Riccardo
torna a casa. Storpio, assetato di vendetta, brutto ma dalla voce
bella. Con quella di un camaleontico Massimo Ranieri,
precisamente, ci canta in apertura l'inverno del nostro scontento.
Riccardo torna a casa, in un regno fittizio che altro non è che una
borgata romana di poveracci arricchiti, e ha una lunga lista di
persone a cui farla pagare. L'hanno accusato del crimine più infame.
L'hanno chiuso in una clinica psichiatrica per tutta la vita,
alimentando con cattiveria aggiunta una natura già instabile e
malevola. Riccardo, che nel suo covo segreto ha grotteschi ma
irresistibile scagnozzi che somigliano alla versione horror dei
Minions, è il principe folle di William Shakespeare. Un uomo senza
scrupoli e senza speranza che nel ritorno alla regia dell'innovatrice
Roberta Torre – suo il kitsch Tano da morire,
a cui tutto deve un Ammore
e Malavita
– si trasferisce dall'Inghilterra ottocentesca all'Italia
post-moderna, dal blank verse al musical più psichedelico. Canta,
circondato da figuranti bizzarri, ballerini in latex e scenografie
barocche, e mira a rovesciare la regina di una magnetica Sonia
Bergamasco – tirata e bionda come Amanda Lear, diverte e ruba a
mani basse la scena al protagonista assieme alla sorella di
Silvia Gallerano, sensuale Barbie Xanax a un passo dal baratro.
Chi è davvero sano? Chi, in definitiva, ha le mani pulite? Si
impilano morti ammazzati, ritornelli e stranezze. Pistole dai calci
glitterati, teschi con diamanti per occhi, scene pulp. Così lontane
dall'intrattenimento di cuore ma realizzato molto alla buona dei Manetti
Bros. Da un cinema commerciale che, forse, non avrebbe avuto la
stessa spavalderia della Torre nel risultare ambiziosa, presuntuosa,
prendendo Shakespeare per vestirlo da un videoclip di Gaga, dal
Refn che più divise Cannes. Il difetto: una sceneggiatura che dalla
tragedia shakespeariana perde il dolore, la potenza, scegliendo di
investire talenti ed energie sui dettagli più piccoli della messa in
scena. A quella, ipnotica e psichedelica, gli occhi. Le orecchie,
invece, aguzzate per ascoltare i versi (e le canzoni) di un Bardo
rock, dark, in una trasposizione – l'ennesima, verrebbe da dire, e invece no –
che non lo prende alla lettera, ma ce ne ricorda l'attualità
sconcertante. E la sconsideratezza di qualche film italiano che sa
stupire e stranire, visivamente e non solo, assicurando che in
questi inferni metropolitani e metaletterari ci si diverte molto più
che fra gli angeli del paradiso. (7)
giovedì 30 novembre 2017
Mr. Ciak - Torino Film Festival: Tito e gli alieni, Smetto quando voglio: Ad Honorem, Riccardo va all'inferno
mercoledì 29 novembre 2017
Mr. Ciak - Torino Film Festival: The Disaster Artist, Wind River, Final Portrait
Le
orme conducono al cadavere di un'adolescente pellerossa. Mezza nuda,
abusata, ha corso per dieci chilometri prima di morire assiderata:
annegata nel suo stesso sangue. Da chi fuggiva? Jeremy Renner – di
solito spalla da poco, qui protagonista tormentato e convincente come
mai prima d'ora – imbraccia il fucile, si mimetizza, e va a caccia
di felini e assassini a sangue freddo: la giovane vittima e una
figlia morta allo stesso modo, invendicata, sono accomunate da un
simile destino e da una lunga amicizia tra i banchi di scuola. Con
lui, nuovamente nella stessa squadra dopo le poco fantastiche
avventure degli Avengers, il dolce e agguerrito agente
dell'FBI di una Elizabeth Olsen che, per colpa di una sceneggiatura
che non approfondisce, a tratti sembra purtroppo un pesce fuor
d'acqua: impreparata alle temperature in picchiata, al maschilismo,
alla cattiveria vera. Dopo Sicario e Hell or High Water,
Taylor Sheridan – al suo esordio alla macchina da presa, già
premiato per la miglior regia a Un Certain Regard – torna con un
terzo film di frontiera. Gli riconosco ancora una volta un grande
talento, una lodevole propensione per un cinema alla Clint
Eastwood, ma è ancora una volta che non mi convince fino in fondo. E non so
perché. Wind River è un western atipico, ad alta quota. Un
thriller che ai colpi di scena sensazionali e all'ironia dissacrante
di Fargo preferisce il piglio rigoroso delle storie vere.
