giovedì 31 ottobre 2019
Mr. Ciak: Scary Stories to Tell in the Dark, Crawl, Eli, Wounds e altri horror per il tuo Halloween
lunedì 28 ottobre 2019
I ♥ Telefilm: Modern Love | Unbelievable | El Camino
venerdì 25 ottobre 2019
Recensione: La ragazza delle meraviglie, di Lavinia Petti
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La ragazza delle meraviglie,
di Lavinia Petti. Longanesi, € 18,50, pp. 448 |
Ci
andò a morire Partenope, la creatura leggendaria uccisa dall’amore
non corrisposto per il subdolo Ulisse.
Ci
fece tappa per l’ultima volta Virgilio, il poeta con la fama da
mago, che scelse di farsi seppellire nel quartiere di Piedigrotta.
A lungo fu il principale porto affacciato sul Mediterraneo.
A lungo fu il principale porto affacciato sul Mediterraneo.
Dal
mare arrivavano spezie, stoffe e maledizioni. Dal mare, ancora,
arrivavano i forestieri e le sirene. A volte per viverci, altre per
morire. Quante storie lontane sono rimaste intrappolate nel sartiame
e nei vicoli? Quante ne ha ispirate una città che, a furia di
custodirle per le generazioni successive, si è trasformata nella
storia più affascinante di tutte? Sterminata, contraddittoria,
antichissima, Napoli fa bene alla pancia e alla fantasia. Deve
portare fortuna. Quest’anno ci sono stato prima con Storia del nuovo cognome, poi attraverso gli occhi della studentessa
straniera di Perduti nei Quartieri spagnoli, ma
purtroppo manco in città da un po’. E mi manca. Si può provare
nostalgia di qualcosa che non conosci bene o che forse non hai mai
conosciuto? Nato in Sicilia da genitori casertani, cresciuto poi a
cavallo tra Molise e Abruzzo, ho radici frastagliate e nessun senso
di appartenenza. Ma se c’è una regione che sento nel profondo più
delle altre è la Campania. Sarà che quando mi arrabbio scappano
puntualmente improperi in quel dialetto buffo e sanguigno. Sarà che
i miei nonni dicono che lì splenda sempre il sole e che tutti,
proprio tutti, abbiano questa gran voglia di cantare. Sono
meteoropatico, somatizzo le giornate uggiose fino a star male, e
anch’io sin da bambino cantavo – Claudio Baglioni al
karaoke, per quanto lo rinneghi, e soprattutto storie di janare.
Avere l’occasione di rileggere finalmente Lavinia Petti è stato un
ritorno a casa.
Appena
lo vide, Fanny capì che ogni passo che aveva mosso dal Moiariello
era stato un passo verso di lui. Aveva dato retta all’istinto
sconosciuto che guida la gente di mare, che quando è triste ha
bisogno della sua vicinanza per mitigare la sofferenza. Come il sale,
che cura le ferite ma prima le fa bruciare.
Scoperta qualche anno fa con Il ladro di nebbia, esordio stupefacente da
me consigliato per vie ufficiali e ufficiose, la giovane autrice
napoletana è di nuovo in libreria con un romanzo dal destino
tortuoso ma dalla resa perfetta. Nel tempo l’ho scritta, l’ho
tampinata, l’ho aspettata come accade di raro.
Lavinia
mi raccontava in privato di una gestazione lunga e faticosa; di una storia
uguale ma diversa dalla precedente, in cui far convergere il frutto
delle sue ricerche e i segreti di un capoluogo che per comodità ama
talora schermirsi dietro il cliché. L’attesa, non gliene ho fatto
misteri, è stata ripagata. E dalle pagine della Ragazza delle
meraviglie emerge infine l’affresco di una Napoli inedita –
probabilmente l’autentica protagonista –, che solo il regista
Ferzan Ozpetek ha provato a svelarci di recente fra riti esoterici, simbologie arcane e sguardi di seduzione.
