Quando
ho smesso di piangere sono andato in cerca delle parole. E' successo
più o meno così. Poi mi sono chiesto come avrei voluto parlarvene e
quale scusa avrei trovato per inserire uno dei film più belli dello
scorso anno – purtroppo, recuperato solo ora – nella Top
Ten del cinema che è venuto nei quattro mesi scorsi e che verrà nei nove successivi. Imbroglierò; regole mie, blog mio. Mommy
finirà in cima al podio e
sull'header, sicuro come solo la morte. E le parole si sono nascoste,
non si sono fatte trovare, perché alla fine più ci tornavo sopra,
più mi rendevo conto che i fazzoletti non sarebbero bastati. A un
certo punto, mi ero trovato con le guance umide senza preavviso.
Succedeva e basta; avevo dato il mio via libera, e giù di goccioloni
furiosi. Quando in casa sono solo e il film è bellissimo rendo di
più. Ci sono i film che vanno pianti, altrimenti li capisci a metà.
Mai pensato che Xavier Dolan – venticinque anni, cinque film
presentati a Cannes; un artista della forma, ma dell'emozione? -, mi
avrebbe regalato una delle visione più indimenticabili e il primo
pianto dell'anno. Maledetto. Ma anche grazie.
Scoperto la scorsa estate, aveva tutto ciò che
odio - presunzione, sicurezza, autorialità – ma un occhio ipnotico: se lo sguardo ne era uscito appagato, il cuore non aveva
trovato pane per i suoi denti. Con lui misuro un cinema che dev'essere sensazione: la
sola forma è come un corpo che invecchia. Resta altro; e quelle
poche benedette volte che resta lo senti nello stomaco. Come le
farfalle che svolazzano o il dopo sbronza che risale. Mommy
è un clamoroso esempio di
cinema d'autore fatto per il mondo. Concezione impossibile, come gli
unicorni e Babbo Natale; paradosso. Ma Dolan nella sua nicchia
sonnolenta non ci sta. Si sentiva imbarazzato quando la
critica lo paragonava ad autori che lui neanche
conosce: non molto tempo fa, infatti, è stato un ragazzino che è
cresciuto considerando genii Cameron, Spielberg e Columbus; un
fruitore orgoglioso di pellicole mainstream; uno col mito dei film
per famiglie vecchio stile – quando nella sua, di famiglia, c'era
invece qualche problema. All'età
in cui c'è chi si laurea e chi scappa all'estero, lui firma il suo
capolavoro. Mommy è
il film per famiglie secondo lui. Suo, suo per forza, ma diverso,
finalmente: parla meno di sé; si emoziona di meno, c'è più
controllo; ma emoziona di più te, con devastazione e dolcezza e
generosità. Il cantante, nei concerti, stona un po' quando deve
cantarti le sue storie d'amore e il suo privato. Allora il regista si
mette da parte, toglie il suo nome dal cast e ci parla, mantenendosi
dietro la macchina da presa, della prima parola che ogni bambino
pronuncia: mamma. Ma la mamma sciagurata della magnifica Anna Dorval
non festeggia il dieci maggio e ha un figlio pazzo che pensa di curare
con il suo amore. Sono una famiglia sgangherata, in cui
altri uomini non sono ammessi, ma - nonostante le botte e gli insulti
- si vogliono bene con trasporto. Sono l'unica cosa che
hanno. Guai a separarli. Lo spettatore entra in casa Dorval insieme
alla vicina di Suzanne Clément, un'estranea che solo in
mezzo a loro, altri estranei, riesce a parlare senza balbettare.
Mommy è universale,
ruvido e purissimo. Esagerato e strabordante. La scena madre, di
solito, è quella che si ricorda. Quella in cui trionfa spontanea la
commozione. Ma Mommy ha
vari finali, troppe scene cult e la fattezza di una continua e lunga
scena madre. Poetica della libertà, inventata da uno che ha
la coscienza di un vecchio e l'iperattività di un bambino che a
scuola purtroppo non fa faville: proprio non vuole capire che deve
scrivere nel rigo giusto, che non deve uscire dai margini. Cerca di
contenersi, perciò, chiudendo i personaggi in un significativo 4:3:
due bande nere ai lati dello schermo, l'immagine come tra parentesi,
Diane e Steve – di rado nella stessa inquadratura – imprigionati
dalla pazzia di lui. Il prodigioso Antoine Olivier Pilon – sedici
anni, la zazzera bionda, il grugno alla Macklemore – sul suo
pianeta irraggiungibile. Che tenta il suicidio e chiede perdono alla
mamma, come se avesse fatto rompere per sbaglio un bicchiere. Che piange, si
dispera, cerca il suo aiuto, come ho fatto io il primo giorno
all'asilo; quando la maestra Luciana le ha chiesto di andare via –
e io piangevo e mamma piangeva – e alla fine è tornata a prendermi,
ma tanto stavo già meglio. Che al karaoke, stonato, le dedica Vivo
per lei – Bocelli e Giorgia in
una surreale colonna sonora che comprende Dido, Lana Del Rey, Céline
Dion, gli Oasis e Ludovico Einaudi. Ci sono giorni cattivi e giorni
buoni, in cui la felicità, a portata di mano, è un'utopia in 16:9:
lo schermo si amplia, le sbarre del carcere si fondono e Steve, a
bordo di uno skateboard, scorazza nella vita vera. Finalmente
organico, finalmente benvenuto al mondo. I figli – e film come
Mommy – so' pezzi 'e core.
(10)
mercoledì 29 aprile 2015
Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornate
lunedì 27 aprile 2015
Recensione: Il manifesto degli attori anonimi, di James Franco
Hollywood
è sempre stata un club privato. Io apro i cancelli. Dico:
“Benvenuti.” Dico: “Guarda dentro.”