Potente nelle immagini e nelle razioni al dolore. Artico, ma accorato
nei drammi umani. Si scava nei problemi familiari della vittima, in
una vita amorosa di cui in pochissimi sapevano, nello sporco ben
celato del candido Wyoming. Si parla dei contro dell'immobilismo,
della noia che genera mostri; della (mancata) integrazione delle
poche riserve indiane rimaste in piedi. Di senso di colpa, vendetta e
infinita crudeltà. Quella di una Madre Natura che non guarda in
faccia nessuno. Quella dei nostri simili, che ti sbranano se gli
volti le spalle, dando poi la colpa ai lupi. (7)
lunedì 27 novembre 2017
Recensione: La zona cieca, di Chiara Gamberale
|
La zona cieca, di Chiara Gamberale. Feltrinelli, € 15, pp. 219
|
Non
ci eravamo lasciati bene, no. Adesso, inconcludente e
furbissimo, aveva dato vita a una pausa di riflessione lunga più di
un anno e mezzo. Chiara Gamberale, leggevo in dolce attesa, questo
inverno torna (ma non proprio) con La zona cieca. Si tratta
infatti di una ristampa. Di un romanzo che il prossimo anno soffierà
sulle sue dieci candeline. Ho potuto tirare così un sospiro di
sollievo. Perché sulla Chiara di una volta non ho mai avuto dubbi: è
la nuova, ogni tanto, che mi fa dubitare. Perché questi Lidia e
Lorenzo, io, tanto li ho letti e riletti in ordine casuale. Li
conoscevo già. Mandorla, la protagonista di Le luci nelle case degli altri, era loro condomina: la speaker radiofonica e lo scrittore in crisi creativa facevano
coppia fissa, avevano un cane con il nome di un antidepressivo e si
accapigliavano spessissimo, nell'amore bello e litigarello dei
proverbi delle nonne.
Non
ne posso più di tutto questo altrove, ho bisogno un po' di dove.
Lidia,
a un bivio, più padrona di sé, era anche in quell'Adesso da dimenticare. L'alter ego
dell'autrice – come lei, qualche disturbo alimentare in
gioventù e buoni consigli in radio – incontra
Lorenzo, un maestro nel dare e nel togliere, nel febbraio di un anno
bisestile. Non per un caffè, ma per un giro a un luna park che di
per sé mette un po' di malinconia. Credono che
faranno eccezione. Si prendono e si lasciano. Lei,
troppo malleabile, predica bene e razzola male. Lui, bello e dannato
per copione, con una ex moglie omosessuale e un livido dentro,
dipende dagli stupefacenti ma non dagli altri. Convivono, ma guai a
dirsi insieme.
Nel
suo immaginario Lorenzo era il pesce giallo e blu ferito
nell'acquario dove va a finire il piccolo Nemo, era Spugna l'aiutante
di Capitan Uncino ed era Scar, lo zio cattivo del giovane Re Leone,
mentre, sempre secondo lui, io ero il piccolo Nemo, il giovane Re
Leone ed ero Wendy, che sa volare sull'Isola che Non
C'è ma può anche tornare a casa - questa la sua tragedia, questa
la sua fortuna, diceva. Eravamo Lilo e Stitch.
-
Una bambina delle Hawaii sola al mondo e un mostro orribile
programmato per distruggere, ma che insieme imparano che 'Ohana vuol
dire famiglia.
La
zona cieca è la loro storia
d'amore: con tutte le ansie, i dilemmi e i grattacapi propri delle
coppie di oggi. La compongono le confessioni anonime degli
ascoltatori; i pensieri estemporanei di una trentenne insicura, cotta
e chiacchierona, che qualcuno potrebbe giudicare perfino senza capo
né coda. Eternamente indecisi, Lidia e Lorenzo sono
scordinatissimi: vogliono la stessa cosa, ma le danno nomi diversi.
Fidarsi, affidarsi, significa scoprirsi vulnerabili. Perché finché
siamo soli possiamo penserare a noi: anche diventando, a volte, i
peggiori nemici che abbiamo. Ma in due ecco che ci si scopre più
pieni, più felici, ma anche più tristi per per
un muso lungo. Per un giorno no contro cui, nostro malgrado, nulla
possiamo. L'amore fa miracoli?
La
zona cieca è tutto un processo
di accettazione e di elaborazione, ora frizzante e ora mesto. Finisce
con l'amarezza e una punta di beffa, con i puntini di sospensione,
anche se a differenza loro so già la fine che faranno: so che
possono farsi felici, applicandosi.
La
zona cieca, ancora, è tutto quello che
gli altri vedono di noi ma che ci sfugge – ad esempio, un pezzo di
lattuga rimasto intrappolato fra i denti a cena, o una convivenza
altalenante che bene non fa. Per capirlo bisogna sbatterci
la testa o, in questo caso, rompersi il mento. Lo suggerisce per
email uno sgrammaticato sciamano irlandese come amico di penna. Lo
ribadisce una Gamberale ritrovata con piacere – anche se con due
protagonisti molto difficili da amare, e infatti non li ho amati fino in fondo – che per fortuna, tra queste pagine, mi ha ricordato perché non
sia un'autrice di cui parlare e sparlare per pregiudizio preso.
Vorrei
tanto essere meno triste per farla felice.