Francesca Annunziata, detta Fanny, è nata laggiù: peccato non si
sappia da chi. Salvata dalla Ruota degli Esposti da una coppia di
coniugi maledetti dalla sterilità e dalla piaga dei parenti
impiccioni, la quattordicenne senza passato cresce bruna, selvaggia
e malinconica. Né grande né piccola, enigmatica in primis agli
occhi di sé stessa, fruga nelle case sfitte e nelle scatole di
scarpe: ha la propensione a cacciarsi nei guai e un inquietante sesto
senso che di notte la porta a fronteggiare incubi catastrofici e
premonizioni mortifere. Le sue origini, un segreto di Pulcinella di
cui venire a capo. Potranno il ritrovamento di una moneta vecchia di
millenni e una chiave ossidata guidarla fino ai genitori biologici:
gli unici a poter fugare la sua fama di strega, assieme alla sindrome
d’abbandono che l’affligge?
«Pensano
che sia una terra di luce. Si sbagliano: il Sud è pieno di tenebre.
E le tenebre allettano gli uomini, soprattutto quelli che credono
nella ragione. Un uomo razionale e ambizioso difficilmente resisterà
alla tentazione di spazzarle via», fece una pausa. Quando parlò la
sua voce era bassa, dolente. «Mi chiedo se sto commettendo un errore
a voler salvare Napoli dai suoi fantasmi, a volerla salvare dal suo
passato.»
Con
il profilo mastodontico di Castel dell’Ovo all’orizzonte, mentre
i gechi – fate in incognito, si mormora – scorrazzano sui muri
scrostati e i tinelli ospitano le macchinazioni di una strana
congrega al femminile, le ricerca della protagonista la porterà a
domandare informazioni a prostitute dal trucco sbavato – Clemenza
–, agli antiquari con le cravatte a fantasia – il signor Marrone
–, a politici senza scrupoli – Augusto d’Avalos – che
promettono di dare un nuovo assetto alla città a discapito della
tradizione.
È
una Napoli d’inverno, la sua, eccezionalmente fredda. Risulta
piacevolissimo, allora, rifugiarsi nei bar per bere cioccolate
bollenti e caffè forti, concedersi lo sfizio irrinunciabile di un
morso di pizza con ricotta e cicoli, ricercare il calore umano della
folla che infesta i mercatini caratteristici e i negozi d’anticaglie.
È
una Napoli lontana dagli occhi ma mai dal cuore, stratificata.
Proprio sotto il suolo cittadino, infatti, vive in silenzio
un’esistenza parallela. Ha tunnel labirintici, pozzi e
nicchie di tufo, templi sotterranei. Appare esplorabile, eppure, in
sella alla bici di Tommaso: un coetaneo agorafobico e sfregiato dal
fuoco – un munaciello –, con cui avventurarsi fino a un
casolare di pietra della costa sorrentina.
Il motto di Fanny, spavalda quanto la Lila di Elena Ferrante: «Io non mi metto a paura ‘e niente». Vorremmo avere tutti un briciolo del suo coraggio.
Il motto di Fanny, spavalda quanto la Lila di Elena Ferrante: «Io non mi metto a paura ‘e niente». Vorremmo avere tutti un briciolo del suo coraggio.
Qualcosa
di vero c’è sempre, ma quando si tratta delle leggende popolari di
questa terra, vecchie di secoli o millenni, c’è da impazzire.
Possiamo scavare, arrivare al centro del pianeta e spuntare
dall’altra parte, ma nella maggioranza dei casi quello che
ricaveremo saranno solo altri racconti. Racconti che rimandano ad
altri racconti, in un gioco di specchi. Viviamo in quella parte di
mondo in cui chiunque cerchi la verità è destinato a trovare
storie.
La
ragazza delle meraviglie è scandito da episodi
spettrali, in cui c’è poco d’intentato o d’inventato. Dove la
suggestione è di casa e la mappa topografica riporta quasi alla
mente i viottoli di Diagon Alley, si tramanda che un uovo magico
preservi gli equilibri malsicuri del luogo, che i sogni siano da
prendere sul serio – consultate la Smorfia, per esempio, che li
prende davvero alla lettera – e che la maschera di Pulcinella, qui
presenza tutt’altro che rassicurante, sia un tramite con l’aldilà.
