna. La scintilla di un lampo. Poi, un’esclamazione di trionfo: è vivo. Eppure, questa e altre scene — radicate, ormai, nell’immaginario collettivo — non esistono nel romanzo di Mary Shelley. Nessun cimitero viene profanato in nome della scienza. Gli omicidi avvengono fuori scena. L’epilogo, struggente, è una promessa di morte poco prima del sipario. Filtrato interamente dallo sguardo di Victor, il romanzo segue la sua biografia dall’infanzia fino alle estreme conseguenze dell’esperimento. Ubriaco di conoscenza, lo scienziato flirta con l’alchimia: non trova la pietra filosofale né l’elisir di vita eterna, ma riesce comunque a imbrigliare la morte — e a restituire respiro alla materia inerte.
L'invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos.
Tra lunghe peregrinazioni dalla Svizzera al Polo Nord e lettere alla promessa sposa Elizabeth, Victor tenta di placare il proprio ardore febbrile e di lasciarsi alle spalle il suo famigerato mostro. Ma non è un caso che, ancora oggi, nominando Frankenstein, si pensi prima alla Creatura — in realtà, senza nome — e solo poi al suo creatore. Pur concedendole meno spazio di quanto ci si aspetterebbe, Shelley fa della Creatura un grande attore non protagonista: un mostro incompreso e gentile, che si commuove spiando la quotidianità di una famiglia di contadini, e legge Goethe, Plutarco, Milton per imparare a distinguere il bene dal male. Tagliato fuori dal mondo, ma animato dalla stessa irrequietezza del suo artefice, seminerà una lunga scia di sangue pur di condannare l’altro alla medesima solitudine.
Se non riesco a ispirare amore, causerò paura.
Tra Svizzera, Francia e Irlanda, a lungo andare i viaggi si moltiplicano; gli elementi raccapriccianti degni di Bram Stoker, invece, scarseggiano. Mary Shelley — all'epoca, una geniale diciottenne logorata dall’amore tossico per il poeta Percy — firma un romanzo di formazione elegante e terribile sulla crudeltà del più sapiente tra gli uomini. E continua a dialogare, da due secoli, con la letteratura gotica, il cinema e le serie TV. La nostra immaginazione, infatti, ricama i dettagli sui quali l’autrice sorvola. Perché Frankenstein è vivo, sì. E anima un inseguimento tortuoso e implacabile, disseminando orme e indizi lungo la strada. Forse, vuole solo essere trovato. Perché avere un nemico che giuri di braccarci per sempre — fino in capo al mondo, fino alla fine dei tempi — significa non essere mai più soli.
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine - Everybody Scream
Per un lungo periodo della mia vita — tra la fine delle elementari e il liceo —non ho letto altro che Stephen King. Nella mia vecchia camera, sul letto, ho una mensola con schierati tutti i suoi romanzi più famosi. Anzi: avevo. Quest'estate ho riposto tutte le mie cose, smantellando scaffali e ricordi, per l'imminente trasloco di papà. La mia adolescenza è in un garage — materiale fragile, maneggiare con cura. Ma ho voluto sottrarne una piccola parte, tenendo fuori dagli scatoloni uno dei pochi classici finora mai affrontati: Le notti di Salem. Tra incanto e terrore, proprio come accadeva da ragazzino, ho realizzato che il me adolescente non sbagliava: Stephen King resta il più grande narratore sulla faccia della terra.
Ogni notte bisogna combattere la stessa battaglia e l'unica cura è l'inevitabile atrofizzazione delle facoltà immaginative, quell'evoluzione che si chiama età adulta.
Scritto sul finire degli anni Settanta, il romanzo è cinema allo stato puro. Benché lontano dall'introspezione di It, contiene già traccia del capolavoro che arriverà qualche anno dopo. Anche qui abbiamo una cittadina immaginaria dove i fantasmi del Vietnam, gli scandali e i segreti affollano le confessioni più nere dei parrocchiani. Anche qui abbiamo un ritorno a casa, alle origini del male, e un gruppo di eroi coraggiosi — accanto a Ben, scrittore in cerca di ispirazione, ci sono un professore a un passo dalla pensione e un piccolo boyscot ossessionato da Houdini. Le assi scricchiolano. Le porte cigolano. Le risate argentine dei bambini ghiacciano il sangue nel cuore della notte. Su tutto e tutti, ritta su un poggio come un dio crudele, domina Casa Marsten: teatro di un misterioso omicidio-suicidio dopo la crisi di Wall Street, attira puntualmente uomini malvagi e, questa volta, diventerà testimone di una mattanza senza pari. Sopravvivranno in pochi.