Sulle
strade senza uscita, sui coni d'ombra, ci proietta la sua riconoscibilissima luce. E gli
spigoli di un rapporto considerati pericolosi solo perché lasciati al buio, i segreti dell'altro, non fanno più spavento sotto la guida di chi sa e, soprattutto, sa condividere.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Arisa - Ho perso il mio amore
venerdì 24 novembre 2017
I ♥ Telefilm: AHS: Cult | Red Oaks - Stagione 3
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mercoledì 22 novembre 2017
Recensione: Arabesque, di Alessia Gazzola
|
Arabesque, di Alessia Gazzola. Longanesi, € 17,60, pp. 352 |
L'Allieva
mi era mancata. Lo scrivo in ogni post, da sette romanzi a
questa parte, ma tant'è. Questa volta sentireste un po' di sopresa
nella mia voce: una specie di sollievo. Merito o colpa di quella
serie Rai che, non me ne vogliano l'autrice o gli spettatori affezionati, avevo abbandonato trovandola inguardabile –
Alice, che sul divano si gusta in streaming Games of Thrones e
Master of None, mi
perdonerebbe a cuor leggero, abituata bene com'è. C'era il rischio
(noi lettori siamo bestie strane, si sa) di essersela fatta venire a
noia, perfino in antipatia. Questa stessa Alice Allevi, mi domando a
fine lettura, che per qualche giorno ha dissipato le nuvole e la
malinconia di un mese di novembre vissuto con tanta fatica? La Alice che
cambia rimanendo sempre uguale a sé stessa, e non è un
difetto? La Alice a un passo dai trenta, finalmente donna e
indipendente, che sta imparando a diventare adulta senza tradirsi
mai? Come ho potuto dubitarne, io?
La avevo salutata ferma a un bivio, al tempo delle scelte. In Arabesque, un anno dopo, la protagonista è passata da specializzanda a specializzata; da in una relazione complicata a single.
La avevo salutata ferma a un bivio, al tempo delle scelte. In Arabesque, un anno dopo, la protagonista è passata da specializzanda a specializzata; da in una relazione complicata a single.
Le
relazioni umane sono il vero mistero, più della morte.
L'Allieva
non è più tale. Abbandonato l'appartamento universitario, ora vive con Marco: il fratello
minore fotografo, che a ventotto anni ha già un matrimonio fallito
alle spalle e una bambina irresistibile, Camilla, che mostra alla
nostra protagonista le indiscrete gioie del sentirsi chiamare zia. Ha il sogno di
un dottorato che possa riportarla di corsa all'Istituto, eppure amato
e odiato da studentessa, e la prima autopsia da
affrontare in solitaria.
Calma e sangue freddo: sul tavolo d'acciaio c'è una donna di mezza età, un'ex ballerina con un bel vestito Dior e la carotide lacerata, forse per una caduta in giardino o forse per un omicidio accidentale. La morte di Maddalena, étoile sfiorita presto e intransigente maestra di danza, porta la protagonista ad addentrarsi nel mondo luccicante e competitivo del miglior Aronofsky. A riesumare il cadavere di un'altra danzatrice, morta più di dieci anni prima, il cui caso era stato liquidato come suicidio: proprio da un Claudio Conforti che non sbaglia e, peggio, non si perdona. Non c'è spazio per i pasticci, per le mani che tremano, ma per un mistero sì, e questa volta indossa il tutù. Calma e sangue freddo: perché c'è un lui, piacione ma intenerito, che vuole conoscere Alice, non l'allieva Allevi, e magari chissà, fare tappa all'Ikea.
Calma e sangue freddo: sul tavolo d'acciaio c'è una donna di mezza età, un'ex ballerina con un bel vestito Dior e la carotide lacerata, forse per una caduta in giardino o forse per un omicidio accidentale. La morte di Maddalena, étoile sfiorita presto e intransigente maestra di danza, porta la protagonista ad addentrarsi nel mondo luccicante e competitivo del miglior Aronofsky. A riesumare il cadavere di un'altra danzatrice, morta più di dieci anni prima, il cui caso era stato liquidato come suicidio: proprio da un Claudio Conforti che non sbaglia e, peggio, non si perdona. Non c'è spazio per i pasticci, per le mani che tremano, ma per un mistero sì, e questa volta indossa il tutù. Calma e sangue freddo: perché c'è un lui, piacione ma intenerito, che vuole conoscere Alice, non l'allieva Allevi, e magari chissà, fare tappa all'Ikea.
«Sa
com'è, mi lascio trascinare dalle storie degli altri. Sono fatta
così.»
«Forse
le manca una buona storia tutta sua.»
Le
mie parole, davanti all'ennesimo romanzo divertente, intricato e
godibile, tenderanno a ripetersi. Tra casi più o meno ben
strutturati, tra tira e molla più o meno indispensabili, ma con uno
spirito sempre riconoscibile. Questa volta Alice non pasticcia più,
ma non per questo è più seriosa. Non è più un'universitaria, ma
non per questo ha smesso di imparare la lezione. Fa da sé le sue
constatazioni, i suoi esami, ma non abbraccia il cinismo dei
medici legali – ogni corpo ha una dignità, una storia da
raccontare. Arabesque – non
inappuntabile, in definitiva, ma all'altezza della situazione –
lo si conclude presto ma non
troppo, con una risoluzione frettolissisima che poco si regge sulle
punte ma che non lascia comunque delusi. Con la leggerezza
intelligente a cui siamo abituati. Con la simpatia, il cuore in
subbuglio tra più fuochi, a cui per fortuna mai ci abitueremo.
Alessia Gazzola mi era mancata e si conferma, così, una di
quelle autrici da cui non vedi l'ora di far ritorno. Come ho potuto
dubitarne, io?