Nell’architettare una trascinante ballata dal gusto rétro, che ci
ricorda di capitolo in capitolo gli amori impossibili tra i marinai e
le sirene, Lavinia non dimentica l’attualità. Le rimostranze grandi
e piccole amplificate da un megafono in piazza, i teatri che chiudono
per far posto ai supermercati costruiti in serie, i monti crivellati
sin nelle viscere dagli appalti abusivi. Non c’è niente di sacro:
neanche l’arte, neanche l’infanzia di un’innocente.
È
una Napoli da salvare non dallo tsunami, ma semplicemente da noi
stessi.
È una Napoli presso cui tornare, usando l’incanto di questa storia
come fosse una bussola. L’immaginazione contagiosa di Lavinia Petti
la illumina a giorno, la scandaglia, la protegge. Ne fa meraviglie.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Roberto Murolo e Mia Martini – Cu’mme
lunedì 21 ottobre 2019
Recensione: La clausola del padre, di Jonas Hassen Khemiri
Com’è
il rapporto con i membri della vostra famiglia? Dalla sincerità
della risposta potrebbe dipendere la percezione dell’ultimo romanzo
dello svedese Jonas Hassen Khemiri: una rimpatriata caustica e
dolce-amara su tutto quello che una coppia di neosposi innamorati,
probabilmente, preferirebbe non sapere. Con la mia famiglia, come sa
chi mi legge da qualche anno, i rapporti son tesi. Da figlio maggiore
ho il compito ingrato di coordinare i movimenti degli altri, sparsi
in tre diversi angoli dell’Italia; di ricordare cosa posso dire a
mamma e cosa devo nascondere a papà, o viceversa; di far sì,
attraverso messaggi che sono autentiche newsletter, che un fratello
con la memoria da pesce rosso ricordi di onorare i compleanni, gli
onomastici, le feste comandate. L’ultima occasione per riunirsi è
stata la mia laurea, ad aprile. Ero più preoccupato per le loro
interazioni che per il discorso di dieci minuti da ripetere al
cospetto della commissione, o di quelle scarpe eleganti un po’
troppo larghe. Si sarebbero comportati bene? Sarebbero stati a loro
agio chiusi a forza nell’aula magna? Ho evitato festeggiamenti
formali per non fronteggiare l’imbarazzo di vederli costretti alla
stessa tavolata. Abbiamo brindato in piedi, sul prato
dell’università, con i bicchieri di plastica e mio padre da un
lato, mia mamma d’altro, mio fratello che all’occorrenza faceva
da spola. A fine giornata ho tirato un sospiro di sollievo: basta,
finiti i momenti di aggregazione. E se ti sposi?, ribatte chi
mi è vicino. E se hai un figlio?, rilancia. L’angoscia di un’altra
occasione ufficiale – io che m’improvviso equilibrista, io che
per quieto vivere ridimensiono nuovamente i miei entusiasmi – è
l’anticoncezionale migliore.
L’amore
è una dittatura, pensa il papà, e le dittature sono un bene, perché
non era mai stato così felice come quando non aveva la minima
libertà, quando l’unica cosa che sapeva era che non poteva stare
lontano da lei. Lei. Sua moglie. La sua ex moglie.
Leggere La
clausola del padre ha significato scoperchiare un vaso di
Pandora di amarezze, memorie, rancori personali. Lo
consiglierei con il contagocce, tant’è incandescente. Chi ha la
fortuna di non esserci passato potrebbe reputarlo folle; chi ha un
matrimonio in cantiere, magari bambini in arrivo, potrebbe trovarlo
fatale. Impietoso, divertentissimo, pieno zeppo di tiri pancini e
parole non dette, il romanzo ha punti di vista complementari ma
assolutamente inconciliabili.
