venerdì 31 luglio 2015
Dear Old Mr. Ciak: Il sospetto, A Royal Affair, Amanti Criminali, Bronson, The Ring
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mercoledì 29 luglio 2015
Recensione a basso costo: La ricchezza, di Marco Montemarano
Io
sono accucciato dietro di loro e la mia faccia spunta dalla cornice
formata dai loro fianchi. Sembra un fotomontaggio. E ora so che se mi
sono infilato tra loro è perché non ho una vita mia.
Autore:
Marco Montemarano
Editore:
Beat – Neri Pozza
Numero
di pagine: 271
Prezzo:
€ 9,00
Sinossi:
A
quindici anni Fabrizio Pedrotti è già un gigante. È bello, è un
leader. A scuola è attorniato da una folla di cortigiani, e il mondo
gli si srotola ai piedi come un tappeto. Un giorno del 1975, nel
corridoio di un liceo romano, Fabrizio sceglie Giovanni come amico.
Gli mette una mano sulla testa e lo elegge a suo scudiero. Poi lo
ribattezza Hitchcock e lo accoglie nella cerchia più intima della
sua famiglia. Nel lussuoso appartamento dei Pedrotti,
Giovanni-Hitchcock si muta nel testimone della vita dell'intero
nucleo familiare. Riesce a scorgere il padre, un onorevole
perennemente assente da casa, in una imbarazzante intimità; si rende
subito conto della svagata cortesia ed estraneità della madre;
stringe amicizia con Mario, il fratello minore, un ragazzo gracile,
un fantasma in pantofole che rasenta i muri aprendo e chiudendo in
silenzio le porte; ha una relazione clandestina con Maddalena, la
seducente sorella; e infine apprende il lato nascosto, la zona
d'ombra del rapporto tra Fabrizio e il fratello. Al fianco dei
Pedrotti, Giovanni abbraccia completamente l'identità di Hitchcock.
Al punto tale che si convince persino di aver determinato la rovina e
l'infausto destino di Fabrizio, Mario e Maddalena con un atto
scriteriato. Finché, con il trascorrere degli anni, e l'irrompere
della maturità, la verità dei Pedrotti e di Hitchcock, il loro
scudiero, gli appare sotto una luce inaspettata e sorprendentemente
diversa.
La recensione
Gli
anni ottanta sono appena iniziati e Giovanni, diciassettenne
silenzioso e spaventato dalla povertà, arriva in motorino, con un
amico ripetente aggrappato alla schiena per i troppi scossoni,
davanti al cancello dell'onorevole Pedrotti. Casa di notizie in prima
pagina, auto blu, privilegi sconosciuti, alberi altissimi.
Soprattutto, il posto in cui incontrarsi per vedere una partita decisiva, sulla televisione a colori dei tre figli dell'insigne politico. Il giorno dopo, una telefonata e la notizia che il signor Pedrotti è morto.
E la sensazione, per via di uno scherzo, di avere a che fare con la sua grottesca dipartita. E con la sfortuna che, dopo il funerale del patriarca, perseguiterà a vita i suoi orfani, eredi di un impero dai giorni contati. Cosa è successo, in quella sera deformata dal senso di colpa? Cosa sarà di Fabrizio, il gigante; di Mario, l'incompreso; di Maddalena, la zingara ribelle? Una foto lasciata lì a prender polvere - e una foto come quella in copertina, su un prato un po' verde e un po' in bianco e nero, quando si poteva essere compagni di giochi nonostante tutto e provare a somigliare a un Battisti, a un Lennon, a un Dustin Hoffman - e, secondo il più classico degli espedienti, lasciare che i ricordi vengano a galla e che passato, presente e futuro camminino su strade adiacenti. Verso nuove mete, in un Paese dai cervelli già in fuga, e amici a cui, nonostante il peso dei segreti e la lontananza, si continua a volere tutto il bene del mondo. Vincitore, due anni fa, del prestigioso premio Neri Pozza e prima opera che leggo di un Marco Montemarano che scopro qui, bravissimo, ma a breve nuovamente in libreria – e sul mio comodino, per forza - con un nuovo titolo e la protezione del suo vecchio editore, La ricchezza è uno di quei titoli che ho scoperto in ritardo, complice l'uscita della versione economica, e che, se non avessi agito d'impulso, probabilmente non avrei mai letto.
Mi lascio intimorire con facilità. Da certi editori appannaggio di pochi, da scrittori italiani che sul mio blog avranno sempre un posto speciale anche se spesso peccano di presunzione, da trame che si annunciano decisamente impegnative. Invece nel calore di un pomeriggio che mi voleva morto, all'ora di punta, arrabbiato non ricordo più per quale motivo – ma dovevo esserlo parecchio, per scendere in spiaggia alle due e mezza e gettare il necessario alla rinfusa, nel mio zaino grigio – ho preso un volumetto della Beat dalla pila pericolante di libri intonsi e, giusto perché era abbastanza sottile da starci bene tra la bottiglia d'acqua e l'asciugamano, l'ho portato appresso. Parlava di un poveraccio amico di tre nababbi della Roma bene, degli imprevedibili giochi del destino, di legami che – dagli anni settanta a oggi, dai Parioli all'America Latina – non si sfilacciavano. L'amicizia di quello strano quartetto – un gigante scherzoso, un fratello minuscolo allergico al solletico, un'esotica sorella maggiore per cui il sesso segue un codice nascosto, un intruso accolto in salotto per i compiti in classe e goffi esperimenti sotto le lenzuola, cavia di smaliziate adolescenti – è come un elastico: tiri forte e non si rompe, almeno non subito. Al massimo, quando lo lasci andare, ti ferisce le dita della mano. Ti lascia un segno viola. Intorno a me la gente parlava - a fine luglio scendono i turisti, e il lido balneare è un mercato di accenti diversi, karaoke, vucumprà – e l'unica fuga possibile erano dunque le cuffie dell'mp3. La musica che dico io, anche se non è in rima con quella ascoltata all'epoca dei figli dei fiori, anche se poi mi metto a canticchiare tra me e me con il rischio di perdere il filo. Ho capito quanto La ricchezza fosse diretto, vivace e bello nel momento in cui è risultato, nella sua studiata semplicità, più forte di tutto il resto. Grazie a quel che mi faceva all'inizio dubitare, poi rivelatosi pura soddisfazione: un marchio che non delude, un professionista che ha capito che la franchezza coinvolge più di qualsiasi parola ardita, una vicenda poco politica – ho pensato a un Grande Gatsby cacio e pepe, a un'Espiazione raccontato da un Briony al maschile; le testate giornalistiche citano però Moravia e altri grandi di cui sono ahimè a digiuno – anche se, alla fine, cosa richiede maggiori strategie di un'amicizia che resiste?