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Levante – Non me ne frega niente
lunedì 20 novembre 2017
Recensione: Mildred Pierce, di James M. Cain
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Mildred Pierce, di James M. Cain. Adelphi, € 12, pp. 308 |
Nella
Los Angeles degli anni Trenta cadono gli azionisti, gli angeli in
paradiso, ma non la buona stella di Mildred Pierce. Divorziata, madre di
due bambine agli antipodi, sembrerebbe incarnare alla perfezione
l'immagine della buona massaia, dell'angelo del focolare senza
referenze nel curriculum ma con un paio di gambe da capogiro: l'unica
soluzione, se la Depressione con la lettera maiuscola minaccia di
divorare quel che resta di casa sua, è farsi sposare dal migliore
offerente? Chiediamolo alle insegne di Hollywood. Ai tubi di
scappamento delle auto strombazzanti. Alle collane di perle. Ai
grembiuli delle casalinghe e agli abiti a stampa delle signore per
bene. All'America tutta, fissa alla cornetta dopo il tragico crollo
della borsa di Wall Street. A un romanzo scritto quasi ottant'anni fa
che ha la routine e la smania, l'indiscreto fascino della semplicità e
i colpi di testa, di cuore, dei sogni di gloria. Possibili per chi si
rimbocca le maniche, si impunta, combatte. James M. Cain anima con
una scrittura elegantissima e incalzante, forse provocatoria per i
suoi tempi, un personaggio femminile sottile ma mastodontico, di
straordinaria tempra morale – interpretare l'orgogliosa
protagonista ha regalato l'Oscar alla leggendaria Joan Crawford e
premi innumerevoli, tra Emmy e Golden Globe, a una Kate Winslet a
puntate. Il rischio c'era, sì. Di trovarlo pomposo, laccato, fuori
tempo. Mildred Pierce,
a metà tra il noir e il mélo, è un dramma d'epoca con una
scrittura immortale e sfide furibonde. Un superbo romanzo sul
reagire. Anche se gli inevitabili rovesci di fortuna, i tranelli
all'orizzonte, sono impossibili da prevedere: perfino per una donna
come lei, lungimirante e spietata all'occorrenza. Una mamma leonessa
con una figlia serpente.
Mildred
aveva paura di Veda, del suo snobismo, del suo disprezzo, del suo
spirito indomabile; temeva più di tutto qualcosa che sembrava covare
sotto il tono scherzosamente affettato, sotto le pose della bambina:
un desiderio freddo, crudele, volgare di torturare sua madre, di
umiliarla, soprattutto di ferirla.
L'autore
del Postino suona sempre due volte racconta
infatti gli sgarbi della genetica, che a volte ti mette in casa chi
non ti somiglia affatto – una nemica mortale, in questo caso.
L'ottusa caparbietà delle mamme, crocerossine in nome di quel loro
amore viscerale e cieco, che pensano di poter far tutto semplicemente
desiderandolo. Mildred, combattuta fra “l'orgoglio e lo stomaco”,
rifiuta fieramente le divise; l'elemosinare. Da cameriera part-time,
si improvvisa con successo imprenditrice: prima le torte vendute alle
migliori pasticcerie della città, poi una rosticceria tutta sua con
sfavillante insegna verde e parcheggio annesso, infine gli introiti
di ben tre ristoranti da gestire. L'ascesa: solo per conquistare la
stima e la fiducia di una figlia con la vergogna nel sangue. Per
prendersi cura di una piccola tiranna con il desiderio di un
pianoforte a coda e del palcoscenico. L'incantevole e amorale
Veda pretende il cibo pronto in tavola, e non si domanda mai da dove
arrivi. Spinge la madre al meglio, al peggio: al limite. Si
respingono come chi, nel profondo, è uguale. Sono fatte segretamente
della stessa sostanza. Custodi insospettabili della medesima natura
subdola e manipolatrice – Mildred conosce mezzi leciti e illeciti, infatti, e le attenzioni di tre uomini che sono figuranti usa e getta. Ha il
timore di non essere all'altezza. Sfidare testardamente tutti, tutto,
serve a dimostrare a Veda il contrario. Proprio come il volerla sofferente, a terra, per il desiderio malsano di poterla finalmente
aiutare. Farla capitombolare rovinosamente dal piedistallo solo per
tenderle una mano? Ottenere l'ottenibile, e poi? Nutrita
l'inquietudine, scoprirsi magari in pace, felici? Non era meglio una
vita onesta, di pasticcini da glassare e piccoli dispiaceri?
«Lei
ha mai visto quei piccoli serpenti, allo zoo? Quelli che vengono
dall'India, quei bei serpentelli rossi, gialli e neri? Lei forse se
ne porta a casa uno, per addomesticarlo come un cagnolino? Non sarà
così stupida, immagino. Ebbene, mi creda, questa Veda è così. Se
vuol vedere il serpente, comperi il biglietto, ma non lo porti a
casa. No.»
Si
fa un disperato tentativo di tornare indietro, sulla scena del
crimine dei propri lussi esagerati; dei propri sbagli. Ma più sali
in alto, più ti fai male quando cadi.
Mildred Pierce è un romanzo di emozioni intense e scomode, di dive per sempre, che sgomita furiosamente verso la fragile illusione del sogno americano – ignaro che si trovi a confine con l'abisso. Su sigarette, ed esistenze, bruciate fino al filtro. Consumate a boccate avide, lussuriose, vivendo sempre al massimo.
Mildred Pierce è un romanzo di emozioni intense e scomode, di dive per sempre, che sgomita furiosamente verso la fragile illusione del sogno americano – ignaro che si trovi a confine con l'abisso. Su sigarette, ed esistenze, bruciate fino al filtro. Consumate a boccate avide, lussuriose, vivendo sempre al massimo.