C’è
un padre straniero che ogni cinque mesi, due volte all’anno, torna
in Europa un po’ per affetto e un po’ per opportunismo: burbero e
presuntuoso, malato di diabete, si addormenta davanti alla TV per
fugare la solitudine e all’arrivo in aeroporto – in un marasma
invidiabile di parenti, autisti, amanti – non ha nessuno ad
aspettarlo. Quali torti avrà mai commesso quel vecchio con il
pallino della fuga e dei film d’azione, che da quando si è
scoperto cagionevole ha la pretesa illegittima di essere considerato
fragile? Suo figlio, a sua volta genitore di due bambini
insopportabili, è troppo impegnato per occuparsi anche delle
recriminatorie dell’anziano: commercialista in pausa, si prende
cura dei piccini quando la compagna è a lavoro e vive il ruolo di “mammo” con una costante ansia da prestazione. Un tempo
abbastanza intraprendente da strappare la fidanzata a un altro uomo
attraverso un’appassionata corrispondenza telematica, ora fa fiasco
alle serate di stand-up comedy e non ha voglia di riappropriarsi di
una relazione senza più l’intimità originaria. Troverà le parole
per dire al padre in visita che questa volta non è aria, lui che per
natura è compiacente e paciere quanto il sottoscritto? Poi c’è la
sorella minore, donna in carriera reduce da un matrimonio
fallimentare e dichiaratamente allergica alle storie serie: istintiva
e libertina come un’eterna adolescente – leggera come lo sono
spesso i secondogeniti, i più coccolati, nonostante un dolore
nascosto nel passato –, come reagirà quando il test di gravidanza
le comunicherà che lei e il suo fidanzato occasionale, un adorabile
cinefilo di sette anni più giovane, sono in dolce attesa?
Non
conosco nessuno che abbia una relazione normale con qualcun altro,
tanto meno i suoi genitori. E questa relazione quanto è normale?,
aveva scritto lui. Il giusto, aveva risposto lei. Ogni nuova mail
apriva la strada a qualcosa di più. La sensazione era quella di
avvicinarsi a un frisbee invisibile e farsi trascinare via dalla
realtà. Di avvicinarsi a qualcosa che ti trasforma in una versione
migliore di te stesso. In realtà non sono poi così divertente,
aveva scritto uno dei due dopo un paio di mesi. Nemmeno io, aveva
risposto l’altro. Non importa chi aveva scritto cosa, perché
avevano già iniziato a diventare una persona sola. Quando finalmente
si incontrarono, era ormai troppo tardi. Erano fatti l’uno per
l’altra.
In
una Svezia colorata dalla presenza di ambulanti, extracomunitari e
turisti, dove i nativi appaiono al contrario sempre grigi e
indaffarati, i protagonisti hanno l’Ikea Family nel portafoglio, la
cronologia internet affollata di ricerche su utilitarie e passeggini
ergonomici, un posto di straforo in costose caffetterie vegane dove i
passeggini devono restare fuori alla stregua dei cani. Indossano
maglioni, paraorecchie, cappotti pesanti: fa freddissimo d’inverno,
ed è inutile confidare nel calore del prossimo. A strapparci sorrisi
frequenti, per fortuna, ci pensano i capitoli affidati ai narratori
più impensati: capolavori di scrittura creativa dove a condannare
l’incomunicabilità degli adulti, le contraddizioni di quei pareti
che ci demoralizzano in privato per poi vantarci in pubblico, sono i
piccoli di casa – quante critiche allora a quei genitori senza più
la meraviglia nello sguardo, incapaci di godere dell’incanto di una
mattina di neve senza mandare tutto allo scatafascio oppure di
cogliere le sfumature di significato di un muuu. Vittime
di una solitudine siderale, per il resto, perseguitati dai fantasmi
degli amori perduti o dal ricordo delle occasioni perse, i tre non
riusciranno a incrociarsi nella stessa pagina e non avranno mai un
nome di battesimo: non risultano, tuttavia, anonimi neanche per un
attimo. L’autore specifica soltanto i gradi di parentela, che li
qualificano e li imprigionano annullandone l’autonomia. Troppo
tardi per riprendersi l’identità, o per bacchettare il capostipite
per inadempienza contrattuale?
Cos’è
successo davvero tra voi?, chiede lei. La vita, risponde lui. Prima
la vita. Poi la morte.