Soprattutto, il posto in cui incontrarsi per vedere una partita decisiva, sulla televisione a colori dei tre figli dell'insigne politico. Il giorno dopo, una telefonata e la notizia che il signor Pedrotti è morto.
E la sensazione, per via di uno scherzo, di avere a che fare con la sua grottesca dipartita. E con la sfortuna che, dopo il funerale del patriarca, perseguiterà a vita i suoi orfani, eredi di un impero dai giorni contati. Cosa è successo, in quella sera deformata dal senso di colpa? Cosa sarà di Fabrizio, il gigante; di Mario, l'incompreso; di Maddalena, la zingara ribelle? Una foto lasciata lì a prender polvere - e una foto come quella in copertina, su un prato un po' verde e un po' in bianco e nero, quando si poteva essere compagni di giochi nonostante tutto e provare a somigliare a un Battisti, a un Lennon, a un Dustin Hoffman - e, secondo il più classico degli espedienti, lasciare che i ricordi vengano a galla e che passato, presente e futuro camminino su strade adiacenti. Verso nuove mete, in un Paese dai cervelli già in fuga, e amici a cui, nonostante il peso dei segreti e la lontananza, si continua a volere tutto il bene del mondo. Vincitore, due anni fa, del prestigioso premio Neri Pozza e prima opera che leggo di un Marco Montemarano che scopro qui, bravissimo, ma a breve nuovamente in libreria – e sul mio comodino, per forza - con un nuovo titolo e la protezione del suo vecchio editore, La ricchezza è uno di quei titoli che ho scoperto in ritardo, complice l'uscita della versione economica, e che, se non avessi agito d'impulso, probabilmente non avrei mai letto.
Mi lascio intimorire con facilità. Da certi editori appannaggio di pochi, da scrittori italiani che sul mio blog avranno sempre un posto speciale anche se spesso peccano di presunzione, da trame che si annunciano decisamente impegnative. Invece nel calore di un pomeriggio che mi voleva morto, all'ora di punta, arrabbiato non ricordo più per quale motivo – ma dovevo esserlo parecchio, per scendere in spiaggia alle due e mezza e gettare il necessario alla rinfusa, nel mio zaino grigio – ho preso un volumetto della Beat dalla pila pericolante di libri intonsi e, giusto perché era abbastanza sottile da starci bene tra la bottiglia d'acqua e l'asciugamano, l'ho portato appresso. Parlava di un poveraccio amico di tre nababbi della Roma bene, degli imprevedibili giochi del destino, di legami che – dagli anni settanta a oggi, dai Parioli all'America Latina – non si sfilacciavano. L'amicizia di quello strano quartetto – un gigante scherzoso, un fratello minuscolo allergico al solletico, un'esotica sorella maggiore per cui il sesso segue un codice nascosto, un intruso accolto in salotto per i compiti in classe e goffi esperimenti sotto le lenzuola, cavia di smaliziate adolescenti – è come un elastico: tiri forte e non si rompe, almeno non subito. Al massimo, quando lo lasci andare, ti ferisce le dita della mano. Ti lascia un segno viola. Intorno a me la gente parlava - a fine luglio scendono i turisti, e il lido balneare è un mercato di accenti diversi, karaoke, vucumprà – e l'unica fuga possibile erano dunque le cuffie dell'mp3. La musica che dico io, anche se non è in rima con quella ascoltata all'epoca dei figli dei fiori, anche se poi mi metto a canticchiare tra me e me con il rischio di perdere il filo. Ho capito quanto La ricchezza fosse diretto, vivace e bello nel momento in cui è risultato, nella sua studiata semplicità, più forte di tutto il resto. Grazie a quel che mi faceva all'inizio dubitare, poi rivelatosi pura soddisfazione: un marchio che non delude, un professionista che ha capito che la franchezza coinvolge più di qualsiasi parola ardita, una vicenda poco politica – ho pensato a un Grande Gatsby cacio e pepe, a un'Espiazione raccontato da un Briony al maschile; le testate giornalistiche citano però Moravia e altri grandi di cui sono ahimè a digiuno – anche se, alla fine, cosa richiede maggiori strategie di un'amicizia che resiste?
Un narrazione, questa, esempio della nostra ricchezza.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Lucio Battisti – La canzone del sole
lunedì 27 luglio 2015
Recensione: Il mio cuore e altri buchi neri, di Jasmine Warga
Tu
sei tu. E mi capisci. E sei triste come me e, per quanto assudo,
questo è bellissimo. Sei come un cielo grigio. Bella, anche se non
vuoi.
Titolo:
Il mio cuore e altri buchi neri
Autrice:
Jasmine Warga
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 279
Prezzo:
€ 17,00
Sinossi:
Aysel
ha sedici anni, una passione per la scienza e un sogno che coltiva
con quotidiana dedizione: farla finita. Tutto ormai sembra convergere
in quel buco nero che è diventata la sua vita: i compagni di classe
che le parlano alle spalle, un lavoro deprimente, il delitto commesso
da suo padre che ha segnato per sempre il suo destino. Aysel vorrebbe
sparire dalla faccia della Terra, ma le manca il coraggio di farlo da
sola. Per questo trascorre il tempo libero su "Dipartite
serene", un sito di incontri per compagni... di suicidio. Roman,
perseguitato da una tragedia familiare e da un segreto che vuole
lasciarsi alle spalle, è il prescelto. Eppure, proprio nell'attimo
in cui stanno per abbandonarla, la vita potrebbe mostrare il suo lato
leggero, dolce e pieno.