Il
mio voto: ★★★★½
Il
mio consiglio musicale: Blondie feat. Philip Glass - Heart of Glass
sabato 18 novembre 2017
Mr. Ciak: Indignazione, Auguri per la tua morte, Maudie, Fortunata, Sole cuore amore
Indignazione è stato il mio primo Philip Roth: a sorpresa, il romanzo più bello
della scorsa annata. C'era il rischio, a fine lettura, di non vedere la trasposizione cinematografica con i giusti occhi, nonostante la buona accoglienza al Festival di
Berlino e i plausi qui e lì: inevitabile quando una storia ci tocca,
ci scuote. Un po' per sicurezza, un po' per noia, ho lasciato passare
undici mesi. Sono servite le dovute precauzioni, la giusta distanza,
a farmi prendere a cuore quest'altro avvocato delle cause perse,
questo Marcus fattosi di carne e ossa? La sua educazione
sentimentale, la sua silenziosa ribellione nei primi anni Cinquanta,
passa attraverso le tappe che ricordavo: l'interrogarsi sulla vita
sessuale della ragazza con cui esce; gli insospettabili genitori che
pensano al divorzio; l'opporsi strenuamente alla guerra e a Dio.
Marcus ci crede: si impunta, fino a farsi venire i travasi di bile;
fino a una tragedia tutt'altro che annunciata. Tutto accade dietro la
scrivania del superbo Tracy Letts, o a colloquio al capezzale del
protagonista. Al cinema, Indignazione
sembra già vecchio. Sarà la fedeltà filologica, per una volta
eccessiva, verso un coming of age che ha la maleducazione dei
vent'anni e la velocità del racconto; sarà una sceneggiatura
elegante e misurata, emotivamente lontana, che non si getta mai a
capofitto nel travaglio interiore di lui; sarà che risulta più
pesante, più teatrale, più sconfitto. Lo accompagnano le scale al
pianoforte, la fotografia patinata, le fattezze rassicuranti di due
protagonisti eppure bravissimi – la fragile e fatale Sarah Gadon e
un Logan Lerman, dopo Noi siamo infinito,
che torna a interpretare con convinzione un altro dei
personaggi del mio cuore di lettore. Roth bolle e sbolle.
Esplode di rabbia repressa. La regia di Schamus, invece, ha il grande difetto di
risultare impersonale: imperdonabile con un protagonista di
tale levatura. Che alza sempre la voce, che sa come farsi notare. Per
Marcus, inevitabilmente, tutto va come deve andare. Ma questa
lentezza, questa flemma, questa vaga leziosità, con l'indignazione
del titolo purtroppo poco hanno a che fare. (6)
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Sergio Castellitto
giovedì 16 novembre 2017
Recensione: Una questione privata, di Beppe Fenoglio
|
Una questione privata, di Beppe Fenoglio.
Einaudi, € 12, pp. 192 |
Al
liceo, di malavoglia, imparavo a memoria i versi dell'Orlando
Furioso. Le donne, i cavalieri, l'arme e gli amori, le
audaci imprese. Di Ariosto, anni dopo, ricordo l'avventura di
Astolfo sulla luna ben più delle passioni della contesissima
Angelica. In sella all'ippogrifo del mito, il cavaliere volava in
cerca dell'ingegno che l'amico Orlando aveva smarrito: racchiuso in
un'ampolla e della stessa consistenza di un liquido sottile e
scivoloso. Facile lasciarselo sfuggire dalle mani, dalla testa, se
pazzi d'amore e di gelosia. All'università, anche se per vie
traverse, sono arrivato a leggere il romanzo postumo di Beppe
Fenoglio – in questi giorni, potreste incrociare il titolo su un
poster del vostro multisala di fiducia: è diventato un film dei
Fratelli Taviani, con Luca Marinelli per protagonista. Come il
paladino di Carlo Magno, anche Milton ha perso la testa. Vive una
doppia guerra, combattuta dentro e fuori se stesso. Vaga senza meta
da una parte all'altra di quelle Langhe cupe, sotto assedio, di una
storia breve e appassionata mossa da violente forze centripete.
Galeotti, ora come allora, una ragazza impossibile e un rivale
inatteso.
“E
cose allegre non ne traduci mai?” “Mai”. “E perchè?”
“Nemmeno mi vengono sott'occhio. Credo che scappino da me, le cose
allegre.”
Probabilmente
però, figlio di un macellaio di paese e accanito lettore di
letteratura americana, Fenoglio – come il suo protagonista,
partigiano nel 1943 – ai sospiri e alle rime del ciclo carolingio
non dovette pensare mai. Una questione privata,
incompiuto e parzialmente autobiografico, è il racconto di
un'ossessione che fa infangare le suole degli stivali e impazzire
l'ago della bussola. Si inizia e si finisce con i piedi in moto, un
ritmo marziale, e la nebbia. Quella che si posa come un drappo
pesante e confonde i percorsi, le intenzioni, i contorni. La guerra,
vissuta in prima persona, non è soltanto fuoco e rumore, ma
disorientamento. La violenza – dei sentimenti, dei gesti – ti fa
brancolare. Ti travia. C'è la nebbia, sì, quando Milton indugia
all'ingresso della villa di Fulvia. Lui di una bellezza spiacevole,
malinconica, con un talento per la scrittura e le lingue straniere,
due occhi assolutamente spiazzanti e troppo in comune con me. Lei,
irresistibile civetta con i vestiti leggeri, una sigaretta tra le
labbra e infiniti balli sulle note della Garland. Tra loro c'era
Giorgio, aitante figlio di papà contro cui Milton nulla ha mai
potuto: perché suo unico e migliore amico, perché sconfitto in
partenza.