Titolo:
Il manifesto degli attori anonimi
Autore:
James Franco
Editore:
Bompiani
Numero
di pagine: 298
Prezzo:
€ 19,50
Sinossi:
Gli
attori di questo romanzo d'esordio sono un commesso di McDonald's che
trascorre i suoi turni provando e riprovando nuovi accenti; un ex
bambino prodigio che ricorda un baccanale sulla spiaggia: volontari
ospedalieri e esuli della provincia americana più profonda;
l'interprete di film sui vampiri che scopre un oscuro testo scritto
da un famoso attore, ormai scomparso nel nulla; per non parlare del
fantasma di River Pheonix. Poi c'è lo stesso James Franco, che si
aggira dietro le quinte occhieggiando tra le righe, prima di prendere
la parola e affascinarci con meditazioni sulla sua arte, oltre che
con inquietanti storie piene di eccessi. Spaziando tra i generi, dal
saggio lirico alla testimonianza disarmante, da messaggi imbarazzanti
a note fantasma, James franco ci fa entrare con leggerezza, humour e
una buona dose di follia nel cuore oscuro della celebrità.
La recensione
Che
strano tipo James Franco. Che bizzarro che è il suo Manifesto
degli attori anonimi.
A
chi consigliarlo, come parlarne, cosa dire e cosa non dire.
Soprattutto, che raccontare di un libro che non ha una storia né un
senso, eppure si fa leggere in un giorno; e piace, perfino, come può
piacere un libro bizzarro, illogico e insensato come questo? Trecento
pagine in cui perdi il filo del discorso ma che vuoi che importi,
venti euro che sono tanti soldi sprecati, l'alter ego dell'autore
che, in una pagina sì e nell'altra pure, ti suggerisce che Il
manifesto degli attori anonimi è l'opera prima di un egocentrico
cronico che non sa scrivere – non una storia dotata di inizio,
svolgimento e fine, almeno - e che, facendoti un astuto lavaggio del
cervello, ti convince quindi un po' del contrario. Ha senso? Prima
che lo scrivessi, comunque, ne aveva. Perché, vedete, nell'istante
in cui si ammette nel libro stesso che si è alle prese con un libro
sconclusionato e inclassificabile e che si sono persi, ormai, soldi,
speranze e tempo, quel libro ti sta improvvisamente simpatico. E dici
qualcosa come tò, guarda, ma è geniale; se non altro ti
convinci a modo tuo che non è stato un acquisto scemo.
L'improvvisato scrittore aveva senz'altro tutti i mezzi per scrivere
un romanzo-romanzo, ma ha giocato la carta dell'originalità e si è
visto pubblicare in tutto il mondo questo simpatico e improbabile
pastrocchio perché è un attore che non ha bisogno di presentazioni;
ma se ne scusa quasi. Mette le mani avanti e in faccia ti sbandiera
il suo essere privilegiato, con un sentimento che somiglia a volte
all'orgoglio, altre al rammarico. Che vuoi farci, amico: non è
colpa mia. Per quello lo scritto arriverà in libreria, per
quello i lettori lo compreranno. Per quello l'ho letto anch'io.
Quando c'è un nome di richiamo in copertina, la storia di un
successo è già scritta. Ma a James Franco non si può dare del
raccomandato. Se lo avessi scritto io, per dire, non mi sarei mai
aspettato un riscontro positivo da un editore, in questa vita e
nell'altra. Io però non ho quella credibilità, quell'esperienza,
quel background e quell'invidiabile faccia di suola che fa innamorare
le spettatrici in sala. Non è come quando Pupo si è dato al giallo;
capiamoci. Dietro al bel sorriso che ha passato anche al fratello
minore e ai capelli arruffati, Franco – che fa lo scemo per non
andare in guerra – lavora per il cinema e il teatro, recita e
dirige, scrive poesie, ha qualcosa come due lauree. Ha una visione
totalizzante dell'arte, tutte le capacità per osare e l'ambizione
tramontata di diventare il nuovo James Dean - era troppo curioso per
darsi ai soli ruoli impegnati e troppo intelligente per andarsi a
schiantare a cento all'ora contro un muro. Gli piacciono la sua vita
al massimo (e a chi non piacerebbe?), le donne (e anche qualche
uomo?), i soldi facili (vi chiedete ancora perché prende parte a
filmoni e filmacci, così, a periodi alterni?). Il mondo del cinema
gli dà il più poderoso calcio nel sedere possibile e lui, graziato
intruso nel panorama editoriale, parla di cose che conosce con un
linguaggio personalissimo, a cui non ci si abitua mai del tutto. Non
ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da una specie di pazzo
suicida che adatta Cormac McCarthy e poi, in un video parodia,
cavalca una Harley e si limona Seth Rogen; pubblica ridicoli selfie
su Instangram e, al Festival di Berlino, presenta due pellicole a cui
ha preso parte non si sa quando. Il Manifesto degli attori anonimi
– uscito prima di In stato di ebbrezza,
ma giunto solo ora in Italia – ha quell'anima ridicola e i
baluginanti sprazzi di onestà. Un Franco nella stanza degli specchi,
in una Hollywood circo: a volte descrive ciò che ha dentro, altre
quello che la superficie lucida riflette. L'attore e la maschera.