La recensione
“Mi
domando se anche la gioia abbia un'energia potenziale. O se l'energia
potenziale possa condurre alla gioia, come un siero che agisce nello stomaco e ribolle fino a suscitare la sensazione
chie chiamiamo felicità. Ma anche se così fosse, il mio tarlo nero
la divorerebbe tutta.” Nonostante un titolo che pensandoci su è
anche bello, ma che letto di sfuggita lascia pensare alla biografia
segreta di Valentina Nappi – e, essendo traduzione precisa
dall'inglese, mi viene ragionevolmente da chiedermi: ma questi
americani non conoscono i doppi sensi? -, Il mio cuore e altri buchi
neri, inizialmente ignorato per
un titolo che, come detto, non è colpa nostra e una copertina
stucchevolissima che invece è colpa nostra eccome, complici una
Mondadori prodiga di copie omaggio e recensioni positive di fidati
amici della blogosfera, è finito schiacciato tra i mattoncini –
tutti capolavori, si spera – che mi ero ripromesso di leggere
durante le vacanze. Quando il mare finisce per diventare routine, si
è insofferenti a temperature da bollino rosso e si va in cerca, per
noia e soddisfazione personale, della lettura dell'anno, dopo esami
che spingono a trasformarci in lettori pigri e a divorare, senza
sentirci in colpa, storie brevi, leggere e vagamente
preconfezionate.
Con la solita scusa della stanchezza arretrata,
inserito tra l'ultimo voluminoso King (letto), il vincitore del
Premio Neri Pozza (in lettura) e l'autore Pulitzer di quest'anno (da
leggere), trovarmi tra le mani l'esordio di Jasmine Warga mi ha fatto
rimangiare la promessa di dedicarmi soltano a letture impegnate, ora
che il tempo è dalla mia, e riflettere sul fatto che tanta serietà
non fa per me, dunque perché non spezzarla, ogni tanto, con qualcosa
così? Un romanzo estivo e dal suono sì osceno, ma che dalla sua ha
più di qualche piccolo pregio che, in definitiva, può risultare
abbastanza? Scrivevo in una delle mie familiari parentesi
cinematografiche, qualche giorno fa, la lista degli ingredienti che
devono costuire l'abc della commedia alternativamente romantica che
dico io. Il perfetto film, o romanzo, del filone boy
meets girl avrà
un lui e una lei che si incontrano in un'occasione bizzarra – un
sito anonimo per cercare un compagno di suicidio - , personaggi
particolari che si contano su due dita – Aysel, di origini turche,
lavora in uno squallido call center e ha il pallino della fisica;
Roman, un tempo campione di popolarità, ha l'altezza giusta per fare
canestro e mani d'oro per ritratti bellissimi: entrambi, inoltre,
vogliono morire, a sedici anni –, una scrittura brillante – qui
restiamo purtroppo a bocca asciutta, perché la Warga si limita a
scrivere correttamente e senza guizzi speciali, evitando però
l'aforisma facile e scenette pruriginose di sorta – e temi
importanti, al di là dei toni lievi – il pessimismo cosmico, la
voglia di farla finita, deprimersi. Due numeri primi che si
incontrano, il sentimento che nasce: l'amore li salverà dal baratro?
Arrivato in libreria sulla scia di Raccontami di un giorno
perfetto, adorato e contestato
insieme, parla ancora del suicidio e dei giovanissimi, con punte di
ironia tragica, delicatezza e pochi baci per rimarginarsi a vicenda
le ferite. Pare sia piaciuto di più del romanzo della Niven, dicono
ci sia, almeno, un po' di speranza che non guasta, ma – nonostante
a differenziarli, nella mia valutazione, ci sia appena una mezza
stella – ho preferito l'altro. Politicamente scorretto, tosto,
disperato.
Ci sono più buchi neri in quel Theodore Finch – scrivo
il suo nome senza il bisogno di sbirciare, giuro, perché mi ha
scavato un tunnel nello stomaco – che in una storia
agrodolce e priva di buchi – narrativi, interstellari, neri –
come questa. A volte ci si sveglia tristi e si va a dormire tristi;
si nasce con l'inclinazione alla malinconia e, se l'abisso chiama, non
c'è interferenza a distoglierci dal sogno disgraziato della tomba. A
volte, ed è il caso di Aysel e Roman, brutti pensieri sono legati a
brutte esperienze: il 7 aprile, i due decidono di uccidersi perché
si sentono responsabili di tragedie di cui invece non hanno colpa.
Cose che capitano quando sei ragazzino, solo e, in mancanza di
responsabili, accusi te stesso: per la vita che ha strappato tuo
padre (puoi compensare strappandoti la tua?), per una dimenticanza
che ha significato tanto dolore (puoi ricordartene, adesso, andando
via a un anno esatto da quel giorno?). Per Green era colpa delle
stelle – ogni riferimento a John non è casuale, con
protagoniste dai nomi in assonanza, lunghe chiamate telefoniche,
salti a casa di Gus o Roman -, per la Warga è colpa delle
circostanze, per la Niven – e ciò mi ha davvero colpito; non c'è
consolazione – non è colpa di nessuno. Chi cerca una
lettura garbata, rasserenante, simpatica apprezzerà Il mio
cuore e altri buchi neri. Io
sono per la cruda verità, anche se alla redenzione delle favole mi
piacerebbe crederci. Un romanzo non
troppo simile a Raccontami di un giorno perfetto,
purtroppo o per fortuna, che vorrei assicurarvi sia una storia mai
letta. Non posso. Non va oltre i classici racconti sugli amori salvifici, le
seconde opportunità e gli innamorati sfortunati e un po' geniali. Ma
non sembra scritto a tavolino, ha un messaggio da comunicare e, se la
vita dovesse farsi dura, Jasmine Warga – dolcemente – ci direbbe
che c'è del buono. Rassicurante, come sentirsi dire una parola giusta nel
momento sbagliato.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Ozark Henry – I'm Your Sacrifice
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sabato 25 luglio 2015
Mr. Ciak: Io sono Mateusz, The Duff, Spy, Comet, God Help the Girl, The Harvest, Beyond the Lights
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giovedì 23 luglio 2015
Recensione: Revival, di Stephen King
Quando ripenso a Charles Jacobs, non riesco neppure a considerare che la sua presenza nella mia vita fosse dovuta al destino. Altrimenti significherebbe che quelle vicende tremende, quegli orrori, erano destinati ad accadere.