Io
non sopporto più di non ballare mai con te.
Il
conflitto interrompe il loro triangolo. La resistenza e una domestica
con la lingua lunga portano poi dubbi su dubbi. Dov'è adesso Fulvia?
Lei e Giorgio, soprattutto, si sono amati per tutto il tempo alle sue
spalle? Ha inizio, così, una ricerca che minaccia di interrompersi
con la notizia che l'amico dal pigiama di seta – ora, ufficialmente
rivale – è caduto in mano ai fascisti. Milton non si arrende,
invece, e parte da qui. I suoi compagni non sanno che non è
questione di eroismo, bensì di cuore. Sempre in allerta, tra
calorosi gesti d'ospitalità e il cameratismo con commilitoni con cui
scambiarsi soprannomi e aneddoti, Fenoglio e il suo Milton
abbandonano il lirismo dei primi due capitoli per un prosieguo meno
godibile, secco e quasi spionistico, con il bellissimo contrappunto
della gelosia di lui tra le righe. Gli altri personaggi, mai presenti
in scena se non attraverso il ricordo, accompagnano l'affannarsi
solitario e disperato del partigiano.
Sono
sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto... Sono
scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come non mai e mi son
visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho
visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso.
In
Una questione privata, per
fortuna, si parla più del cuore che del fucile, nonostante la
frenesia e la crudeltà prendano il sopravvento in un finale
misterioso che finale non è. Per me, eppure, è perfetto così.
L'anti-eroe dello scrittore piemontese cerca un ostaggio per fare a
cambio con Giorgio. Un senso all'amore suo e alla guerra degli altri.
Cerca in lungo e in largo, bagnandosi nella pioggia e rotolando sui
fianchi delle colline, per il gusto di continuare a correre e cercare
ancora. Per la paura di morire fermandosi. Di scomparire al levarsi
di una foschia densa, imperitura, costante, in cui si trattiene il
respiro peggio che sotto il fuoco incrociato della trincea. E forse
trova tutto, Giorgio e Fulvia, un senso e il ristoro, il coraggio di
frenare finalmente la sua corsa, da qualche parte oltre la nebbia. Da
qualche parte, oltre l'arcobaleno.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - La canzone dell'amore
perduto
martedì 14 novembre 2017
Recensione: Ci vediamo un giorno di questi, di Federica Bosco
|Ci vediamo un giorno di questi, di Federica Bosco. Garzanti, €
16,90, pp. 310 |
A
volte, basta tanto così a far scattare la scintilla. Uno scambio di
merende a rincreazione, ad esempio: vorresti questi biscotti biologici in cambio di un morso del tuo panino al prosciutto? La
riservata Ludovica non sa dire di no alla sfacciata esuberanza di
Caterina, l'unica bambina a scuola che sembra accorgersi di lei. Al
suono della campanella sono già migliori amiche. Lo saranno per
tutta la vita che resta, nella buona e nella cattiva sorte.
A
volte, basta tanto così per scoprirsi soddisfatti, dopo letture
intense, impegnative o semplicemente deludenti: la freschezza di
quella Federica Bosco, ad esempio, che prima o poi mi toccava proprio
conoscere. Volevo la leggerezza e, senza troppa sorpresa, ho
trovato qualcos'altro: qualcosa di più. Lo scrivevano in rete gli
affezionati di un'autrice con la quale, tra cinema e televisione,
saghe per ragazzi e chick lit, è impossibile stare al passo.
Quest'anno mi ha aspettato in fondo al molo della copertina. Con
qualche nuvola all'orizzonte, il mare come una tavola e una storia adulta, su una forma d'amore che non aveva ancora
raccontato. Perché l'amicizia tra Cate e Ludo, sì, sempre
amore è. E, come ogni amore che si rispetti, ha i suoi alti e bassi,
le sue gelosie, i suoi conflitti di interessi.
L'amore
di chi ti sta accanto non ti guida mai nella direzione sbagliata.
La
prima, mamma single che non ha mai dato spiegazioni sull'identità
del padre di suo figlio, salta nel vuoto per atterrare agilmente in piedi: ha sprezzo del
pericolo e un'attività – un centro olistico nel cuore di Genova –
che, alla faccia degli scettici, non conosce crisi. La seconda tira
invece a campare come se non avesse più scelta: un lavoro in banca
noiosissimo, la relazione abitudinaria con il possessivo Paolo, i pochi bagagli a mano di chi ha paura di costruirsi un futuro
e quindi vive giorno per giorno, un passo dopo l'altro. Quanto ha
sacrificato per seguire Cate sulle montagne russe, e quanto dovrà
sacrificare ancora? Quanto pesa il dubbio che la loro invidiata
affinità elettiva l'abbia fatta vivere nell'ombra, appesa alle
scelte volubili dell'altra? Ci si ritrova a tavola però, in cene
popolose e colorate a festa come in un film di Ozpetek, e tutto
passa. Forse, anche la tempesta che tra le pagine minaccia di
separarle. A quarant'anni, la protagonista dovrà contare sul suo
solo senso dell'orientamento: imparare a nuotare dove non si tocca, e
a portare in salvo anche una Caterina che d'un tratto non sembra più
così inarrestabile. Si passa attraverso le gravidanze, i matrimoni,
la malattia e la violenza domestica, i biglietti aerei in missione
dall'altra parte del mondo. Si pensa finalmente a sé stessi, anche
se un deus ex machina – un'amica che è un architetto di felicità
e buone intenzioni – pianifica disastrosi incontri su Tinder,
lasciti scaramantici e case per cagnetti disabili.