Scrittori e attori sono bugiardi per professione. Abbinate i due
mestieri e non ci cavere un ragno dal buco. Il manifesto degli
attori anonimi lo scrive come gli pare, nell'ordine che gli pare
e con quello che gli pare: racconti, riflessioni, esercizi in rima
sciolta che rivoluzionano il concetto di licenza poetica. Episodi
sconnessi e sconci di poca gente che sfonda e di tanta gente che
molla. L'umorismo corrosivo dell'ultimo Cronenberg che gettava
benzina sullo Star System e accendeva il fatale fiammifero; la
volgarità e il sesso sporco dei peggiori glory hole e bar di
Caracas. I danni da metodo Stanislavskij, gli enfant prodiges, i
provini disonesti, un tentativo di antologia di River – ma River
Phoenix l'attore, non Spoon River di Masters. L'autore attore
per tutto il tempo c'è e non c'è: usa la prima persona e ci si
nasconde dietro. In un capitolo è sé stesso, in un altro una sua
ammiratrice fuori di testa, in un altro ancora un patricida mosso da
mille velleità artistiche. Dove voglia andare a parare chi lo sa, ma
si diverte parecchio e tu finisci per diverti con lui. Tipo quando un
amico attacca a ridere e il vicino segue a ruota; come al gioco del
telefono senza fili in cui si perde il perché e il per come ma
chissene. Interessante, a tratti, per gli addetti ai lavori ma non
abbastanza da diventare una guida affidabile in quel mondo di
chiaroscuri che continua a chiamarti. Ricordo che le
avanguardie storiche avevano bisogno di un manifesto e questo
volumetto dai colori fluo, strutturato a mo' di confessione degli
alcolisti – e dei cinefili – anonimi, è dadaista come Duchamp.
Quello dei baffi alla gioconda e del cesso esposto al museo. Ma, caro
James, Il manifesto degli attori anonimi sarà un murales o un
muro chiazzato di vernice? Una fontana o un gabinetto rubato al centro commerciale e messo a testa
in giù? Twittateglielo, taggatelo. Lui, conoscendo il tipo, il
paragone con Duchamp e il suo orinatoio lo farebbe scrivere nelle
fascette promozionali. Piaciuto, ma consigliabile a pochi.
Fan(atici),
radical chic, sballati di cellulosa.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Lou Reed – Walk On The Wild Side
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Recensioni
mercoledì 22 aprile 2015
Recensione: Il miniaturista, di Jessie Burton
Pensavi
di essere una scatola chiusa in una scatola, si dice Nella. Ma il
miniaturista ti vede. Ci vede.
Titolo:
Il miniaturista
Autrice:
Jessie Burton
Editore:
Bompiani
Numero
di pagine: 440
Prezzo:
€ 18,00
Sinossi:
In
un giorno d'autunno del 1686, la diciottenne Petronella Oortman
Nella-fra-le-nuvole è il soprannome datole da sua mamma - bussa alla
porta di una casa nel quartiere più benestante di Amsterdam. È
arrivata dalla campagna con il suo pappagallo Peebo, per iniziare una
nuova vita come moglie dell'illustre mercante Johannes Brandt. Ma
l'accoglienza è tutt'altra da quella che Nella si attendeva: invece
del consorte trova la sua indisponente sorella, Marin Brandt; nella
camera di Marin, Nella scopre appassionati messaggi nascosti tra le
pagine di libri esotici; e anche quando Johannes torna da uno dei
suoi viaggi, evita accuratamente di dormire con Nella, e anche solo
di sfiorarla. Anzi, quando Nella gli si avvicina, seduttiva, memore
dell'insegnamento della mamma ("Il tuo corpo è la chiave,
tesoro mio"), lui la respinge. L'unica attenzione che Johannes
riserva a Nella è uno strano dono, la miniatura della loro casa e
l'invito ad arredarla. Sembra una beffa. Eppure Nella, che si sente
ospite in casa propria, non si perde d'animo e si rivolge all'unico
miniaturista che trova ad Amsterdam. Nella rimane affascinata da
questa enigmatica figura che sembra sfuggirle continuamente, anche se
tra loro si mantiene un dialogo sempre più fitto, senza parole, ma
attraverso piccoli, straordinari manufatti che raccontano i misteri
di casa Brandt. Amore e tradimento, rancori e ossessioni, sesso e
sete di ricchezza s'incontrano tra i canali di Amsterdam...
La recensione
Benché
ci viva immerso, non amo la storia. Ieri era storia, oggi è storia,
domani sarà storia. Si fa attorno a noi, continuamente; si crea dai
meeting strategici dei politici e dai nostri troppi sbagli. Ho però
la testarda convinzione che tutto ciò che ci abbia a che fare –
dagli sceneggiati in tivù ai seminari all'università, dai romanzi
di genere alle parate in costume nei paesini dell'entroterra – sia
di per sé noiosissimo. Provando a convincermi del contrario,
buttereste via il fiato. Ho un'alta soglia di sopportazione, non
lascio le cose a metà, ma guardandomi alle spalle vedo Maria Stuarda
e Francesco II – belli come solo in casa The CW capita – e non
saprò mai se avranno eredi e se vivranno in pace, ma Wikipedia mi
assicura in anticipo di no; Enrico VIII e le sue numerose mogli,
anche se al tempo dei Tudors mi sono fermato alla
Anna Bolena con il viso di Natalie Dormer e non ho avuto voglia di
conoscere altre infelici consorti; Marco Polo che è arrivato in Cina
ma non è tornato, e un Cristoforo Colombo che non ha scoperto
l'America nella prossima puntata, sarà che non ho voluto guardarla
io. Insomma: una parata di sete e broccati, un ballo in maschera di
accenti diversi e intrighi dinastici, e io che mi accontento di
conoscere chi sarà re e chi sarà regina, chi sarà ricordato e chi
sarà dimenticato, chi vivrà e vedrà coi pratici riassunti della
Rete. Imbrogliando. Il miniaturista è stato letto –
e apprezzato – da una persona che non ama il genere, pensava
sinceramente di annoiarsi per gran parte del tempo, ma non poteva
rinunciare – proprio no -, per la sua tipica voglia di possesso, a
sfoggiare quella splendida copertina sui ripiani più alti della sua
libreria. E' una specie di quadro nel quadro, e
l'autrice sceglie di riempirlo, di disegnare figure negli spazi
bianchi; una città straniera in cui tutto ha un prezzo fa da
fondale incantato alle vicende di Nella, sposa vergine, e a quelle di
chi vivrà con lei i primi – e unici – mesi di un matrimonio
complesso: Johanness, il marito mercante che le compra regali costosi
e non la sfiora neanche con un fiore; Otto, servitore dalla pelle d'ebano che il padrone
di casa ha portato con sé dai suoi viaggi esotici; Cordelia, vispa domestica
con cui è impensato che un segreto rimanga tale; Marin, cognata altera
e amareggiata che ha la forza – e la limitatezza – di ogni donna
del suo controverso tempo.