Autore:
Stephen King
Editore:
Sperling & Kupfer
Numero
di pagine: 470
Prezzo:
€ 19,90
Sinossi:
Più
di cinquant'anni fa, in una placida cittadina del New England,
un'ombra si allunga sui giochi di un bambino di sei anni. Quando il
piccolo Jamie alza lo sguardo, sopra di lui si staglia la figura
rassicurante del nuovo reverendo, appena arrivato per dare linfa alla
vita spirituale della congregazione. Intelligente, giovane e
simpatico, Charles Jacobs conquista la fiducia dei suoi parrocchiani
e l'amicizia incondizionata del bambino: per lui il pastore è un
eroe, soprattutto dopo che gli ha "salvato" il fratello con
una delle sue strepitose invenzioni elettriche. Ma l'idillio dura
solo tre anni: la tragedia si abbatte come un fulmine su Jacobs,
tutto il suo mondo è ridotto in cenere e a lui rimane solo l'urlo
disperato contro il Dio che lo ha tradito. E il bando dal piccolo
Eden che credeva di avere trovato. Trent'anni dopo, quando Jamie avrà
attraversato l'America in compagnia dell'inseparabile chitarra che
l'ha reso famoso, e dei demoni artificiali che ha incontrato lungo il
cammino, l'ombra di Charles Jacobs lo avvolgerà ancora: questa volta
per suggellare un patto terribile e definitivo. "Revival" è
il racconto di due vite, quella che King ha vissuto e quella che
avrebbe potuto vivere, attraverso due personaggi formidabili per
potenza e fragilità, due uomini ai quali accade di incontrare il
demonio e di affondare nel suo cuore di tenebra.
La recensione
"La curiosità è un istinto terribile ma umano. Molto umano."
Stranamente,
da quanto Stephen King – ormai in età pensionabile – ha iniziato
a scrivere libri su libri, complici giornate che quando hai
sessantasette anni immagino scorrano lentissime, ho deciso di
prendermela con calma: Mr Mercedes letto appena a novembre, il
desiderato sequel – Chi perde paga – atteso per
quest'autunno e, tra un capitolo e l'altro della nuova trilogia
gialla, piazzarci Revival. Con la folgore bluastra in
copertina e un'edizione italiana uscita in un lampo. Ho atteso il
cinquanta percento e i porci comodi di Libraccio per poterlo dire
mio; senza fretta. Perché, come dicevo, adesso più che in passato,
colui che mi ha iniziato alle gioie (e ai dolori) della lettura, è
puntuale e onnipresente: so che, in caso di ritardi negli acquisti,
in libreria potrò comunque trovare non uno, ma almeno due titoli
inediti. Questa, infatti, la media annua di pubblicazioni di un re
longevo e scaltro che, ormai, chi osa rovesciare dal suo trono di
spade? E quel Revival per cui
tanto c'era tempo – messo nel carrello, in attesa del click; messo
sul comodino, in attesa di fare ciao con la mano alla mia estate –
mi ha catturato, sin dall'inizio, con uno degli incipit destinati a
rimanere nella storia di un anno di letture, e non solo, per bellezza
e semplicità. In quanti abbiamo pensato alle persone della nostra
vita come ai personaggi di un film? Ma in quanti abbiamo saputo dirlo
così, con la voce che rischia di spezzarsi per la malinconia verso i
bei tempi andati? C'è da vivere a lungo e intensamente. E ci sono
vite lunghe e intense in un romanzo che parte da lontano, con i
giochi di infanzia di Stagioni Diverse,
i momenti in cui ci si smarrisce nella selva oscura degli
stupefacenti come in Doctor Sleep,
fino ad arrivare alle svolte fantastiche di Cose Preziose
o La tempesta del secolo.
Il titolo, Revival, fa
dunque riferimento alle pratiche miracolose di un blasfemo
Frankenstein che sfida i limiti invalicabili della morte, donando una
seconda possibilità a chi era ferito nel corpo e nello spirito, e a
quel che la ricomparsa di temi simili, nella bibliografia del mio
autore preferito, rappresentano: un ritorno all'orrore che fu. Quando
l'ora sta per giungere e, con la vecchiaia, la morte inizia a fare
paura, la vita – o così si racconta spesso, almeno – ci scorre
davanti, proprio come uno di quei film di cui vi parlavo poco fa.
Revival, racconto
della giovinezza spericolata di Jamie Morton e della conoscenza che
lo segnò irreversibilmente, è quel flusso; è quel film mandato
indietro velocemente ma non troppo, direi, viste le quasi
cinquecento pagine totali.