Perché
il cuore è sempre un ingenuo idiota, che crede che gli altri ti
ameranno sempre anche se non ti hanno mai amato, che gli altri
soffrano per te anche se non hanno mai sofferto, e soprattutto che
chi ti ha fatto male non si rifarà mai e poi mai una vita, ma
continuerà a scontare un'eterna fila di delusioni a catena come
fossero una maledizione, finendo per rimpiangerti.
Ma
questo non succede mai. Vanno tutti avanti proprio come vai avanti
tu.
La
Bosco ha una parola buona per tutti, infischiandosene del rischio di
risultare banale. Frizzante e propositiva, non si piange addosso. Coi
suoi alti e bassi, i suoi grandi momenti di sincerità e qualche
esagerazione di troppo, ma un bene – il calore in pancia, in petto
– che per fortuna ha la meglio sui difetti sparsi. Ci vediamo un giorno di
questi è una commedia degli
equivoci (e quanti ce ne riserva, quella bastarda impenitente della
vita) che fa bene anche facendo male. Un album di ricordi lungo,
vario, pieno zeppo, che non sbiadisce in fretta. Si riconoscono a
colpo d'occhio i soggetti principali, infatti, e saranno sempre i soliti due. La mora
e la rossa, quella istintiva e quella flemmativa: amiche, sorelle,
contro l'inerzia e i rovesci di fortuna. Mi hanno ricordato Toni
Collette e Drew Barrymore nel buffo e struggente Miss You Already, che sbronze e
terrorizzate cantavano abbracciate i R.E.M. Capisci subito perché si
vogliono tanto bene. Alla fine gliene ho voluto anch'io, in un anno
in cui sto imparando ad aprirmi, a fidarmi. In cui, da solitario
cronico, sto capendo che non poteva mancarmi quello che non avevo mai
conosciuto. Ora mi manca.
Federica,
ci rivediamo un giorno di questi: presto. Ora potresti
mancarmi anche tu.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Levante – Abbi cura di te
domenica 12 novembre 2017
Recensione: La natura della grazia, di William Kent Krueger
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La natura della grazia, di William Kent Krueger. Neri Pozza, €
18, pp. 350 |
L'estate
mi manca. Mi lamentavo, eppure, del sole che bussava alle finestre e
della calma piatta del mare. Me ne accorgo adesso: con le nostalgie
che pesano e cieli grigi che mi vogliono prigioniero di una casa da
cui scappo, ogni tanto, a passeggio proprio sul bagnasciuga sporco e
desolato dell'inverno. Ecco il desiderio fuori stagione di un portico
all'ombra, di una limonata fresca, delle notti illuminate a giorno
dai fuochi artificiali.
Mi
manca essere un ragazzino. Non vedevo l'ora di crescere, eppure,
perché qualche giorno fa mia mamma mi ha ricordato al telefono che,
tanto, sono sempre stato un bambino grande: al corpo toccava solo
adeguarsi a pensieri e preoccupazioni già adulte. Ecco il bisogno di
ritornare con una macchina del tempo, con un romanzo che aspettavo
senza neanche saperlo, alla curiosità e alla spensieratezza della
prima adolescenza. Ho avuto la mia lunga estate crudele e tredici
anni esatti in compagnia dell'indimenticabile famiglia Drum. Ho
scoperto, accanto ai giovani protagonisti, la morte, la collera e i
miracoli del perdono.
Mi
mancherà, come mi mancherebbero i pettirossi se non tornassero mai
più.
Siamo
nel 1961. Il telefono squilla nel cuore della notte. Lo sentite? I
piccoli di casa, Frank e il balbuziente Jake, drizzano le orecchie e
mettono le scarpe in fretta e furia. Si interessano agli incarichi
del capofamiglia, ai grattacapi che puntualmente saltano fuori, come
se fossero due apprendisti detective. Ubriachi molesti, un loro
coetaneo travolto dal treno in corsa, tentati suicidi e nella
peggiore delle notti, a metà romanzo, la notizia di un assassinio
che li tocca e li spezza. Li obbliga a crescere in tre mesi scarsi.
Il loro papà, Nathan, ispira in paese la stessa reverenza dei
militari – la Seconda guerra mondiale lo ha infatti cambiato per
sempre – ma è un pastore battista, non un agente di polizia. Lo si
scomoda, a letto, per qualche pecorella smarrita da riportare
d'urgenza all'ovile; per un consulto veloce sulla bontà di un Dio di
cui è cosa umana dubitare. Gli borbotta accanto Ruth, la moglie:
donna bellissima e infelice, con una voce d'angelo e sogni di gloria
sacrificati in nome della vita frugale ma decorosa scelta dal padre
dei suoi figli. Rincasa tardi e di nascoso, invece, la promettente
Ariel: adolescente che pensa all'amore romantico e alla Juilliard,
ignorando la curiosità dei fratelli minori ancora in piedi e la freddezza
fra i genitori.