Quest'ultima, anche se tra ruoli e
comparse frequenti è difficile scegliere, è il personaggio più
interessante: ancora più di Nella, troppo ingenua e infantile per la
vita. Crescerà, capirà. Marin, adulta, già ha capito, e quel suo
misto di rigore e discrezione – con una stanza da letto che è un
scrigno di desideri proibiti, una lettera d'amore che prende polvere
tra le pagine, tutti i Paesi che cerca sulle carte geografiche e non
vedrà, per forza di cose, mai – devasta e conquista. Il
regalo di nozze di Nella è una miniatura perfetta della casa in cui
vivrà come ospite e non come padrona, e a compromettere
l'immobilismo di quel museo di silenzi un burattinaio che legge tra
le righe, preannuncia nuove nascite, anticipa tragiche morti. Le sue
creazioni – copie in scala dei Brandt – portano i segni di ciò
che sarà. Il miniaturista è uno spaccato di storia
vera che corre sui binari del mistery e sul filo del brivido; ma
anche una girandola di amori contrastati, un thriller giudiziario, un
ritratto coinvolgente della condizione femminile e la denuncia
originale di diversità che venivano punite con la pena di morte. Tutto ha il
giusto spazio in quello stipetto; non si sta stretti. La Burton non
annoia, non confonde e intesse una trama arzigogolata di cui viene a
capo come per magia, solo lei sa come. Nervi d'acciaio, polso fermo, pazienza.
Il miniaturista è tante cose,
troppe, ma non si rivela una lettura pesante. Ricchissimo,
poteva conservare un colpo di scena o una tematica superflua per
un'altra storia; la successiva. Sarebbe stato ugualmente bello, se
fosse stato più semplice. Ma il barocco horror vacui della Burton non è, per fortuna, di quelli nocivi. L'ho letto all'inizio stando un po' sulle mie, con un
piede dentro e un piede fuori dall'uscio di casa Brandt, e poi ci
sono caduto dentro a capofitto, come nella tana senza fondo del
Bianconiglio. Tutt'intorno, mentre cadevo e cadevo e cadevo, elisir e
spezie, tazzine fragili che stanno sulla punta di un dito, montagne
di zucchero che valgono oro. Davanti a me, sul fondo buio,
infinite porte, sentieri di mele avvelenate, la possibilità di scegliere. Ho scelto di
dare un morso al biscotto sbagliato e di farmi minuscolo, a misura di
lillipuziano. Il mio movente, lo stesso della protagonista: una
disgraziata curiosità. Come rinunciare al potere della suggestione,
al mistero, al richiamo delle cose belle? Come camminare in un tempio
e non guardare in alto, verso le volte, i colonnati, le colombre
prigioniere; come non spiare dalla serratura i loschi e passionali
inquilini di una casa di bambole? Si cede perciò al compromesso. Ci
si fa piccini, nelle mani esperte del Miniaturista, e
quella Amsterdam seicentesca magistralmente rievocata sembra ancora
più tentacolare, vera e grande: basta fidarsi di un'esordiente che
non sembra un'esordiente; di un mago che non risponde se bussi alla
sua porta sotto il segno del Sole e che, quando tutto sarà finito,
saprà riportarti alle dimensioni normali, sempre che tu lo voglia;
di un sontuoso gioco di prestigio che maschera la storia da farsa e
la farsa da storia, rendendo l'antichità più appetibile e la
finzione più nobile. Trucco semplice, se si ha una prosa che è
una favola e la fantasia per costuire, mattone dopo mattone,
un'architettura modernissima che mira al cielo e ogni tanto barcolla,
ma, tranquilli, non crolla. Jessie Burton è la straordinaria artefice di un quadro
poliforme, e la sua personalità sta nella dipintura dei chiaroscuri
dei cuori e delle menti e in dialoghi ritmati che si
inseriscono credibilmente nel contesto storico in cui ci muoviamo; ma
soprattutto di una raffinata cornice che non si scorda. Anche così, strappata
la tela, agganciata a un chiodo nudo, sarebbe un oggetto prezioso da appendere alla parete della
vostra stanza più luminosa.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Birdy - Shelter
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Storico
domenica 19 aprile 2015
Recensione: L'estate del bene e del male, di Miranda Beverly-Whittermore
Se vuoi
diventare una Winslow, dovrai cambiare ciò che significa essere un
Winslow. Dovrai far cadere tutti loro.
Titolo:
L'estate del bene e del male
Autrice:
Miranda Beverly-Whittermore
Editore:
Sonzogno
Numero
di pagine: 412
Prezzo:
€ 18,50
Sinossi:
Dopo
aver vinto una borsa di studio per un college prestigioso dell'East
Coast, l'intelligente ma ordinaria Mabel Dagmar si trova a essere
compagna di stanza della ricca e capricciosa Genevra Winslow. Mabel
viene subito stregata dal mondo aristocratico di Ev e, contro ogni
previsione, tra le due ragazze nasce una forte amicizia. Così quando
Ev invita Mabel a passare l'estate a Winloch, la centenaria proprietà
di famiglia affacciata su un lago del Vermont dove il potente clan
Winslow ama radunarsi, Mabel accetta senza pensarci due volte. Lì,
tra bagni di mezzanotte, gite in barca, feste e fuochi d'artificio,
Mabel si rende conto di avere trovato tutto ciò che ha sempre
desiderato: l'amicizia, l'amore, il lusso e, soprattutto, per la
prima volta nella sua vita, la sensazione di far parte di qualcosa di
bello e felice. Tuttavia, a mano a mano che l'estate avanza, Mabel
avverte che sull'abbagliante perfezione dei Winslow si allungano
ombre inquietanti che affondano le radici in un tempo lontano. Mentre
indaga sui loro segreti, Mabel si ritrova a lottare con i demoni del
suo stesso passato e scopre che a volte il Bene non è altro che una
maschera. E che nell'eden di Winloch si nasconde un Male che forse
solo lei è in grado di fermare. La ragazza dovrà scegliere:
affrontare l'orrore che batte nel cuore del clan e farsi cacciare da
quel paradiso, oppure lasciarsi sedurre dallo splendente futuro che
le viene offerto.