Titoli di testa, il primo piano di un
bambino che schiera a terra i suoi amati soldatini, poi la fatidica
ombra che si allunga sui suoi giochi innocenti e non lo abbandonerà
mai più. Appartiene a Charles Jacobs, il giovane reverendo che –
con la sua bellissima moglie che suona con grazia l'organo e un
figlio piccino, tenerissimo, che diventa subito l'allegra mascotte
dei bambini del paese – avvicina le famiglie, sprona gli
impertinenti affinché obbediscano agli adulti, guarisce gli infermi
con il potere dell'elettricità. Dio dava la vita con un soffio,
Jacobs con una scintilla. Ma quando Dio o chi per Lui, in un violento
incidente, lo priva della sua adorata famiglia, per il reverendo –
scomunicato, dopo un infuocato sermone contro il Paradiso – inizia
il cammino infernale oltre le colonne d'Ercole: l'imbonitore, il
ciarlatano in tivù, lo scienziato pazzo. La morte è una porta e lui
vuole aprirla un po', dare una sbirciata dall'altra parte. In quasi
mezzo secolo, la storia di Jamie – da bambino dalla Fede
compromessa da una parola di troppo a chitarrista tossicodipentente
nel favoloso panorama rock 'n roll dei primi anni settanta – si
incrocerà in modi imprevisti con quella dell'adulto che, un giorno
d'estate, oscurò il sole con la sua lunga nera ombra. La sua nemesi,
il suo agente del cambiamento – quello che, in un'esistenza in
formato 16:9, gli farà conoscere gli amici giusti, i nemici
sbagliati e davanti a un bivio, davanti a una scelta, scaverà a mani
nude una terza via alternativa. Il loro rapporto di amore odio –
simile a quello tra Faust e Mefistofele, tra Renfield e il Conte
Dracula: come tirarsi indietro davanti alle richieste d'aiuto di un
genio disperato, se è a quello stesso genio disperato che dobbiamo
la nostra felicità? - è un'evoluzione continua, che mette sullo
stesso piano antagonista e protagonista e, come in uno di quei
lungometraggi pensati con cura o comunque in una di quelle vite al
massimo, ha occhi di riguardo e parole belle per chi va, chi viene e
chi, innamorato o con un piede nella fossa, finalmente si ferma.
Ma,
e lo saprete già se avete dato una sbirciata alla fine della
recensione, Revival non
mi ha convinto del tutto. E senza purtroppo di sorta, perché parlare
di delusione – avando tra le mani un romanzo denso, ampio e tanto
ben scritto – è esagerato. Quel “ma” resta lì, chi lo
sposta?, e per me è colpa, principalmente, dell'ultima parte: quella
spiccatamente orrorifica. Il reverendo Jacobs prima dà, poi
riprende. Non mi ha convinto il fulcro del mistero, che ho trovato
non avesse il giusto appeal, ma mi è piaciuto un mondo tutto il
resto. Quello che viaggia dalle parti della vita vera, non l'omaggio
in definitiva già letto all'immaginazione inquieta di un Lovercraft.
Sarà che sono più per un horror che esplori questa realtà, non
quella metafisica, e che una delle immagini che il finale mi ha
lasciato – una landa desolata, omaggio per caso, mio Re, all'Aldilà
di Fuci o a Inferno di
Dario Argento? In caso, tanta tanta stima – era di impressionante
nichilismo; la prospettiva più cupa e pessimista. Accanto al King
vecchio stile che, con franchezza, non rimpiangevo, scene che
andavano a nozze con gli occhi lucidi. Il ritorno a casa dopo
trent'anni di assenza, i fratelli che non vedevi da decenni, i nipoti
che non sapevi di avere, i familiari che – in molti casi la
malattia, in un caso particolare il femminicidio – hanno lasciato
un posto vuoto a tavola. E' questo il King sedentario e malinconico
che mi strapazza un po'. Vive ogni giorno come fosse l'ultimo, scrive
ogni libro come fosse l'ultimo. L'emozione ha trionfato sul terrore,
questa volta, ma tanto un brivido vale l'altro. Revival:
per i più, un grande ritorno alle radici del genere. Ma, vedete,
c'è un errore sin dal principio. Una prospettiva diversa, alla base. Stephen
King non è tornato, perché Stephen King - per me - non è mai andato via.
"Casa è quel posto dove vorrebbero sempre che ti fermassi un po' di più."
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: AC/DC – Thunderstruck
Etichette:
fantasy,
Horror,
Recensioni,
Sperling e Kufper,
stephen King
lunedì 20 luglio 2015
Recensione a basso costo [libro e film]: Le domande di Brian - Starter for 10, di David Nicholls
Forse
è meglio pensare alla conversazione come a qualcosa di simile
all'attraversamento di una strada; prima di aprir bocca dovrei
prendere qualche secondo per guardare in entrambe le direzioni, e
soppesare attentamente quello che sto per dire. E se significa che
dovrò passare qualche secondo in più fermo sul metaforico
marciapiede della conversazione, guardando a destra e a sinistra, e
sia, perché è chiaro che non posso continuare a lanciarmi alla
cieca in mezzo al traffico. Non posso continuare a farmi investire in
questo modo.
Titolo:
Le domande di Brian
Autore:
David Nicholls
Editore:
Beat Edizioni
Numero
di pagine: 398
Prezzo:
€ 9,90
Sinossi:
È
il 1985 quando Brian Jackson approda all'università di Bristol.
Buffo e imbranato come tutte le matricole, imberbe diciottenne
innamorato di Kate Bush e della sua musica, Brian cela una grande
dote: sa rispondere a tutte le domande dei quiz. Un formidabile asso
nella manica che gli consente di sbaragliare tutti alle selezioni di
Bristol per la formazione della squadra da spedire all'"University
Challenge", il popolare quiz televisivo che vede i college
inglesi in gara tra di loro. All"University Challenge"
Brian si imbatte nel primo grande problema della sua vita: Alice
Harbinson, bella, leggiadra, femminile, sensuale, con i genitori così
upper class e così anticonvenzionali. In una parola:
irraggiungibile! Per la splendida Alice, Brian perde la bussola,
ignora gli amici, combina disastri e trascura Rebecca, la ragazza
impegnata che sa apprezzare il suo fascino di giovane colto e
sensibile e che considera Alice una gatta morta che
disonora l'intera storia del femminismo.