Le
famiglie difficili da gestire inacidiscono. Le famiglie difficili
stancano. Non puoi prenderti ferie da loro, no, né annullare un
contratto siglato con il sangue. Complicatissime, sono davvero fatte
a modo loro. Ma chi dice che in fondo non si somiglino? C’è più
della mia qui che in una foto ricordo. Le chiamate da bypassare, le
rimostranze continue, la scomodità nel vedersi in territorio
neutrale. Con troppo da organizzare. Con troppo da incastrare. Ma è
il meccanismo di difesa di chi è rimasto bruciato una volta, il mio:
a volte, infatti, provo tanta nostalgia di noi.
Accade
quando i protagonisti maschili di Khemiri si scoprono a trattenere il
fiato sovrappensiero, pensando che alla fine della prova di apnea la
porta d’ingresso si aprirà per premiarli per cotanto coraggio.
Quando
io vedo una signora bionda di spalle, per strada, e mi scopro a
seguirla da lontano: l’ho scambiata per mia madre, e per un paio di
isolati mi sono dimenticato di avercela con lei.
O
quando, dopo aver messo l’ospite sul mezzo che lo riporterà
finalmente alla sua nuova casa – una casa che non siamo più noi –,
gli diremo di mandarci un messaggio non appena arriva: la più grande
dichiarazione d’amore di chi si vuol bene, ma tace.
Il
mio voto: ★★★★½
Il
mio consiglio musicale: The Cinematic Orchestra – To Build A Home
giovedì 17 ottobre 2019
Mr. Ciak: Joker | It - Capitolo due
martedì 15 ottobre 2019
I ♥ Telefilm: The Politician | Big Mouth S03 | Jane The Virgin S05
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sabato 12 ottobre 2019
Recensione: I testamenti, di Margaret Atwood
Sono
passati trentacinque anni dall’arrivo in libreria del Racconto dell’ancella. Romanzo lungimirante e spietato che, nell’arco
di un paio di decenni, si è imposto a giusta ragione come un moderno
classico della distopia: un genere d’invenzione, a tinte satiriche,
che mai come oggi – nell’era della presidenza Trump, del
movimento metoo, di barriere geografiche e ideologiche – si
è rivelato spaventosamente premonitore. Tornato sotto i riflettori
grazie al successo inarrestabile dell’omonima serie TV, il
capolavoro dell’autrice canadese – nei giorni scorsi considerata
perfino un papabile premio Nobel – trova in ritardo una sua
prosecuzione ufficiale. La
domanda, a fine lettura, prevedibilmente nasce da sé: serviva
davvero? Sia Benedetto il frutto, e invece il sequel fuori tempo
massimo? Giunto sugli scaffali con una trama tenuta sotto stretta
segretezza, atteso a prescindere con un misto di fibrillazione e scetticismo, I testamenti si aggiunge
all’universo temporale del predecessore. Per leggerlo, tuttavia, è
preferibile essere al pari con la programmazione della serie con
Elisabeth Moss. Meglio sapere già cos’è stato di June, ancella
recalcitrante. Meglio sapere, soprattutto, se la sua gravidanza sia
andata o meno in porto. A Gilead, infatti, tutti parlano della
piccola Nicole: che fine ha fatto? C’è speranza che venga
restituita alla famiglia del Capitano?