La recensione
| Amy Merrick |
Ogni
romanzo ha una storia. Una doppia storia. Quella che scrive l'autore
e quella che gli fa vivere, poi, il suo lettore. Sono un padrone
degenere e ai miei sfortunati libri, qualche volta, tocca aspettare
il loro turno o, per meglio dire, i miei comodi. Da accumulatore
compulsivo, voglio più cose di quante possa leggerne: storia
risaputa. L'estate del bene e del male, mi sono
detto, dovevo averlo; con quella copertina lì – un'evocativa e
calzante illustrazione della brava Maria Cecilia Azzali – non
poteva starsene in un angolo. Mi sono avvicinato alla storia della
famiglia Winslow – una storia di bugie e apparenze – grazie alla
sua stessa apparenza: anche l'occhio vuole la sua parte, ragionando
per proverbi. E siccome la Sonzogno affida le sue copertine a grafici
non solo esperti, ma che ti danno perfino l'impressione – e puoi
giurarlo quasi, a fine lettura - di averlo assorbito prima di te,
quel racconto, per poi rappresentarlo nel dettaglio su un solo foglio
di carta, volevo proprio sapere perché l'illustratrice avesse
disegnato i rovi di spine, le ragazze ficcanaso, gli alberi che
bucano barbaramente le case, la luna piena in cielo quando è giorno.
Correva il periodo della sessione invernale, e il resto è risaputo.
Libri brevi, storie semplici, romanzetti, per stare dietro a blog e
università. L'esordio di Miranda Berverly-Whittermore, più di
quattrocento pagine e una mole non indifferente, ha la sfortunata
fortuna di non fare parte della categoria. Ma meglio così; meglio
per me. Con il caldo di questa primavera che finalmente si sta
mostrando generosa, nei ritagli di tempo in poltrona o in balcone,
visto che i prossimi esami sembrano con l'inganno lontani lontani, mi
sono goduto un romanzo gotico in piena regola che però, coi castelli
diventati cottage e le precettrici arrampicatrici sociali in erba,
gli alberi genealogici che marciscono nel basso delle loro storie
famigliari di abusi e figli bastardi, ha scenari vacanzieri e un
clima da sogno che, pur con le notti illuminate dai fuochi
d'artificio del quattro Luglio e lampi e tuoni severamente banditi
dall'idillio, ben poco contribuiscono a rassicurare. Oscuro, anche
alla luce del sole. Con le ombre che si allungano sui picnic come in
un dipinto di De Chirico e nell'immaginazione diventano coltelli
affilati. Misteriosissimo e sfuggente, benché non ci siano svolte
lasciate al caso. L'estate del bene e del male lo
avrei letto anche in tempo di studio, con la stessa fretta e
curiosità di adesso, e sarebbe stato una autentica distazione; io
che, al contrario, lo avevo momentaneamente accantonato pensando
fosse troppo prolisso e impegnativo. E' un romanzo da gustare in
vacanza, mentre l'ozio e il relax sottratti alla routine ti aiutano
ad entrare, all'inizio, in quel mondo che non avrai mai. Non la
classica lettura da ombrellone, intendiamoci, ma ottima per avere con
sé – quando si è in ferie – un libro veloce e ineditamente ben
scritto. Il mio “ineditamente” non è inserito a caso: ritmo e
descrizioni particolareggiate come quelle della Whittermore raramente
vanno d'accordo, ma leggendo in media cento, centocinquanta pagine al
giorno mi sono accorto di essere in presenza di un esordio da tenere
d'occhio; un'eccezione.
Un'eleganza che non è dei nostri tempi, una
scrittura consapevole, un intreccio simmetrico e sottilmente
inquietante che inchioda alle pagine, dopo una prima metà da romanzo
di formazione. Ha storie dentro storie, trame e sottotrame, capitoli
concisi e funzionali che aiutano a metabolizzare i colpi di scena e
la miriade di stranezze che si porta in valigia – e in testa - una
narratrice precoce, omertosa e difficile da amare. Mabel Dagmar è la
ragazza con i tacchi rossi che spia dalla finestra, in copertina:
diciott'anni e una voce già matura, una famiglia con cui ha rari
contatti, una migliore amica che la sfrutta e che lei sfrutta a sua
volta, nella maniera dei ladri e delle sanguisughe. Origlia segreti,
ruba dettagli impercettibili, ha il voyeurismo dell'ospite che, da un
momento all'altro, ha paura sarà invitata a ritornare a casa sua:
così fa il suo meglio e il suo peggio; spreme, sviscera, seziona e
osserva. Spettatrice esterna di un mondo che disprezza e adora;
guardiana di una famiglia perfetta di cui vorrebbe fare parte o che
forse desidera rovesciare dall'interno, in un colpo di stato scandito
dai colpi di scena.