La recensione
David
Nicholls, a occhio e croce, è uno dei miei autori preferiti. Ha
scritto poco, ma mi ha sempre dato tanto. Possibile? Possibilissimo,
se gli Emma e Dexter di Un giorno – arrivati anche al cinema
– nessuno se li scorda più e se la sua ultima fatica, Noi,
si era rivelata una perla on the road che di strada ne percorreva
tanta, fino a collocarsi tra il dramma familiare e la
leggerezza del viaggiare senza meta. Prima della maturità, romanzi
più modesti: Il sostituto, simpatica commedia su un aspirante
star del teatro destinata alle porte sbattute in faccia, e –
procedendo al contrario – Le domande di Brian. L'esordio che ho recuperato solo adesso. L'ho
acquistato su Libraccio per pochi euro, mesi fa, nell'edizione
Sonzogno: una versione vintage – sfortunatamente diversa da quella
tascabile, con l'adorabile copertina che si sposa con gli altri
romanzi della lista – per una storia vintage. Gli anni '80 e gli
abiti con le spalline, la politica della Lady di Ferro e la gioventù
in rivolta, le canzoni che non ci hanno mai abbandonato e quei quiz a
premi che da noi, scomparso Mike Bongiorno, non sono
stati più gli stessi. Quella volta in cui avevo il treno da
prendere, l'ho visto lì, sul tavolino, pronto per l'uso, e ho deciso
di portarmelo appresso. L'aria condizionata a palla nel vagone
(miracolo), la giornata soleggiata ma non troppo (miracolo) e la
Sessione Estiva che – nel viaggio di ritorno – non c'era più a
procurarmi pensieri angosciosi (miracolo; traguardo) sono stati la
morte sua, come si dice. Le domande di Brian è
il romanzo da ombrellone perfetto o, se sei un fuorisede che va di
fretta, la consolazione pre/post esame. Ambientato nell'Inghilterra
di provincia degli anni più rimpianti in assoluto da chi è
nostalgico per natura, è un romanzo di formazione con tutti i sacri
crismi: voce fresca, triangoli amorosi, scuola e famiglia,
rocamboleschi incidenti di percorso. Ma lo young adult secondo il
nostro David Nicholls è un esordio spassoso, ma non troppo
controcorrente, e una lettura piacevole senz'altro, ma poco
imprescendibile. In parole povere: se volete leggere tutto
dell'autore, mettete questo in coda. Mi aspettavo qualcosa di più, e
forse è colpa mia. Ma ci ha abituati a cose più tutto – profonde,
realistiche, toccanti – e quella, invece, è colpa solo sua. Nicholls
scrive romanzi bellissimi, dunque davanti a un romanzo non brutto,
semplicemente meno bello, carino, si resta un po' così. Vi
direi una bugia, però, se affermassi che, durante la lettura, la
cosa mi è pesata: il romanzo – e non si poteva pretendere
diversamente, con al timone un autore simile – è divertentissimo,
brillante, senza intoppi.
Si ride e tutto, ma non si pensa granché: sebbene ci siano, gli spunti di riflessione sono gli stessi già suggeriti altrove. Oltretutto, poco familiare l'ambientazione, per me che sono abituato agli anni '80 dei Duran Duran e non di Kate Bush – la conosco, ma volutamente in modo superficiale: ha acuti così striduli e sottili che solo i cani percepiscono, e quando li sentono abbaiano come matti -, alle contestazioni pratiche e non agli scontri dialettici tra moderni Tory e Whig, alle grasse battute di un Animal House e non a un umorismo inglese davanti al quale le traduzioni italiane nulla possono e si procede, così, per note e asterischi. Però il protagonista eponimo – uno tipetto brufoloso e sbadato, che ama termini pomposi come “eponimo” e i pomposi film d'avanguardia – è una sagoma. Troppo imbarazzante per essere vero, Brian ha abbandonato la mamma vedova e i suoi scatenati migliori amici per il grande salto: il mondo universitario. In cui sogna di filosofeggiare per notti intere nel letto di ragazze splendide, di dormire in pittoresche mansarde come gli Scapigliati, di guadagnare centrimetri in altezza e bellezza aggiuntiva, di avere come amante una donna agèe, come in Il laureato. Al massimo, però, può ambire a un materasso sul pavimento – che non fa un futon, per la cronaca -, a due curiosi coinquilini che distillano birra in casa e al brivido della diretta tivù, grazie a un famoso quiz. Tra una figuraccia colossale e un vano tentativo di liberarsi le guance dall'acne, incontra Alice e Rebecca: si innamora della prima, angelica e popolare, e si lascia odiare dalla seconda, dark e scortese.
Finché, in quasi
quattrocento pagine, i ruoli si invertono, ancora e ancora:
schiacciando il tasto rosso, lo sciocco Brian – che dice sempre la
cosa sbagliata, nel momento sbagliato, all'interlocutore sbagliato –
giurerà amore all'una o all'altra; alla testa o al cuore? Più ardua
la risposta, mi domando, o reperire la versione cinematografica di quello che, in
lingua, si chiama Starter for 10? Uscito
dieci anni fa, ambientato trent'anni fa e destinato a esigui passaggi
su Sky, da noi, con il titolo Il quiz dell'amore.
Sul triste battesimo, stenderei rotoloni Regina di veli pietosi.
Destino infelice per una commedia che in Patria è stata un
successone e che ha il merito non da poco di avere (a) lanciato
grandi attori britannici, (b) eliminato dal romanzo la ricerca della
risata forzata, (c) trasformato quello che a volte aveva le
esagerazioni di uno chick lit al maschile in una pellicola che, se
fosse stata girata negli anni novanta, avrebbe avuto diritto,
probabilmente, al più galante degli Hugh Grant. Non ci si può di
certo lamentare, però, per la presenza di un giovanissimo James
McAvoy – che potrei odiare, da presidente onorario degli
impresentabili e degli impacciati, perché impersona un Brian assai
meno impresentabile e impacciato, ma che appare abbastanza adorabile
lì dove il personaggio originale era una mezza macchietta -, conteso
dalla bambola Alice Eve e dall'affascinante Rebecca Hall – e sì,
sono tutti più belli che nel romanzo, è il cinema!, ma almeno il
triangolo appare meno inverisimile: è un idiota, lui, ma è un idiota che sembra James McAvoy. Tutt'intorno, allegri comprimari in mezzo ai quali
spicca un Dominic Cooper che si atteggia a Fonzie, un irritante
Benedict Cumberbatch, un tamarro James Corden. E con la sua colonna
sonora da manuale – ma davvero, chi se la sorbiva la Bush? Meglio
lasciare il posto, allora, a Smiths, Cure e compagnia bella – ha più
orecchio, misura e una giusta dose di cultura generale che non guasta. Nicholls alla sceneggiatura, Tom Vaughan alla regia
e – limitato l'esagerato – si raggiunge un appagante compromesso
che suona, in definitiva, come la risposta esatta. Non badate alla
semplicità delle domande, né alla prevedibilità delle risposte:
dall'esterno noi potremmo essere anche certi di chi si metterà con
chi, ma Brian è tutto un dubbio, tutto un'ansia. Un po' come capita nel rapporto tra me e i miei genitori, per capirci, quando li chiamo alla fine degli esami: da
casa, erano tutti certissimi della mia promozione, ma a me che stavo lì,
in corridoio, e tentennavo, e sudavo, e mi agitavo, chi assicurava che tutto sarebbe andato per il verso giusto?