L'oscurità è quando i mostri ti prendono.
Chi sono gli ultimi arrivati, Staker e Barlow, e cosa contengono quelle casse polverose portate dall'Inghilterra? Che fine hanno fatto i fratelli Glick e perché i cadaveri fuggono via dall'obitorio, tenendo in scacco il borgo? Con un montaggio alternato degno dei maestri del cinema, King segue la lotta alla sopravvivenza dei suoi protagonisti dal tramonto all'alba. Ogni scena è sezionata con attenzione autoptica. Ogni personaggio, perfino il più dimenticabile, ha un background indagato nel dettaglio. I ritmi sono implacabili. Ma è nelle lunghe sequenze corali — le migliori — che King sfoggia tutto il talento di cui è capace, spostandosi in volo da una casa all'altra di Lot. Viene fuori, così, il ritratto oscuro di una America provinciale e perbenista, dove gli eredi di Dracula troverebbero tutt'ora terreno fertile. Tra acqua santa, aglio e paletti, King si diverte come un bambino dispettoso. E cinquant'anni dopo non smette di divertirci, con l'omaggio a Bram Stoker che esisteva — e mordeva — prima di Netfix, prima del binge watching, prima dei remake.
È possibile raccontare l'indicibile? Scott Heim — autore di culto, nonostante due soli romanzi all'attivo — non conosce tabù. Impavido, chirurgico, cinematografico, affronta a testa alta i trigger warning più destabilizzanti e reinventa il lessico del dolore in una storia che mostra due risposte diverse al medesimo trauma. Il cammino dell'elaborazione non è lineare. Ma lungo, dissestato, tortuoso. Qualcosa di terribile ha segnato per sempre l'infanzia di Brian e Neil. A Hutchinson, Kansas, giocavano nella stessa squadra di baseball. Come si è evoluta la loro sessualità? Quali risposte si sono dati per giustificare le famiglie disfunzionali, i ricordi inaffidabili, le esistente condannate a un eterno limbo? Brian soffre di epistassi e di vuoti di memoria. Fragile e ingenuo, consuma storie di fantascienza da quando ha visto qualcosa di misterioso fluttuare su un campo di cocomeri. Gli alieni esistono e, forse, lo hanno rapito quando aveva otto anni. Neil, da sempre più spregiudicato, ha presto imparato che il sesso è un'arma a doppio taglio — e lui la impugna dalla parte del manico.
A dodici anni avevo visto più tornado che gocce di sangue. Il suo rosso sembrava magnifico e sacro, come un rubino fatto a pezzi.
Sconsigliato ai lettori facilmente impressionabili, Mysterious Skin — diventato anche un film diretto da Gregg Araki — mette subito alla prova con tematiche scabrose e descrizioni di una violenza grafica. Provoca, scoraggia: è un fiume nero, torbido e pericoloso, che non sarà semplice guadare. Ma, dopo un impatto inizialmente scioccante, si apre a una polifonia di voci in cerca di speranza. E si trasforma in un trattato di psicologia, in un giallo, sul più grande dei misteri: la rimozione. I protagonisti hanno dimenticato il passato, ma i loro corpi ricordano — la luce blu di un portico, i lividi, la piovosa estate del 1981. Non tutti i punti di vista appaiono sempre funzionali alla narrazione e, a tratti, l'intensità rischia di disperdersi: sin dall'inizio, infatti, noi lettori sappiamo quanto accaduto. Aspettiamo così che i protagonisti scavino tra le macerie dell'infanzia, che maturino finalmente nuove consapevolezze, in un romanzo che oggi nessuno avrebbe osato né scrivere né pubblicare. Un oggetto non identificato. Una carogna da cui, nonostante le avvertenze di mamma e papà, non riesci a distogliere lo sguardo.