In una comunità in gran fermento, erosa all’interno da scandali e corruzione, s’incrociano a qualche anno di distanza dagli eventi del primo capitolo le voci di tre personaggi femminili. Il primo, già noto, è Zia Lydia: aguzzina al solito dotata di carisma e sarcasmo straordinari, nella sua confessione fraudolenta mescola frammenti di un passato come giudice e descrizioni della routine ad Ardua Hall: un covo di donne di potere e corruzione, dove le rivalità all’ultimo sangue fra Zie e le contromosse per frenare il business della fuga costituiscono ormai la norma. In biblioteca, in mezzo a titoli proibiti che comprendono Jane Austen, Thomas Hardy e le sorelle Bronte, i posteri potranno trovare un giorno la sua confessione. Inediti, al contrario, i punti di vista delle altre narratrici mostrano le due facce dell’essere giovani al tempo del regime. Daisy, sedici anni, vive oltre il confine canadese: sfrontata e sicura di sé, è costretta a mettere tutto in discussione alla notizia della dipartita di quei genitori un po’ hippy e davanti a una missione rischiosa – infiltrarsi a Gilead sotto copertura. A Gilead, invece, la timida Agnes ha sempre vissuto all’insegna della cieca obbedienza: case di bambole, gonne fruscianti, una paura inconscia per gli uomini e l’autorità, un ambiente scolastico competitivo e crudele che dà lezioni morali attraverso sanguinosi episodi biblici. Costretta prematuramente a sposarsi, potrebbe sfuggire al suo destino di sposa bambina entrando a far parte delle Supplicanti: meglio diventare una macchina da figli, però, o scendere a patti con le contraddizioni delle Sacre Scritture, con tanto di documenti da insabbiare e messaggi censurati?
Se le prospettive descritte sono parzialmente inedite, gli scenari e le situazioni risultano per forza di cose già esplorati sul piccolo schermo. Più credibile quando alle prese con l’evocazione dei costumi e dei trattamenti più barbari, Margaret Atwood è a disagio con scene d’azione e svolte da film di spionaggio. Soprattutto, pasticcia in maniera imperdonabile – parliamo, infatti, di una signora scrittrice – con segreti di Pulcinella che durano poche pagine appena e colpi di scena risibili, nemmeno avvertiti come tali dal lettore smaliziato. Si concentra sui giochi di potere interni, su tinte lievi e giovanili, ma il lungo salto temporale aggiunge poco allo spaccato dell’inquietante Repubblica, meno ancora al mito della Atwood. A corto di scene memorabili o nuovi spunti di riflessione, elegantissima nello stile ma elementare nell’architettura, la lettura è parsa al di sotto delle aspettative e tutt’uno con la trasposizione televisiva: da qualche anno a questa parte in caduta libera, spiace constatarlo, dopo gli exploit della prima stagione – non a caso, riproposizione fedele del Racconto dell’ancella. Ci sono voluti trentacinque anni, pare, per svelarci l’ovvio. Prevedibilmente, il prosieguo della storia patisce una pianificazione a tavolino. Mancano le brutalità e l’urgenza, resta una scrittura tanto consapevole quanto compiaciuta: più forte ancora, però, è l’impressione che dietro la speculazione economica non ci sia sostanza. Pensavo fosse un testamento, invece era una fanfiction.
La storia
non si ripete, ma fa rima con sé stessa.
In una comunità in gran fermento, erosa all’interno da scandali e corruzione, s’incrociano a qualche anno di distanza dagli eventi del primo capitolo le voci di tre personaggi femminili. Il primo, già noto, è Zia Lydia: aguzzina al solito dotata di carisma e sarcasmo straordinari, nella sua confessione fraudolenta mescola frammenti di un passato come giudice e descrizioni della routine ad Ardua Hall: un covo di donne di potere e corruzione, dove le rivalità all’ultimo sangue fra Zie e le contromosse per frenare il business della fuga costituiscono ormai la norma. In biblioteca, in mezzo a titoli proibiti che comprendono Jane Austen, Thomas Hardy e le sorelle Bronte, i posteri potranno trovare un giorno la sua confessione. Inediti, al contrario, i punti di vista delle altre narratrici mostrano le due facce dell’essere giovani al tempo del regime. Daisy, sedici anni, vive oltre il confine canadese: sfrontata e sicura di sé, è costretta a mettere tutto in discussione alla notizia della dipartita di quei genitori un po’ hippy e davanti a una missione rischiosa – infiltrarsi a Gilead sotto copertura. A Gilead, invece, la timida Agnes ha sempre vissuto all’insegna della cieca obbedienza: case di bambole, gonne fruscianti, una paura inconscia per gli uomini e l’autorità, un ambiente scolastico competitivo e crudele che dà lezioni morali attraverso sanguinosi episodi biblici. Costretta prematuramente a sposarsi, potrebbe sfuggire al suo destino di sposa bambina entrando a far parte delle Supplicanti: meglio diventare una macchina da figli, però, o scendere a patti con le contraddizioni delle Sacre Scritture, con tanto di documenti da insabbiare e messaggi censurati?