A volte, sarebbe bello darsi per scontati.
Ma è così difficile farla facile.
Si ride e tutto, ma non si pensa granché: sebbene ci siano, gli spunti di riflessione sono gli stessi già suggeriti altrove. Oltretutto, poco familiare l'ambientazione, per me che sono abituato agli anni '80 dei Duran Duran e non di Kate Bush – la conosco, ma volutamente in modo superficiale: ha acuti così striduli e sottili che solo i cani percepiscono, e quando li sentono abbaiano come matti -, alle contestazioni pratiche e non agli scontri dialettici tra moderni Tory e Whig, alle grasse battute di un Animal House e non a un umorismo inglese davanti al quale le traduzioni italiane nulla possono e si procede, così, per note e asterischi. Però il protagonista eponimo – uno tipetto brufoloso e sbadato, che ama termini pomposi come “eponimo” e i pomposi film d'avanguardia – è una sagoma. Troppo imbarazzante per essere vero, Brian ha abbandonato la mamma vedova e i suoi scatenati migliori amici per il grande salto: il mondo universitario. In cui sogna di filosofeggiare per notti intere nel letto di ragazze splendide, di dormire in pittoresche mansarde come gli Scapigliati, di guadagnare centrimetri in altezza e bellezza aggiuntiva, di avere come amante una donna agèe, come in Il laureato. Al massimo, però, può ambire a un materasso sul pavimento – che non fa un futon, per la cronaca -, a due curiosi coinquilini che distillano birra in casa e al brivido della diretta tivù, grazie a un famoso quiz. Tra una figuraccia colossale e un vano tentativo di liberarsi le guance dall'acne, incontra Alice e Rebecca: si innamora della prima, angelica e popolare, e si lascia odiare dalla seconda, dark e scortese.
A volte, sarebbe bello darsi per scontati.
Ma è così difficile farla facile.
Il
mio voto: ★★★ Il film: 7
Il
mio consiglio musicale: The Cure – Boys Don't Cry
sabato 18 luglio 2015
I ♥ Telefilm: Penny Dreadful II, Vicious II, Dr. Horrible's Sing-Along Blog
Stagione II
Se
ne stava ai margini del bosco di una favola dei Grimm, che mi tentava
con le sue delizie. Irresistibili, le sue caramelle ingannatrici.
Come quella Londra vittoriana, in cui pioveva notte e giorno e, in
mezzo alle nebbie sul Tamigi, si muovevano creature spaventose e
magnifiche. Nel lungo romanzo gotico con il marchio Showtime, potevi
vedere – dalle vetrine di un elegante caffè, in una biblioteca
proibita ai profani – i personaggi di Stoker interagire con quelli
di Shelley o Wilde. Tutti corollario, però, del fiore Vanessa Ives:
bellissima dama a lutto, corteggiata dal Male e minacciata dai suoi
emissari. In sincerità, non sapevo se fossi rimasto più affascinato
dai giochi delle trame o dagli occhi di quella Eva Green come non
l'avevamo mai vista. Inspiegabilmente ignorata alla stagione dei
premi – come le colleghe Maslany e Rossum – su questo blog
aveva guadagnato scettro e corona. Aspettavo lei – e le sue metà
oscure - per una seconda stagione: ha avuto due episodi aggiuntivi,
il nuovo Penny Dreadful, ma mi è sembrato che avesse una
durata ridotta; che lasciasse di meno. Leggo che, altrove, ha
convinto gli scettici e non posso che esserne contento: merito loro
il rinnovo. Da parte mia, questa volta, l'accoglienza intipiedita di
turno. Mi ha appassionato meno che in precedenza. Ethan Chandler
aveva rivelato nel season finale la sua natura di licantropo; Sir
Marcolm trova l'amore di una donna di mezza età con un brutto
segreto; Victor Frankenstein – mentre la sua Creatura viene assunta
in un museo delle cere – dà nuova vita alla sfortunata Brona, e se
ne innamora; Dorian Gray, da Parigi, ha portato con sé un amante en
travesti che potrebbe scoprire l'enigma della sua eterna
giovinezza; Vanessa è spinta sempre di più verso il baratro da
congreghe di aristocratiche streghe che l'hanno promessa a Lucifero.