Suscita antipatia, a tratti, al pari
dell'inarrivabile Genevra – la prima bisognosa di tutto, l'altra
viziatissima; l'una sospettosa e scaltra, l'altra superficiale come
chi è facoltosa, avvenente e non poteva chiedere di certo anche la
brillantezza nel pacchetto – ma ha una malizia, nella voce, che
intriga e un contraddittorio desiderio di successo che riconosci
anche come tuo, dando giusto un'occhiata ai cassetti in cui hai
riposto i sogni di gioventù e agli armadi in cui, invece, tieni
gelosamente i tuoi cari scheletri. Siamo tanto diversi da lei quando,
con un moralismo che nasconde solo la peggiore forma di invidia, al
cinema o in televisione sbirchiamo di sottecchi le vite di chi fa
spese folli, festeggia senza un perché, indossa abiti eleganti ai
brunch, nasconte sotto il tappetto lo sporco di dipendenze viscide e
pulsioni sessuali fuori controllo? Lo sguardo di questa intrusa, un
angelo stonato in un Eden di bellezza e prosperità, è accattivante.
Gli occhiali da sole calati sulla punta del naso, un grande classico
sul petto che tanto non riuscirà a leggere alla fine dell'estate, un
posto d'onore sulle sponde del lago mentre gli altri fanno un tuffo
dove l'acqua è più nera. E le zie straparlano, e i padri di
famiglia sono lussuriosi bugiardi, e i Van Gogh in soggiorno
nascondono, sul retro, la storia di uno scandalo sepolto nel tempo.
Alcune porte vengono chiuse a doppia mandata, altre vengono
spalancate ad amori selvaggi e al brivido dell'omicidio. Tra comparse
e parenti acquisiti, in quella patinata foto di famiglia non c'è
nessuno – alla fine del romanzo – che non conosci. Tutti
sorridenti, tutti biondi, tutti vestiti di bianco. In un luogo
defilato, però, c'è una ragazza che coi suoi chili in più e i
capelli scuri è fuori posto. Messa lì, in mezzo a bambini come
putti e a matriarche senza rughe, sembra il ritaglio di un collage
inserito a casaccio. L'estate del bene e del male,
da giugno ad agosto, racconta la stagione della sua maturità. Chi
sono gli splendidi Winslow, e chi è l'infiltrata invidiosa e
pungente che, per tutto il tempo, te li racconta, restando
nell'ombra? Le risposte in un romanzo che è un giallo ma non solo,
che calcola quanti anni contano gli alberi di quel bosco privato e
smaschera le preoccupanti incongruenze dei loro nodi di legno e DNA. Mi limito a parlarne vagamente, perché se raccontato in poche righe
sembrerebbe un'infinita soap opera. Forse per certi versi lo è, ma a
fare la differenza è la credibilità di un'autrice che nasce qui, eppure è già bravissima.
“Attenta
alla retorica di Lucifero. Ti sedurrà con il suo carisma”. Aveva
sorriso e picchiettato con un dito sul mio libro. “Non ho ancora
cominciato a leggerlo veramente.” “Be'” aveva replicato lei,
“allora magari un giorno saprai ciò che intendo. E come l'oscurità
infetta quelli che tra noi non possono resistere a una storia
succosa”. I suoi occhi si erano illuminati, maliziosi. “Fa'
attenzione. Tu sembri proprio quel tipo di ragazza.”
E io
sono quel tipo esatto di ragazzo.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Lorde - Team
“Dancin’
around the lies we told
Dancin’ around big eyes as well...”
Dancin’ around big eyes as well...”
venerdì 17 aprile 2015
Mr. Ciak: Wild, This is where I leave you, Clown, Cub, Annie, The Loft, Cymbeline (tanti; a Pasqua è stato brutto tempo)
martedì 14 aprile 2015
Recensione: Ladri di sogni, di Maggie Stiefvater - Blog Tour
Certe
cose vogliono essere trovate.
Titolo:
Ladri di sogni – Raven Boys
Autrice:
Maggie Stiefvater
Editore:
Rizzoli
Numero
di pagine: 519
Prezzo:
€ 16,00
Sinossi:
La
magica linea di prateria è stata risvegliata e la sua energia
affiora. I ragazzi corvo, un gruppo di studenti della scintillante
Aglionby Academy, sono sulle tracce del mitico re gallese Glendower,
che dovrebbe essere nascosto nelle colline intorno alla scuola. Con
loro c'è Blue, che vive in una famiglia di veggenti tutta al
femminile. A lei è stato predetto più volte che quando bacerà il
ragazzo di cui sarà davvero innamorata, questi morirà. Sulle prime
sembra che il suo cuore batta per Adam, ma forse è Gansey quello che
ama davvero... Intanto Ronan s'inoltra nei suoi sogni, da cui può
uscire di tutto. Del resto è uno che ama sfidare il pericolo. Mentre
il tormentato Adam, con un passato pesante alle spalle, s'inoltra
sempre più in se stesso, cercando una sua strada nella vita. Nel
frattempo c'è un individuo sinistro che è anche lui sulle tracce di
Glendower. Un uomo pronto a tutto.
La recensione
Ormai
non dovrei trovare più la cosa imbarazzante. Mi è capitata
abbastanza spesso da diventare consuetudine. Essere coinvolto
in un Blog Tour organizzato in grande, scegliermi la tappa più
comoda e ritrovarmi a parlare, mio malgrado, con la difficoltà di
chi dovrebbe pubblicizzare un romanzo e non sconsigliarlo, di una
storia che non mi è piaciuta. Il rischio c'è sempre, ma non pensavo
potesse esserci con una come Maggie Stiefvater. Scrittrice
poliedrica, bravissima, che mi aveva incantato con il dolce Shiver
e spettinato a dovere con lo
sfacciato e originale Raven Boys.
Due facce dell'urban fantasy, due volti dello stesso talento. Adoro
lei, ma ho un problema con le saghe. Mi faccio affascinare dai volumi
introduttivi, spesso li lodo, ma poi dimentico l'importante nel tempo
che passa – se tutto va bene, un anno; se tutto va male, una vita –
tra un capitolo e l'altro. Se solo non leggessi altro nel frattempo.