Piansi?
Sì: scese qualche lacrima dai miei occhi visibili, i miei umidi e
piagnucolosi occhi umani. Però ne avevo un terzo, in mezzo alla
fronte. Lo sentivo: era freddo come una pietra. E non piangeva,
vedeva. E dietro qualcuno pensava: Rifarò i conti con voi. Non mi
importa quanto tempo servirà e quanta merda dovrò mangiare nel
frattempo, ma ci riuscirò.
Se le prospettive descritte sono parzialmente inedite, gli scenari e le situazioni risultano per forza di cose già esplorati sul piccolo schermo. Più credibile quando alle prese con l’evocazione dei costumi e dei trattamenti più barbari, Margaret Atwood è a disagio con scene d’azione e svolte da film di spionaggio. Soprattutto, pasticcia in maniera imperdonabile – parliamo, infatti, di una signora scrittrice – con segreti di Pulcinella che durano poche pagine appena e colpi di scena risibili, nemmeno avvertiti come tali dal lettore smaliziato. Si concentra sui giochi di potere interni, su tinte lievi e giovanili, ma il lungo salto temporale aggiunge poco allo spaccato dell’inquietante Repubblica, meno ancora al mito della Atwood. A corto di scene memorabili o nuovi spunti di riflessione, elegantissima nello stile ma elementare nell’architettura, la lettura è parsa al di sotto delle aspettative e tutt’uno con la trasposizione televisiva: da qualche anno a questa parte in caduta libera, spiace constatarlo, dopo gli exploit della prima stagione – non a caso, riproposizione fedele del Racconto dell’ancella. Ci sono voluti trentacinque anni, pare, per svelarci l’ovvio. Prevedibilmente, il prosieguo della storia patisce una pianificazione a tavolino. Mancano le brutalità e l’urgenza, resta una scrittura tanto consapevole quanto compiaciuta: più forte ancora, però, è l’impressione che dietro la speculazione economica non ci sia sostanza. Pensavo fosse un testamento, invece era una fanfiction.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Sia – Unstoppable
mercoledì 9 ottobre 2019
Recensione: Kentuki, di Samanta Schweblin
|
Kentuki, di Samanta Schweblin. Sur, € 16, pp. 230 |
Sono
a forma di animali, come i peluche che preferivi quando eri bambino.
Pesano due chili scarsi e sono fatti soprattutto di plastica e piume.
Costano un po’, 279 dollari, ma è il prezzo ragionevole delle
tecnologie all’avanguardia. Dietro i loro occhi deliziosi –
biglie non così inespressive, non così inconsapevoli – i kentuki
nascondono microcamere che ci collegano tutti in tempo reale. Nessuna
brutta sorpresa: acquistandoli sai già in anticipo che accoglierne
uno in casa significa aprire le porte a un perfetto
estraneo. Che può spiare la tua routine, e qualche volta intervenire
a gamba tesa. Le possibilità sono due: avere un kentuki o
esserlo. Preferiresti accogliere uno sconosciuto, infatti, o
al contrario essere lo sconosciuto nell’esistenza del prossimo? La
scelta è personale, dettata dalla tua generosità o dalla tua
perversione, da quanto tu ti senta solo al mondo. Qualcuno cerca di
scoprire l’identità dell’utente oltre il visore, che da remoto
controlla le ruote del peluche. Qualcuno si diverte invece a
scandalizzarlo con il sesso, le torture, la pubblica umiliazione.
Il romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di una copertina bellissima, può contare anche su tematiche e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror: quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare, nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire nell’arco di un solo capitolo.
Spiccano allora le vicende di Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva, studentessa che si sta concedendo al ragazzo sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per scorrazzare sulla neve in libertà.