Non si può certo dire che gli sceneggiatori, artefici di alcuni dei
dialoghi più precisi a cui abbia prestato di recente ascolto, siano
rimasti con le mani in mano. Quel che manca, e che invece è elemento
fondamentale in serie come Sense8, è la coesione: il
serial conserva la sua natura quasi antologica, dando in un episodio
risalto a una vicenda, in un altro episodio risalto ad un'altra. Una
scelta accurata (e comunque poco saggia) o un montaggio che non ha la giusta
fluidità? Penny Dreadful è una giostra che tocca
il cielo quando c'è la Green in scena e la terra quando,
escludendola del tutto da una puntata, ci si concentra sui
comprimari. E si rischia, così, che la curiosità si eclissi. Colpa,
in particolare, di un Josh Hartnett legnoso e di Reeve Carney, un
Dorian imberbe che mi aveva reso dubbioso già in passato e che
adesso, complice una scrittura che ha cura soltanto del poco che fa a
letto, sembra ancora più acerbo. Una parola in più andrà spesa per
una superba Billie Piper che, sboccata e coraggiosa, si ribella alle
pretese del suo creatore. Tra le cose belle, e non si fa fatica a
ricordarle, una pioggia di sangue durante una cena di gala, il valzer
di Dorian e Lily crivellati dai proiettile, il bacio delicato dato al
più assenanto dei mostri e la visione di una Green splendida,
sorridente, di bianco vestita. (7)
Stagione II
Ho dovuto aspettare poco per trovarli dove li avevo lasciati. Sul divano, tra la porta d'ingresso, la cucina in cui sonnecchia il loro cane invisibile, le scale. Sono stato fortunato: in realtà, coloro che hanno scoperto questo Vicious nel 2013 hanno dovuto aspettare due anni, per ridere di altri sei episodi. Non sapevo fosse nemmeno ripartito, finché non mi sono trovato i faccioni di Stuart e Freddie – con uno sfondo blu alle spalle – su uno dei soliti siti di streaming: agli inizi di giugno, la strana coppia che – sul finire dell'anno vecchio – mi aveva regalato le risate più intelligenti e cattive, era tornata a far danni. Confermato il cast e quello scenario da sitcom tradizionale – che ha bisogno di un salotto e di grandi attori per funzionare: poco? - che questa volta si amplia un po', seguendo gli arzilli protagonisti all'esterno. Stuart e Freddie – gli scortesi innamorati che avevano fatto outing intorno ai settanta, gioia e tormento dei loro amici intimi – si iscrivono in palestra, vanno a scuola di ballo e, per un paio di episodi, prendono strade separate. Scoprono il fuori e la crisi del cinquantesimo anno. Ad aprire loro nuovi orizzonti e, come sempre, ad unirli, il fandom più caloroso che pensano di avere – dico pensano perché non hanno visto noi quando bene vogliamo a entrambi: il fratello Mason, la smemorata Penelope e, soprattutto, i personaggi interpretati da colei che fu la ragazza di Hagrid – un'irresistibile Frances de la Tour – e dal premuroso Iwan Rheon, che so essere cattivissimo (e bravissimo) in Games of Thrones. Mattatori, quel Derek Jacobi dalla carriera iniziata quando nessuno di noi, o dei nostri genitori, era al mondo e soprattutto Ian McEllen, che in comune con Rheon e la giunonica Frances ha tempi comici prodigiosi e la partecipazione memorabile a serie fantastiche. Qui sarà un altro anello la causa di un altro viaggio – nel passato della coppia, verso alternative che non soddisfano perché il cuore, e le battutacce sferzanti, hanno una casa sola. Le risate e gli sketch funzionali non si contano, in una produzione brevissima che ha tre cose che mi piacciono tanto: accento inglese, anziani più vitali di me, umorismo fulminante. Il difetto, lo stesso dell'anno scorso – o di due anni fa, okay. I soli centoventi minuti complessivi: ci vuole tanto per averli qualche giorno in più come ospiti? Così è iniziato e così è finito: un giorno mi trovo davanti il primo episodio, infatti, e un giorno l'ultimo. Ma perdoniamo volentieri la fretta, grazie ai nuovi inizi celebrati nell'ultimo episodio e alla scena conclusiva, che è tenera come non ci saremmo mai e poi mai aspettati da queste due carogne. (7,5)
(mini)webserie
Come si passa da amorevole vicino di casa a genio del male? Come si diventa un supercattivo dei fumetti? Lunga la strada da fare. Ma qui, in quel Dr. Horrible's Sing-Along Blog che mio fratello mi propina da anni, le tappe salienti ci vengono riassunte in tre atti, per un totale di quaranta minuti. Mio secondo approccio, questo, dopo What Lives Inside, col mondo delle webseries. Continuerò forse a non capire il senso di questi esperimenti – perché prendere bravi attori, e in questo caso un autore culto, e realizzare prodotti così brevi? - ma questa volta è andata meglio. E, nonostante l'ottimo Daredevil targato Netflix, il cinecomic continuerò a non tollerarlo, ma Dr. Horrible – tascabile, visto dalla prospettiva dell'antagonista, intonato – è un ragionevole compromesso: si parla – e si canta – delle disavventure di un aspirante villain, innamorato della ragazza sbagliata e infastidito da un supereroe vanesio e fanfarone che vorrebbe salvare tutto e tutti, e soprattutto essere sommerso di attenzioni. Inevitabilmente, anche di quelle della Mary Jane di turno, conosciuta dal protagonista in lavanderia – come in una perfetta commedia indie – e vittima del fascino portentoso di Captain Hammer. Dottor Horrible – Billy, per gli amici – riuscirà mai a entrare nella squadra dei cattivi e a conquistare Penny? Come in Galavant, si prende un genere tutto azione e lo si personalizza a suon di canzoni e, orecchiabili e tutto, gli inserti da musical, qui, sono anche bellissimi. Non a caso questi quaranta minuti, per gli appassionati, sono un tormentone e si sono guadagnati, al tempo, un Emmy. Ma sarebbe meglio dire che Galavant è come Dr. Horrible's, uscito nel 2008, fortunatissimo e scritto e diretto da uno che non ha bisogno di pubblicità: Joss Whedon, geniale soprattutto – e non me ne volete – quando è lontano dagli Avangers. Simpatia, originalità e attori presi dal piccolo schermo, così noti che verrebbe da chiedersi come mai le confessioni di questa pecora nera non siano state sviluppate in altro modo, magari a mo' di telefilm vero e proprio. Il protagonista, infatti, è un Neil Patrick Harris che già ci ha stupito altrove con la sua duttilità; il Nathan Fillion di Castle, piacione e intonato; la carinissima Felicia Day, che ricordo per un ruolo secondario in Supernatural. Come aiutante, inoltre, il genio del male ha Simon Helberg, che in The Big Bang Theory è quel tipo sospetto dai maglioncini a collo alto e dalle camicie a rombi: non mi piace il cinecomic, non mi piace Big Bang, quindi non mi prendo la briga di cercare il nome. Ma mi è piaciuto Dr. Horrible's Sing-Along Blog, che è una discreta figata, anche se il suo formato ridotto mi confonderà a vita. (7,5)
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