Se solo tutti i libri fossero memorabili. Raven
Boys mi
era piaciuto, aveva avuto quattro stelle piene e menzioni speciali
nel classificone di fine anno, ma avevo colto poco dell'idea di base.
Volontà dell'autrice, immaginavo, perché una che crea una famiglia
di personaggi tanto interessanti, dotati di vita propria, non poteva
non sapere dove portasse la sua stessa serie. Ho iniziato a leggere
il sequel, carico di speranze, mentre preparavo Letteratura Latina.
Non andava né avanti né dietro, non scorreva, e avevo pensato che
Maggie e Virgilio fossero inconciliabili. Momento sbagliato; colpa
mia? La mia tappa è slittata fino ad oggi, perciò senza esami e
università – nel periodo beato delle vacanze pasquali – non
avevo scusanti. La copia che ci eravamo passati noi blogger,
oltretutto, piena di post it e appunti a matita, così simpatica e
così vissuta, faceva da piacevole incentivo. L'ho iniziato da zero:
amici come prima. E più leggevo, più andavo avanti, superato il
blocco non da poco delle prime centocinquanta pagine, più capivo che
l'abbandono della prima volta non era stato un caso. Non condividevo
l'entusiasmo che sprizzavano le emoticons e le note dei colleghi che
mi avevano preceduto, mi annoiavo parecchio.. Ecco, mi sono detto:
ancora io, l'alieno fuori dal mondo. La pecora nera dei Blog Tour. Dà
dà dà dà... Perché,
non vi addolcisco la pillola, a me Ladri
di sogni
alla fine dei conti non è piaciuto. Amo le cose ben scritte, ma odio
quelle inconcludenti. Perdere tempo con persone che si inseguono la
coda, girando in tondo. La Stiefvater firma un romanzo scritto come
lei sa e vende fumo come lei e i centralinisti Vodafone sanno. Siamo
a quota mille pagine, continuo a capirci pochissimo del mondo dei
rampolli della Aglionby, mi incazzo. C'è qualquadra che non cosa.
Tipo cinquecento pagine: piene piene di parole, anche scorrevoli dopo
la legnosità dei primi capitoli, ma che introducono due soli nuovi
personaggi e la dote misteriosa del ribelle Ronan, che tra l'altro
svela anche il titolo e dunque tanto misteriosa non è. Da
comprimario a protagonista il passo è breve e lui – i muscoli, il
tatuaggio, i capelli corti: antipatico cronico che risulta adorabile
a tutti, ma a me no: Ronan, va' fiero di me, io capisco il tuo
caratteraccio – si presta agli apprezzamenti delle giovani lettrici
e alle possibili situazioni da fanfiction. Situazioni che ho
riscontrato anche qui, in momenti ironici che ho trovato grossolane
cadute di stile, autoreferenziali e compiaciute al limite del
fastidio. Il tutto sottolineato dai dettagli sugli addominali di uno
e sul profumo di un altro (“menta e grano”: eau de Pastiera, e
che è?) e dalla presenza di un antagonista tamarro che rimarca la
mia infelice impressione con battute scollacciate e ipotesi di
triangoli alla True
Blood o
alla Renato Zero.
Eppure Ladri
di sogni piace
anche a chi certi meccanismi li detesta: non solo io, dal mio
personale punto di vista, li ho riscontrati, ma li ho trovati
aggravati da dilungaggini che stavolta non mi sono andate giù e da
rimandi alla prossima puntata che fanno girare le scatole. Mi ha
catturato poco, me lo sono trascinato e ogni peletto mi è parso una
trave. Compreso quello stile che inseguo e ricerco – con gli
avverbi frequenti, una coppia di aggettivi per tutto, i colori e gli
aromi che emergono ad hoc – un po' rococò. Le cose assolutamente
positive: le ambientazioni particolareggiate, la traduzione ben fatta
– più sicura e sciolta, le adorabili donne del 300 di Fox Lane e
lo spietato ma non troppo Mister Gray. Killer, cercatore, factotum
che mette una pietra – letteralmente – sul quasi omonimo di E.L
James e ricorda i romantici e gentili sicari on the road di un certo
Stephen King. Di Ladri
di sogni
vi hanno detto di tutto e di più e, per il resto, vi rassicurerà la
media vertiginosa su Anobii che non mi spiego. Scorro le pagine e
arrivo alla conclusione. Sui post-it volanti delle blogger prima di
me c'è l'attesa, l'entusiasmo, i conti alla rovescia per quel Blue
Lily, Lily Blue che
chissà se vorrò leggere. E io mi sento tagliato fuori, col mio fare
il bastian contrario. Come quando in quelle scampagnate colossali a
casa di amici di amici ti senti fuori posto e non riesci a trovare spazio in mezzo a capannelli di persone che chiacchierano,
ridono, spiluccano stuzzichini dandoti le spalle. E' stato così
anche con i Ragazzi Corvo, questa volta. La Aglionby ha rifiutato la
mia domanda di ammissione (ma tanto io punto a Hogwarts, sappiatelo) e loro parlavano dei fattacci loro – re
sepolti, linee di prateria, baci che uccidono – facendomi sentire
indesiderato nella loro cerchia diventata vip.
Il
mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Imagine Dragons - Demons
Il mio consiglio musicale: Imagine Dragons - Demons
domenica 12 aprile 2015
Dear Old Mr. Ciak #1: Once, A Single Man, Il discorso del re, Tra le nuvole
Buona
domenica a voi, amici, con una nuova rubrica che tanto nuova non è. Non mi piaceva, quando capitava di parlarvi
di un film uscito da più di qualche anno, inserirlo negli
stessi post con le novità al cinema o robe sconosciute, viste in rete coi
sottotitoli. All'occorrenza, insomma, il solito Mr. Ciak vi parlerà di “care e vecchie” conoscenze.
Per quando riguarderò cose che già conosco; o per quando, con lo spirito del rigattiere, pescherò dal cilindro (o dall'hard disk) film che mi ero perso. Si spera soprattutto cose belle.