Il romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di una copertina bellissima, può contare anche su tematiche e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror: quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare, nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire nell’arco di un solo capitolo.
Spiccano allora le vicende di Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva, studentessa che si sta concedendo al ragazzo sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per scorrazzare sulla neve in libertà.
Non
sapeva nemmeno in quale città si trovasse, né come fosse il suo
padrone. Ai suoi amici aveva raccontato della neve, ma la cosa non li
aveva colpiti più di tanto. Dopo averlo deriso perché un culo da
principessa e un appartamento a Dubai erano meglio della neve, avevano
detto che tanto la neve non la si poteva mica toccare. Marvin sapeva
che sbagliavano: se riuscivi a trovare la neve, e spingevi abbastanza
forte il tuo kentuki contro un cumulo alto e soffice, ci lasciavi il
segno. Ed era come toccare con le dita l’altro capo del mondo.
Le
modalità sono sterminate e casuali. A scatola chiusa potresti
trovarti nell’appartamento di una figlia dei fiori con tendenze
nudiste, in una famiglia disfunzionale, perfino in un covo criminale.
A spasso fra le noie della routine, i segreti torbidi o le avventure
pericolose, meglio non perdere di vista il punto della situazione:
quello che sembra un innocuo videogioco di ruolo, in verità, è
reale. Troppo tardi per guardare altrove fingendo indifferenza? E per
denunciare? I kentuki sono dappertutto. Una moda che impazza, e fa
impazzire. In queste storie grottesche che oscillano dalla tenerezza
infantile alla cattiveria più disturbante, ci sono novelli
animalisti che formano autentiche squadre di liberazione, informatici
poveri in canna che fanno la cresta sulle vendite, teppisti dal cuore
d’oro che promettono di accessoriare i pupazzi – pensate alle
macchine truccate, per farvene un’idea – o di acquistarli non più
alla cieca. L’autrice ha dimenticato di darci il libretto delle
istruzioni. E nel corso della lettura tendiamo spesso a vedere il
bicchiere mezzo pieno, scordandoci che dietro queste adorabili
tecnologie ci sono persone in carne e ossa: permalose, umorali,
vendicative. A volte oggetto di devozione, altre di perversione.
C’era
davvero più gente interessata a guardare che a essere guardata? Non
c’era bisogno di sofisticate analisti di marketing, a Grigor
bastava un po’ di buon senso per trarre le sue conclusioni. Ma i
pro e i contro della scelta tra l’essere padrone o essere kentuki
non spiegavano mai in modo esauriente i vantaggi di ciascuna
posizione. Pochi erano disposti a esporre la propria intimità agli
occhi di uno sconosciuto, mentre a tutti piaceva guardare. Comprare
un dispositivo significava portarsi a casa un oggetto tangibile che
avrebbe occupato uno spazio reale, quanto di più simile a un robot
di compagnia il mercato potesse offrire; comprare un codice di
accesso, invece, voleva dire spendere una bella somma in cambio di
diciotto misere cifre virtuali, senza contare che alla gente piace da
pazzi tirare fuori cose nuove da scatole dal design sofisticato. La
parità di prezzo avrebbe mantenuto per un po’ una certa parità
nella domanda, ma secondo Grigor presto o tardi il rapporto si
sarebbe invertito a favore dei codici di accesso.
Possiamo
forse giudicare le loro scelte sbagliate? Chi non ha mai ricercato
una valvola di sfogo? Chi non vorrebbe sentirsi Dio per un giorno
soltanto? Da adolescenti, quando i peluche avevano già perso la loro
attrattiva su di noi, abbiamo preteso prima il Tamagotchi e poi The
Sims. Volevamo sentirci responsabili di qualcuno. Volevamo essere
onnipotenti.
A
morte il Tamagotchi allora: per dispetto, lasciavamo agonizzare
quell’animaletto immaginario in preda ai morsi della fame.
Al via l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Al via l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Depeche Mode – I Feel You
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lunedì 7 ottobre 2019
Dear Old Mr. Lynch: Mulholland Drive, Velluto blu, Strade perdute, The Elephant Man, Una storia vera
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