Come
in Grandi speranze,
uno dei miei romanzi preferiti, c'è un ricercato in fuga e una
famiglia sfortunata – i Brandt come gli Havisham – il cui
patriarca è un virtuoso del pianoforte, condannato alla cecità e
alla compagnia della sorella sordomuta. Come nel Buio oltre la siepe, protagonisti innocenti
vengono a patti con i sospetti del razzismo – nell'occhio del
ciclone, un misterioso Sioux capitato nel posto sbagliato al momento
sbagliato. Come in Mystic River,
e voglio sottolineare l'entusiasmo dello stesso Dennis Lehane in copertina, c'è un fiume che a volte dà la morte, altre la
libertà. William Kent Krueger ricorda tanto, tanto altro
(aggiungeteci il bullismo e l'amicizia del miglior Stephen King, i
problemi in paradiso di Benedizione),
ma in questa giostra di echi e omaggi non smarrisce chissà in che
modo lo stile, la magia, la bellezza.
Quell'estate
la morte venne a visitarci assumendo molte forme: incidente,
malattia, suicidio, omicidio... Si può pensare che la ricordi come
un'estate funesta, ed è proprio così, ma non del tutto. Mio padre
citava Eschilo: colui che apprende deve soffrire, e persino nel sonno
il dolore, che non piò dimenticare, cade goccia a goccia sul cuore,
finché, nella nostra stessa disperazione, contro la nostra volontà,
giunge la saggezza attraverso la terribile grazia di Dio.
La
natura della grazia non è il
solito amarcord. E di
grazia ne è ricco, sì, benché abbia i colori foschi del thriller;
gli strappi dolorosi di certe infanzie negate, di certi sogni
infranti. I toni: quelli ispirati e solenni di chi è sopravvissuto
al peggio, ed è grato per un altro giorno al mondo, la giustizia che
fa finalmente il suo corso, il ritorno del senso di Dio. Raccontato dalla voce
rotta ed emozionante di un Frank ormai uomo, il romanzo è
una conta struggente dei vivi e dei morti, dei ricordi belli e
brutti. Una passeggiata all'ombra dei tigli, una corsa proibita sulle
rotaie, con atmosfere d'altri tempi e amici che impari a chiamare uno a uno per
nome. A tredici anni, in estati così, tormentate da scoperte e colpe
criminose, si rischia di perdersi. Seguire le briciole di pane e il
disegno dei binari, la meraviglia a ogni passo, per fortuna riporta
sulla via di casa. Al fresco dei portici e delle limonate. Alle notti
che poi passano.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Jeff Buckley - Grace
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venerdì 10 novembre 2017
I ♥ Telefilm: Alias Grace | The Booth at the End
Grace ha violato il quinto comandamento. Ha ucciso. Condannata
all'ergastolo, ha evitato
l'impiccagione per il beneficio del dubbio. Immigrata irlandese poco
più che adolescente, avrebbe massacrato i padroni di casa con la
complicità di un garzone. Un giovane psichiatra, quindici anni dopo,
la interroga. La verità sfugge. La
protagonista taglia e cuce, inventa e soggioga, si difende con parole
studiatissime, lo seduce. Con il suo viso angelico, coi suoi misteri
insolvibili, diventa un'ossessione. Sarà innocente o colpevole? O
l'una e l'altra cosa, se scrive Margaret Atwood, sceneggia Sarah
Pauley, dirige Mary Harron e le piccole sfumature, sì, contano?
Period drama in sei puntate, senza particolari guizzi ma con un cuore
bugiardo fino all'ultimo, Alias Grace inquieta
e confonde. Ha i suoi difetti in qualche svolta soap di
troppo – il prevedibile transfert vissuto da un imbambolato Edward
Holcroft, eppure intenso amante di Ben Whishaw in London Spy, o il doppio ruolo del
furfante Zachary Levi – e in un epilogo accelerato, dopo qualche
episodio a metà scorso invece a rilento. Ispirata a una storia
vera ma con una fortissima matrice letteraria alla
base, la miniserie della regista di American Psycho si
muove sul filo. La coerenza, sacrificata per fedeltà assoluta a una
protagonista manipolatrice: Sarah Gadon,
assassina impenetrabile e incantevole. Paranormale, follia, o forse
semplice menzogna? E quel finale ambiguo, che svela e non svela:
sospeso o inconcludente? Gli sguardi in camera che tanto mi avrebbero
fatto dannare l'anima in un'ora e trenta, i puntini di sospensione, a
lungo hanno invece finito per infastidirmi. A volte, soprattutto in
un tocco femminile impossibile da fraintendere, Alias Grace
somiglia alla Maurier di My Cousin Rachel: una caccia alle
streghe guidata dal pregiudizio dei tempi, dalla misoginia, in cui
l'essere donne era il vero crimine da scontare. Altre a un Gone
Girl in costume, in cui a una
protagonista messa con le spalle al muro spetta l'ultima parola.
Altre ancora, e lì non convince chi come me non apprezza il genere, a un
feuilleton che sacrifica il dramma giudiziario, la seduzione del
doppio gioco, in nome di una classica storia di orfane sfortunate e
grandi soprusi. Di The Handmaid's Tale,
inevitabile metro di paragone, mancano purtroppo la sorpresa, lo
spessore, la doppiezza. E dalla penna della Atwood – per un soffio,
mancato premio Nobel – quest'anno ci si aspettava l'impossibile en
plein. (6)
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