[2009] Colin Firth, vittorioso a Venezia, ambiva alla statuetta per il Miglior Attore. Era il tempo in cui non mi prendevo la briga di fare le ore piccole per dare un'occhiata, prima della cerimonia, alle pellicole in lizza e in cui il radical chic era l'equivalente di un grosso segnale di pericolo. Evitavo certi film, pensando non fossero cosa mia. E non sono tutt'ora cosa mia, ma il melodramma di Tom Ford declinato interamente al maschile, col suo suggestivo sposalizio di autorialità e rigorismo, ha fascino - prima volta al cinema di uno stilista di fama mondiale, indiscusso arbiter elegantiae anche per il profano che fa spesa da H&M. Arriva all'anima, e soprattutto agli occhi, attraverso il canale a senso unico dell'eleganza. La storia di George, professore gay di mezza età nella Los Angeles dei primi anni '60, è quella di un uomo solo. Di un vedovo nel cuore che si trascina tra lavoro e vita privata, sfiorando cupi pensieri suicidi e richiamando, con incubi in bianco e nero, l'inizio e l'epilogo della sua storia d'amore. Si sono voluti bene per sedici anni, nella loro casa di vetro da falsi scapoli. Quando Jim è morto, George non ha raccontato a nessuno, se non alla sua migliore amica, lo strazio immane di quella perdita clandestina. Erano gli anni della Guerra Fredda, dei cartelloni che pubblicizzavano Psycho e degli aspiranti sosia di James Dean, ma ci si preoccupava di dare un senso all'amore. Firth, con il suo classico aplomb britannico e un'incredibile somiglianza col nostro Mastroianni, bravissimo per me lo è sempre, ma qui di più. Completi scuri d'alta sartoria e un film intero cucito addosso, in cui si muove con lo sguardo appannato ora dal pianto, ora dal desiderio, e una pistola carica a portata di mano. Rigido, serio, colto si specchia in una trama che assume per osmosi le sue movenze. A Single Man è così, impeccabile ma trattenuto. Si piange addosso solo in una delle prime sequenze, dopo una chiamata che stronca una vita, ma sarebbe una blasfemia dire che non comunica anche a modo suo, col controllo di chi vorrebbe confessarti la sua perdita, ma non può. E incorniciati ad hoc risultano più avvenenti del solito la meravigliosa Julianne Moore, che ha un ruolo breve ma significativo; il giovane Nicholas Hoult, con gli occhi di un azzurro irreale e i tratti scultorei; Matthew Goode, visto sempre qui e lì, ma mai colto impreparato. Le mascelle volitive, le labbra carnose, bellezza semplice e senza inganno, messe in risalto come in pittura. Il nudo, eroico, mostrato con una virilità davvero poco queer, dunque inattesa. Ford, con una fotografia languida e scene acquose, colpisce per lo splendore formale che va ricercando nei dettagli più minuti, mentre con voce spezzata ti racconta il più crudele e nudo dei dolori. Quello che, spaventosamente universale, è vietato svelare. (7,5)
[2009] Un
protagonista che colleziona miglia e teste per un'altra commedia
d'autore che, sempre agli Oscar, con un numero sproporzionato di
candidature, si era fatta notare. Quando i film selezionati non
sembravano dovere durare per forza dieci ore, la giuria era meno snob, i capricci sentimentali del divo brizzolato facevano
sognare le casalinghe. L'era d'oro di Reitman jr. che poco
prima aveva lanciato Ellen Page in una commedia indie che è già cult.
Ora, meno irriverente e pubblicizzato, trova fredda accoglienza
all'estero, ma non ci fa scordare che resta sempre in
gamba. In Tra le nuvole sembra un Cameron Crowe piacevolmente
imbastardito: dirige una commedia romantica, infatti, che parla del
più cinico degli amori. Quello verso sé stessi: il solo a
non darci buca. La regia è convenzionale, ma lui ha una
cifra stilistica inconfondibile che si nota in uno script arguto
e nella semplicità delle intenzioni, elevate grazie a un cast
ottimo e a dialoghi che sono il segreto di tanto
successo. La trama, solita ma con
un retrogusto che turba, segue le vicende di un
cinquantenne che non sta fermo. Vive a cavallo dei fusi orari e per il senso di stordimento da jet lag. Lui è quello che,
in periodo di crisi, ha licenziato una persona che conosci. Quando l'avvento della modernità
minaccia di di renderlo finalmente
sedentario, che sarà della sua
voglia di vivere sospeso in eterno, nel blu dipinto di blu? La
rivelazione Anna Kendrick, squalo in erba, già allora
spiccava per quella simpatia che adesso l'ha resa richiestissima. Vera Farmiga, quarantenne di un altro pianeta, sbocciava piano e in ritardo: Reitman l'ha
aiutata. Insieme a lei – coppia di romantici coi giorni contati, cuori in scadenza – il George Clooney di cinque anni fa, lo scapolo
ambitissimo, con la
maturità che ha trovato da poco. Si sa che i film e le
sceneggiature, se brillanti, accorciano i tempi. E che le
stanze vuote sul lago di Como, se viaggi in solitaria, non si
riempiono come per magia. Lui, che mi sta mortalmente antipatico
nella vita vera, qui dovrebbe fare altrettanto, e avrebbe davvero il
gioco facile, ma il suo vagante Ryan Bingham – sincero come uno mai si aspetterebbe – suscita qualcosa che somiglia all'empatia. A volte, se ti
fermassi a pensare a cosa ti rimarrebbe, a chi ci sarebbe per te, ecco... sarebbe la fine. Hai presente la sensazione? Perciò fa' una valigia e via; parti. Vola
sul mondo. Senti le lancette scorrere, e ignora: rimanda. Sii passeggero della tua vita, come in Iggy Pop. (7)
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